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IL COVID-19 NON FERMA L’ENTUSIASMO DEI GIOVANI. UN TEAM REALIZZA MASCHERINE PER TUTTA LA POPOLAZIONE.

IL COVID-19 NON FERMA L’ENTUSIASMO DEI GIOVANI. UN TEAM REALIZZA MASCHERINE PER TUTTA LA POPOLAZIONE.

Posted on 22 aprile 2020 by admin

Barile le tante mascherine preparateBARILE (PZ) ( di Lorenzo Zolfo) – Nel centro arbereshe del Vulture, la solidarietà sta di casa.Da un’amicizia lunga nel tempo, alcuni giovani  del posto si trasformano in un Team Vultur 3D operativo, che realizzano delle mascherine, in questo periodo di Covis-19.A darne maggiori ragguagli uno di questi giovani, Daniele Montanarella: “Ci siamo rincontrati nella sede della Pro Loco gentilmente concessa per l’emergenza , dove per più di 10 ore al giorno procediamo nella realizzazione delle mascherine, le quali sono state donate gratuitamente al Comune di Barile, per i Volontari in servizio per la comunità in questo tempo di emergenza. Tutto il materiale utilizzato come il PLA,il più usato nella realizzazione di prodotti mediante l’utilizzo di macchine di prototipazione rapida che utilizzano tecniche produttive quali la FDM (FusedDepositionModeling), meglio note come stampanti 3D con l’utilizzo di Filtri specifici come quelli usati 2 filtri TNT e 1 filtro al carbone attivo il Tempo di produzione: 2 ore a mascherina. Operiamo già da più di un mese nella produzione stampa 3D con appositi strumenti. Il nostro team si chiama Vultur 3D ed oltre a me, collaborano Nicola Rosa e Michele Caccavo. Nessuno deve rimanere indietro specialmente nelle piccole comunità, dove si conoscono tutti ed in occasione di questa pandemia, tutti fanno squadra. Ringrazio l’amico Gianmarco Tirico per il supporto dato per la locazione”.Il team segnala il numero di telefono per contattarli 345 165 3655 per qualsiasi informazione massimo impegno per delle soluzioni concrete all’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19.

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RASHËT  THË MOTITË ARBËRESHË.  (regione storica diffusa arbëreshë)

RASHËT THË MOTITË ARBËRESHË. (regione storica diffusa arbëreshë)

Posted on 19 aprile 2020 by admin

Asino e CapraNAPOLI ( di Atanasio Pizzi Basile) – La lettura di numerosi prodotti editoriali o enunciati che a vario titolo corrono nei canali multimediali, apre scenari a dir poco paradossali per quanti hanno consapevolezza della emergenza culturale senza eguali, a cui urge porre rimedio predisponendo l’idoneo progetto di tutela.

Episodi, esperimenti, allegorie, alchimie, favole di varia natura sono diventate la regola di quanti seguono l’esempio di accendere la pipa con i dollari, perché esposti al contagio dei famigerati: “482-AFM2  ”.

Essi sono generati  dalla diffusa consuetudine, poi diventata legge, per innalzare l’insieme diffuso dell’idioma, l’applicazione delle consuetudini, le metrica canora scambiandola per balli, oltre ai valori di credenza bizantina, amalgamati con le ritualità dell’esoterismo.

Queste malevole attività hanno creato un vuoto culturale, uno scenario collinare senza regola, in cui non si ritrova più impronta per potersi orientare all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”:

Rashët  Thë Motitë Arbëreshë.

È palese come la trascuratezza culturale abbia sconvolto la solidissima e secolare Regione Storica, per non aver voluto elevare le idonee strutture che dovevano essere condotte da studiosi e non scambiate per perimetri religiosi, che con i loro messali speravano di tenere distante il diavolo personificato in  “482-AFM ”, lo stesso che dagli inizi degli anni settanta aveva iniziato a diffondersi.

Che le soluzioni di tutela dovessero nascere dalle favole della nonna, la stessa che preparava “sfascini” e “affascini” per poi svuotare la bacinella nel crocevia della gjitonia, nessuno poteva prevederlo visto il ricco patrimoni materiale depositato in quegli anfratti collinari.

Nonostante il meridione sia identificato, studiato, e valorizzato secondo protocolli di ricerca in campo, Abitativo, Ambientale, Economico, Fluviale, Linguistico, Paesaggistico, Sociale, ed Estrattivo, poi sottoposti al vaglio di  commissioni multidisciplinari, è spontaneo chiedere perche i presidi preposti al rispetto di ciò non hanno fatto nulla quando si è trattato della la regione storica e i suoi cento agglomerati urbani?

Cosa non ha funzionato per la Regione Storica Diffusa Arbëreshë, comunemente denominata Arberia, nonostante essa contenesse tutti i temi su citati, per i quali il disciplinare era già stato adottato in diversi casi del passato e nella piena emergenza del dopo guerra?

Parliamo comunque di un’insieme diffuso all’interno del bacino del mediterraneo, unico e irripetibili, alla cui ricerca solo l’impegno e il sacrificio di privati, fortemente boicottati e denigrati (cui va aggiunto il sacrificio di lacrime di  sangue e sudore) ha saputo rispondere.

Solo questi valorosi e unici ricercatori hanno seguito il protocollo di ricerca, come qui elencato:

  • Storia degli stradioti e l’impero con capitale Costantinopoli;
  • Storia dell’Epiro vecchia e dell’Epiro nuova, i Kalaber, poi Arbanon e oggi Arbëreshë;
  • L’ambiente geografico di residenza storica e di nuovo insediamento;
  • L’ambiente Naturale parallelo ritrovato;
  • Il sud, la storia, le inquietudini economiche e sociali;
  • Vita della comunità- inchiesta e approfondimenti etnologica;
  • Saggio sulla demografia e l’igiene;
  • Saggio psicologico e attitudini;
  • Saggio sull’economia i processi e l’evoluzione;
  • Saggio sulla struttura urbana, medioevo, rinascimento e illuminismo;
  • Saggio sull’assistenza sociale e religiosa;
  • Tavole cartografiche e bibliografia generale;

Alla  luce di questi indispensabili adempimenti com’è possibile che ancora oggi si preferisca inseguire meteore spente che hanno terminato la luminescenza, come l’attenta madre natura dispone.

