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IL “CORONAGRIMM 64” DELL’IDIOMA ARBËRESHË NON SI RIESCE A DEBELLARE

IL “CORONAGRIMM 64” DELL’IDIOMA ARBËRESHË NON SI RIESCE A DEBELLARE

Posted on 27 febbraio 2020 by admin

DiogeneaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – L’ostinata ricerca di favole e racconti locali, riferiti in arbëreshë, senza alcuna attenzione nel comprendere se appartengono ai focolari del territorio o esclusivamente alla minoranza storica, non si riesce ancora a debellare dal 1964.

Nonostante le innumerevoli avvisaglie che avrebbero dovuto far desistere, non tanto i poco formati allievi, ma chi sedeva e aveva il dovere storico culturale a privilegiare, il percorso tracciato dai fratelli Grimm.

Ciò nonostante si è proceduti nel legare il senso delle favole alle parlate, secondo le diplomatiche che consentirono alle nazioni germaniche di sottostare all’innalzato idioma standard.

Tuttavia è poco noto che i fratelli Germanici non partirono dalle favole, per tracciare una lingua unitaria, ma dal corpo umano e gli elementi naturali comuni, in altre parole tutto ciò che consentiva la vivibilità sul territorio, o meglio vita condivisa tra uomo e natura.

Questo è un dato rilevantissimo che è sfuggito a chi si è adoperato in questa disciplina, presumibilmente, si può ipotizzare che nella foga di voler primeggiare essi non hanno  neanche terminato di leggere la frase, che descriveva, l’operato dei fratelli germanici, incentrato tra ambiente costruito, quello naturale e l’uomo.

Una distrazione imperdonabile misura e il valore, di quanti da un numero di decenni superiore alle preziose dita di una mano, imperterrito non smette di produrre danno e seminare inutili diplomatiche come facevano i romani.

Esiste un principio secondo il quale le radici danno linfa, solidità del tronco di un albero e i rami con le foglie forniscono il giusto equilibrio energetico per tutelare il sistema vitale.

Se si comprende questo principio, si è in grado di dedicarsi a progetti di una tutela condivisa, altrimenti si finisce di emulare modelli alloctoni che non hanno alcuna referenza, per sostenere nel tempo, la solidità di un idioma privo di segni e tomi condivisi.

Il dato, lascia a dir poco perplessi, se non basiti, vista la distrazione storica degli addetti, nel tralasciare elementi fondamentali, per una ricerca svolta secondo i canoni della progettualità.

Essi sono la fase: ricerca, preliminare, definitiva e in ultimo l’innalzamento esecutivo sul territorio.

Quanti sino a oggi si sono adoperato per produrre elementi utili in campo linguistico, letterario, storico, sociale, antropologico, urbanistico e architettonico, all’interno della regione storica arbëreshë,  senza seguire i protocolli storici, non ha fatto altro che produrre inutili focolai di contaminazione.

Come si può ritenere utile o legare le caratteristiche di una popolazione che tramanda il proprio essere con la sola forma orale, immaginando come legante della regione storica dove essi vivono le favole del focolare.

Una teoria priva di senso, che se mai voglia essere per pena, presa in considerazione può assumere eventualmente il ruolo di ambito “ultra, ulteriore”, il che la pone molto distante dal “citeriore“ di una lingua antica.

Una lingua per essere analizzata compresa ed eventualmente tutelata, la si deve scanzire iniziando da presupposti storico identitari, per poi muoversi secondo le tematiche di progetto; avendo come prioritari la figura umana e l’ambiente?, mi spiego; se una radice linguistica si vuole attribuire a una minoranza storica, essa deve partire non dai racconti del focolare che è un adempimento di necessità secondario e ben lontano dalla sua origine, ovvero, la descrizione e al modo di appellare il corpo umano; Apparati, Organi e Sistemi, ben legati alle opportunità che offre l’ambiente naturale per la sopravvivenza”.

Una teoria che nasce secondo i canoni storici del progetto e in specie gli architetti adoperano e senza di esse non segnano arche, per evitare sconcertanti e inopportuni adempimenti, a favore degli usufruitori, per evitare di  rendergli nuove pene e disagi.

Questa è la radice, questo è il suo cuore, questi sono i suoi sensi di origine, le favole e le altre musiche culturali, lasciamole a quanti fanno valje in forma di ballo, gjitonie come il vicinato, rioni e quartieri, immaginando ancora che gli Arbëreshë sono gli odierni Albanesi e non non sanno dei valorosi Arbanon.

