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GLI ARBËRESHË E GLI ALTRI DEL PAESE DI FRONTE

GLI ARBËRESHË E GLI ALTRI DEL PAESE DI FRONTE

Posted on 03 agosto 2020 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Che tra Arbëreshë e gli odierni abitanti di quello che rimane delle antiche terre d’oltre Adriatico, ci sia una radicale differenza non c’è ombra di dubbio alcuno, anzi direi è culturalmente sostanziale, in quanto, i falsi aquilotti sono un incrocio degenere della peggiore specie.

Se poi analizziamo la radice con quello che rimane dell’antico fusto, si resta basiti nel costatare che tutto è fasullo e nulla potrà restituire la linfa antica, come fa da sei secoli la trapiantata in regione storica continuando a fiorire ancora oggi e produrre frutti raffinati.

Di sovente, da un po’ di anni giungono come conquistatori negli ambiti della Regione storica Arbëreshë, personaggi a dir poco stravaganti, i quali immaginando che essa sia una provincia d’oltre adriatico di loro proprietà, si manifestano senza alcuna dignità culturale apparendo come marionette senza garbo e forma.

Non è concepibile dare spazio a tali giullari dal gomito alto; individui con la copia (pure sbagliata) dell’elmo dell’eroe di quella nazione, appellato sin anche con il nome dello storico nemico, vera e propria caduta di stile, di gusto e di irriverenza per noi educati arbëreshë.

La regione storica, è una fonte inestimabile di consuetudini, idioma, metrica, religione, in tutto una cultura inestimabile; quanti vi si recano per abbeverarsi non si devono permettere ne di manomettere i cannoni e ne di inquinare quelle limpide acque.

Se non siete in grado di rispettare questi fondamentali guide, restate sulle vie maestre e non addentratevi nei campi incontaminati, che noi arbëreshë tuteliamo da secoli.

Noi non leggiamo pagine rosa o ci inchiodiamo, da abusivi, davanti alle altrui frequenze televisioni popolari; gli arbëreshë di buon senso generalmente studiano e si applicano nelle discipline più consone alla tutela del consuetudinario storico più longevo e puro del mediterraneo.

Gli arbëreshë, quelli veri, non ballano e ne cantano in turco; chiama Giorgio Castriota il Grande l’eroe e se gli uffici Italiani del paese di fronte, ogni tanto donano busti e statue, con l’auspicio di segnare il territori a impronta turca, sappiano, che sino ad oggi, tutte e dico tutte quelle effigi sono state malamente collocate, prive di ogni  senso storico culturale, come la consuetudine insegna.

Il colore Rosa non appartiene né alla lettura e né alla tradizione degli arbëreshë, i colori nostri è bene che sappiate, sono il Rosso (e non vi meritate di sapere cosa indica), il verde (e non vi meritate di sapere cosa indica), il blu (e non vi meritate di sapere cosa indica), il porpora(e non vi meritate di sapere cosa indica), la trama dorata(e non vi meritate di sapere cosa indica), il bianco (e non vi meritate di sapere cosa indica).

Che voi skipetari siate poveri in ogni senso, lo dimostrate con i fatti, specie quando vi svendete per bevande non contemplate nel disciplinare del trittico mediterraneo “la nostra legge alimentare”, o un piatto di pasta fatto male ed eseguito peggio e poi addirittura pernottate in un letto sporcato dagli altrui rapporti.

Nasce spontanea la domanda: cosa avete letto e quali canali televisivi avete approcciato sino a oggi?

Cosa credete di fare quando andate ramenghi con l’elmo di un personaggio che non rispettate pur essendo il vostro eroe.

Quell’elmo che inopportunamente postate sul capo ha tanti significati che se avreste studiato, potreste essere considerate persone culturalmente formate e vi vergognereste di aver portato cosi allegramente  senza alcun rispetto lungo le vie e i luoghi arbëreshë.

Egregi fratellastri degeneri del paese di fronte, noi abbiamo un eroe per ogni katundë, essi non facevano guerre ne sopprimevano persone con la spada, vivevano di cultura di leggi, di scienza e cooperazione, immaginavano modelli sociali a favore e per il bene del popolo.

Scalarono gli olimpi più ambiti d’Europa, sedendo sulle vette, osservati e riveriti dalle menti più colte di tutto il globo.

Essi si chiamavano, Pasquale Baffi, Pasquale Scura, Luigi Giura, Francesco Bugliari, Domenico Mauro, Angesilao Milano, Giuseppe rev. Bugliari, Rosario Giura, Antonio Rodotà, Giuseppe Bugliari, Giorgio Feriolo e tanti altri, almeno il doppio dei novantacinque paesi, che costruiscono da oltre sei secoli la Regione Storica Arbëreshë.

Per quanto ci riguarda storicamente e culturalmente come modello da emulare preferiamo loro e un po’ meno, l’aquila a due teste e lo Skander, che  alla luce degli sviluppi, dell’odierna società sarebbe il caso di iniziare a stendere veli consistenti  per coprirne le gesta, forma e contenuti.

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NATA IL 16 LUGLIO 1916, MIO PADRE LA CHIAMAVA LINA

NATA IL 16 LUGLIO 1916, MIO PADRE LA CHIAMAVA LINA

Posted on 16 luglio 2020 by admin

ALIENAZIONE ARBËRESHË NELLA CINTA SANSEVERINENSENAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Prima di vestire una ragazza o signora con il costume da sposa arbëreshë, invitava a casa sua il richiedente accompagnato dalla persona da sottoporre al rito, a bere un caffè o assaporare uno dei suoi saporitissimi taralli.

Questa chiaramente era una scusa o meglio una verifica per comprendere, a misura puramente visiva, se fisicamente la ragazza avesse caratteristiche fisiche indispensabili per portare quelle preziose vesti.