Ciò nonostante si diffondono eventi con indicatore, la Gliugà, lu Tagliuru, la Dromsa, il Piretto, Le Vaglie, le Mendule, o addirittura si ricostruiscono paesi senza sapere di cosa si parli, riversando eventi materiali ed immateriali come se fossero qualità di vino denominati Rione della Mula, Vicinato del Catanzarese, Quartiere rosso o Borgo bianco del Pollino, in tutto, amalgama inebriante, vera e propria formula alchemica, senza radice.

Un sistema materiale ed immateriale, confezionato dalla nonna e consegnato il sacchetto, all’ignaro e stolto cliente, spiegava le istruzioni per la migliore efficacia del rito, come si fa oggi con i mobili di IKEA per montarli correttamente.

Figli Arbër non sono certo quanti cantano e ballano ritmi estranei o non conoscono il senso delle cose finendo per cantare “stella bella” innanzi a Santo Protettore (?????).

È appena terminato il giubileo senza che nessuno abbia raggiunto in ginocchio il paese dove, per l’identità storica civile e clericale, il Vescovo Bugliari venne ripetutamente accoltellare, perdonando i suoi carnefici, se terminato il mandato davano fine alla devastazione del paese.

Nessuno è stato mai illuminato dall’idea di una beatificazione; questa però non deve interessare per imposizione, noi che “viviamo a Napoli e badiamo alle nostre cose”.

Quando esposto, vuole essere un ritratto della “vostra Arberia” quella del consumismo e delle meteore, diversamente da come la intendono gli altri e per altri mi riferisco a quanti vivono nei radicati cinque sensi, tipici della famiglia allargata, quelli che sanno, parlano e preferiscono: “Rashët  Thë Motitë Arbëreshë”.

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DA STATO A MANZANA; RINASCE IL FUOCO DEGLI ARBËRESHË

DA STATO A MANZANA; RINASCE IL FUOCO DEGLI ARBËRESHË

Posted on 17 aprile 2020 by admin

DA STATO A MANXANAaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La Kaliva dal XIII al XVII secolo, divenne la culla in cui la famiglia allargata arbëreshë, depositò le proprie radici e diede avvio al processo di frammentazione familiare per affrontare le nuove disposizioni economico e sociale, più consone nel modello di  famiglia urbana.

Il modulo abitativo di base, rappresenta, per questo, lo scrigno in cui vennero, riversate tradizione, idioma e metrica canora, i le radici attraverso le quale e per delle quali riconoscersi, senza mai perdere la memoria del  nell’originario gruppo allargato.

L’insieme aggregativo di questi elementi monocellulari in aderenza, con annesso spazio delimitato da siepe, determina la formazione dei centri storici diffusi Arbëreshë.

L’insieme o meglio l’isola edilizia, è la naturale fonte, nella quale attingere, perennemente, cosa abbia reso possibile lo sviluppa del  “rione rurale” o gruppo di moduli abitativi accostati secondo l’orografia da rispettare e nel contempo far nascere “ il focus” identitario.

Lo spazio circoscritto e occupato, risulta essere, vero e proprio stato in miniatura, all’interno del quale il gruppo familiare allargato, detiene il pieno controllo, sono proprio questi spazi delimitati ad assumere la traccia  indelebile ancora oggi individuabili, in quanto, sono stati rispettati, dalle generazioni che seguirono nel corso dei secoli, gli originari confini ereditati.

Sono questi complessi edilizi, senza soluzione di continuità muraria, a tracciare le fondamenta su cui gli esuli trovarono ispirazione per dare volume al tracciato di siepe, aggiungendo poi, gli apparati per il disimpegno altimetrico nel corso dei secoli.

I centri antichi, con questi elementi caratteristici, definiti agglomerati urbani diffusi, furono realizzati e prevalentemente abitati da esuli Arbanon; essi  rappresentano il racconto della storia, secondo un consuetudinario che non usa alcun tipo di forma scritta e per questo, restano e sono, documenti stesi al sole, dai tempi in cui il focus, venne delimitato dalla siepe, quel segno indelebile tracciato dalla famiglia allargata arbëreshë.

Dal XIII secolo, ha inizio un percorso articolato e colmo di esperimenti edificatori, spesso finiti in tragedie, per eventi naturali e indotti, comunque ogni volta caparbiamente ricostruiti, con nuova esperienza di meccanismi più sicuri.

È dalla fine  del seicento, che diventano forme edilizie sicure e non più labi, identificati come” Manzana” in arbëreshë, comunemente denominati “isolati” dagli indigeni.

Nel caso dei paesi della fascia mediterranea studio di oggetto, non nascono come veri e propri isolati edilizi ma un insieme di spazio costruito e spazio naturale aperto, quest’ultimo inteso come pertinenza indispensabile, giacché, considerata come la farmacia di casa, l’orto botanico.

Un insieme di elevati edilizio composta da più cellule raccolte secondo un sistema articolato aperto, distribuito su di un’area, le cui caratteristiche si possono definire parallele, giacché, hanno sempre le medesime radici geologiche, direttamente legate all’esposizione solare ed eolica.

La cellula tipo è radicata al processo di colonizzazione  della  campagna  dopo  l’anno  mille  e  alle  autonomie comunali.  

L’influsso della cultura architettonica urbana sul modulo originario si manifesta nel  campo delle  tecniche costruttive generalmente attinte delle  soluzioni tipologiche formali, delle celle monastiche come per certi versi avviene nei nuclei che caratterizzano le aree di insediamento.

