Archive | In Evidenza

REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË; COME ANDARE IN VACANZA E SENTIRSI A CASA, “PROGETTO PER LA TUTELA DEI CENTRI ARBANON E I QUATTRO RIONI TIPICI”

REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË; COME ANDARE IN VACANZA E SENTIRSI A CASA, “PROGETTO PER LA TUTELA DEI CENTRI ARBANON E I QUATTRO RIONI TIPICI”

Posted on 18 maggio 2020 by admin

Oasi di Cavallerizzo 1535

NAPOLI (di Atanasio arch. Pizzi) – Trovare soluzioni per il rilancio economico e turistico dei “Borghi”, dei centri abitativi detti “Minori” i “Katundë Arbëreshë”, si ritiene indispensabile  prestare la dovuta cautela quando si vogliono rivitalizzare il costruito storico, oltre a valorizzare il territorio collinare,  risorsa naturale irripetibile e unica.

Un sillogismo i cui temi abitativi di riferimento, scontano la difficile elaborazione di politiche, capaci di coniugare e legittimare attese di sviluppo socio-economico del territorio, attraverso il contenente-contenuto, sfruttando i vantaggi naturali, che ha generato l’identità storico-culturale di queste aree.

L’estrema eterogeneità dei macrosistemi, in cui fu realizzata l’armonica convivenza, tra “territorio e centri abitati”, non agevola il compito, per questo, si cerca di fornire linee generali indispensabili a intercettare il rapporto, secondo antiche consuetudini e moderne imposizioni, “sintetizzato” in tre categorie fondamentali di eventi:

  1. Per espansione edilizia indispensabile a soddisfare agricoltura e industria;
  2. Per abbandono a seguito di catastrofi naturali o indotte figlia innaturale della,barbarica, metodica delocativa;
  3. Per un forsennato recupero locale senza regole, applicazione della “carta dell’abbellimento”;

Questa vuole essere una distinzione tipologica di base, da cui a sua volta si dipartiscono, successive sottospecie che focalizzano regione ambientale, storica o minoritaria:

In tutto, centri minori che si traducono in fucine di appartenenza ambientale, linguistica, consuetudinaria, economica e religiosa, le stesse che rendono unico e “irripetibile” l’ambiente naturale e quello costruito.

Ovviamente, per rispondere con misure adeguata a tali perle del “genius loci”, è indispensabile tracciare preliminarmente quali siano le emergenze più devastanti o errori del passato, al fine di predisporre più opportuni progetti di ricerca, storica e tecnologica, per “un buon progetto d’insieme” armonizzando: ambiente, costruito e uomo. 

In altre parole fermare la causa che ingurgita imperterrita l’insieme storico, svuotandolo del significato per il quale fu protagonista.

Le cause di questi tre sistemi generali su citati vanno ricercati nei seguenti episodi:

  • il primo, dall’abbandono locale che ha messo in ginocchio il tessuto primitivo in armonia con l’ambiente naturale, causa imputata prevalentemente all’isolamento, la vera causa di migrazioni verso i grandi centri.
  • il secondo, comunemente applicato, nel corso della storia, di sovente con frettolose scelte emergenziali e trovarono risposta naturale nel modello delocativo dell’intera popolazione, verso siti adiacenti, ritenuti meno pericolosi di quelli originari. Con identica metodica sono noti una grande casistica di esempi e tutti comunque confermano la “scarsa conoscenza” della storia dei centri antichi minori, confermando, ogni volta che la metodica è stata applicata, l’identità locale in senso paesaggistico e sociale che si disperdeva. Valgano di esempio Martirano nel Catanzarese, Cavallerizzo nel Cosentino, Matera in Lucania, San Leucio, nel Casertano.
  • Il terzo e più pericoloso della casistica, raccoglie tutte quelle attività attuate, per le risorse elargite dal governo centrale, il cui fine mirava a un miglioramento dei centri antichi minori. Questi ultimi, invece di essere valorizzare il senso storico, in quanto, luoghi irripetibili, per l’inadeguatezza delle leggi che dovevano tutelare i centri minori hanno sortito l’esatto contrario. Centri urbani, a misura d’uomo che nel mentre le città moderne e le metropoli inventavano le isole pedonali, questi si attivavano a rendere veicolabile l’intero perimetro dei centri antichi,, applicando per questo, metriche progettuali a dir poco paradossali, e il cui fine mirava all’uso veicolare. Le nuove lamie rotabili, dilatavano le quinte, spazzando via il rapporto naturale con l’ambiente circostante spazzando fisicamente luoghi della, memoria; spazi di aggregazione o delle attività del passato.

Alla luce di questi accadimenti del passato, trovare la soluzione più idonea, facilita il compito a chi si prodiga per rendere partecipi alla vita sociale economica di questa nuova società “mediatica”.

Allo scopo diventa prioritaria un’adeguata e approfondita valutazione della pluralità e dell’eterogeneità degli interessi pubblici, (governo del territorio, sviluppo  economico) connessi con interesse culturale, paesaggistico, ambientale, tutela del suolo, sono questi che devono essere coniugati al fine di rendere come stadio finale il buon progetto.

Interessi affidati alla cura di amministrazioni che operano con strumenti diversi, innescando, conflitti e possibili sovrapposizioni; le politiche di governo di un territorio devono mirare a garantire ai residenti più ampie possibilità di accessibilità ai servizi essenziali.

L’immagine finale deve restituire un territorio nazionale caratterizzato da una rete di comuni o unioni di comuni, attorno, cui gravitano aree caratterizzate da economie diverse, “aree interne”, che pur essendo un territorio profondamente diverso, conducono a dinamiche dei vari e differenziati sistemi naturali, dei peculiari e secolari processi di antropizzazione.

Rendere più comode le distanze con i principali centri di servizi essenziali, istruzione e salute, attraverso interconnessioni con luoghi di risorse ambientali, idriche, sistemi agricoli, foreste, paesaggi naturali e umani, oltre che culturali, come beni archeologici, insediamenti storici, abbazie, piccoli musei, centri di mestiere, mantengono al loro interno caratteristiche uniche , è il tema che deve trovare applicazione per restituire il senso comodo di sentirsi a casa..

Il rilancio dei centri, spesso di ridotte o ridottissime dimensioni, specie delle aree interne o collinari, deve essere lo spirito con cui si vuole restituire il ruoli di baricentro che unisce i sistemi citati, per questo occorre che siano recuperati per offrire il servizio indispensabile, che unisce società moderna con tutte le innovazioni possibili, il nuovo, e l’ambiente naturale con la storia in esso contenuto; l’antico; l’ identità.

Il tema di accoglienza, in senso di casa, non deve essere inteso come un luogo asettico, un appartamento, un palazzo, un albergo, una residenza puramente formale in senso di luogo protetto, ma deve essere capace di offrire il senso familiare smarrito, lo stesso che tutti cercano quando si recano senza sapere come, dove e quando.

Residenze che in apparenza si presentano con forme semplici e irrazionali o addirittura minimali; sono il centro del luogo dei cinque sensi, racchiudono in quei minimali spazi tasselli irripetibili della grande famiglia mediterranea, la stessa che riverbera quei valori antichi di chi ti sta a fianco e vive con te l’ambiente circostante dove suoni, odori, sapori, tatto e visioni, ti proiettano nella dimensione della Gjitonia, quel fenomeno di aggregazione sociale che rende i “centri antichi minori” il palcoscenico naturale dove sentire e vedere la nostra origine.

In questa prospettiva l’istituzione della legge 6 ottobre 2017, n. 158, recante «Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, e disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni», mira a rendere possibile questo miracolo anche se i presupposti non lasciano nen sperare giacchè definita legge “salva borghi” (??????).

Ciò nonostante i finanziamenti sono diretti alla tutela dell’ambiente,i beni culturali, la mitigazione del rischio idrogeologico, la difesa e la riqualificazione urbana dei “centri antichi detti minori”.

In oltre la legge si prodiga per la messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e gli istituti scolastici, nonché promuovere lo sviluppo economico e sociale con particolare attenzione verso modelli produttivi ritenuti a torto vetusti e non al passo con la produzione globale.

Tra le iniziative finanziabili con il Fondo come predisposto dalla legge “n. 158/2017” rientrano gli interventi di conservazione, recupero, riqualificazione e restauro al fini di riuso del patrimonio edilizio pubblico e privato.

In oltre è il caso di ”ribadire” che un centro antico minore nasce come luogo intermedio, tra la cabina di regia (Borgo)e il palcoscenico produttivo(Risorsa), per questo, i piccoli centri senza barriere materiali, rappresentavano l’ago della bilancia per sostenere uomini e ambiente naturale.

Tra i centri detti minori, particolare attenzione andrebbe rivolta, verso i centri rivitalizzati dalla fine del XIII secolo, della minoranza storica denominata arbëreshë.