Molte volte si traduceva in un diniego con la scusa che erano state da poco riposte e avrebbe richiesto troppo lavoro, slegarle e toglierle dai legamenti di modellazione.

Altre volte la richiesta era accolta e nei giorni seguenti si dava luogo al lento rito della vestizione, previa raccomandazione di recarsi generalmente da Frangiska i Pasionatith per la pettinatura di base; denominata “kesheth” : un simbolico modo di raccogliere i cappelli in forma sferica lievemente schiacciata dietro la nuca, serrati con appositi nastri in cotone di colore bianco, emblema di adduzione alimentare naturale.

La ragazza nel tempo in cui aveva bevuto quel caffè, in effetti aveva superato ignara la prova fisico anatomica, denominata con gli abbreviativi in arbëreshë: ( G. B. S. e M.) senza i quali non sarebbe stata considerata idonea per  la vestizione con garbo,  gusto e senso del rito.

Ogni cosa doveva collimare perfettamente, niente era lasciato al caso, sino a che gli indumenti più a contatto del corpo e quelli più esterni di terzo grado, i più appariscenti, rispondevano rigidamente al protocollo della vestizione, senza l’ausilio di generiche appendici o apparati di accomodamento non consentiti, perché avrebbero snaturato sia il valore religioso e sia quello della credenza popolare.

Tutte queste regole Adolina, li aveva ereditati dai parenti più stretti della dinastia dei Basile, che avevano provveduto a crescerla, in quanto, orfana della madre quando lei era ancora una bambina.

Un compendio di elementi consuetudinari tramandati oralmente che non finivano solo con la vestizione del prezioso costume, ma con tutte le regole che accompagnavano la vita degli arbëreshë nel corso dello svolgimento del calendario Bizantino,

 Orgogliosa di portare il cognome più sacro e più nobile del mondo degli arbanon, non ha mai smesso di mettere in evidenza consuetudini antiche che se non attingevano direttamente dal Kanon poco mancava, a tal proposito ne sapevano qualche cosa quando si discuteva di strade a confine con don Achille un omaccione rozzo e senza principi e maleshi, i quali voltavano i tacchi quando lei, minuta ed esile, li affrontava a muso duro dicendo, sapete bene quali sono le regole per utilizzare queste strade.

La ricorrenza dei morti, la pasqua, gli appuntamenti agresti, le consuetudini culinarie all’interno della propria abitazione e ogni ricorrenza, quali il Natale e l’Epifania erano preparate con dovizia di particolari, nel avvicinarsi della ricorrenza e il giorno dell’evento e nella fase di ricollocazione del vivere quotidiano.

Persona fine e considerata all’interno della comunità al punto tale che ogni matrimonio, ogni preparazione della residenza, degli sposi, compreso il letto matrimoniale, richiedeva sempre la sua supervisione finale, per risultare di buon gusto e garbo.

Noto era sin anche il  forno di proprietà, per i manicaretti indispensabili alla settimana che precedeva il  matrimonio; prima allocato nella sua vecchia casa, ka lemi litirith e poi ka Shigiona, quest’ultima residenza più raccolta, ma sito famoso per produrre dolciumi locali e per panificare.

Non si commette errore nell’affermare che dagli anni settanta e sino alla fine del secolo scorso, non ci sia stato matrimonio che non abbia visto protagonista quel forno, allestito in quel vivace ambito Sofiota,  famose rimangono anche Rosina, Silvia, Sofia, Maria Teresa, Adelina, Annamaria e tante altre, registe onnipresenti per la produzione dolciaria e consuetudinaria di innumerevoli matrimoni locali andati a buon fine.

Esperta sarta del costume arbëreshë condivideva l’arte con Rusaria  Pigionith  e Sarafina Rikuth, non veniva indossato abito tipico a Santa Sofia se una delle tre non fosse presente, come quando negli anni sessanta venne chiesto di realizzare una bambola con vestizioni arbëreshë, queste tre insostituibili figure, per meglio produrre il singolare componimento sartoriale, ( il primo manufatto in miniatura sartoriale a impronta dell’arte del cinquecento napoletano) non si chiusero nel protagonismo locale, ma coinvolsero tutto il paese, per produrre il migliore manufatto condiviso, ma i più eguagliato a Santa Sofia e in ogni dove.

Richiesta quando si voleva ben figurare per la rigidità del consuetudinario arbëreshë e stata lasciata sola quando si è trattato di applicarle nel suo guscio familiare, chissà se si sentirà ripagata da lassù, nel vedere in seguito dibattersi chi le diceva di esserle amica, alle prese degli stessi adempimenti per i quali, fu lasciata sola.

Lei era mia madre Adolina i Congòrelith, un esempio di cui IO! Sono Fiero.

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NON È UNA RIPARTENZA, PERCHÈ SOLO ADESSO  INIZIEREMO A CAMMINARE.

NON È UNA RIPARTENZA, PERCHÈ SOLO ADESSO INIZIEREMO A CAMMINARE.

Posted on 15 luglio 2020 by admin

AthanorNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La Regione Storica Arbëreshë ha avuto una brusca frenata relativamente agli appuntamenti d’estate; comunemente appellate Valje, e dell’inverno con i soliti riversamenti di cultura; a tutt’oggi non si riesce a comprendere come e quando questo “modo di confrontarsi” avrà termine.

La pausa, causa del Covid-19, e il conseguente distanziamento fisico o per meglio dire isolamento sociale, è comunque un’opportunità “irripetibile” per ricalibrare l’Athanor per ottenere la pietra filosofale tanto attesa e molte volte millantata, per la sostenibilità tangibile ed intangibile della regione storica.

La calibratura dei soliti riversamenti di cultura, la ricerca archivistica confrontata con il territorio, renderà più chiare le vicende della storia, elementi indispensabili per manifestazioni irripetibile e indispensabili a restituire solidità alla compromessa radice minoritaria.