Generalmente quelle degli esuli non sono mai regolari, in quanto, non usufruiscono di grosse aree , né si producono opere per ottenerli, questo spiega pure in nome che è attribuito all’isola: manzana

Essa non è altro che il tipico contenitore dell’acqua potabile e come quest’ultima assume le forme dell’oggetto, lo spazio che la contiene, anche l’insieme dei moduli abitativi in funzione delle superfici su cui vengono allocati si modella in diversificate forme pur avendo lo stesso modulo di base.

Ma manzana ha origine nel focus, dove si insedia la famiglia allargata; si articola attorno ad essa con gli spazi aperti definita dal recinto o stato, questo destinato alla lavorazione dei prodotti locali o di spagliatura dei prodotti agricoli, quali la canapa, le noci, le mele e così via, al deposito degli attrezzi agricoli, e spazio diffuso degli animali domestici, quali galline e l’immancabile capra della Mursia.

Il modulo si sviluppa prima a piano terra al cui interno è ubicato il focolaio, una serie di giacigli lungo le pareti, mentre al centro, padroneggia il tavolo che ha funzione di tavolo da lavoro, mensa e il luogo, “proto industriale” dei prodotti per la conservazione.

Uno spazio interno caratteristico delle costruzioni rurali, forza economica e sociale indispensabile, attraverso il quale prolifera e crescere la famiglie allargate arbëreshë, in tutto, il detto “luogo”.

Questo è lo spazio condominiale dove le famiglie si riunisce e divide senza discussioni, è il capo famiglia che decide assieme alla consorte senza pregiudizi o favoritismo, per i beni di comodo che per i ruoli assegnati non producevano alcun attrito trasversale.

Davanti all’uscio di casa un sedile rappresentava il luogo di aggregazione all’aperto il trono pubblico del capo famiglia, esso era per lo più fatto di pietre rifinito con impasto idraulico, con tetto spiovente sono i moduli abitativi ,non avevano pavimentazione in quanto i calcari sciolti una volta livellati avevano la giusta durezza e durevolezza, in un secondo momento negli spazi di risulta in fondo alla stanza, per la pendenza del tetto, indispensabile del deflusso delle acque meteoriche,  si ricavava una sorta di soppalco che serviva o da dispensa o si realizzavano giacigli per i più giovani del gruppo.

Ma il luogo aperto era anche la Gjitonia, c il luogo di ricerca del originario ceppo, che viene sottoposto alla prova dei cinque sensi, la stessa che consente di condividere lavoro, patimenti, preghiere e operato.

Tale tipo di urbanistica e architettura rurale la troviamo sparsa in modo diffuso e precisamente identico nel territori di tutta la regione storica o aree rurali dove vissero i profughi arbëreshë.

Il fenomeno di raggruppamenti diffusi agresti, di origine tardo medievale, dipendeva anche dal fatto che consentiva di sfuggire al rischio di esposizione, alla malaria, cui erano penalizzati quanti vivevano dentro le mirazioni  dei borghi.

Il vivere fuori dalle murazioni, a debita distanza dai luoghi mercatali, vicini ad una chiesa, un monastero, un castello o arteria stradale principale, consentiva di proteggersi dai pericolosi nemici invisibili e anche visibili.

Una diversa distribuzione degli insediamenti dava origine a quella lenta trasformazione che si discosta dal secolare buio del Medioevo.

Definito lo spazio abitativo, la Kaliva, riconosciuti i valori mercatali, per accedere definire gli scambi, secondo la Bagliva o Baliva, gli arbëreshë iniziarono il duro percorso di integrazione, alcune volte seguendo le regole altre volte meno, comunque con i primi due adempimenti acquisiti avevano preso consapevolezza che la terra ritrovata aveva regole precise e andavano rispettate e seguite.

Il nuovo indicatore della cultura architettonica e urbana si manifesta nel campo delle  tecniche  costruttive  generalmente attinte delle  soluzioni tipologiche formali, anche del borgo, che comunque rappresenta un modello di ispirazione.

Nascono per questo con l’andare del tempo le scale esterne, il portico, la loggia, cioè tutta quella volumetria architettonica che si aggiunge al nucleo originario e si sviluppa in altezza quando lo stato recinto non ha più spazio da offrire, fe prende corpo il complesso architettonico delle case con profferlo.

È anche da questi modelli antichi sommati a disposizioni post terremoto del 1783 che prende spunto l’edificare palazzotti padronali, dal decennio francese, ma questo è un periodo particolare e ha bisogni di anticipazioni e premesse più articolate e di altra natura e radice.

P.S. nell’immagine la mensa ponderale del Regno di Napoli, manca l’asta dei pollici, murata dalla curia napoletana, in un sito poco distante.

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Αἰωνία ἡ μνήμη, Gianni.

Αἰωνία ἡ μνήμη, Gianni.

Posted on 15 aprile 2020 by admin

Gianni BelusciRegione Storica Arbëreshë (di Alessandro Rennis) 

 

Αἰωνία ἡ μνήμη, Gianni. 

Professore di alto profilo culturale, ricercatore e studioso di “Fonetica sperimentale applicata” presso l’Università della Calabria , arbëreshë originario di San Basile, in questa Pasqua di Resurrezione lascia la vita terrena e vola verso l’Eterno l’amico Gianni Belluscio,  nel compianto di quanti ne hanno apprezzato la  operosa attività e hanno potuto godere della sua amicizia. A sua perenne memoria,  quale persona gentile e sempre affettuosa, noi arbëresh lo accompagniamo  con un accorato addio, ben riassunto dai versi….

Ho vissuto un Dio, ho visto degli uomini

e i miei occhi non si cercano nemmeno più.