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L’ATTO DELLA VESTIZIONE E DELL’APPARIRE “ME STOLJTH”

L’ATTO DELLA VESTIZIONE E DELL’APPARIRE “ME STOLJTH”

Posted on 18 febbraio 2020 by admin

jaku i sprischiur su harruaU.K .(di Atanasio Basile Pizzi) – Quando si indossa uno dei vestiti nuzioli caratteristici delle macroaree della regione storica Arbëreshë, è indispensabile, a meno di non voler giocare con le proprie radici culturali, sapere che quell’atto riassume la storia, il presente e il futuro di un popolo, che rimane legato a un’identità culturale, tramandate attraverso quella vestizione e i conseguenti gesti di portamento.

Avviare una trattazione e indicare cosa sia auspicabile fare e non fare, sarebbe troppo semplice e conveniente per quanti si addobbano, dicendo di vestire “stoljith Arbëreshë” e non lo fanno, anzi, per ogni figura di genere vestita bene, ne corrispondono almeno una dozzina “ghë setë”, senza garbo, coerenza e completezza dell’ apparire.

Il costume tipico è la trattazione di valori cristiani e pagani profondi, un messaggio per lo sposo e le genti della comunità, è credenze in ordine di valori inscindibili.

Il giorno delle nozze, un tempo, rappresentava l’inizio di una nuova generazione, un nuovo gradino aggiunto all’ultimo dove si stazionava, il passaggio di testimone di valori e credenze antichissime; il costume è la vetrina di tali auspici e le movenze davano il senso della vita e la via migliore per affrontarla.

Queste sono state da sempre abbarbicate e sintetizzate nella scelta delle stoffe e dei colori, la manifattura di ogni elemento, ogni piccolo particolare indispensabile a coprire il corpo della donna; essa rappresentava la natura, la terra florida per generare, gli indumenti rappresentavano la storia, ogni suo gesto era messaggio, un invito a produrre ed augurare domani prolifici, per il gruppo familiare che andava a formarsi, sintetizzati dal manufatto che veniva valorizzato dal modo in cui veniva indossato ed esposto.

Zoga, sutanini, gipuni, merletto, Kesa, shiali, le mille pieghe, i ricami, la scelta dei colori predominanti e ogni genere apparato o episodio sartoriale/artigiane indossato è messaggio.

Tali rimangono le gesta di piegare, l’arrotolare o il posizionare le vesti prima, durante e dopo la funzione religiosa.

Ogni cosa ha un senso e un tempo attraverso il quale apparire in forma pubblica o privata, certamente non è coerente ad esempio alzare la zoha davanti al marito, mentre si è sull’altare della chiesa davanti al prete,  l’ “indumento arrotolato”  non  va posto mai pubblicamente in quanto è indice  di fertilità pronta, piacere da condividere, intimità estrema; cosi come non si deve mai, pubblicamente sollevare il “padre” che non deve essere usato con imprudenza, facendo intravedere il bianco candore della “ligna”.

Cosi come le bretelle del “Suttanino” non si devono intrecciare o stare sullo stesso piano di quelle che sostengono la “Zoga” ne tantomeno indossare un “Gipuno” corto che non descriva le linee tipiche della doga pontificale, la stessa sibtetizzata attraverso linee costruite tra la parte sommitale del capo e la costruzione della pettinatura su cui va depositata la “Kesa”.

Questi sono alcuni dei messaggi che il costume tipico Arbëreshë, deve inviare e purtroppo non avendo consapevolezza di cio che esso conserva gelosamente nelle diplomatiche create dai saggi esecutori di quelle vesti, è come possedere una ricchezza inestimabile e nel contempo vivere in un’isola i cui conviventi sono generi che attendono solo di agredirti, al fine di cibarsi delle povere resta.

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Il CANTO GLI ARBËRESHË E IL SUONO DEL PAESAGGIO

Il CANTO GLI ARBËRESHË E IL SUONO DEL PAESAGGIO

Posted on 17 febbraio 2020 by admin

CaptureU.K .(di Atanasio Basile Pizzi) – Trattare l’argomento delle Valje, il loro significato e cosa rappresentato per gli Arbëreshë, che vivono gli ambiti della regione storica è un argomento molto profondo e non si puo concludere nel tempo di un ballo o nel ricordo di una strage a favore di una delle parti antagoniste, iniziata prima e finita proprio dopo Pasqua.

A tal fine sarebbe il caso di approfondire e rendere merito allo “strumento metrico” che regola la parlata e la storia Arbëreshë, sin dalla notte dei tempi.

Di essa ha trattato G. Schiro ritenendola espressione canora condivisa tra generi; Pasquale Scura, che valorizzando il senso puramnente canoro della manifestazione e Vincenzo Torelli  nel suo periodico rendeva merito all’epressione del canto rispetto all’ambientazione, creata da strumenti musicali che li riteneva complementari.