Premettendo che questo non vuole essere un indirizzo definitivo, ma visti i risultati solidamente ancorati a documenti e territorio sino a oggi ottenuti, sono da ritenere come una traccia da percorrere per una meta certa da conseguire.

Ragion per la quale l’esser sati interrotti in manifestazioni canore, culturali, folclorico e di sviluppo del territorio, viene intesa come l’opportunità, per ricollocare elementi multi disciplinari nel forno ovoidale; l’Athanor con l’auspicio che la combustione sortisca nella pietra filosofale arbëreshë tanto attesa.

Tracciare la storia degli omini che della regione storica ne hanno fatto una ragione di vita presenta numerose difficoltà. Queste storie molto spesso sono propinate al pubblico come «storie di Scrittori», senza badare che si tratta, nella maggior parte dei casi, di «cose» diverse, di storie uomini che della scrittura conoscevano bene Latino e Greco mentre l’arbëreshë lo sapevano solo parlare e che muo­vono in una direzione che si chiamava ricerca del «BENE DELLA COMUNITÀ – ED ALLA GLORIA DEGLI UOMINI DI TUTTO L?UNIVERSO».

Gli arbëreshë rappresentano la parte buona della società in ogni epoca e, come sovente accade, anche qui trovano rifugio avventurieri e ciarlatani, alla continua cercano di entrare a farne parte del glorioso elenco di eccellenza, per trarre qualche profitto personale.

Dimostrare che siano riusciti a distrarre l’Istituzione storica dal suo compito principale di formazione degli uomini a scapito dell’ esaltazione delle loro virtù  diventa sempre più preoccupante, a tal proposito e per scoprire le loro vesti sarebbe il caso interrogarli pubblicamente durante i loro rocamboleschi concerti e spegne una volta per tutte la falsa pietra filosofale, che dicono di possedere, dentro le casse armoniche di organetti mandolini e le pelli tese dei tamburi.

Adesso che inizieremo finalmente a camminare, per essere atleticamente mentalmente e liberi da falsi miti e comini leggende parallele, dobbiamo liberarci, dei veli pietosi che ci offuscano la mente oltre la copiosa polvere, che appesantirebbe il nostro cammino di eccellenza.

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PASHKALI I BASHITH;

PASHKALI I BASHITH;

Posted on 11 luglio 2020 by admin

01 - RaccontiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – .Un Sofiota, vero, emblema incontrastato della storia letteraria della odierna Regione storica Arbër, arche ancora oggi vive secondo il buon progetto lasciato in eredità dall’eroe Arbanon, Giorgi Castriota di Giovanni.

Santa Sofia rappresenta per questo un’icona indispensabile per la storia della minoranza e Pashkali i Bashith per le sue note, (la maggior parte carpite e rese pubbliche da fraterni traditori), rappresenta la via per la migliore applicazione delle caratteristiche linguistiche, sociali, metriche e religiose della regione storica.

Egli, con i suoi studi, in capo storico e della definizione linguistica arbëreshë, è il primo a riferire che non ci fosse alcune legame tra la lingua arbëreshë e la lingua greca, se si escludevano, chiaramente, alcuni prestiti come si usa fare nel buon vicinato territoriale.

Affermazione più certificata di questa l’intera galassia linguistica non poteva averla, dato che “Bashith” fino a prova contraria è stato la figura più titolata delle lingue greche e latine sino al giorno della sia morte l’11 Novembre del 1799.

Comunemente si enuncia, senza averne consapevolezza della sua grandiosità culturale, che non abbia scritto nulla in arbëreshë e quindi non rientra tra le eccellenze della minoranza; affermazione a dire poco bizzarra, perché se volessimo confrontare quanti hanno scritto in arbëreshë, con quanti hanno fornito linfa pura e costruttiva come il “Bashith” apriremmo il dibattito che la regione storica tiene coperto con panni a dir poco indecenti e da troppo tempo ormai.

Pashkali i Bashith in poco meno di un trentennio, è riuscito a laurearsi da solo; insegnare nell’università più antica del meridione; passare nella scuola più moderna del settecento; diventare una delle prime figure ad interessarsi della questione meridionale; creare il promo catalogo bibliotecario del meridione; diventare ministro della Repubblica “una e indivisibile” partenopea; ricevere accreditamenti e riconoscimenti dalle espressioni culturali di tutta Europa, compreso Angelo Maria Bandini.

Tutto questo mentre il suo paese, meno uno, non aveva consapevolezza di tanta luce, non rendendosi conto della sua grandezza neanche quanto il gran tour, portò letterati dall’Europa a curiosare nella stanza dove egli nacque.

Tanto lustro e tanto sapere che persino chi ebbero modo di tradirlo, scippando pochi appunti del suo sapere, fu accolto con benemerenza dal clamore e l’eccellenza dei salotto europei per quelle idee libere da imposizioni, reali e vaticane.

Una cosa è certa, chi ha seminato sapienza e sapere rimane sempre visibile agli occhi di tutti è non ha bisogno di essere annunziato, chi si è sporcato di fango per essere illuminato, attenderà inutilmente che venga la pioggia: egli non sa che l’anima non si lava con acqua.

Buon Compleanno “Pasquale Baffi” di Santa Sofia D’Epiro.

Un tuo Paesano

Atanasio Architetto Pizzi

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DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHË Arbëreshi hëshët garbë me dùartë, satë rrhuechë sa janë, lipia misavetë e shetrolith

DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHË Arbëreshi hëshët garbë me dùartë, satë rrhuechë sa janë, lipia misavetë e shetrolith

Posted on 06 luglio 2020 by admin

DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHËNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel 1975 un gruppo di studiosi dell’Associazione Internazionale per la Difesa delle Lingue e delle Culture Minacciate, si è recato in ricognizione nelle macro aree della regione storica arbëreshë alla ricerca dei centri di minoranza linguistica rilevandone i vari aspetti identitari.