Ieri sono andato sulla montagna che abitò la luna

e sono tornato con il cuore colmo di tristezza

Non mi restano più che un ricordo e una chitarra infranta

Un salice piangente si spoglia e mi veste di lacrime

Cosa c’è di più triste al mondo che partire senza cantare? ( J. P. Duprey)

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POSHËTË, DRELIARTË, KA, THË, JASHËT, MBRËNDÀ, PRAPA, PËR PARA. (Santa Sofia: i luoghi, la storia)

POSHËTË, DRELIARTË, KA, THË, JASHËT, MBRËNDÀ, PRAPA, PËR PARA. (Santa Sofia: i luoghi, la storia)

Posted on 14 aprile 2020 by admin

Aglomerati primariNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il panorama urbano dei paesi della Regione storica Arbëreshë, fa riferimento a canoni delle città aperte, rinnovando i vetusti modelli medievali e per questo sono da ritenere come i pionieri per la convivenza, in età moderna, tra uomo e natura.

È con le  migrazioni dai Balcani dal XIII secolo, che nasce un nuovo strumento culturale, sociale ed economico capace di esprimere oltre che a soddisfare localmente, esigenze del vivere a stretto contatto con la natura.

Tutto è architettato, predisponendo e coordinando il luogo, nel pieno rispetto delle opportunità storiche, ambientali, sociali ed economiche.

L’azione degli arbëreshë, nello specifico, fece emergere le potenzialità del ”focus”, il luogo, esaltando le garanzie predisposte dai nuovi signori, in quelle posizioni già note agli esuli, a proposito dell’ambiente.

Un flusso di uomini e competenze di convivenza con il territorio naturale, trovò nel focus, organizzando gli ambiti, secondo arti, mestieri, omogeneità, che solo quanti erano legati alle consuetudini oralmente tramandate, sapevano le terre per trarre il maggior vantaggio, dall’ambiente in cui s’insediavano.

Territori paralleli della terra d’origine ricercate bonificate e vissute, al fine di innalzare idonei presupposti nel pieno rispetto del focus riconosciuto.

Se al tempo degli indigeni locali le stesse terre aveva avuto un mediocre rilievo, conseguito in funzione di limitati impegni racchiusi tutti e unicamente nell’interesse per lo sfruttamento agricolo e per l’uso come residenza personale, distanziando le due esigenze; con l’avvento degli arbëreshë l’impulso è diverso sia dal punto di vista organizzativo e sia per la ritrovata forma territoriale dove depositare le radici culturali, politiche ed economiche.

Allo scopo si vogliono evidenziare attraverso l’odonomastica del popolo, ancora memoria viva (inconscia), e attraverso di essa individuare come l’iniziale e semplice focus  sia stato trasformato nella contea di vaglio ancor oggi presente.

Seppure e riconoscere con amarezza che, mutatis mutandis, vale sostanzialmente anche per Santa Sofia la constatazione che : “Non  esiste città borgo e luogo costruito, che non abbia  adottato,  come  accompagnamento  alle  “escrescenze  caotiche”,  la  distruzione sistematica dei suoi caratteri di facile comprensione.

È per questo che adoperarsi a predisporre l’indagine odonomastica si segnare il modo in cui è nato e si è modellato “l’agglomerato diffuso di Santa Sofia”, ben consapevoli che univocamente e parimente non saranno scontate e le risposte, ma l’impegno e soprattutto sacrificio di ricerca renderà merito alla giustificazione dei toponimi.

Seguire e ricostruire le linee secondo cui  gli originari casali hanno sviluppo il modello, il fuoco diffuso, da cui è in seguito sono sbocciate le tipologie della propria radice storica.

Escono quale risultato indelebile e preciso da tale operazione:  i criteri in base ai quali il centro antico fu edificata, sia sfruttando le caratteristiche naturali del terreno sulla traccia dei camminamenti storici, nelle prossimità dei quali elevare e circoscrivere gli spazi indispensabili.

La regione circoscritta del recinto inteso come Mbrëndà e Jashët è andato configurandosi da spazio libero e non coperto, fino agli innalzati edilizi, disegnando così la pianta urbana che conosciamo.

Nel disegno di origine, rilevanza particolare è affidata all’arteria  Starada Grande (huda made); in quanto essa richiamare alla memoria l’azione  promozionale capace di innescare le varie attività artigianali  e  svolgere  la  funzione  di competenza da cui dipartire vicoli, elevati e piazze, il nettare primordiale  dell’assetto, urbanistico  diffuso, l’anima pulsante in cui conversono gli ingredienti dall’integrazione di esuli con gli indigeni.

Alla storia contribuiscono a dare forma non solo le vicende umane, ma anche gli spazi in cui quelle avvengono, per questo, nelle vie, strade, violi e sheshi, la storia lascia indelebilmente tracce della sua memoria e delle azioni.

Molti toponimi sono scomparsi, di essi si è persa anche la documentazione d’archivio, spezzando così la memoria di una cultura locale colma di significati preziosi, con molta probabilità gli unici in grado di dare  senso  alla  definizione  dell’immagine storica specie se vuole essere espressa in chiave etnica.

Tuttavia avendo ben chiari i riferimenti linguistici e la conformazione geologica e orografica degli ambiti addomesticati per essere vissuti, apre versanti di ricerca molto ampi pieni di momenti suggestivi.

Sicuramente le testimonianze di vita, come si è detto, della fisionomia  urbanistica del passato  possono  essere andati persi, ma rileggendo le tracce degli elevati murari e la loro consistenza materica si possono  recuperare,  rileggendo,  con  ispirazione motivata dalla ricerca; compulsando e rileggendo secondo l’antico idioma antichi riferiti sia in forma clericale o esperimenti di metrica canora abbarbicati ancora al tempo di edificazione.

Oggi nella memoria territoriale rimangono tracce dei materiali e toponimi dell’epoca  Huda Stangoitë, Ka rin reljeth, Kisha Vieter, Kambanari, essi segnano indelebilmente azzioni naturali o indotte che hanno caratterizzato lo scorrere del tempo.