Canto e musica sono gli elementi che oggi producono sensazioni e attivano ricordi, sollecitando i sensi, un tempo per gli Arbëreshë l’ambientazione era l’ispirazione per produrre il canto, ed è per questo che la musica rappresentata la quinta, l’ambito dove operare, festeggiando e ritrovandosi esclusivamente in tonalità canore ispirate dall’ambiente circostante.

Il canto rappresenta il pennello che attinge i colori e rifinisce il quadro, l’unica espressione metrica prodotta negli scenari delle terre da coltivare, nei vigneti da rasodare uliveti da tutelare, un trittico musicale mediterraneo unico per far vibrare le note delle stagioni.

La quinta che ispirava e da il ritmo al canto condiviso sono le vallate assolate, l’ambientazione del luogo di lavoro è la musica, le bracciia le mani, le gambe e i piedi strumenti di lavoro; la voce ispirata da ciò rendeva più dolci le lunghe giornate di operosità, linfa con cui alimentaris ed elogiare o ironizzare il futoro, colmo di domani.

Sono gli studi degli ambiti geografici, l’interazione tra canto, spazio e luoghi, sono essi a stabilire relazioni tra canto, paesaggi e regioni: il canto viene ispitato dalle sonorità e dalle prospettive «paesaggio sono» e identità locale il medium capace di diffondere nello spazio idee, oggetti o rappresentazioni storico/ culturali.

La valjia è tutto questo, canto di genere, accompagnato dalle sonorità  prodotte dalle quinte che la nanura mette a dispone nel corso delle stagioni, in precisi e determinati luoghi.

Ritenere che le vajie siano altro, non è un buon segno di tutela, cosa fare per rendere innoffensiva questa deriva storica è semplice, si dovrebbero attivare dipartimenti le cui fondamenta abbiano come legante indispensabile l’analisi secondo i canoni delle ricerche e solo in seguito di ciò, produrre, concreti e solidi progetti di tutela.

Questo sia in campo canoro come si è acennato in questo breve e poi sia di altri temi, molto più compromessi, di cui si conoscono le ilarità,  preferendo volgere lo sguardo e l’interesse su altro per non fare torto a quanti si sono cimentati senza regole, garbo ed esperienza .

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GJITONIA: L’ INCUDINE E IL MARTELLO PER LA FORGIATURA DEGLI ARBËRESHË

Protetto: GJITONIA: L’ INCUDINE E IL MARTELLO PER LA FORGIATURA DEGLI ARBËRESHË

Posted on 09 febbraio 2020 by admin

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L’INDESCRIVIBILE SENSAZIONE NELL'ASCOLTARE UNA VALJIA ARBËRESHË A NAPOLI

L’INDESCRIVIBILE SENSAZIONE NELL’ASCOLTARE UNA VALJIA ARBËRESHË A NAPOLI

Posted on 19 gennaio 2020 by admin

Antonella-Pelilli

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) –  Se a oggi gli spigoli del quadrilatero che sostiene il senso della regione storica arbëreshë, sono più volte labili, si deve alla mancanza di titoli per quanti dicono di averli voluti consolidare per sostenere il raro modello consuetudinario.

L’ostinazione di ritenere che i progetti per la valorizzazione dell’idioma, la consuetudine, la religione e la metrica del canto potessero nascere senza alcuna formazione di ricerca è un dato che esula da ogni ragionevole discorso, i risultati sono confermati in ogni appuntamento che voleva distinguere, invece globalizza nella forma più malevola.

Non mi riferisco agli studi dell’architettura, dell’urbanistica, della storia o di altri ambiti di tipo materiale o sociale, ormai notoriamente posti sotto rigida verifica; qui in questo caso,  si vuole evidenziare lo stato in cui versa la metrica del canto, e mi riferisco alla metrica che avrebbe dovuto sostenere dell’idioma tramandato oralmente.

Sonorità alloctone imperversano senza alcuna regola, a vantaggio di arnesi  poste nelle disponibilità di quanti strimpellano al fine di stravolgere, la regola canora di generi scambiata addirittura per danza.

Questi sono le consuetudini diffuse cui si contrappongono studiosi in campo storico, architettonico, sociale, urbanistico oltre del consuetudinario a questi si affiancano  due realtà: una diffusa e numerosa  d disposta lungo l’arche calabrese Sanseverinesi e una numericamente più ristretta ma molto efficace, ai piedi del fortore, che rispondano con garbo e direttive storico/canore di raffinato buonsenso.