Una delle più antiche popolazioni prospicienti il mar Adriatico e lo Jonio, il cuore pulsante del mediterraneo, gli antichi abitanti dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, ancora presenti sul territorio, scandendo lo scorrere del tempo senza alcuna forma scritta condivisa.

Si trasferirono nelle terre del meridione italiano per necessità, indispensabile per la difesa e tutela del loro idioma, le consuetudini di dialogo con l’ambiente naturale, sostenuti idealmente dalla metrica del canto e la religione, greca bizantina.

I paesi di origine Kalbanon , Arbanon, Arbëri o Arbëreshë, nascono nei pressi di un presidio religioso e quando iniziano a tracciare le linee de i quattro rioni tipici rispettivamente: Kishia, Bregù, Katundi e Sheshi, è il segno della fine della parentasi di nomadismo è si avvia l’era della caratterizzazione del “Luogo” ovvero “Gjitonia”.

La precisazione, vuole esse un incentivo a non confondere i tre modelli abitativi tipici del meridione, compreso il loro modo di misurarsi e confrontarsi con il territorio e la natura circostante, per questo la’atteggiamento di avvicinamento alla comprensione del costruito deve avere consapevolezza del dato che il tempo non sia mai trascorso.

Tenere ben chiaro che i luoghi Amministrativi nel chiuso delle loro insule artificiali sono una cosa, gli ambiti di produzione sono altro e al centro i piccoli agglomerati che attingono le risorse dalla terra producendo economia.

Sistemi urbani diffusi realizzati nei pressi di luoghi di culto, aggregati di confronto e sostegno sociale, dove la vita scorreva in armonia con l’ambiente naturale.

Questo è quello che deve essere riattivato, piccole attività locali indispensabili a ricollocare il “trittico alimentare mediterraneo”, accompagnato da consuetudini a misura d’uomo, la vita scorre lenta e senza frenesie, luoghi di aggregazione in cui la conferma sono le similitudini familiari, le stesse che non hanno uno spazio identificabile ne un tempo per terminare.

È solo ricordo immateriale uno spazio indefinito, senza barriere o ideali, giacché condivisione, accoglienza, libertà di chiedere come stai e dove vai senza sospetti.

Fatta salva la piena autonomia di ogni centro minore, vanno valorizzate le dinamiche sociali tipici dell’economia agricola, quella che garantiva i profitti dopo l’attesa e lo svolgimento delle stagioni, le stese nelle quale gli abitanti dei piccolo centri minori si misuravano con gli eventi naturali e con il tempo.

L’ospite è sacro e una volta riconosciuto l suo bisogno di famiglia, di integrazione e partecipazione a quel determinato ambito, ne entra a fare parte, diventa elemento essenziale, apprende le tecniche di un tempo con il compito di preservarle e diffonderle alle nuove generazioni.

La vacanza nei paesi arbëreshë è una sensazione unica in quanto non si è ne turisti e ne ospiti, ma si diventa parte integrante del centro e delle attività ad esso connesse sia dal punto di vista sociale ama anche sotto l’aspetto produttivo, partecipando attivamente per essere coinvolti in un ambito familiare e di altri tempi.

Un modello dove la colazione, il pranzo, la merenda e la cena si programmano e si realizzano durante il corso della giornata, cosi come tutte le attività e le consuetudini delle stagioni in cui ci si dovesse trovare a vivere, diventa un motivo per tornare e vivere nuovi e indimenticabili momenti di condivisione.

Distanza sociale all’interno delle proprie abitazioni e vicinanza d’intenti e sensazioni che solo un paese arbëreshë può offrire, dopo che i programmi attuativi della legge“n. 158/2017” ha avuto svolgimento con le dovute misure in linea con le antiche consuetudini che hanno fatto grande i centri minori, grazie al cuore grande, che li hanno sempre distinti:

Chiesa, Promontorio, Edificato, Espansione: Kishia Bregù, Katundë, Shëshi.

Comments (0)

SHEN THANASI (due maggio 2020)

SHEN THANASI (due maggio 2020)

Posted on 01 maggio 2020 by admin

SanAtanasioNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi)Santa Sofia d’Epiro anche quest’anno è in fermento per la festa che rappresenta l’apice di coesione e credenza della comunità, nonostante le disposizioni per il Covid-19, la credenza e il valore della giornata resterà immutato.

Il ricordo  quest’anno ci condurrà idealmente lungo il percorso della storica processione, fuori i confini del centro storico e le nostre menti rievocheranno lodi del Santo scritte nei versetti dietro l’immagine  che ogni Sofiota porta dalla parte del cuore.

Nessuna disposizione ministeriale impedirà di cantare in casa; come anche qui nel privato dei personali perimetri, sfornare i famosissimi taralli, pur se nessun scenderà a offrirli agli instancabili portatori del Santo, tuttavia  immagineremo e ricorderemo la fragranza e il sapore, che ci accompagna dalla nostra nascita.

Le strade saranno comunque ordinate più degli altri anni, perché disertate per le norme e le relative disposizioni locali; ciò nonostante, resta un dato fondamentale, le consuetudini storiche all’interno delle case non seguiranno le immutate consuetudini.

In questo Maggio del duemilaventi una novità caratterizza lo svolgersi dell’evento, nessuno in chiesa, ma tutti uniti con uguali privilegi  parteciperemo alla funzione attraverso i canali multimediali, attivati, dal comitato sempre attivo e presente.

Il territorio Sofiota  in questa particolare giornata sarà illuminato; una luce divina a cui non si faceva più caso e oggi torna più pregnante che mai: la luce delle tre virtù, Teolodali: la Fede la Speranza e la Carità,  più sentite in un raggio multicolore di vicinanza.

I Suoni, gli Odori, le Prospettive, i Sapori e gli Abbracci dei nostri cari saranno e continueranno a essere identici agli altri anni, comunque anche se non fisicamente presenti, nella processione,  i cinque sensi, forti più che mai, ci uniranno attraverso una processione condivisa, unica e irripetibile.

I Sofioti di ogni dove, in questo 2 di Maggio 2020, avranno modo di condividere lo storico appuntamento, con “il cuore o con la mente”, senza distinzione ne di luogo e ne di genere, per una volta nella storia saranno tutti uguali davanti alla statua di Sant’Atanasio il Grande.

 

W W W  Shen Thanasi  i Madë

 

Domani alle ore 11,00 come gli altri anni, tutti assieme dalle nostre case eleviamo in coro:

 

Dita jote gaz na siell,

Shën Thanàs ç’ë rri ndër qiell

parkales Krishtin për ne

si Avukati in çë’je.

Ti nderove Allesandrìn,

Ti sallvove Orthodoksin,

Qisha Të bën Kullon të par

Tij t’mban e t’venerar.

Ari i lik na kish nganuer

mos e kishe Ti kultuer,

se tek Inzot fra At e Bir

një Sustanxje esistir.

Èmri it u shprjsh mbi dhe,

me at bes çë atjè dhé;

Ari pjasi, ma kush shkoj,

kush si ti guaje duroj?

Edhe Shpirti Shënjt, Zoti in,

çë per Qishen bes, dotrin

pat ka penda Jote drit,

me atë Kristjanezmi u rrit.

Eresit per Tij si bar,

e çë si gjëmbi aren fukar,

me shkrime si thik i preve,

shiu i Shëjtëris Ti qeve.

E vërteta Të pëlqèu

më se t’mirat çë je dheu.

E pra Ti vure at gjuhë si shpat

E Mberatur luftove shtat,

Nëng ë vërtut çë ti së paté,

nd’ata gjellen sempre mate,

andaj tek Ti si ndë ndë speq

Naxjanxeni shih dreq.

Se të seguirmi besen tënde

ndëjna doren tek Ti gjënde,

e ashtu tek ëmri Tënd nga mot

doxa i jami na Tin Zot.

 

A SANT’ATANASIO

IL Tuo giorno ci porta gioia

Sant’ Atanasio che nei cieli stai,

prega Cristo per noi

perché nostro difensore Tu sei.

Tu Alessandria hai onorato,

Tu l’Ortodossia hai salvato,

la Chiesa prima colonna Ti pone

onorandoTi e venerandoTi

Ario l’empion ci aveva ingannato

se Tu non gli avessi ricordato

che in Dio, tra Padre e Figlio

una sola sostanza esiste.

Il Tuo nome si è diffuso nel mondo

con quella fede che lì hai dato (a Nicea);

Ario crepò, ma chi patì

e chi come Te soffrì?

Anche lo Spirito Santo, nostro Signore,

che per la Chiesa è fedele e dottrina,

dalle Tue opere luce ha avuto

e il Cristianesimo è cresciuto.

Le eresie per Te come erba furano

e come il nostro rovo soffoca le messi,

con i Tuoi scritti come lama le hai recise,

quindi pioggia di Santità Tu fosti.