Altre invece, recano le nuove denominazioni cambiate sotto la spinta di noti eventi storici, come personaggi di partito politico che non hanno nulla a che vedere con la storia di quegli ambiti, che in alcuni casi non lasciano neanche sulle lapidi la memoria di un tempo, sostenendo esclusivamente  l’informazione   usurpatrice , come a voler  nascondendola colori intensi con pastelli sbiaditi di di rotacismo analfabetici.

Essi non sono altro che un retaggio di antichi aspetti sociali della convivenza nello spazio cittadino è nascosto nella memoria, di pochissimi anziani e sta a noi attenti interpreti indirizzare il giusto valore alla nota o frammento di essa.                                                                                                                                                

Sia all’epoca di insediamento e poi subito dopo durante il confronto s’individuavano i luoghi con riferimento a episodio architettonici o di frammentazione di residenze dismesse o noto quali: la chiesa, il luogo di arrivo o il luogo promontorio;  oltre  a  particolari  pittorici,  della  devozione popolare icone oluoghi di culto in generale; elementi naturali come il pennino/pendino o/e indotte come frane, Kambanari.

Dopo i primi riconoscimenti caratteristici, segue lo sviluppo urbano e la diffusa possibilità di elevare moduli abitativi in muratura si definirono Sheshi, Rugha, Huda, assoggettando luoghi identificativi della famiglia insediata o particolari confini, come Prati o Kanlhë.

In origine era la strada stretta e articolata (Rugatë),  sulle di cui quinte si  aprivano gli usci delle case e le tipiche finestre di controllo, cosi come alcuni moduli non abitativi con attività artigianali indispensabili alle consuetudini dei componenti il rione, identificato con il suffisso “Ka”. 

La denominazione aveva origine dalle attività che si praticavano, dall’identificativo del luogo o dalla particolare categoria di persone in essa residenti (nomadi, indigeni o comunque provenienti da altri agglomerati urbani).

Nei meriti identificativi di quest’ultima categoria una nota più dettagliata va fatta, anche se comunemente si dice che la storia, “si fa solo con i documenti o in base alle testimonianze corroborate”, va fatta per tutte quelle residenze allocate a nord e a sud del “vico stella” e quindi non documentate ma notoriamente stese al sole.

Queste  abitazioni erano tutte appellate con i nomi dei paesi di provenienza dei residenti; persino la strada che delimitava l’urbe dalla campagna era denominata come: “limite dei latini”.

A completamento di questo spunto, mi pare opportuno sottolineare, l’origine del  termine  “Trapesë”  che secondo alcuni vuole indicare, il piano, tavola malsana o terreno  paludoso, tralasciando il dato storico locale che il “trappeso” è anche un’unità di misura di piccole quantità.

Non di metalli nobili quali l’oro o l’argento, li mai estratti, ma in conformità a luogo in cui le genti povere, attendevano il riversare delle poche resta della mensa arcivescovile che li rimetteva i resti della mensa.

Questa e altri toponimi, quali: Uda Ka Sanesh, Kar karegleth, Kamorchiaveshët, Ka mbanari, Shighëata, shesi Ku arvomi e altri, se opportunamente indagati e confrontati, con la storia locale sono in grado di fornire l’itinerario di sviluppo del centro antico, a cui tutto si può  accreditare ma non comunemente annoverare come Borgo Medioevale.

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VALJIE, GJITONIA, SKANDER, QUARTIERE, BORGO, TANTO PER CITARE L’APPARIRE!

Protetto: VALJIE, GJITONIA, SKANDER, QUARTIERE, BORGO, TANTO PER CITARE L’APPARIRE!

Posted on 12 aprile 2020 by admin

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AL SINDACO DI CIVITA SIG. ALESSANDRO TOCCI PASQUA SOLIDALE E D’AMICIZIA

AL SINDACO DI CIVITA SIG. ALESSANDRO TOCCI PASQUA SOLIDALE E D’AMICIZIA

Posted on 08 aprile 2020 by admin

Chimisso1BOLOGNA (di Giuseppe Chimisso) –  Metà della popolazione del pianeta vive momenti tristi, attanagliata dalla paura e da notizie funeste e per di più segregata in casa.

  Tutti stiamo attraversando un tempo sospeso che non ci permette di ipotizzare il domani.

  In questo momento il mio pensiero è stato più volte vicino ai cittadini di Civita e nell’impossibilità di essere presente a fianco della comunità che mi ha “adottato” e che quindi è diventata la mia comunità, sono solidale inviando un pacco contenente 250 mascherine da distribuire ai dipendenti pubblici che lavorano front-line e agli operatori economici privati, per la tutela della loro salute.

   Il mio piccolo dono rappresenta certo una iniziativa che spero, sommata ad altre in essere, possa aiutare i civitesi a superare indenni questi momenti.

     Parafrasando un vecchio detto albanese: “GUR, GUR, BËHET MUR”, “Pietra su pietra, si fa il muro”.

   Dono metaforicamente la mia piccola pietra per costruire un muro di solidarietà che fermi il virus.

    Nel ringraziarla, Signor Sindaco, per la stima è l’affetto ricevuto dalla comunità di Civita, invio un abbraccio ai civitesi tutti e chiedo alla Sua Persona di farsi interprete dei miei sentimenti di amicizia sincera.

 

Bologna, 08 Aprile 2020

                                                                                                     Giuseppe Chimisso

                                                                                        CITTADINO ONORARIO di CIVITA

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QUESTO È IL TEMPO CHE IMPERTERRITO SCORRE PER LAPIDARE

QUESTO È IL TEMPO CHE IMPERTERRITO SCORRE PER LAPIDARE

Posted on 04 aprile 2020 by admin

Lapidazione20201NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – In questo breve si vuole porre l’attenzione verso l’autunno che non smette di terminare e adombra un numero considerevole di Katundë, specie in perdita di riferimenti urbanistici e architettonici, non adottando nessuna forma di  tutela, specie nella metrica degli adempimento progettuali, sia in forma pubblica e sia privata.