L’occasione fu fondamentale per individuare previa analisi dei luoghi, un numero considerevole di nuclei urbani, i cui elementi caratteristici in forma di cultura tipica erano riconducibili alla minoranza storica arbëreshë.

A quel dato di valutazione i centri urbani, furono individuati, visto anche il poco tempo a disposizione, in numero di novanta cinque, così suddivisi: Nove in Sicilia, Cinquanta in Calabria, Sei in Basilicata, Diciannove in Puglia, Due in Campania, Uno in Abruzzo, Otto nel Molise.

Il rilevato in numero di comuni arbëreshë, del 1975, non ebbe a crescere, nonostante nuovi dipartimenti iniziarono a produrre storia, letteratura e ogni tipo di adempimento, sorvolarono sul fondamentale principio del genius loci,  favoriti oltremodo dalle leggi che dagli anni ottanta miravano alla difesa delle minoranze storiche .

Il sovrapporsi delle leggi e degli eventi produsse una sorta di anomalia numerica che invece di integrare e far crescere la consistenza numerica dei paesi, creò una sorte di “unione riservata, una sorta di borgo chiuso”, che non superava le cinque decine, il tutto stranamente proprio alla vigilia che rendeva attuativa la legge 482/99.

Il dato appare sconcertante perché, invece di aumentare di numero, per il crescente studio predisposto e proposto da molte università, il numero è stato dimezzato alla luce del solo fattore di estrazione idiomatica.  

Nonostante la presenza arbëreshë è confermata, anche in nome di Greci di Schiavoni o Slavoni, per la credenza religiosa radicata nel loro modello consuetudinario, la storia li nomina come gli addomesticatori di terre, le stesse a essere oggi il vanto della viticultura storica delle colline meridionali e dell’Italia centrale.

Più in particolare, per la loro capacità di muoversi in gruppi familiari allargati, riconosciuti come sistema autosufficiente capace di essere radicato in un qualsiasi ambito collinare e porre a regime perpetuo il trittico mediterraneo in senso generale, si continua a menzionarli e tutelarli secondo le disposizione della legge 482/99 che fa confusione perfino tra Albanesi e Arbëreshë, non citando nei suoi articoli  mai appellativo della minoranza storica italiana.

Ricerche approfondite del meridione italiano, peninsulare e insulare, alla data del maggio 2019 individuano con certezza circa il triplo dei paesi certificati, come paesi di origine arbëreshë o casali ripopolati per essere poi continuamente vissute da dinastiche che se pur hanno perso la valenza linguistica, conservano i modelli edilizi in forma urbanistica, architettonica e le consuetudini tipiche riconducibili al sociale e al regime produttivo dell’area agreste di pertinenza.

Che un centro abitato sia stato innalzato e realizzato dagli arbëreshë, non è solo legato all’espressione linguistica, la stessa che per forme di rotacismo può mutare nei secoli.

Tuttavia la minoranza storica anche in senso di regione possiede come identificativo, la metrica non intesa solamente come espressione idiomatica, ma anche in senso di consuetudini, religione e tutta la filiera di adempimenti tipici nell’insediarsi, dare spazio alla crescita edilizia, la stessa che notoriamente li rende differente dai sistemi urbani indigeni, limitrofi.

Un confronto che può essere fatto con dati storici e sociali inconfutabili, perché se le genti arbëreshë portavano con loro un tesoro identitario non scritto, è anche vero che il luogo per tutelarlo doveva rispondere a caratteristiche in grado di non compromettere quella radice solo fatta di forma idiomatica.

Non è concepibile che comunemente i paesi arbëreshë sono associati a “borghi”, quando il tempo del loro innalzamento o ripopolamento, appartiene al periodo del rinascimento e ben lontano dal buio medioevale.

I piccoli centri collinari di radice arbëreshë, oggi, li troviamo in forma di casali, castrum, civitas e un’ampia definizione di agglomerati urbani di quel meridione notoriamente caratterizzato dai bizantini, dai greci e non certo dai longobardi invasori, gli stessi abituati a rintanavano nel buio delle loro murazioni, per vivere, vita da carcerati per consuetudine.

Gli arbëreshe appartengono al periodo dei nuclei urbani aperti, sono il prototipo delle odierne luoghi senza vincoli distinzioni e classi sociali, gli stessi che la società moderna mirano a raggiungere; la stessa meta che gli arbëreshë vivono da sei secoli, in quella che si identifica regione storica diffusa arbëreshë.

Ragion per la quale ritenere che un pese arbëreshë sia legato solo a metriche di carattere linguistico vuol dire essere irriverenti verso un modello che non deve, è non può essere considerato monotematico.

Valga di esempio cosa succedeva nel 1835 a Ginestra degli Schiavi un paese notoriamente arbëreshë, oggi provincia di Benevento, già a quei tempi piegata la popolazione, da decenni alla lingua degli indigeni locali, in una nota storica del prete di estrazione latina, riferisce come gli abitanti del piccolo centro, ricordassero e santificassero alcuni appuntamenti religiosi senza attinenza con il calendario latino, ma ogni anno in date specifiche si fermavano a onorare i defunti, accendere falò o produrre manicaretti e riunirsi in conviviali manifestazioni.

Se a questo aggiungiamo il dato inconfutabile di riconoscimento rilevato in un convegno del 2017, grazie al quale sono state attestate la posizione geografica, lo sviluppo storico dal punto di vista urbanistico e architettonico l’articolazione di spazi strade e vicoli propria della casistica dei paesi arbëreshë, Ginestra degli Schiavoni ha avuto ampia certificazione che non basta perdere la consuetudine linguistica per essere riconosciuti illegittimi.