E la Verità amasti

più dei beni che il mondo offre

e dopo la lingua come spada usasti

e contro sette Imperatori lottasti.

Non vi è virtù che non hai avuto

e ad esse la Tua vita hai ispirato,

perciò in Te come in uno specchio

il Nazianzeno vedeva la retta via.

Per seguire la Tua fede

porgici la mano ovunque Tu sia,

così nel Tuo nome ogni anno

rendiamo gloria a Dio.

Comments (0)

CENTRI ANTICHI MINORI IL LUOGO DEI CINQUE SENSI

CENTRI ANTICHI MINORI IL LUOGO DEI CINQUE SENSI

Posted on 01 maggio 2020 by admin

Gradi

NAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – La straordinaria varietà di sistemi urbani presenti nel territorio italiano, ci obbliga a tentare una definizione storica, che restituisca senso ogni qual volta, si riferisce o si annotano i “centri antichi minori”.

Quando si parla di “Borgo medioevale” o di Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio rinascimentali, bisogna essere molto precisi su quale di questi sistemi aggregativi si vuole riferire, senza fare uso comunemente ed esclusivamente dell’appellativo “ Borgo”.

I riferiti di storia non devono essere intesi come elemento per sollecitare l’immaginario collettivo, fermando il tempo all’epoca delle murazioni con merlature, fossati, ponti levatoi, a difesa del castello, giacché rappresentano “comuni narrazioni diffuse”.

I borghi dalla fine del XIV secolo non avevano più ragione di essere, in quanto, iniziarono a essere edificati i modelli aperti o diffusi, come ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggi “, identificati storicamente, in senso di luogo, tempo, ruolo, adempimenti sociali più inclini a produrre economia che guerre .

Per questo è opportuno rilevare, quali hanno le caratteristiche per risvegliare “i cinque sensi”, dove gli uomini si confrontarono e trovarono l’equilibrio per vivere in armonia con l’ambiente naturale, i propri simili, a contatto con il territorio circostante.

Riguardo al termine “centro antico” va rilevato che esso individua i fuochi, attorno ai quali hanno avuto origine e poi si sono ampliati i sistemi urbani aperti, secondo le linee guida dei “Rioni” suburbani.

Il “centro antico”, non va confuso con il “centro storico” che vuole indicare l’intero sistema edilizio, compreso quello moderno, in quanto, il termine intende, ogni ambito dove gli uomini si sono confrontati per progredire nel corso e i tempi della storia.

Così anche il termine “minore”, non deve costituire aprioristicamente un parametro qualitativo, riferito a centri, secondari o di rilievo insufficiente.

Essi si presentano notoriamente, come “Sistemi Urbani Diffusi” apparentemente disposti disordinatamente, lungo gli anfratti più reconditi delle nostre regioni, ciò nonostante non sono da considerare generici è privi di significato, in quanto, rappresentano la sintesi storica delle città moderne o delle grandi metropoli, il cui prodotto primitivo è stato sovrastato da pratiche successive, tendenti a cancellare la memoria, per un’edificazione priva di aspettative naturali.

Per questo, i centri antichi minori non devono essere intesi come, minori nella definizione generale, minori nella trattazione della storia, minori nell’edificato, minori nelle architetture, minori in senso urbanistico, minori nell’economia o addirittura memore di senso inferiore.

Essi sono così appellati perché rispettano l’ambiente e il paesaggi naturale,  non lo sovrastano o segnano con episodi costruiti variegati le linee generali di inviluppo naturale, mirano semplicemente a rispettare le tracciate dettate dalla natura.

Sono  minori perché gli uomini che li elevarono, con saggezza e ponderazione, affiancarono la natura, percorrendo la stessa rotta  nel corso dei secoli  rispettando un patto  di cooperazione e tutela, antico .

Ambiti costruiti che non contengono, né  Colossi, ne Cattedrali o Ponti proiettati verso l’alto, giacché, i componimenti di mitigazione per consentire la vita degli uomini sono composti secondo il principio di convivenza, tra natura e uomo.

Sono questi gli ingredienti che consentono la vita nel magico luogo dei cinque sensi, in specie quello mediterraneo, il più genuino e sempre un passo avanti rispetto ad altri ambiti.

I centri, per questo, vanno considerati espressione indelebile di qualità e sperimentazione dell’uomo, in quanto, la “freccia temporale” ha depositato nello spazio costruito e naturale, l’esperienza maturata in diverse epoche, in senso di patimento, di genialità locale, di confronto e credenze.

Nei sistemi urbani diffusi di tipo rinascimentale, ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio ” contengono gli elevati civili e religiosi, la cui consistenza generalmente è caratterizzata dalle pietre offerte dalla natura una ad una, per poi essere utilizzate negli elevati costruiti.

Le stesse malte che sigillano l’unione degli innumerevoli tasselli calcarei, sono espressione cromatica giacché: sabbie di torrente, argille, calce, acqua e le travature per gli orizzontamenti e le lamie inclinate sono locali rendono il costruito una parte fondamentale dell’ambiente che nel suo quadro generale non presenta punti o note stonate.

Per questo i Centri antichi minori rappresentano l’espressione della più intima ritualità, credenza e pensiero; evoluzione delle esigenze, il segno minore della necessità sociale ed economica per l’uomo, che si adopera con il ritmo dell’ingegno locale, in tutto, l’espressione genuina del Genius Loci.

I centri antichi detti “minori”, purtroppo oggi si sono trasformati in vere e proprie “purpignere” (vurvinë), dove il fatuo ha attecchito e le “carte del restauro” sono volate via con il vento; lo stesso che un tempo accarezzava questi elevati per ripulirli e sostenerli come “luogo dei cinque sensi” .

Oggi di sovente, anzi molto spesso, i centri antichi minori, sono diventati oggetto di numerosi interventi, oserei dire pericolosi, perché prevale la tutela esclusiva dell’aspetto funzionale e cromatico, senza alcuna attenzione rivolta verso le “carte del restauro”  e del consolidamento strutturale.

In altre parole si attuano atteggiamenti generali senza predisporre indagini storiche, materiche e di verifica strutturale di tutto l’isolato, quest’ultimo in specie fondamentali per queste perle di architettura, in caso di eventi naturali o indotti.

I temi citati sono alla base delle carte del restauro storico, le uniche che possono garantire la validità dell’animo, la mente e l’arte, degli esecutori; se poi ci volessimo soffermare sulle caratteristiche dei mandanti, è meglio stendere un velo pietoso e non pensare ai ricorsi della storia.

Soffermarsi a riflettere sulle azioni progettuali rivolte al patrimonio dei ‘centri storici minori’ significa, porsi almeno la domanda: cosa si voleva inventare, in più, rispetto a quanto già predisposto nelle “carte del restauro”?

Alla fin dei conti non serviva una particolare capacità intellettuale, bastava solo leggere e predisporre il progetto di restauro, consolidamento e riqualificazione, come fanno gli architetti che si occupano di questi capitoli .

Il condizionale è d’obbligo, perché, numerosi centri minori subiscono forme di degrado causato, dall’abbandono, ma ben più grave è l’incuneandosi senza rispetto, di adempimenti senza rispetto che approfittando si tratti di minore “minore” e quindi privo di forza per difendersi, compiono gesti inconsulti. 

Il risultato di tali atteggiamenti, fa perdere la purezza del “minore” che attraverso la mano della burocrazia “infligge gli accadimenti”, senza che un lamento di dolore possa essere liberato da quelle intimità della storia.

Tutto ciò appare nelle vesti che i portano i segni e i colori della perdita di quel valore irripetibile, difesa da un lamento soffocato.

Ancora troppo spesso s’interviene nei nuclei storici minori, come se questi fossero svincolati dal proprio ambiente e dal proprio valore materiale ed immateriale; pur e ben chiaro, che in realtà, il luogo è necessariamente coniugato con identità e relazione, sin da quando ha inizio la minima stabilità sostenibile.

Solo quanti hanno vissuto gli ambiti minori, prima che questi fossero contaminati, riescono a riconoscerli e intercettarne i riferimenti che accomunano elevati, ambiente naturale, uomini in armonia con lo scorrere del tempo.

Comprendere la differenza sostanziale che esiste tra il “Borgo” inteso come “luogo”del comando, fortezza da cui si dipartivano le disposizioni sociali economiche, e restrizioni legali, difesi e protetti dalla solidità delle mura, per questo ben distanti dai sudori delle attività agresti di ” Casali, Frazioni, Katundë, Terra, Vico e Villaggio “, è già un buon inizio specie se si mira a fare “un discorso nuovo”.

Notoriamente, le genti che vivevano, con non pochi patimenti, il luogo del lavoro predisponendo strategie di mitigazione e bonifica dei territori, lavorando la terra, per renderla produttiva e salubre.