A tale proposito si vogliono trattare i motivi perché siano state preferite le vesti tipiche già esistenti a breve distanza dal centro, “imponendo”, sia in forma di aspetto, sia in mutazione cromatica, e sia di forza meccanica, le “volgarmente denominate Beole”.

Sarà impresa ardua, comprendere quali siano stati i dettami storico-progettuali, fiore all’occhiello, della spaccatura tra passato, presente e futuro; la stessa che ha disgregato ambiente naturale, costruito, in tutto le armonie che acuminavano gli uomini delle terre antiche dette Ka Laberi.

Identificare i pensatori erranti, gli ironici giullari, gli ignari esecutori, e gli accatastatori del “Patimenti Vulcanici”, fuori da ogni regole dell’anomala lamia; tuttavia essa si può riassumere in evento di “foglie in autunno”.

Aggredire il “Centro Antico”, con “piccone, pala e vecchie carriole” è stato come coprire gli ambiti violati con le foglie secche; agli osservatori inermi e inascoltati, non rimane altro che attendere, come accade alle anime in pena o foglie in autunno il vento.

Il risultato: un freddo e asettico scenario dove non si colgono più gli aspetti che definivano le gjitonie, (luogo dei “cinque sensi”, il riecheggiare che si è modificato, la rifrazione della luce in tutto manca il senso di stare a casa propria.

Il centro abitato un tempo parzialmente lastricato: secondo esigenze che soddisfacevano il connubio tra uomo e natura, evincono quali fossero lastricate e perché, diversamente da quelle lasciate secondo l’aspetto naturale, in base alluso in funzione degli eventi meteorici.

Selciati in pietra di cava locale dalle forme irregolari erano adagiati, su cuscinetti di terreno vegetale misto a sabbia; livellate mediante la percussione; appena data regola alla superficie, venivano ricoperti gli interstizi con terra fine, così le superfici più esposte all’ erosione erano pronte ad affrontare le intemperie, preservando un piano idonea calpestabile per agli uomini e rotabile.

Erano tante anche le scalinate con gradini dilatati ben distante tra di loro, che caratterizzavano percorsi più impervi, al fine di consentire l’uso con animali da soma o percorribili apiedi.

Se i “progettisti pensatori” avessero avuto adeguata conoscenza del territorio, avrebbero dovuto avere consapevolezza che ogni luogo ha e difende memoria, religiosa, sociale e culturale, dove gli uomini riconoscono se stessi e il gruppo gjitonale, cui appartengono.

Le piazzette, “sheshi”, le strade “uhdetë”, i vicoli “rrùgat”, i cerchi concentrici del nucleo ideali detta gjitonia; cosi come i quattro cantoni dividendi, questo storico Katundë, notoriamente riconosciuti come: il Superiore “Drelarti”, l’Inferiore “Drehjimi”, dividendi ulteriormente e trasversalmente dalle due fontane storiche, rendevano limpida e chiara, come le loro acque, la lettura del paese individuando sin anche il suo fulcro ideale di primo insediamento di approdo degli Arbëreshë.

Ridurre tutto a un semplice articolo, ha penalizzato è smarrito il senso storico dei piccoli centri antichi; le forme esili e monocromatiche delle beole, riducono in solitari elementi, la radice caratteristica degli ambiti che sei secoli di storia avevano solidarizzato.

Non vorrei aprire trattato sulle vie storiche del centro antico, anche se una parola di accenno vada  sulla strada detta “Limite dei latini”, (Limë litirë) questa in specie tra dispetti dinastici, e conquiste di potere ha spento una traccia storica di inestimabile valore, un frammento di storia irripetibile a cui oggi con la memoria ancora viva si potrebbe porre rimesio e lasciare almeno il segno di quel confine.

Terminerei con l’accennare della piazza  il luogo della battaglia finale o meglio il luogo della disfatta stesa al sole ancor oggi visibile e delle cui linee non si comprende da dove vengono e dove vogliono portare.

Senza consapevolezza è stato preferito generare linee, queste non contemplano in alcun modo una direttrice cui si può ipotizzare senso, se non quello si ignoto allo stato puro.

Si è tracciato un’asse in marmo bianco (quello che si usa nelle abitazioni popolari per le soglie delle finestre) annegato nella pavimentazione definendo l’asse stradale provinciale che per lo scorrere di veicoli di ogni genere si sono ben presto sgretolati; se a questo si aggiunge un ingombrante manufatto ottagonale(??????) (di li a poco rimossa appena il ricordo ha illuminato i posatori ) che proprio li in quel luogo da decenni aveva luogo ideale la manifestazione storica che ricorda l’inizio della stagione estiva della minoranza arbëreshë.

L’auspicio che tutti noi di buon sensi ci auguriamo è che al più presto questa lapidazione anomala sia rimossa dai vertici istituzionali o per lo meno nel breve si due legislature sia integrata e caratterizzata, non con diademi di aquile a due teste ne con lampieri, serve buon senso e conoscenza storica per dilavare tutte le cose inutili e ripristinale gli equilibri altimetrici e quelli cromatici, in grado di restituire il valore storico di ogni specifico anfratto.

Non servono Tecnici che vanno con Acacie legate al guinzagli per applicarle magari sul tetto della chiesa o sopra i profferli e fare giardini verticali a modo del “Bovario” o del “Clatrasa” di turno, con piante e fili di ferro, vogliono cambiare il senso sin anche dei balconi a modo di tirantati.

Allo stato delle cose urge ridare la dignità agli spazi, al costruito per garantire la fruibilità più consona alle persone che vivono, per fornire gli elementi idonei, in linea con quanto ereditato e renderlo  riconoscibile alle nuove generazioni; il bagaglio storico-culturale giunto con rigida continuità prima dell’intervento di vestizione fuori dal tempo e dal luogo.