La stessa cosa si può dire di Casal di Puglia, dove notoriamente a oggi parlano la lingua arbëreshë un numero considerevole di abitanti, tuttavia non riconoscendosi negli spazi e nella distribuzione del centro antico.

Durante un convegno è stato ampiamente confermata da una ricognizione in loco e attraverso carte storiche e la toponomastica storica corrente anche in forma dei rioni kishia, Bregu, l’enigmatico Sheshi e l’insieme Katundë, con le rispettive fontane che il sito ha un’impronta tipica delle genti arbëreshë.

Se la comunità scientifica odierna si ferma all’identificativo di una popolazione storica come gli arbëreshë, solo ed esclusivamente al’intensità con cui è pronunziata una favella antica, è il caso di rivedere i progetti e magari consigliare di ritornare a sedere dietro i banchi di scuola.

Questo perché è una forma di non rispetto, verso quanti sanno fare e propongono componimenti completi, senza mai mettere da parte, il violentato e vituperato, anzi direi volutamente escluso, GENIUS LOCI ARBËRESHË.

Una minoranza storica detiene un patrimonio, colmo d’infiniti elementi caratteristici, sia in forma tangibile e sia in forma intangibile, ridurre tutto nella parlata locale come il solo emblema identificativo, offende tutte le genti che nel corso dei sei secoli di storia ha dato se stesso per tramandare l’antico modello.

Per terminare, si ritiene poco rispettoso verso i “TANTI” che hanno dato, rispetto ai “pochi” che non avendo nulla da perdere si sono nutriti di bighellone rie culturali e minare irreparabilmente uno dei quattro elementi fondativi della minoranza arbëreshë.

Si potrebbe presupporre che non sapessero, ed erano ignari del tema che calpestavano; ma se fosse vero, perché si sono prodigate a pregare che l’orticello spontaneo continuasse a dare i propri frutti, gli stessi, che  non  sanno neanche contare.

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QUANDO LA COMPETENZA È DEL DIAVOLO Il diavolo vive e vi osserva dove un tempo si separavano i prodotti della grancia!

QUANDO LA COMPETENZA È DEL DIAVOLO Il diavolo vive e vi osserva dove un tempo si separavano i prodotti della grancia!

Posted on 03 luglio 2020 by admin

inferno gelatoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Con i principi che guidarono la Rivoluzione del 1799, i Borbone e l’Europa intera, comprese che eliminare fisicamente gli antagonisti, liberi pensatori, non era più sufficiente, bisognava deviare le nuove idee e piegarle per il proprio tornaconto.

Oggi se analizziamo con dovizia di particolari, quella metodica di eliminazione fisica e ideologica, essa viene applicata senza alcuna mutazione, nella regione storica, in particolare in quel luogo, dove senza soluzione di continuità trova applicazione dal 11 novembre del 1799, se si esclude la parentesi di progetto sino all’agosto del 1806.

Se l’eliminazione fisica non è più praticabile per ovvi motivi, quella morale in senso di razzia letterale, scippo di concetti, plagio di idee verso quanti vivono l’esilio culturale (volontario di memoria) è una prassi che non smette di terminare.

La vile abitudine di appropriarsi delle altrui ricerche dipende dalla vicinanza e dall’interesse che si vuole derubare e si manifesta nelle figure di: Fratelli, Parenti, Gjitoni e persino in “Garzoni di Bottega” che dopo che hanno rubato gli attrezzi del maestro,  si illudono di essere ciò che non saranno mai.

A queste indicibili figure a due facce, (non per unire come simboleggia e vuole, l’aquila a due teste civile e di credenza divina, ma per dividere), va tutto il più intimo disprezzo per l’egida attività cittadina.

L’atteggiamento denota la deriva culturale diffusa fatta di frammenti di cose, “moto rotatorio perpetuo”, in cui ad essere protagonista è il cane il di cui unico scopo, non è la tutelare della casa del padrone, ma ostinatamente perde tempo nell’intento di accalappiare con i denti la coda.

A tutti questi, “amici”, è bene ricordare che la genuinità culturale, frutto di sudore mentale, è un codice; per questo di un solo proprietario.

Enunciare e portare avanti discorsi altrui è peccato, specie se il frutto ottenuto ha richiesto grandi sacrifici economici, fisici, prodotti oltretutto in contro corrente rispetto le masse, libere di pascolare nei campi fatui.

Comunemente  si racconta in alcuni ambienti,  che la migliore arma sia il perdono, sarà pure vero è il alcuni casi l’ipotesi potrebbe essere comprensibile, tuttavia le “pratiche di viltà, perpetrate nel tempo e alle spalle dei Grandi”, stanno sul tavolo del Diavolo, allora il metro di condanna, diventa un problema molto caldo nel breve termine e freddo nell’attesa del lungo termine.

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GLI ABBARBICATI DEL TERMINATIVO “OLOGO”

GLI ABBARBICATI DEL TERMINATIVO “OLOGO”

Posted on 29 giugno 2020 by admin

Gallo ologoNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – I primi giorni di gennaio del 1954 iniziarono le trasmissioni della televisione italiana e con esse anche la programmazione per gli adulti in forma di giornale, didattica e intrattenimento, oltre per i ragazzi con serie di telefilm e cartoni animati.

I programmi erano intrisi da una forte connotazione educativa e informativa, la televisione si prodigava a diffondere notizie di politica cronaca, l’importanza delle norme igieniche e di vaccinazione, oltre a intrattenimento a fini istruttivi.

Un cubo magico attraverso il quale si prendeva atto di cosa avveniva in tutto il mondo, stare davanti ad ascoltare e vedere era un rito, un appuntamento irrinunciabile, di cui hanno goduto divertendosi e traendo spunti di vita, generazioni intere.