I frutti, o per meglio dire il ricavato del duro lavoro, si otteneva partendo la mattina e rientrando la sera nei “Rioni” per ottenere poco meno di quanto serviva per il sostentamento, mentre la quasi totalità delle risorse finiva nelle disponibilità dei “borgatari” tramutandosi in ricchezza.

All’imposizione di realizzare murazioni più di controllo che per la difesa, attorno alla metà del XI secolo, venne preferito costruire; prima capanne in materiali deperibili (Kalive), scaturito da un nomadismo locale per imposizioni di gabelle,  segui una definizione di ruoli che si tramuto in luoghi stanziali e quindi ebbero inizio le costruzioni riconoscibili nel modulo edilizio minimo, in muratura, i noti Katoj.

In epoca successiva, iniziarono le aggregazioni del modulo abitativo, per i modelli sociali ed economici in evoluzione e, gli stessi moduli furono ampliati nel tempo e costruite con materiali locali e con tecniche più sicure.

Quando l’insieme aggregativo non consentì più di utilizzare territorio storicamente circoscritto, i moduli abitativi, iniziarono a svilupparsi verticalmente, e per il frazionamento della discendenza si aggiunge il profferlo, aggregando volumi di parentela o di nuova acquisizione.

Una sequenza costruttiva secondo un edificato storico ben delineato, attuato in tutto i centri storici minori, che si dispongono in senso “articolato” rispettando sempre l’orografia del lotto.

Lo stesso avviene in epoca più tarda, quando dal XVIII secolo, il modulo base è aggregato in forma lineare, ripercorrendo la metrica identica nel lungo termine.

Una sequenza costruttiva diversa da come capita oggi, per un qualsiasi manufatto edilizio abitativo, che si progetta e si realizza nel tempo di un anno solare o poco meno, diversamente da come si sono sviluppati i manufatti dei centri antichi minori, in cui all’elevato di base erano aggiunti elementi costruiti secondo le esigenze delle epoche, terminando la fabbrica nel corso di poco più di quattro secoli.

Ogni azione progettuale che si aggiungeva ripristinava l’originario senso nel rispetto dell’esigenza del gruppo familiare, così com’è giunto sino a noi.

La lettura delle esigenze delle varie epoche, racconta la storia di quel territorio e dei centri antichi, motivo per il quale devono assolutamente essere indagati rispettando l’intimità costruttiva del rapporto identità/qualità.

E soprattutto nel tessuto ricadente all’interno del centro antico “minore”, che la scena urbana mette in risalto esigenze di contestualizzazione e costringe ad atteggiamenti capaci di innescare un vero processo di riqualificazione nelle soluzioni operative, nelle procedure di gestione e in quelle di controllo.

Non riconoscere e, di conseguenza, non rilevare quali siano i valori storici, estetici e materici del patrimonio architettonico dei piccoli centri, significa seguire variabili sociali, culturali ed economiche senza porsi il problema di progettare per la continuità storica del manufatto e del paesaggio.

Il fine progettuale deve seguire la linea: ieri, oggi e domani, secondo un’impronta sempre riconoscibile delle tappe sociali ed economiche, in tutto della conquista del benessere diffuso e deve diventare sfida, per la qualità del tessuto urbano, secondo le caratteristiche ritrovate.

Solo in questo modo la scena urbana può essere riconosciuta nell’identità tipica del luogo; non come singolo monumento che prevale e si distingue dal resto del paesaggio urbano.

Riconoscere i centri storici minori come modello di qualità è la finalità da perseguire, solo con temi finalizzati e concernenti la valorizzazione dell’insieme luogo, può tutelare il nostro patrimonio culturale.

Recuperare le risorse e le energie per tutelare e salvaguardare un immenso patrimonio storico dei piccoli centri, i quali altrimenti rischiano di scomparire per incuria o di essere ‘banalizzati’ o spogliati di significato, a seguito d’interventi, detti di ‘recupero’.

Ciò alla luce di adempimenti ormai abbastanza diffusa dove prevale la consapevolezza che la tutela di questo patrimonio diffuso sia un campo di semina per i figli dei re dell’architettura, gli stessi che per essere credibili si presenta non con il cane al guinzaglio ma “alberi” immaginando quello che la natura non ha mai osato proporre all’uomo.

È  altresì evidente che intervenire in ambiti cosi estesi con la metrica del restauro, richiede doverosamente di circoscrivere e identificare zone omogenee, intercettando le tipologie edilizie, i materiali utilizzati negli elevati murari, degli orizzontamenti e nelle coperture.

Un ‘indagine condotta ed eseguita con dovizia di particolari (senza essere distratti dalle irrequietezze degli alberi al guinzaglio) secondo ‘le regole dell’arte locale’, in altre parole creare una “logica del luogo” per interventi ‘strategici’ che puntano a rimuovere i fattori che hanno generato il degrado, recuperando o rinvigorendo un rapporto di ‘necessario’ tra manufatto, contesto circostante, paesaggio e uomo.

Per tanto è indispensabile che l’emergenza architettonica dei “centri antichi minori” diventi espressione di un processo più ampio di tutela e riqualificazione, esteso al paesaggio e come cerchi concentrici che partono dal tessuto urbano armonizzano il paesaggio circostante .

Recuperare il rapporto necessario al paesaggio, che corre tra edilizia storica minore, tessuto urbano e visione connettiva del paesaggio, fa la differenza nel progetto di valorizzare il patrimonio che ha iniziato pesante mente a sgretolarsi.

Leggere con attenzione la morfologia dei luoghi, analizzare con diversi livelli di lettura contesti apparentemente marginali, richiedono particolare attenzione e conoscenza del carattere storico-architettonico locale, le operazioni conoscitive non si devono trasformino in passive e acritiche catalogazioni di situazioni edilizie.

Oggi osserviamo nascere le ”città nuove” (News Town) quale esperimento abitativo di eventi naturali o indotti, partoriti deformi di sintesi e freddi presupposti urbanistico/catastali o tecnicismi storici senza alcuna formazione culturale che per questo sono incapaci di offrire l’equivalente prodotto, con le radici  localmente evoluta nel luogo naturale, imbibita nelle particolari acque.

Diversamente dalla storia dei centri antichi minori, che senza fretta, quindi molto lentamente, procedono accumunando magicamente gli elevati, le strade, gli spazi, definendo gli itinerari che s’incrociano e si mescolano, in un insieme di scambio di parole condivise; la solitudine si dimentica perché “i cinque sensi” ti riportano a casa e ciò che vedi e ciò che avverti, è il tuo luogo di appartenenza, lo scenario di luce, dove ha avuto inizio la tua storica identità.

Questo è il segno che il progettista, (senza natura al guinzaglio) ha fatto un buon lavoro; il luogo dei “centri antichi minori” ha ripreso a battere il suo tempo, in senso di odori, sapori, prospettive e suoni; la vita continua, è tempo di sedersi, davanti casa, non c’è fretta, a breve passerà chi ti riconosce e avrai modo di conversare: “in arbëreshë”.

Comments (0)

I CENTRI MINORI, LA RADICE DA INNESTARE PER LE CITTÀ APERTE O METROPOLITANE

I CENTRI MINORI, LA RADICE DA INNESTARE PER LE CITTÀ APERTE O METROPOLITANE

Posted on 27 aprile 2020 by admin

Centri minoriNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – Oggi si discute sui processi che hanno condotto la nostra società a frammentarsi, rendendo gli ambiti costruiti e il vissuto non più sostenibili; alla luce di ciò, si vuole proporre un adempimento per una soluzione urbana sia organizzativa e sia sociale, prescindendo dai risultati della ricerca in campo scientifico riguardo il Covid-19.

Questa breve trattazione vuole esporre il risultato di un progetto a lungo approfondito, per questo si ritiene possa rispondere, rinvigorendo i percorsi urbanistici, architettonici, sociali ed economici, indispensabili a ricollocare il sistema produttivo e residenziale nei centri minori collinari del meridione.

Un progetto possibile, nel medio termine, che impegna i temi del modello, che nei secoli hanno reso possibile all’uomo la continuità del genere umano, oggi tornati indispensabili, vista le emergenze, specie nei grandi centri urbani, città capoluogo e metropoli in specie.

Prima di addentrarci nel nocciolo di questo discorso, è opportuno precisare che tratteremo di Casali, piccoli centri urbani collinari, di una specifica e ben identificata fascia mediterranea, in maniera più dettagliata, i cento paesi del meridione della regione storica diffusa arbëreshë; denominati “Katundë” unitamente al relativo modello sociale/economico, noto come il “luogo indefinito dei cinque sensi”: Gjitonia.