L’identità di ogni popolo si conserva nel tempo, mantenendo immutato il senso globale delle cose, così come impongono le carte storiche del restauro e la conservazione, non solo le tradizioni, gli usi e i costumi, ma anche il senso del luogo, partecipa a rendere  caratteristico e genera i cinque sensi, quelli unici, capaci e in grado di riportarti a casa.

Tutto ciò che ci circonda, tutto ciò che ci accompagna nel nostro vivere quotidiano diventa una testimonianza della nostra stessa esistenza, ragion per la quale, chi si pone e promette di sostenerli e difenderli, ha il dovere di trasmettere alle generazioni future, così come le precedenti hanno, ( almeno sino agli anni sessanta del secolo scorso).

La memoria non deve andare troppo indietro nel tempo per riportarti nelle regole del tempo; vicoli i vicoli e le strade o le piazze, se non ti fanno avvertire le sensazione che il tempo conserva per te, di quale centro antico stiamo trattando? Non è che si vogliono vivere le epoche di un tempo ma almeno l’essenza cromatica e dell’uso dei materiali deve avere rispetto del luogo; oggi queste sensazioni non si riescono più a provare e neanche hanno i requisiti minimali per dare spunto all’immaginario.

Tutto il centro storico è invaso da una cementificazione verticale ed orizzontale senza rispetto, neanche verso le vegetazioni, sostituiti da gli illusori cromatismi di narranti murales o pigmentazioni delle quinte architettoniche a dir poco grottesche.

Non ultimo, ritengo si a il caso di soffermarsi, e porre l’accento sulle anomale  e indegne ristrutturazioni o edificati edilizi di nuova costruzione che dagli anni sessanta del secolo sorso interessano i centri sstorici senza alcuna adeguatezza strutturale e geologica.

Tipiche e costantemente utilizzate sono gli elementi strutturali moderni su murazioni di materiali di spogliatura risalenti al XVII secolo, questi in specie senza i minimali requisiti di indagare strutturale e di risposta del terreno sottostante.

Questi temi oltremodo interessano i centri antichi in forma strutturale e le aree di espansione in forma  geologica, in tutto rappresentano pericolose carenze strutturale e geologico senza eguali, sicuramente quando succederà non saranno in grado di rispondere ad eventuali, che si augura non abbiano mai luogo.

Invece di fare restauro conservativo finalizzati a restituire dignità formale e funzionale, si è preferito seguire la via del razionalismo abitativo moderno, figlio dell’inurbamento selvaggio, poi è legittimo chiedersi per quale fine se questi luoghi ameni non hanno partecipato alla nascita di modelli riconducibili all’industria.

Lo sforzo progettuale a dir poco inadeguato, denota l’errore di pensiero, fuori da ogni logica che vuole mantenere costante il rapporto tra ambiente naturale, costruito ed esigenza di quanti vi abitano.

La conservazione e la caratterizzazione sono gli elementi “scapestrati” con cui si è voluto trattare gli ambiti del centro storico che ha dato forma a questi luoghi, d’altronde come potevano “ gli operatori” se non consapevoli dei canoni dell’urbanistica romana e di quella greca; le sorgenti da cui gli arbëreshë attinsero, quando ancora s’identificavano “Ka Laberi, Arbëri o Arbanon”.

L’auspicio è di sensibilizzare le coscienze tutte, affinché si possa recuperare il senso e dare la dignità a quegli spazi e continuare a fornire alle nuove generazioni oltre che nozioni precise, anche luoghi dove stenderle al sole senza vergognarsi o essere scambiati per altro.

L’identità di ogni popolo si conserva nel tempo mantenendo integri non solo le tradizioni, gli usi e costumi, ma anche rispettando il senso dei luoghi, mante­nendone l’assetto formale, cromatico e di riverberazione dei sensi.

Tutto ciò che ci circonda, deve essere in grado di sostenere i nostri valori identitari, a cosa serve saper sinteticamente parlare, cantare e ballare o rievocare sacre processioni se poi gli scenari e il riecheggiare dei nostri atteggiamenti non segna e riverbera con senso finito la continuità del valore storico?

Quanti si pongono ai vertici e promettono futuri in linea con il passato, come possono farlo se sono soli e non conoscono nulla di quanto promesso?

Eppure si elevano a buoni tutori di un’identità che per trasmetterla è molto difficile: non basta vestire in stolje e stendere a terra il gonfalone per segnare luoghi; questo simbolismo è tipico di chi in suo ricordo lascia li depositano un segno di croce magari scolpita su di una “Beola”.

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CHI RICORDA?  da ( “Lungro a quadretti”)

CHI RICORDA? da ( “Lungro a quadretti”)