Tuttavia e ciò nonostante, le cose utili e belle non durano molto e finiscono per appiattirsi o diventare trasparenti; così lo è stato in tutti i sensi anche per la televisione: prima cubo, poi parallelepipedo, oggi piatto rettangolare a modo di quadro e nessuno di noi in fondo lo gradisce.

Se la luce emanata dal tubo catodico si poteva sopportare, perché tenue e surreale, le migliaia di piccoli quadratini che si mescolano costantemente e restituiscono immagini moderne, sono insopportabili oltre misura.

Oggi la televisione è diventata il luogo  di spunti anomali, per attrarre l’attenzione e gli sguardi di un ideale ed invisibile platea, fatta di numeri e supposizioni statistiche.

Il protagonismo è l’elemento predominante,  anzi direi proprio povertà teatrale, senza cultura.

Esso ha due radici: una di carattere apparentemente formata a seguito di titoli e l’altra senza ne arte e ne parte; quest’ultima la più pericolosa,  per darsi una parvenza culturale usa il terminativo “ologo” come ad esempio: espert-ologo, tuttologo, pens-ologo, saggi-ologo, borg-ologo, music-ologo, architt-ologo, ecc., ecc., ecc.

Si enunciano comunemente borghi da recuperare e rivitalizzare, un appellativo importato e imposto dai longobardi che nelle terre germaniche ne facevano un grande uso per vicende legate a conquiste a fini distruttivi e nella penisola dell’odierna Italia, adopera gli appellativi di altra radice linguistica.

Per quanto riguarda la categoria dei non formati, e mi riferisco quella del noto, terminativo “ologo” i più facinorosi, non avendo alcuna formazione generale, si associano al terminativo citato, non avendo la ben che minima idea di  sheshi, di sistemi viari che ti abbracciano prima e poi ti liberano sul piano, perché riconoscono la tua genuinità.

Tutti siamo consapevoli che che ogni mattina il sole sorge, più difficile è parlare di case, il luogo dove si è nati, cresciuti e vissuto gioie,  patimenti della propria esistenza, “la  casa mia” non il luogo di altrui genti, giacché quella piccola, grande o misera dimora, è il punto fermo da cui si dirama la nostra vita; sarà sempre nostra, i ricordi, partono da quell’antica cellula e arrivano senza soste direttamente nel  cuore, senza mai rimanere incustoditi nelle spiagge di miti e leggende altrui.

Un paese è fatto di tempo, natura, storia, pietre, patimenti, sheshi e uomini; i più capaci li sentono, li vedono perché li conoscono e sanno raccontare; gli altri, si adoperano per salire sul palcoscenico  del comunemente “ologo”.

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L’OLIO D’OLIVA PREFERITO ALLA SETA SECONDO LE POLITICHE DELXVIII SEOLO

L’OLIO D’OLIVA PREFERITO ALLA SETA SECONDO LE POLITICHE DELXVIII SEOLO

Posted on 26 giugno 2020 by admin

IL corpo umanoNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – Nel settecento il sud dell’Italia e in particolare la Calabria viveva un momento storico non dissimile da quello attuale, genericamente diffuso in tutta la nazione italiana.

La Calabria, nel settecento, era considerata il sud depresso, del Regno di Napoli, rivedendo scientemente gli aspetti, sociali ed economici odierni, si può sintetizzare nel presente come l’Italia intera, è verso l’Europa unita del nord.

Le difficoltà del mercato e il progressivo indebitamento, per opera del fisco, nel settecento, rese i poli produttivi economiche labili, e fino a quando fu più possibile sostenerli, nonostante non mancarono riformatori, i quali constatato la crisi della seta di Calabria, l’eccellenza di quel tempo, non ebbero sufficiente istinto imprenditoriale per  introdurre tecnologie in grado di rinnovare l’antica filiera seticola e della filatura in generale.

Nonostante, la Calabria dal Trecento, era stata la patria del telaio senza mai scendere dal piedistallo, rimase abbarbicata a metodiche di lavorazione non in grado di confrontarsi con i nuovi mercati in crescita da altre latitudini già dal XV secolo.

Anche quando la domanda continuava imperterrita a scendere, perché pretendeva standard più accessibili, come ciò che era prodotto fuori dalla Calabria, i regnati partenopei, immaginavano che l’attesa avrebbe fato la differenza e quanto prima avrebbero partecipato da protagonisti alle richieste del nuovo mercato.

La crisi strutturale specie della seta calabrese divenne irreversibile,giacché, dalle misure intraprese dai grandi proprietari di gelseti, che seguivano una progressiva riconversione più remunerativa verso la granicoltura e soprattutto nell’olivicoltura, mentre i possessori di piccoli giardini con gelsi proseguirono la produzione asettica che non poteva rispondere adeguatamente alla richiesta di un mercato in piena espansione, sia in qualità che in quantità.

Valga di esempio il caso di un grande produttore di seta, il quale, investì  per acquistare  un considerevole numero di unità fondiarie nel basso Ionio da destinare a gelseto, questi visto trascorsi anni senza l’intervento dello stato, che in qualche modo incentivasse il settore, preferì predisporre le colture a fini cerealicoli estensivi e dell’olivo.

Quando finalmente l’investitore calabrese aveva ormai terminato il processo conversione, il governo centrale  spedì macchinari per la produzione di seta, mettendole a disposizione gratuita  degli industriali del luogo, ma purtroppo nessuno ne volle trarre profitto, perché ormai il processo seguiva la via dell’olio.

Ormai, l’antichissima produzione della seta di Calabria era scomparsa per sempre, dismesse le grandi estensioni di gelseti elemento fondamentale della filiera, il governo centrale era rimasto immobile senza operare attività economiche ce ne potessero cambiare la tendenza, che certamente non sarebbe avvenuta nel breve periodo.

La riconversione fu imponente e soprattutto a favore dei saponifici francesi e delle industrie meccaniche inglesi, dove la richiesta preferiva l’olio di bassa qualità calabrese.