Questi centri riedificati e ripopolati dal XV sec. offrono l’idonea sostenibilità sociale ed economica, che a suo tempo venne penalizzata dal modello “Borgo medioevale”, cosi come oggi, non hanno capacita di affrontare l’emergenza, i nuclei metropolitani, sovraccaricati da abitanti e le relative attività lavorative.

Il borgo notoriamente è catalogato tra i modelli urbanistici chiusi e riconosciuti anche come sistemi urbani monocentrici, identificati nel frenetismo delle frammentate attività, diversamente dai “Katundë diffusi” o policentrici, come gli impianti simili denominati Casale, Frazione,  Paese e Pieve, in quanto, sistemi aperti mediterranei.

Insediamenti che nascevano nelle aree agricole fuori dalle murazioni dei borghi, questi, così organizzati miravano, con l’isolamento murario a detenere il potere politico economico e giuridico dei territori circostanti oltre a essere sede mercatale; l’esatto contrario dei “casali rinascimentali”, innalzati secondo principi policentrici, più a misura dei gruppi familiari che vi trovavano dimora perché meglio articolati per le attività economiche.

Sono questi, nel corso della storia, che con semplici consuetudinari debellarono malaria, peste e ogni genere di emergenza/calamita, perche, in simbiosi con l’ambiente naturale.

Il borgo e le sue murazioni se da un lato erano in grado di difendere quanti entro di esse si asserragliavano dagli uomini, quando il nemico diventava invisibile come le emergenze sanitarie, si trasformavano in vere e proprie prigioni da cui era difficile fuggire; cosi come oggi le città e le metropoli, sono una garanzia di vita comoda, ma quando il nemico diventa invisibile si trasformano come trappole da cui è difficile poter provvedere e trovare soluzioni.

Il modello di epoca rinascimentale può essere un esempio da ripresentare con le dovute applicazioni tecnologiche, per le emergenze; emigrare e vivere a debita distanza dai Borghi (Città e Metropoli) e le loro pertinenze mercatali, arterie stradali principali, consentono di porre in essere misure adeguate per allontanare gli uomini dai pericoli invisibili.

Una diversa distribuzione di spazi privati e pubblici, sommati alle attività e direttive sociali consuetudinarie, potrebbe dare origine a quella lenta trasformazione che si discosta dal secolo buio del Medioevo con le “città chiuse”, dando luogo all’insieme policentrico dei “rioni aperti” del Rinascimento.

I Katundë arbëreshë (Casali Paesi e Pievi) oggi sono il modello economico e sociale da riproporre, in quanto dilata le griglie sociali con parsimonia e nello stesso tempo rende ogni addetto, nodo fondamentale e indispensabile, in tutto, una società in cui la capacità individuale diventa l’elemento di una catena trainante e infinita.

Gruppi familiari allargati in cui la verifica, continua, non lasciano spazio al caso, in quanto, nessuno degli elementi può sottrarre dal portare a termine il suo ruolo, penalizza tutto l’insieme allargato, il gruppo, la fabbrica e l’economia.

Il modello gjitonia rappresenta una società, una piccola azienda a conduzione familiare allargato, ogni componente vive e produce in base alle sue capacità porta il suo contributo per la produttività finale del  gruppo di cui fa parte e trae benefici.

Il sociale è organizzato all’interno di uno spazio indefinito, filiera dove nessuno è trasversale agli altri, lo spazio comune di vicinanza, confronto è il “luogo” (Ka) shëshi, (largo) nei sistemi aggregativi articolati e diventa strada/ilvico (Huda/rrruga) in quelli lineari.

Ogni famiglia urbana ha il suo spazio fisico ben definito, delimitato e senza barriere; nessuno oltrepassa o viola i limiti consuetudinari di questi ambiti, noti come: pertinenza dell’ingresso, il profferlo o la relativa scala, (për para deresë, baliaturì, thëghëruitura e shëpishë) .

Per questo diventano luogo di relazione con il resto degli abitanti; solo la strada appartiene a tutti, qui bisogna restare per conversare, salutare o rendere rispetto agli anziani, salvo l’invito formale di avvicinarsi o entrare.

I Rioni conservano indelebili le caratteristiche abitative dei razionali ed efficienti moduli abitativi, e ognuno di essi associato indelebile all’indispensabile “orto stagionale” o per meglio dire “orto botanico”, fondamentale elemento da cui ha origine il principio alimentare del km/0.

Un microsistema sostenibile e green, che non produce rifiuto, giacché, le diversità ortofrutticole si raccolgono con ceste in vimini senza alcun tipo di altro contenitore ne cartaceo ne plastico, ogni cosa viene consumata e i resti riciclata e diventano concime in apposite fosse del citato orto.

Il modello se opportunamente tradotto, potrebbe essere fondamentale nei sistemi produttivi, attraverso la frammentazione dell’indotto industriale, tanti piccoli sezioni produttive contigue, che si mettono insieme in seguito nella grande industria globale.

Quest’ultima non più intesa come grande concentrazione metropolitana, ma come espressione produttiva diffusa tipica dei “Katundë arbëreshë”; che si è visto terminare la sua essenza di confronto tra uomo e natura.

Dare risalto alla cultura contadina, rivalutandola, in quanto fondamentale per il vivere quotidiano, come avvenne nei processi d’inurbamento, oggi non più sostenibili perche elevati sulla base  di controllo delle dinamiche  all’interno delle nuove mura; quelle del pensiero.

Oggi ritroviamo la stessa politica nei centri antichi sia delle città metropolitane e sia dei piccoli centri, ormai svuotati di significato e coesione sociale, scompaiono perche preferiti ai grandi contenitori commerciali, i dormitori senza futuro o centri direzionali.

Occorre ricongiungere famiglia,, luogo, vicinato, attività nei centri antichi non promuovendo alchimie turistiche, centri direzionali in luogo economico, quartieri per dormire, piazze e botteghe come centri commerciali, scuole in cittadelle de localizzate, un’insieme differenziato.

Servono modelli che contengono economia, cultura e confronto sociale, invece di concentrare frammenti dell’insieme città aperta distanziando gli elementi fondanti, bisogna attingere dal passato, dei centri antichi, ricollocando il modello sociale mediterraneo.

Parliamo del vicino di casa, quando non era anonimo, estraneo, turista sfuggente, ma figura fondamentale ed extra familiare, integrato, residente, e parte attiva per il futuro sostenibile del “Luogo” quello capace di avvertire i cinque sensi, per sentirsi nel contempo indispensabile fulcro, unità di misura.

Rivitalizzare “i centri antichi rinascimentali” valorizzarli, caratterizzarli nel senso identitario, è la via per avviare il processo mediterraneo, lo stesso che rese famose le terre a esso prospicienti; mete ambite nel corso della storia, non per essere conquistate e distrutte, ma preferite per essere vissute.

Il segreto è racchiuso nel concetto di Gjitonia, l’unica a garantire adeguate risposte a eventuali emergenze, ma più di ogni altra cosa, fornire opportunità di vita meno caotica, quella in misura ideale per gli uomini.

 

Comments (0)

DICONO CHE NON È RIMASTO PIÙ NULLA (thonë se nenghë kindroi fare gjhë)

DICONO CHE NON È RIMASTO PIÙ NULLA (thonë se nenghë kindroi fare gjhë)

Posted on 24 aprile 2020 by admin

Vincenzo_TorelliNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Gli ambiti storici della regione diffusa arbëreshë dai tempi in cui si consolidarono  e riconosciuti dalle autorità civili clericali locali, furono sottoposti a ogni sorta di angheria, che li uniformasse nel bene o nel male agli indigeni locali secondo i relativi latinismi di credenza.

Prima il confronto con i locali, poi le lotte con i preti latini, sommati all’inutile necessità di dare una forma scritta, nel corso dei secoli hanno perennemente minato l’esistenza della storica minoranza.

Le altalenanti vicende che vedono minare nell’ordine religione, consuetudine, metrica canora e idioma, non hanno mai terminato e imperterrite, per imposizione altrui e di sovente per l’inesperienza arbëreshë hanno reso vulnerabile le diplomatiche più intime, di questo gioiello sociale mediterraneo.

Gli eventi che vedono gli arbëreshë tra il XIII e il XVIII secolo sono riferibili a una chiusura sociale che se da un lato penalizza la credenza religiosa, dall’altro rafforza gli altri elementi impenetrabile e senza lati morbidi da poter affondare.

È nel corso del mille settecento che con l’istituzione del Collegio Corsini e il conseguente desiderio di annotare il rito bizantino con esperimenti letterari e liturgici di un idioma mai scritto, che allargano pericolose brecce dove poi avviene la costante infiltrazione sperimentale:la pericolosa deriva ancora in atto.

Il collegio di Sant’Adriano in Calabria citeriore e la Capitale partenopea diventano i poli, dove in diversa misura, si attuano gli espedienti, alcune volte a favore, ma di sovente contro la difesa dell’inestimabile patrimonio immateriale.