A tal proposito,  è il caso di segnalare l’esecuzione di brani storici arbëreshë da parete di Max Fuschetto ai fiati, alla chitarra elettrica Pasquale Capobianco, ai tamburi a cornice Giulio Costanzo e la voce della soprana Antonella Pelilli, questi, attraverso una raffinata sonorità sono stati capaci di ricreare ideali scenari di un tempo, su cui adagiare la metrica canora in linea con l’antico modello Arbanon, detto “Valja, il canto tra generi”.

Una composizione forte e delicata nello stesso tempo, mai perdendo il senso e il rispettoso della metrica, in cui Antonella Pelilli, la soprana, intreccia il suo canto con i suoni dei maestri, creando gli antichi il legame di sonorità tra generi, esclusiva delle genti arbëreshë.

Una rievocazione come Vincenzo Torelli largamente ha descritto nel XIX secolo, oggi questi eccellenti maestri hanno saputo riproporre all’interno della Chiesa monumentale di San Severo al Pendino, secondo l’antica espressione annotata dal maestro Lucano.

Napoli come sempre si conferma il palco ideale della consuetudine della minoranza storica e grazie ad Antonella, Giulio, Max e Pasquale, è stato possibile rivivere l’originaria espressione canora, riverberando la metrica antica secondo i cinque sensi arbëreshë, cosi come gli esuli usavano riconoscersi, anche  nelle terre meridionali, dal XV secolo.

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LA REGIONE STORICA ARBËRESHË

LA REGIONE STORICA ARBËRESHË

Posted on 18 gennaio 2020 by admin

Lo zoppo e il ciecoNAPOLI ( di Atanasio Basile Pizzi) – Il titolo di questo breve è, in parte, una provocazione, giacché presuppone che tutti conoscano la mappa, che dettagliatamente caratterizza il territorio del regno di  Napoli, dove furono minuziosamente tracciate le Arche per l’insediamento dei profughi Arbëreshë che dalla metà del XV secolo, restano ancora a tutt’oggi sconosciute.

Riscoperte attraverso sovrapposizioni di carte storiche, sulla scorta d’importanti pubblicazioni e segnalazioni in volumi e riviste, nazionali e internazionali, fa ancora oggi parte delle incertezze storiche, geografiche, scientifico e culturale dei contemporanei avanguardisti minoritari.

Le cause dì questa “amnesia” sicuramente sono variegate e si presuppone, siano state originate da: diffidenza verso il “nuovo”, paura di dover leggere ricostruzioni storiche che sembrano consolidate, disattenzione, difficoltà di aggiornamento (nell’era dell’informazione!), disinteresse verso aree geografiche che appaiono “minori” e subalterne, anche se diffuse dalla capitale del regno invece che ascoltare i lamenti provenienti dove trovarono riparo il cieco e lo zoppo, e oggi nessuno più in grado di vedere e toccare dove scavare per cosa cercare.

Certamente non si commette errore nell’attribuire tale manchevolezza  tutta allo “specialismo” imperversante nella disciplina di “mono tema trasversale”,  l’unica ad impedire di superare i (presunti) confini disciplinari, che poi formano una maglia molto larga, un tratteggiato, irriconoscibile percorso che non ha lastre idonee per reggere il peso della storia.

Non servono nuove specializzazioni, né linguistiche, né canore e tanto meno in forma di lirica moderna, né brandelli di capitoli o plateali bandiere, perché serve una cultura generale condivisa e non superficiale.

Allo stato è indispensabile un modello di ricerca che sia in grado di  organizzare la conoscenza oltre le discipline mono dipartimentali, trovando per questo,  spunti dai campi condivisi di ricerca, in sostanza riformare le obsolete piramidi che non superano gli ambiti delle gjitonie narrate secondo la metrica che appartiene ai “Sassi”.

Si tratta, se vogliamo, di un nuovo umanesimo, e quanti si muovono in questa nuova direzione, un po’ “umanisti” lo sono, perché studiano e ripercorrono le vicende con carte, documenti e conoscenza del territorio, acquisendo per questo tra geografia, carte e tracce del vissuto degli uomini i parametri da tradurre secondo l’idioma tramandato oralmente e intercettare la via maestra per le isole culturali dove è stata depositata la radice dell’antichità arbëreshë.

La strada comunque resta segnata, illuminata e raccontata da una voce nota, non si sa quanti saranno in grado di sentirla vederla e ascoltarla, l’auspicio è quello che al più presto si attivi la dimensione dei cinque sensi arbëreshë; è una gjitonia moderna possa germogliare secondo l’antico modello familiare, in cui la persona più saggia e rilevante, organizzava e assegnava ruoli per la solidità sociale e culturale del gruppo.