Le esigenze di riconversione, andarono notevolmente in questa direzione, i gelseti erano dappertutto abbattuti con l’accetta, l’impianto di oliveti non conosceva sosta e ciò avveniva nelle aree più produttive della Calabria.

L’impianto olivicolo fu avviato, senza grandi investimenti, per cui mancarono, da subito la raccolta razionale delle olive dall’albe­ro, differenziandoli con quelle raccolte a terra, oltre mancava o era completamente assente l’indispensabile sistematica potatura, queste, tutte attività che avrebbero preteso abbondanza di manodopera, allungamento dei tempi di produzione e capitali più cospicui da investire nella nuova attività.

I proprietari del tempo, non fecero altro che sostituire il gelso, e impiantare l’oliveto dovunque era possibile.

La conseguenza fu l’enorme accrescimento della produzione globale dell’olio nella Calabria, destinata a superare spesso, l’antica produzione puglie­se, con uno smercio che favoriva le attività di taluni porti tirrenici, i quali non erano mai stati al centro di tale vivacità.

Tuttavia va rilevato che la qualità dell’olio calabrese non riuscì a diventare pari alla quantità di produzione, nonostante fosse diventato un vero fiume che andava a sostenere, la produttività, dei saponi francesi e per ironia della sorte come lubrificante delle macchine dell’industria inglese, proprio in campo tessile.

Così, le macchine inglesi per produrre tessuti marciavano grazie all’olio di quella Calabria che, per produrre quell’olio, aveva rinunciato alla seta e alla tessitura in senso generale.

La conferma che la Calabria fosse diventata il fornitore ufficiale, sin dai suoi primi passi dell’industria inglese, lo riscontra ancora oggi nella misurazione del litro tipico dei frantoi, infatti, l’unità di misura ”il litro oleario” corrisponde a quattro “pinte britanniche” ovvero poco più di 2 litri dell’attuale misura commerciale.

Abbandonata i gelsi e la sericol­tura per la scarsissima irrorazione di capitali e di lavoro specializzato, fece si che l’olivicolture divenne ben presto la risorsa economica che impegnava più famiglie e più nuclei produttivi, mantenuto comunque un livello assai basso rispetto a come era stato per la seta.

Il cambiamento segnava anche la fine di un primato millenario, destinato a ripercuotersi in enormi perdite di capitali che non sarebbero stati più recuperati.

La Calabria, non ha storicamente un’esatta localizzazione sul territorio regionale di esemplari particolarmente estensivi, di uliveti, in quanto, da millenni è presente l’oleaster (in arbereshe liosterà) una sorta di cespuglio spontaneo di olivo, ancora diffusamente presente in molte zone e da cui si estraeva un rudimentale olio.

La piantumazione e la cura della pianta, si deve sicuramente attribuire ai monaci Basiliani, che affinarono questa attività, ed e grazie al monachesimo latino, benedettino, cistercense, certosino, florense, e, infine francescano, che questa attività ha avuto una tradizione che oggi caratterizza con eccellenze il territorio.

L’olivo è segnalato nel Cosentino e sulle coste del reggino dall’epoca sveva; si hanno testimonianze, per il territorio di  Bisignano e Luzzi nella valle del Crati già dal XIII secolo.

Lo testimoniano, le entrate dei feudi cosentini dei Principi di Bisignano tra il 1578 e il 1580, che segna l’inizio della maggiore diffusione della coltura dell’olivo nella provincia e nella regione, causa l’esenzione di tasse,  cui godrà la l’attività fino ai primi decenni del Seicento.

In questo periodo nella Calabria citeriore ebbero un ruolo fondamentale, i profughi arbanon, questi per la loro grande esperienza nel rassodare e porre a dimora ogni genere di coltura da un lato si resero protagonisti nel mantenere i gelseti ancora produttivi e dall’altra rassodare e riconoscere quali fossero i terreni più idonei per vite, ulivo e cereali.

Gli arbëreshë dopo aver rassodato il terreno lo osservavano, lo tastavano, misuravano con le mani la consistenza e poi lo odoravano e ne sentivano il sapore masticandolo.

Una consuetudine antichissima che usava sia per le attività agricole ma anche per quelle d’insediamento per la realizzazione delle “dimore sia in forma estrattiva sia in quella compositiva”.

Oggi, dopo alcuni secoli di lenta ma progressiva espansione dell’olivicoltura, essa è presente su buona parte del territorio della provincia, escluse le superfici occupate dalla catena appenninica e dall’altopiano della Sila ad altitudini in media superiori ai 600 m.

Le maggiori concentrazioni si registrano nella sibaritide, sulle colline ioniche presilane, nella fascia prepolino e nella media valle del fiume Crati.

Resta un dato fondamentale, ovvero, per non aver difeso le attività che rendevano la Calabria l’eccellenza nella produzione della gelsi-sericol­tura, non aver intuito dare forza economica finalizzata a rinnovare la filiera di questa eccellenza, si è finiti per oliare gli ingranaggi delle industri britannica che aveva sottratto il primato.

Oggi che la seta proviene da altre latitudini, le stesse capaci di trarre profitto da quell’attività per la quale ci siamo dimostrati incapaci di saper amministrare, valorizzandola rimane l’olio, che a differenza di quelle epoche si raccoglie dall’albero e si estrae a freddo.

La particolare metodica sommata alle caratteristiche territoriali e climatiche della provincia citeriore e in particolare la media valle del Crati; culla naturale mediterranea, la stessa che consente di caratterizzare gli elementi tipici della “nota dieta mediterranea” riconosciuto diffusamente nel trittico alimentare: ulivo, vite e cereali.

Un equilibrio unico tra ambiente naturale e produttivo, che consente al territorio di auto rigenerarsi, mantenendo le produzioni in equilibrio perpetuo tra di loro.