Posted on 02 aprile 2020 by admin

img2LUNGRO (di Alex Rennis) – A tutti noi dell’asilo infantile di Lungro, in prossimità delle elezioni del 18 aprile 1948, è stata consegnata questa immagine da portare a casa ai nostri genitori : la testa di Garibaldi – figura scelta a rappresentare il Partito d’Azione sui manifesti di allora – che, girata di 180 gradi, si trasformava ( e si trasforma !) in quella di Stalin, a ricordare che votando Garibaldi si sarebbe votato per il P.C.I., per Stalin, per la Russia e contro l’Italia. Ecco: l’ho ripescata tra le cose dimenticate in un cassetto, ma ricordo benissimo quella campagna elettorale. Giorni frenetici, scontri in comizi, ma anche qualche scontro fisico fra comunisti e democristiani del paese. In particolare, in una campana elettorale di alcuni anni dopo, ricordo il comizio di un ex prete, padre Tondi, che dopo aver gettato la tonaca alle ortiche ( come si dice) , si era iscritto al P.C.I , aveva visitato la Russia e veniva portato in trionfo ad illustrare “ le magnifiche sorti progressive” che viveva l’allora Unione Sovietica, da realizzare anche in Italia con la vittoria del PCI. Ma la DC del tempo non se stava con le mani in mano: ed ecco il simpatico cosentino Don Luigi Nicoletti partire in giro per i paesi a sostenere la DC e contrastare, così, il Tondi traditore. Arriva a Lungro e non parla in piazza Casini, ma in corso Skander proprio dalla loggetta in alto di fronte al negozio di Dominique, oggi casa Kaciqj (buonanima), dove Nanandi Paçafrangut, con pochi altri suoi amici, aveva preparato nientepopodimeno che una specie di microfono, ricavato da un gracchiante giradischi, appena amplificato con la tromba “La voce del padrone”: ben poca cosa, ma meglio di niente! Iniziamo? Iniziamo. Accanto a don Luigi c’è papàs Stamati ( eh….che grande parroco e poi illuminato Vescovo di Lungro !!!) che presenta l’oratore del momento; ma appena don Luigi si accinge a parlare scatta una trappola che i comunisti lungresi avevano preparato davanti al Dopolavoro. Una ciuccia in calore – per caso ??? – era stata legata nei pressi del portone e – sempre per caso ???- in quel momento irrompono sul piazzale due somari: in un baleno scoppiano ragli aggressivi, accresciuti dagli sghignazzi dei comunisti disseminati qua e là e la rabbia dei democristiani che accorrono a spegnere la scenetta. Finalmente don Luigi può parlare e, indicando i protagonisti: …. “ Eh!!!! Madonna mia bedda,   n’haiu dittu na sola parola e l’avversari i mia già protestanu ! Cazzarola !!1 “ All’ascolto di quest’ultimo sfogo…dialettico, papàs Stamati ha un moto di sorpresa e conseguente strofinio alla sua rada barbetta. La reazione   non sfugge a don Luigi, che subito, invece di scusarsi, rincara la dose : …” e no, don Giova’, ngùnu cazzicìellu quànnu ce vo’ ce vo’ !” Il resto lo lascio immaginare. Ma che dire di cosa è successo a Lungro la notte dell’ allarmante falso annuncio della vittoria PCI ? Non dico più. Forse in altra pagina farò sapere.

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IL BANDITORE (Giugno 2008) SUPPLICA

IL BANDITORE (Giugno 2008) SUPPLICA

Posted on 31 marzo 2020 by admin

IMG_2Santa Sofia d’Epiro (CS) (Redazione il Banditore, Giugno 2008) –  Negli ultimi decenni l’insieme inscindi­bile di natura e storia esistente all’interno delle comunità arbëreshë, ha subito un degrado senza prece­denti e va costantemente monitorato per evitare uno scontato destino.

La speculazione edilizia ha invaso memorie storiche e luoghi naturali; il territorio è stato aggredito nella sua morfologia e nella sua estetica.

Tutto ciò aggravato ed amplificato da un altro fattore altrettanto determinante (e forse anche più pericoloso): la caduta della qualità.

L’abusivismo è non tanto la causa, bensì la più consistente conseguenza di un decadimento del pensare e del progettare e, vorrei aggiungere, del comportamento “sociale”.

Un diverso governo del territorio potrà consentire di contrastare tale decadi­mento se non, addirittura, di recuperame gli effetti negativi.

Occorrerà ricostruire una sensibilità paesaggisti­ca che mantenga la continuità culturale delle preesistenze nell’attuale vita sociale ed economica di quei luoghi .

Tutto ciò, rivalutando lo stretto rapporto tra natura e sito in considerazione, anche, delle compa­tibilità economiche e sociali dei luoghi.

L’urbanistica non dovrà esprimersi in forma concettuale ed autonoma ma dovrà invece basarsi tanto sulle attuali esigenze quanto sul patrimonio culturale di quei luoghi Governare il territorio vuol dire indirizzare lo sviluppo, garantirne la qualità nella continuità con il passato.

Tale intento non dovrà pretendere di conservare immutabil­mente i luoghi e l’ambiente, quand’anche suggestivi, ameni, ricchi di storia e d’arte; dovrà invece consentirne la compatibilità con i naturali, continui ed inesauribili fenomeni evolutivi sociali.

I centri abitati arbëreshë, devono fare del passato, riuscendo ad aggiungere a questo, i “nuovi episodi” di una storia che si intende proseguire; ciò in delicata armonia, senza traumi o strappi e non congelandolo in una icona.

Programmare lo sviluppo è l’unico modo per evitare delle modifi­cazioni incontrollate.

Per amministra­re un territorio occorre una profon­da conoscenza della storia, sensibi­lità e capacità manageriali; occorre agire in simbiosi tra conservazione e innovazione, essere artefici di una riscrittura della scena nel più profondo rispetto del passato, saper attraversa­re i livelli intrecciati della forma storica o dell’ambiente in un’illuminante e innovativa spazialità.

Da ciò la necessità di porre in simbiosi le istanze della conservazione e quelle dell’innovazione, la realizzazione di immagini di grafici e testi dell’architet­tura urbana e rurale delle comunità arbëreshë, ove avvalendosi, della catalogazione degli elementi architet­tonici primari che caratterizzano i luoghi oggetto di studio, il rapporto tra ambiente costruito ed ambiente naturale.

La comunità arbëreshë ha conservato per molto tempo la sua identità, ma negli ultimi decenni, ha fatto si che i tipi architettonici ed urbanistici che la caratterizzavano siano andati costantemente e irreversibilmente perduti.

Considerando che la conservazione, la catalogazione degli elementi architettonici, non sono state oggetto di culto ne dal privato che dal pubblico, il fine potrebbe essere appunto, quello di allestire un Archivio e non solo riferito asetticamente alle modalità della tecnica costruttiva, ma rivolto a raccogliere, pure negli omoge­nei modi della modernità, quelle possibili tipizzazioni attraverso cui ricostruire i lineamenti specifici dei luoghi.

Arch. Atanasio Pizzi

www. a tanasiopìzzi. it

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