Non è più sostenibile continuare imperterriti a lasciare le sorti del modello idiomatico, consuetudinario e religioso, dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia nelle disponibilità di alienati ragazzi, che marinano sin anche la scuola dell’obbligo.

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DIOGENE ALLA RICERCA DELLA REGIONE STORICA PERDUTA

DIOGENE ALLA RICERCA DELLA REGIONE STORICA PERDUTA

Posted on 15 gennaio 2020 by admin

Diogenea

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Sono cinquanta i Katundë della regione storica arbëreshë citeriore e non, che in questi giorni ricevono la visita da quanti ritengono, come Diogene, di aver trovato la via per tutelare quanto del patrimonio, minoritario, sia ancora recuperabile.

Si parla di Arbëria, di Gjitonia, di Valje, di Borghi, di progetti per la valorizzazione dei costumi e di tante belle intenzioni, nonostante è imperturbabile lo stato in cui versano gli ambiti attraversati, bonificati e costruiti per essere vissuti dalla minoranza, che dovrebbe essere difesa fosse soltanto perché è modello che si sostiene sui dettami d’integrazione più solidi del mediterraneo.

Se ancora oggi, ostinatamente si disegnano progetti architettonici ritenendo che apporre l’Aquila bicipite, sia sufficiente a valorizzare ambiti storici irripetibili e colmi di storia, non è una buona fine della legislatura ne queste possono essere i solchi di una buona semina.

Questo esempio e tanti altri stati di fatto sono stesi alla luce del sole e possono essere constatati digitando sulle piattaforme multimediali, le parole chiave quali: Rioni, Arbëria, Gjitonia, Valije, Quartieri, Huda, Rruga, Sheshi, Shiniagnë e Ndrikula; vi renderete conto che  leggerete cose fuori da ogni buon senso, lasciando  basiti, quanti sono cresciuti secondo l’antica consuetudine, ma anche quanti hanno consapevolezza di  storia, di urbanistica e di  architettura.

Con tutte le buone intenzioni diffuse mai messe in atto ancora oggi non esiste  una solida istituzione preposta per la tutela della minoranza, in grado di illuminare la retta via e impedire  al libero arbitrio su  tematiche fondamentali, ragion per la quale oggi dovrebbero riflette per iniziare a restituire la giusta collocazione della regione storica con dedizione, garbo, titoli ed esperienza, quella genuina raggiunta con lo studio, oltre la dedizione, nei  secoli scorsi  dai nostri avi, mentre oggi prevalgono i muri di gomma dell’approssimazione degli eletti.

Non è più concepibile continuare imperterriti a dare la zappa a chi non la sa usare, e per questo fa danno o addirittura affidare incoscientemente  l’aratro, a quanti non l’hanno mai vista, a questo punto è certo che  passando vicino alle piante ritenendo di dover incidere di più, sia danneggia la radica e il giorno dopo la pianta inizia a morire e non da più frutti.

Continuare a deviare l’acqua dei torrenti per il solo scopo di danneggiare chi possiede il mulino più a valle , non è più un modo per fare economia condivisa o pretendere che a macinare sia sempre il solito o i soliti inesperti manovratori.

Ne si possono mettere a dimora uliveti o vigneti avendo come fine la dipartita del nostro confinate perché  è un  agricoltore più bravo; serve lungimiranza quando si decide di assumere certe posizioni disfattiste, giacché  l’averlo vicino sarà sicuramente un bene quando il terreno che si possiede ha bisogno di rigenerarsi ed essere seminato a cereali. 

I domani sono pochi, plauso a chi sa scegliere cosa coltivare e quando; adesso inizia la stagione delle piogge servono registi dell’agricoltura per la semina e poi in estate dopo il raccolto del grano avviare la stagione dei mulini e fare il pane migliore per portare a regime la martoriata regione.

Diogene può anche tornare da dove è venuto, qui non abbiamo bisogno di cercare, quello che serve lo hanno trovato i nostri avi a tempo debito, oggi a noi resta il compito di raccogliere, ma se a farlo non sono le persone giuste, questa sarà un’altra annata finita male.

Non servirà a nulla, incolpare il tempo o la carestia, prima che venga la neve  urge il pane buono; quello fatto con Farina, Lievito madre, Sale e Acqua nelle giuste proporzioni.

Il forno è pronto, lopata per a infornare anche, spetta agli illuminati il compito di   impastare e  far lievitare l’evitare il composto, avendo cura di proteggere con cura e sapiente attesa.