Sicuramente la perdita del primato della seta è stata un pessimo affare, per la classe dirigente del settecento, ma l’equilibrio naturale che nel contempo gli operosi calabresi e le minoranze storiche sono riuscite a porre in  essere sono irripetibili.

Oggi la produzione dell’olio ha raggiunto eccellenze che nessuno avrebbe mai immaginato, considerando che si è iniziato con il fornire olio per sapone e ingranaggi e oggi l’olio calabresi sono esportati in tutto il mondo con valori di rilievo e raccontano di un olio ambito in tutte le tavole che contano perché in esso è racchiuso il valore unico di:

Colore: verde con venature oro e riflessi color smeraldo;

Odore: fruttato leggero e fresco, con piacevoli sentori di frutta, ortaggi, e cuore di carciofo;

Sapore: sapido, lievemente dolce, con gradevole percezione amara, discretamente pieno e persistente;

Sensazioni: aspettiamo le vostre in Regione Storica Arbëreshë, perché graditi ospiti, di una consuetudine antica.

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LA VIA DELL’OLIO “Kavaljoderë” Nella soglia della via?

Protetto: LA VIA DELL’OLIO “Kavaljoderë” Nella soglia della via?

Posted on 20 giugno 2020 by admin

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I PARALLELI DELLA REGIONE STORICA, SONO MOLTO PIÙ SOLIDI DEI MERIDIANI DELL’ARBERIA. ( mirë se na erdhit; non basta bilia ime!)

I PARALLELI DELLA REGIONE STORICA, SONO MOLTO PIÙ SOLIDI DEI MERIDIANI DELL’ARBERIA. ( mirë se na erdhit; non basta bilia ime!)

Posted on 15 giugno 2020 by admin

Asino e CapraNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – Trattare rispettivamente, in forma di Meridiani e Paralleli la regione storica diffusa arbëreshë è un po’ come diffondere l’arte degli asini che volano, invece di studiare, con profitto e avere consapevolezza delle proprie radici su base storica.

Che cosa abbia reso solida e forte i trascorsi delle genti e la cultura della regione storica più florida dell’Italia meridionale, oserei aggiungere, anche di tutto il bacino mediterraneo; non è la via che seguono i MERIDIANI, giacché è la direzione dei PARALLELI , quella del sole quando della Grecia, inizia a illuminare uomini e territorio sino alla punta più estrema della penisola Iberica; i  veri luoghi della cultura, della storia, del sapere e della sostenibilità degli uomini.

Questo è un dato che, storici e illustri di tutte le epoche sono univocamente concordi ad affermare e sottoscrivere.

Ragion per la quale chi si affaccia da un Meridiano e in ogni dove, divagando, quello che millanta essere “il sapere” dei quadrupedi volanti, non è un bel vedere, sentire o leggere, come  diversamente si adoperano a produrre le persone di garbo e di senso che studiano e divulgano certezze.

La credenza delle genti della regione storica arbëreshë è affidata alla religione, Greco Bizantino, di estrazione Alessandrina, la più solida e duratura del mediterraneo, essa risulta essere priva di ogni      forma di esoterismi e  credenza popolare in figure di “Magare” che sparlano  di generi; quanti divulgano  ciò o sono in malafede o cercano di imitare “il gallo sopra la discarica”(*), in quanto dal pollaio sono stati estromessi.

Tanto meno si possono rievocare le vicende storiche è i patimenti delle genti arbëreshë, del periodo post industriale o dell’alba economico degli anni dopo la seconda guerra mondiale, con prodotti della cinematografia senza avere una solida base storica, affidandosi a  memorie titolate e di sana formazione intellettuale; altrimenti si termina nel seminato del banale o del faceto.

Divagare sulla bandiera identitaria non è rispettoso per tutte le figure che compongono la regione storica; il costume  non è altro che la bandiera per noi Italiani di estrazione arbëreshë,  è un atto di garbo o di buon gusto.

Sicuramente non si è consapevoli di cosa si fa, quando comunemente lo si vuole trattare o divulgare; per questo è indispensabile  sapere che esso, “il costume tipico femminile arbëreshë”, contiene i valori materiale ed immateriale concretizzati nel grande rispetto che questo popolo aveva verso tradizioni, quali: consuetudini prosperità e valori religiosi, questo valori tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, vennero posti a dimora in quello della macro area della valle Crati, lato preSila, e ancora oggi attraverso i colori, le stoffe, gli ori e le tipiche diplomatiche mantiene viva la nostra storia.

Ritenere che il patrimonio storico urbanistico e architettonico della minoranza inizia con il borgo medioevale e finisca con abitazioni, le cui essenze formali e materiche, sono frutto di abusi edilizi, ormai prescritti perché degli anni sessanta, tuttavia così facendo si banalizza quanto con sacrifici professionalità in campo di  Architettura, Ingegneri e storia dell’arte con senso di indagine mira a dare  senso, al genius loci arbëreshë.

Se a ciò si finisce pure nel ritenere che le bevande tipiche prodotto irripetibile del  mediterraneo è meno genuino dell’ importato delle amariche, si fa torto alla vite mediterranea; elemento fondamentale del trittico più ambito da tutto il globo perché equilibrio tra ambiente e natura, inarrivabile.

Per terminare, sugli uomini e le figure che hanno fatto la forza della regione storica,  la fortuna intellettuale di questo popolo; o si conoscono le pieghe della storia dell’etnia o si finisce di vinviare, segnali di fumo e o quanti/e per necessità editoriali, hanno terminato per sostituito  il cavallo del condottiero Giorgio, con la “motoguzza” così come la chiamava in arbëreshë, Maria Rosa Scorzithë.

(*) detto Partenopeo: “U gallu chi canta nhgoppà a munnezza”.

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