Esiste una massima che dice: “quanti restano dimentica chi parte ricorda”, questo in effetti è quanto è stato prodotto  relativamente alla tutela dell’intera Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

Ad iniziare dalla metà del settecento e sin tutto l’ottocento si forma una classe dirigente a Napoli di radice arbëreshë e se il Baffi semina dal 1762 un seme, la pianta germoglia e nel corso di tutto l’ottocento nasce un fronte di tutela della minoranza storica solido coeso e intelligente: Lulëzuertitë Arbëreshë.

 Il fulcro diffuso, di questa nuova era, sono le stamperie, gli uffici e la residenza di Vincenzo Torelli, che vivendo da emigrato le necessità della regione storica, lega tutti gli arbëreshë che si recano a confrontarsi e proporre progetti, di sintesi editoriale, salutandoli con la storica frase da lui così compilata: jaku i sprischiur su harrua.

E chiaro il punto di vista fuori dagli ambiti della regione storica, anche se la capitale partenopea per il suo operato, mette a confronto eccellenze, in campo letterario, poetico, musicale, della scienza esatta, lo studio del territorio e le politiche di rinnovamento oltre a tanti “inventori” di una lingua scritta e per questo continuamente corretta nella capitale partenopea.

Avendo ben chiaro, luoghi e quali uomini di alto rilievo si siano confrontati, per consolidare gli elementi caratteristici della regione storica, consente di affermare con certezza che, mai più nella storia degli arbëreshë tante discipline hanno fornito un contributo di sostenibilità cosi’ solido.

Architetti, Giuristi, Magistrati, Ingegneri, Politici, Letterati, Analisti di Musica e Canto, quindi di altissima e indubbia eccellenza, hanno, tutti in egual misura, fornito la linfa ideale con cui imbibire la radice minoritaria, in tutto il XIX secolo.

A seguito di questo florido intervallo, raffigurabile in una distesa i di grano a perdita di vista d’occhio  pronto per la mietitura; non ha avuto seguito più nulla e la tutela della minoranza storica si è ristretta a orto di primavera, riservato a insoliti parlatori, musicanti e colerici di radice alloctona, sostenuti da consuetudini dell’est; le stesse che oggi non sono in grado di superare le soglie delle case arbëreshë e tanto meno alimentare i focolai, centro nevralgico della gjitonia.

È opportuno che questi figuranti della nuova era, inebriati dai vapori estivi prodotti dall’aceto letirë, scambiato per “vino Arbëreshë”, oltremodo convinti che; nenghë kindroi fare gjhë; siano lasciati al loro destino di non credenti.

Meglio dedicarsi a condividere le eccellenze storiche con quanti di buon ingegno e capacità di lettura sanno che la regione storca arbëreshë diffusa, è un modello irripetibile, la stessa che rigenera identicamente e con sempre più vigore, alla luce del enunciato: il sangue sparso non muore mai e ogni estate rinasce fiorente.

 

Gjaku i shëprishur nëng vdes e nga ver lulëzon”

 

Sara una semplice impressione ma più il tempo passa e più emergono elementi materiali e immateriali secondo cui; solo chi nasce e coltivala il suo valore aggiunto fa cose buone e segna la storia, gli altri, si perdono nei noti affluenti “torrentizi” alla sinistra del fiume Crati, poi la corrente vorticosa come dai tempi dei romani li porta lungo la piana di Sibari a macerare, prima di diventare anonimi  frammenti  al mare.

 

 

Nella Foto, Vincenzo Torelli da Maschito (PZ)

Comments (0)

MAIUS II N SHEN THANASII PATRI

MAIUS II N SHEN THANASII PATRI

Posted on 23 aprile 2020 by admin

NATALIZIO 2 MaggioNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Anche quest’anno si è in fermento per la festa che rappresenta l’apice di coesione e di credenza di tutta la comunità Sofiota.

Il ricordo va a tutti i nostri cari che nel corso dei secoli hanno reso possibile tutto ciò e, allora come oggi nell’approssimarsi del due di maggio, si prodigavano per rendere questo momento di credenza condivisa unico e irripetibile.

La Festa sempre intensa e colma di valori, ogni anno con una caratteristica che  precisa torna alla mente e il ricordo va ad ognuno di loro che sono tanti.

Si sfornavano ceste di taralli, per ben accogliere le visite di rito e di amicizia, o scendere di casa, nel corso della processione e offrirli, numerosi, come sostegno ai fedeli in penitente  devozione.

Si ordinavano le strade, si adornavano finestre, balconi e loggiati, con essenze floreali e si stendevano raffinatissime coperte.

Ogni anno l’evento era caratterizzato o per meglio dire caratterizzato  con  novità pianificate dalla brillante, radicata e preparata Commissione , la quale atteso cil consenso univoco della popolazione, si adoperava per porla  in essere diventando l’elemento pregnante di quell’anno, quello che va in oltre sottolineato: in  esclusiva forma devozionale.

L’operosità e l’inventiva produsse gli indimenticabili moduli illuminotecnici, fatti con chiodi, ferro filato, una tavola di legno e portalampada a vista, furono questi apparati che   volto nuovo alle quinte del paese,  durante la notte grazie i piccoli contributi energetici attinte da ogni famiglia per devozione.

Come l’anno che volle dare al paese una pigmentazione mediterranea, dipingendo a calce, le quinte delle case dove sarebbe transitata la processione, comprese quelle della piazza: producendo così una nuova prospettiva cromatica.

Altri anni si preferì attivare le risorse addobbando la chiesa, con arazzi e tendaggi per dare senso al sacro volume in tono caldo e sontuoso, (la chiesa a quei tempi era priva dai preziosi dipinti della scuola cretese).

I multicolori Palloni, intelligenti opere realizzate con pochi e rudimentali apparati; carta velina, colla di farina, ferro filato, resti di candele e pezzi di sacchi in canapa.

Gli stessi che nel corso dei decenni, sono divenuti un vanto in tutta la provincia, grazie alla caparbietà di quanti hanno continuato a realizzarli con il compito di lasciare la memoria ell’operosita alle nuove generazioni.

Ricordo la funzione religiosa (mèsha llalbit), che l’instanzcabile “Zoti Kappa” la mattina del 23 aprile, primo giorno delle novene, ufficiava nella Kona.

Immancabilmente la mattina del ventitre mia madre, Adolina Kongorelit, di buon ora, iniziava la vestizione delle Stolje senza nulla lasciato al caso, come tradizione arbëreshë pretende e scendeva quando si sentiva chiamare da Marja Vukastòrtit,  e avviarsi a piedi verso la Kona, in compagnia di altre afferrate e garbate devote, è d’obbligo ricordare: Melina Ngutjt Serafina Kurthëvet, Annetta Abelith, Anmaria Pasionatit, Koncetta Miluzith, Rusaria Pixhònit, Martoresa Timbunit, Vittorina e Lilina Zingaronit, capeggiate da suor Melania e le sue consorelle.

Esse si dirigevano verso la Kona ove li attendeva l’indimenticabile Padre Capparelli assieme al fedelissimo Benito Fabbricatore (i bëri Mindìut) e al canto di Djta Jote iniziavano le lodi al santo e la funzione religiosa.

Non so se oggi questa tradizione si ripete o è stata accantonata come tante altre, ma l’entusiasmo e la convinzione che queste donne avevano sono rimaste radicate nei valori e nella credenza che i Sofioti hanno nei confronti di Sant’Atanasio.

Mi auspico che quest’anno rimangano fuori dalla chiesa gli inni e le lodi da stadio che il saggio Archimandrita Giovanni Capparelli ha sempre rifiutato e richiamato la popolazione intera a non esternare all’interno del sacro perimetro, dove esortava tutti a cantare gli inni religiosi e BASTA!

Mi rivolgo alla Commissione, affinché questa FESTA conservi gli opportuni caratteri religiosi, con l’auspicio che gli insegnamenti del saggio Padre Capparelli , oltre a quello delle devote sofiote che hanno sicuramente lasciato il senso della festa e non vadano calpestati da quanti non hanno la misura di cosa unisce il Santo alla Comunità o magari lo ignora del tutto.

Per le disposizioni clericali laiche quest’anno non daranno spazio ai consuetudinari riti fuori e dentro il perimetro dal cuore del paese, nella Kona, o durante la storica rievocazione dell’estate arbëreshë dal Ottava rispettosi delle limitazioni imposte.

Tuttavia si spera che gli adempimenti all’interno e all’esterno del perimetro religioso siano attuati, dalle persone figlie e figli del garbo e con senso della devozione, e non preferiti quanti hanno sempre vissuto ai margini, perché bravi a fare come il diavolo, tutto subito e male, a scapito della  credenza che vuole i tempi della metrica e la consuetudine.