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ATANÀSIO DI ALESSANDRIA O IL GRANDE (Alessandria  295 - ivi 2 maggio 373) (tra realtà e leggende Arbëreshë di un Katundë)

Protetto: ATANÀSIO DI ALESSANDRIA O IL GRANDE (Alessandria 295 – ivi 2 maggio 373) (tra realtà e leggende Arbëreshë di un Katundë)

Posted on 12 gennaio 2020 by admin

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URBANISTICA E ARCHITETTURA DEI PAESI ARBËRESHË

URBANISTICA E ARCHITETTURA DEI PAESI ARBËRESHË

Posted on 07 gennaio 2020 by admin

SCACCIAMO LA VOLPE ARBËRESHË3

 

 NAPOLI (Atanasio Pizzi ARCHITETTO) – Il XV secolo è uno dei momenti della storia, di quella che si identificava un tempo Epiro Nuova ed Epiro vecchia, tra i più articolati e difficili di questo territorio, sia dal punto di vista della difesa territoriale e sia di quella identitaria, questo è il motivo, per il quale, si sarebbe dovuto indagare analizzando fuori dai temi unitari, al fine di fornire una visione completa adeguata e priva di atti inesistenti.

Un intervallo che per la sua durata, contiene la sofferta scissione storica tra territorio e identità di quanti la vissero sino ad allora, tuttavia per non perdere senso e restringere il campo di azione analitica, approfondiremo l’intervallo, dal 1389 sino al 1562, non prima di aver  delineato un progetto ad ampio contributo disciplinare, specie se ad essere indagatati sono le gesta di un popolo privo di qualsivoglia  patrimonio scritto grafico, in quanto, tramanda storicamente la propria identità nella sola forma orale e dai consuetudinari atteggiamenti.

Se a questo si aggiungono gli esigui sforzi per costruire barriere difensive di mutuo soccorso, da quanti la abitarono per impedire l’imperante marcia ottomana per la conquista territoriale e sin anche per la sottomissione identitaria, è opportuno comprendere come abbia potuto lo stratega, ovvero, il lungimirante stratega Giorgio Castriota “comunemente denominato Scanderbeg” trovare soluzione con le arche arbëreshë tracciate nell’Italia meridionale.

Appare evidente che avere consapevolezza delle metriche materiali e immateriali ottomane a cui si opponevano insufficienti forze dei principi Arbanon, capaci di iniziative  di breve durata; una misura alternativa, per la difesa non del territorio, ma almeno dell’identità Arbanon doveva essere immaginata e posta in essere.

Fu proprio la stagione delle migrazioni verso le “arche territoriali parallele” tracciate e predisposte sotto la veste di controllo territoriale e in favore dei regnati partenopei, durante le sue visite nel meridione, dal 1461 e sino alla dipartita del principe Giorgio Castriota.

Arche tracciate in difesa e  controllo, ancora oggi identificabili sul territorio meridionale, con la semplice sovrapposizione della gestione politica, clericale ed economica di quell’intervallo storico, ciò tuttavia non sono idoneamente interpretate dagli unitari, anzi, ritenute a torto, casuali, ininfluenti  o improvvisazioni prive di scopo.

Se oggi analizziamo le sette regioni tra insulare e peninsulari del fu regno di Napoli, attraverso le caratteristiche ambientali idonee alla vita del modello Arbëreshë, si comprende per quali motivi venne immaginata, proposta e lasciata attuare.

Una vera e propria regione storica diffusa, capace di restituire valori identitari paralleli alla terra dio origine sia dal punto di vista materiale e sia immateriale

Circa cento Katundë che trà paesi, frazioni e casali abbandonati rappresentano una tessitura raffinata di urbanistica e architettura, la cui linfa traeva la sua forza dal rione romano dal punto di vista territoriale, inteso dal punto sociale al pari delle haretë dai greci

La differente mentalità nel modo di insediarsi rispetto agli indigeni locali, che usavano all’interno delle murazioni dei borghi, gli arbëreshë preferivano casali e comunque agglomerati senza mura, legati idealmente a presidi religiosi.

Ponendo a confronto i valori spaziali dei nuclei urbani mono centrici degli indigeni e quelli policentrici Arbëreshë si comprende quale sostanziale differenza distingueva quanti s’insediarono in fuga dalle terre oltremare.

Una volta che gli arbëreshë si disposero lungo le arche predisposte da Giorgio Castriota presero a modello gli ordinamenti delle classi sociali Kanuniane, prive di forme aristocratiche piramidali economiche.

Sulla corrispondenza delle norme sociali e distributive adottate, tutti gli agglomerati sin dai primi tempi di insediamento le identiche caratteristiche, sia si tratti della Sicilia, della Calabria e sino all’estremo Molise, questa ultima, il confine del meridione, assieme al Lazio papale.

Il discorso, nasce in base a rilevazioni locali, esse vedono protagonisti i centri antichi dei “paesi”, che da ora in avanti chiameremo con il nome in arbëreshe: Katundë.

Essi sono altimetricamente distanti dalle pianeggianti rive marine mare e i ristagnanti dei corsi fluviali, perché considerati in sostanza, salata e amara vicinanza.

Essendo gli arbëreshë i figli di quei soldati contadino, per questo esperti conoscitori del territorio, s’insediarono secondo le predisposizioni di Giorgio Castriota, incentrando e calibrando nel breve tempo quali fossero le zone sicure sotto il punto di vista geologico per edificare i propri moduli abitativi, in oltre la toponomastica storica ci consente di definire quali fossero i margini, lasciati liberi per il migliore insediamento scartando le zone più incerte e edificare senza imbattersi in eventi di smottamenti naturali nel corso dei secoli.

Nel primo usarono insediarsi con l’ausilio dell’architettura estrattiva, poi in seguito, come vedremo più avanti, adoperandosi a realizzare architettura additiva.

Le arche predisposte dal Castriota s’intercettano secondo linee strategiche denominate: del Limitone tarantino, della Daunia pugliese, della Sanseverinense citeriore, quella di due mari o il confine della Calabria citeriore con l’ulteriore, del Bove siciliano, della Ginestra palermitana e in fine l’eccezione abruzzese di Villa Badessa, che conferma la validità di quel progetto antico.

Tutte queste sono linee strategiche d’insediamento, che trovano riscontri negli eventi della storia dal XV secolo e restituiscono ragione e forza a un progetto di ricerca condotto dallo scrivente.

Le “Arche” disegnate dal Castriota offrono agli arbëreshë un’alternativa territoriale ideale dove approdare,  e difendere la propria identità sociale, culturale e religiosa, terre parallele predisposte per riverberare nei secoli il modello Arbanon, oltremodo avendo cura di innescare i presupposti di strategie politiche di difesa dei territori a favore di quanti consentirono i processi di accoglienza e inculturazione.

Se oggi ancora una lingua poco comprensibile ai non parlanti, riecheggia in questi anfratti meridionali, come dai giorno del loro arrivo si deve appunto da quanto immaginato e predisposto dal condottiero di Kroja concertando  quanti accoglievano e da quanti venivano accolti su territori ritrovati.

Gli agglomerati urbani degli arbëreshë (Katundë) nascono secondo interessi economici per la difesa e la valorizzazione dei territori più esposti alle dinamiche del mediterraneo, limitando l’aspirazione dei nuovi arrivati verso i minimi requisiti di sostentamento, giacché la parte più consistente, di quanto derivante dalle attività, seguiva la filiera economica delle aristocrazie locali.

Queste ultime defi­nivano persino la caratteristica di articolazione degli agglomerati urbani, alla luce di una vecchia direttiva ispanica, la quale mirava a realizzare modelli urbani di tipo aperto e in linea con lo sviluppo flessibile del “Rione” auspicando future espansioni in numero di addetti, cosi come avvenne per diverso tempo con le note sovrapposizioni derivanti da nuove migrazioni.

Le arche segnate dal condottiero Giorgio Castriota, stabiliscono anche il nu­mero complessivo dei residenti, determinando, in questo modo, anche il valore di quelle terre per questo rese produttive, all punto di rendere meriti a quelle terre, denominate anche “ il granaio del regno”.

A questa prima fase segui una seconda, detta dell’architettura additiva, in cui si assegnarono le terre con l’opportunità della discendenza e per questo, la volontà di realizzare abita­zioni di maggiore qualità, con materiali non deperibili, da ora in avanti si elevano le prime Kalive in pietra calce ed arena, modeste abitazioni mono cellulari che daranno fine all’epoca del nomadismo o della’architettura estrattiva.

Va in oltre sottolineato che secondo una direttiva greca di insediamento si devono delimitare adeguatamente in rapporto alle condizioni geografiche e a quelle politiche della zona circostante; il territorio ha un’estensione sufficiente quando è in grado di alimentare un certo numero di cittadini entro i limiti di un medio tenore di vita, il numero dei cittadini d’altra parte deve essere tale in rapporto alle capacità produttive.

Da ciò potremo determinare il numero di addetti, soltanto dopo aver presa conoscenza del­la regione e dei suoi abitanti e di cosa da essa si vuole ricavare.