Sant’Atanasio unisce storicamente tutti i Sofioti il due Maggio: quest’anno la processione sarà unica e irripetibile in quanto raccoglie allo stesso modo tutti noi fedeli credenti.

Tutti i Sofioti del mondo nel 2020 avranno modo di condividere quest’appuntamento in forma irripetibile, con “il cuore o con la mente”, senza distinzione ne di luogo e ne di genere, per una volta nella storia saranno tutti uguali, sin anche chi a Napoli per imposizione veshëkavile deve badare alle proprie cose.

W W W Shen Thanasi çhëshë i Madë!!!!!

Comments (0)

GLI ARBËRESHË, LA STORIA DIFESA CON LA PELURIA

GLI ARBËRESHË, LA STORIA DIFESA CON LA PELURIA

Posted on 22 aprile 2020 by admin

Diavolo_Gesu-290x300NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La minoranza storica arbëreshë nel corso della storia del mediterraneo, ha espresso il valore innato, nel predisporre modelli sociali economici, che poi sono oggi l’espressione delle città moderne o dette, metropolitane.

Le stesse che poi in seguito ampiamente dimostrate, a quanti abituati a vivere di espedienti senza radice, gli oppositori  di queste idee innovative, nonostante anche essi avranno, prima o poi,  modo di beneficiarne in senso di applicazioni sociali, politiche, economiche e della scienza esatta.

Gli arbëreshë notoriamente sono ricordati, semplicemente, per le vicende di confronto e scontro, sia in terra natia e sia negli ambiti paralleli della regione storica del meridione italiano, dal XIII secolo.

Qui in questo breve si vogliono distinguere le categorie sane dalle “litirë” le stesse che non saranno ricordati come prescelti se non per essere stati capaci di produrre danno, danno e solo danno.

Questi ultimi nelle narrazioni diffuse, appaiono descritti senza cultura, similmente agli animali che per difendersi dal freddo non usano l’intelligenza ma attendono che la natura li munisca di peluria o altro apparato naturale di equilibrio corporeo, come ad esempio, artigli e la mala lingua, per soddisfare il bisogno di alimentarsi.

La natura degli uomini, si può riassumere in una serie infinita di linee parallele, ciò tuttavia, allocare gli arbëreshë in tipologie cosi estreme, non è esatto, anche se per certi versi quando si subiscono le angherie di quanti, vestendo giacca cravatta e guanti, nascondono la peluria e gli artigli, forse un’icona parallela dove intercettarli sarebbe il caso di evidenziarla per riconoscerli.

Come per esempio l’affascinate idea di illuminismo moderno della “Regione storica diffusa arbëreshë” e il progettato polo di valorizzazione, in cui far convergere necessariamente, teoremi e direttive da sottoporre al vaglio di un gruppo multidisciplinare.

Il progetto per la tutela della minoranza arbëreshë, assieme ad altri pronti per essere innalzati, sono stati preparati, senza che nell’arco di venti anni, nessuno di essi sia andato a buon fine; “OPPOSIZIONI” di varia natura, ne hanno impedito la diffusione.

Alla luce dels clima politico, che nel corso degli anni pur se profondamente mutato, è rimasto solidamente ancorato al suffisso cultural-economico, imponendo la costruzione di un istituzione di falsi cultori, gli stessi che affrontano l’inverno con la peluria cresciuta naturalmente, per difendere se stessi e il loro ambiente naturale cavernicolo.

Se non si corre ai ripari, è normale che poi a difendere la credibilità arbëreshë, non rimane altro che rivolgersi a imperterriti cavalieri dell’architettura e dell’urbanistica, figli di quella rara consuetudine che cura e conosce gli ambiti attraversati bonificati e innalzati dagli arbëreshë.

Diversamente dai tuttologi per gli atteggiamenti acquisiti, non riescono sin anche di attraversare il Surdo e il Settimo, ormai in secca, per partecipare alla disputa, che ha luogo nella Chiana, sotto le pendici della mula, dove i litiri dall’alto dei loro tacchi a spillo, dicono di saper fare i paesi arbëreshë con le gjitonie dentro.

Sono fieri sui loro cavalli, quanti usano le proprie capacitò intellettive, predisponendo gli idonei apparati, costruiti e innalzati, nel rispetto dell’ambiente, del tempo e degli uomini, secondo disciplinari realizzati dalla intelligenza, quella storica conservata nel cuore e nella mente, senza sprecare energie per tenere in vita l’apparato digerente. 

Comments (0)

IL COVID-19 NON FERMA L’ENTUSIASMO DEI GIOVANI. UN TEAM REALIZZA MASCHERINE PER TUTTA LA POPOLAZIONE.

IL COVID-19 NON FERMA L’ENTUSIASMO DEI GIOVANI. UN TEAM REALIZZA MASCHERINE PER TUTTA LA POPOLAZIONE.

Posted on 22 aprile 2020 by admin

Barile le tante mascherine preparateBARILE (PZ) ( di Lorenzo Zolfo) – Nel centro arbereshe del Vulture, la solidarietà sta di casa.Da un’amicizia lunga nel tempo, alcuni giovani  del posto si trasformano in un Team Vultur 3D operativo, che realizzano delle mascherine, in questo periodo di Covis-19.A darne maggiori ragguagli uno di questi giovani, Daniele Montanarella: “Ci siamo rincontrati nella sede della Pro Loco gentilmente concessa per l’emergenza , dove per più di 10 ore al giorno procediamo nella realizzazione delle mascherine, le quali sono state donate gratuitamente al Comune di Barile, per i Volontari in servizio per la comunità in questo tempo di emergenza. Tutto il materiale utilizzato come il PLA,il più usato nella realizzazione di prodotti mediante l’utilizzo di macchine di prototipazione rapida che utilizzano tecniche produttive quali la FDM (FusedDepositionModeling), meglio note come stampanti 3D con l’utilizzo di Filtri specifici come quelli usati 2 filtri TNT e 1 filtro al carbone attivo il Tempo di produzione: 2 ore a mascherina. Operiamo già da più di un mese nella produzione stampa 3D con appositi strumenti. Il nostro team si chiama Vultur 3D ed oltre a me, collaborano Nicola Rosa e Michele Caccavo. Nessuno deve rimanere indietro specialmente nelle piccole comunità, dove si conoscono tutti ed in occasione di questa pandemia, tutti fanno squadra. Ringrazio l’amico Gianmarco Tirico per il supporto dato per la locazione”.Il team segnala il numero di telefono per contattarli 345 165 3655 per qualsiasi informazione massimo impegno per delle soluzioni concrete all’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19.

Comments (0)

RASHËT  THË MOTITË ARBËRESHË.  (regione storica diffusa arbëreshë)

RASHËT THË MOTITË ARBËRESHË. (regione storica diffusa arbëreshë)

Posted on 19 aprile 2020 by admin

Asino e CapraNAPOLI ( di Atanasio Pizzi Basile) – La lettura di numerosi prodotti editoriali o enunciati che a vario titolo corrono nei canali multimediali, apre scenari a dir poco paradossali per quanti hanno consapevolezza della emergenza culturale senza eguali, a cui urge porre rimedio predisponendo l’idoneo progetto di tutela.

Episodi, esperimenti, allegorie, alchimie, favole di varia natura sono diventate la regola di quanti seguono l’esempio di accendere la pipa con i dollari, perché esposti al contagio dei famigerati: “482-AFM2  ”.

Essi sono generati  dalla diffusa consuetudine, poi diventata legge, per innalzare l’insieme diffuso dell’idioma, l’applicazione delle consuetudini, le metrica canora scambiandola per balli, oltre ai valori di credenza bizantina, amalgamati con le ritualità dell’esoterismo.

Queste malevole attività hanno creato un vuoto culturale, uno scenario collinare senza regola, in cui non si ritrova più impronta per potersi orientare all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”:

Rashët  Thë Motitë Arbëreshë.

È palese come la trascuratezza culturale abbia sconvolto la solidissima e secolare Regione Storica, per non aver voluto elevare le idonee strutture che dovevano essere condotte da studiosi e non scambiate per perimetri religiosi, che con i loro messali speravano di tenere distante il diavolo personificato in  “482-AFM ”, lo stesso che dagli inizi degli anni settanta aveva iniziato a diffondersi.

Che le soluzioni di tutela dovessero nascere dalle favole della nonna, la stessa che preparava “sfascini” e “affascini” per poi svuotare la bacinella nel crocevia della gjitonia, nessuno poteva prevederlo visto il ricco patrimoni materiale depositato in quegli anfratti collinari.

Nonostante il meridione sia identificato, studiato, e valorizzato secondo protocolli di ricerca in campo, Abitativo, Ambientale, Economico, Fluviale, Linguistico, Paesaggistico, Sociale, ed Estrattivo, poi sottoposti al vaglio di  commissioni multidisciplinari, è spontaneo chiedere perche i presidi preposti al rispetto di ciò non hanno fatto nulla quando si è trattato della la regione storica e i suoi cento agglomerati urbani?