Trattandosi di una nuova colonia, insediatasi in aree geografiche disabitate in precedenza, bisogna prima di tutto sistemarne la parte, per cosi dire, architettonica, in generale, dire ciò è come saranno fabbricati e disposti i presidi religiosi, disporre le abitazioni private sulle alture per ragioni igieniche e di sicurezza espositiva e geologica.

Vicino alle chiese gli ecclesiasti e relativa famiglia allargata; s’inizia a costruire le case  private, al fine di consentire al sistema ambiente naturale e ambiente costruito di assumere la dimensione di  fortezza strategica, gli accessi delle case, secondo la consuetudine greca, sono disposte sulle strade secondarie utilizzando l’identico modello abitativo e in grado di garantire i parametri di sostenibilità intesa come micro clima al gruppo allargato; non è piacevole a vedersi un Katundë che appare di casa simili, e disposte apparentemente senza regola, tuttavia esso è un sistema eccellente per il controllo del territorio e dello stato locale all’interno del perimetro Sheshi, su base di facilità con cui si presta la disposizione dei Rioni e i relativi spazi liberi e costruiti.

Kisha, Bregù, Sheshi e Katundi sono rispettivamente: il rione, religioso,  controllo, e sociale, costruito e non, inteso e generare  le attività produttive e di crescita comune.

La descrizione del Katundë, accoglie le convenzioni caratteristiche e tipiche delle città agricole tipiche delle primordiali greche, in cui la disposizione articolata, delle case sono anche fortezze di inculturazione o cuore pulsante di un integrazione che non è finalizzata al mero atto della discriminazione, ma verso una  cultura economica che da spazio a alle diversità per crescere senza protagonismi.

Fine della I° Parte

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LA SALITA DELLA SAPIENZA (discorso - XV° - Un mito o emulazione)

LA SALITA DELLA SAPIENZA (discorso – XV° – Un mito o emulazione)

Posted on 03 gennaio 2020 by admin

ARISTONAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Se nel 1408 l’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo con l’adesione del re Alfonso d’Aragona e dei principi, Giovanni Castriota, Vlad II e di altri, nell’intuire l’indispensabile utilità di costituire l’insula ideale di mutuo soccorso, detto Ordine del Drago, noi oggi non staremmo qui a elevare agli onori della storia falsi miti e leggende editoriali senza senso.

Quando si ritiene di mettere in campo temi, per esaltare le vicende storiche con protagonisti gli Arbëreshë e Albanese si deve prima conoscere la storia e poi magari sventolare il copricapo di chi ha vissuto nel corso del XV° secolo,“ comunemente denominato Scanderbeg”.

Gli Arbëreshë e ancor peggio i cugini/fratelli Albanesi, ignorano completamente il corso, gli eventi e quali uomini hanno reso grande la regione storica Arbëreshë, riverberando anche il valore dell’Albania.

La mancanza di un progetto di formazione culturale ha reso vulnerabile la numerosa schiera di figure che per questo preferisce sintetizzare, tralasciando addirittura, la massima espressione culturale, scientifica, editoriale e clericale luce sin anche alle ideologie di confronto dell’Europa intera.

Si è preferito avvantaggiare i trascorsi di analfabeti che si sono ostinati a dare una forma scritta al codice consuetudinario più antico del vecchio continente, faccendieri guerrafondai e ogni sorta di alchimista che poteva essere di supporto a falsi miti e banali leggende.

Le gesta del comunemente denominato Alessandro il Grande, non sono altro che la riproposizione di un progetto antico da lui eredito e messo a frutto nel XV secolo.

La narrazione della sua nascita, le gesta della sua crescita, le sue vittorie e gli apprezzamenti delle figure più rappresentative delle cristianità di quel tempo, sono simili se non addirittura ispirate dalla storia di Carlo Magno.

Vicende identiche, cui non si può sorvolare senza che non sorgano dubbi, quando si confrontano le vicende del grande della storia cristiana con la figura “ comunemente denominato dai turchi”, combattete di ideali mutevoli, secondo le epoche e i venti che tiravano.

Non è dato a sapere con certezza chi lo abbia volutamente marchiato, se lui stesso o l’inadeguato Ottomano, sicuramente se fosse stato coerente, rispettoso della sua discendenza, non avrebbe dovuto assumere un’alternanza di fronte così volubile.

Se oggi Arbëreshë e Albanesi devono ringraziare figure per la loro icona nella storia del vecchio continente, lo devono a quanti realizzarono l‘Ordine del Drago e i quei quattro illuministi: due di Santa Sofia, Casale di Bisognano, in Calabria citeriore; uno do Maschito e uno di Barile, in terra di Lucania.

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