Cosa non ha funzionato per la Regione Storica Diffusa Arbëreshë, comunemente denominata Arberia, nonostante essa contenesse tutti i temi su citati, per i quali il disciplinare era già stato adottato in diversi casi del passato e nella piena emergenza del dopo guerra?

Parliamo comunque di un’insieme diffuso all’interno del bacino del mediterraneo, unico e irripetibili, alla cui ricerca solo l’impegno e il sacrificio di privati, fortemente boicottati e denigrati (cui va aggiunto il sacrificio di lacrime di  sangue e sudore) ha saputo rispondere.

Solo questi valorosi e unici ricercatori hanno seguito il protocollo di ricerca, come qui elencato:

  • Storia degli stradioti e l’impero con capitale Costantinopoli;
  • Storia dell’Epiro vecchia e dell’Epiro nuova, i Kalaber, poi Arbanon e oggi Arbëreshë;
  • L’ambiente geografico di residenza storica e di nuovo insediamento;
  • L’ambiente Naturale parallelo ritrovato;
  • Il sud, la storia, le inquietudini economiche e sociali;
  • Vita della comunità- inchiesta e approfondimenti etnologica;
  • Saggio sulla demografia e l’igiene;
  • Saggio psicologico e attitudini;
  • Saggio sull’economia i processi e l’evoluzione;
  • Saggio sulla struttura urbana, medioevo, rinascimento e illuminismo;
  • Saggio sull’assistenza sociale e religiosa;
  • Tavole cartografiche e bibliografia generale;

Alla  luce di questi indispensabili adempimenti com’è possibile che ancora oggi si preferisca inseguire meteore spente che hanno terminato la luminescenza, come l’attenta madre natura dispone.

Ciò nonostante si diffondono eventi con indicatore, la Gliugà, lu Tagliuru, la Dromsa, il Piretto, Le Vaglie, le Mendule, o addirittura si ricostruiscono paesi senza sapere di cosa si parli, riversando eventi materiali ed immateriali come se fossero qualità di vino denominati Rione della Mula, Vicinato del Catanzarese, Quartiere rosso o Borgo bianco del Pollino, in tutto, amalgama inebriante, vera e propria formula alchemica, senza radice.

Un sistema materiale ed immateriale, confezionato dalla nonna e consegnato il sacchetto, all’ignaro e stolto cliente, spiegava le istruzioni per la migliore efficacia del rito, come si fa oggi con i mobili di IKEA per montarli correttamente.

Figli Arbër non sono certo quanti cantano e ballano ritmi estranei o non conoscono il senso delle cose finendo per cantare “stella bella” innanzi a Santo Protettore (?????).

È appena terminato il giubileo senza che nessuno abbia raggiunto in ginocchio il paese dove, per l’identità storica civile e clericale, il Vescovo Bugliari venne ripetutamente accoltellare, perdonando i suoi carnefici, se terminato il mandato davano fine alla devastazione del paese.

Nessuno è stato mai illuminato dall’idea di una beatificazione; questa però non deve interessare per imposizione, noi che “viviamo a Napoli e badiamo alle nostre cose”.

Quando esposto, vuole essere un ritratto della “vostra Arberia” quella del consumismo e delle meteore, diversamente da come la intendono gli altri e per altri mi riferisco a quanti vivono nei radicati cinque sensi, tipici della famiglia allargata, quelli che sanno, parlano e preferiscono: “Rashët  Thë Motitë Arbëreshë”.

Comments (0)

DA STATO A MANZANA; RINASCE IL FUOCO DEGLI ARBËRESHË

DA STATO A MANZANA; RINASCE IL FUOCO DEGLI ARBËRESHË

Posted on 17 aprile 2020 by admin

DA STATO A MANXANAaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La Kaliva dal XIII al XVII secolo, divenne la culla in cui la famiglia allargata arbëreshë, depositò le proprie radici e diede avvio al processo di frammentazione familiare per affrontare le nuove disposizioni economico e sociale, più consone nel modello di  famiglia urbana.

Il modulo abitativo di base, rappresenta, per questo, lo scrigno in cui vennero, riversate tradizione, idioma e metrica canora, i le radici attraverso le quale e per delle quali riconoscersi, senza mai perdere la memoria del  nell’originario gruppo allargato.

L’insieme aggregativo di questi elementi monocellulari in aderenza, con annesso spazio delimitato da siepe, determina la formazione dei centri storici diffusi Arbëreshë.

L’insieme o meglio l’isola edilizia, è la naturale fonte, nella quale attingere, perennemente, cosa abbia reso possibile lo sviluppa del  “rione rurale” o gruppo di moduli abitativi accostati secondo l’orografia da rispettare e nel contempo far nascere “ il focus” identitario.

Lo spazio circoscritto e occupato, risulta essere, vero e proprio stato in miniatura, all’interno del quale il gruppo familiare allargato, detiene il pieno controllo, sono proprio questi spazi delimitati ad assumere la traccia  indelebile ancora oggi individuabili, in quanto, sono stati rispettati, dalle generazioni che seguirono nel corso dei secoli, gli originari confini ereditati.

Sono questi complessi edilizi, senza soluzione di continuità muraria, a tracciare le fondamenta su cui gli esuli trovarono ispirazione per dare volume al tracciato di siepe, aggiungendo poi, gli apparati per il disimpegno altimetrico nel corso dei secoli.

I centri antichi, con questi elementi caratteristici, definiti agglomerati urbani diffusi, furono realizzati e prevalentemente abitati da esuli Arbanon; essi  rappresentano il racconto della storia, secondo un consuetudinario che non usa alcun tipo di forma scritta e per questo, restano e sono, documenti stesi al sole, dai tempi in cui il focus, venne delimitato dalla siepe, quel segno indelebile tracciato dalla famiglia allargata arbëreshë.

Dal XIII secolo, ha inizio un percorso articolato e colmo di esperimenti edificatori, spesso finiti in tragedie, per eventi naturali e indotti, comunque ogni volta caparbiamente ricostruiti, con nuova esperienza di meccanismi più sicuri.

È dalla fine  del seicento, che diventano forme edilizie sicure e non più labi, identificati come” Manzana” in arbëreshë, comunemente denominati “isolati” dagli indigeni.

Nel caso dei paesi della fascia mediterranea studio di oggetto, non nascono come veri e propri isolati edilizi ma un insieme di spazio costruito e spazio naturale aperto, quest’ultimo inteso come pertinenza indispensabile, giacché, considerata come la farmacia di casa, l’orto botanico.

Un insieme di elevati edilizio composta da più cellule raccolte secondo un sistema articolato aperto, distribuito su di un’area, le cui caratteristiche si possono definire parallele, giacché, hanno sempre le medesime radici geologiche, direttamente legate all’esposizione solare ed eolica.

La cellula tipo è radicata al processo di colonizzazione  della  campagna  dopo  l’anno  mille  e  alle  autonomie comunali.  

L’influsso della cultura architettonica urbana sul modulo originario si manifesta nel  campo delle  tecniche costruttive generalmente attinte delle  soluzioni tipologiche formali, delle celle monastiche come per certi versi avviene nei nuclei che caratterizzano le aree di insediamento.

Generalmente quelle degli esuli non sono mai regolari, in quanto, non usufruiscono di grosse aree , né si producono opere per ottenerli, questo spiega pure in nome che è attribuito all’isola: manzana

Essa non è altro che il tipico contenitore dell’acqua potabile e come quest’ultima assume le forme dell’oggetto, lo spazio che la contiene, anche l’insieme dei moduli abitativi in funzione delle superfici su cui vengono allocati si modella in diversificate forme pur avendo lo stesso modulo di base.

Ma manzana ha origine nel focus, dove si insedia la famiglia allargata; si articola attorno ad essa con gli spazi aperti definita dal recinto o stato, questo destinato alla lavorazione dei prodotti locali o di spagliatura dei prodotti agricoli, quali la canapa, le noci, le mele e così via, al deposito degli attrezzi agricoli, e spazio diffuso degli animali domestici, quali galline e l’immancabile capra della Mursia.

Il modulo si sviluppa prima a piano terra al cui interno è ubicato il focolaio, una serie di giacigli lungo le pareti, mentre al centro, padroneggia il tavolo che ha funzione di tavolo da lavoro, mensa e il luogo, “proto industriale” dei prodotti per la conservazione.

Uno spazio interno caratteristico delle costruzioni rurali, forza economica e sociale indispensabile, attraverso il quale prolifera e crescere la famiglie allargate arbëreshë, in tutto, il detto “luogo”.

Questo è lo spazio condominiale dove le famiglie si riunisce e divide senza discussioni, è il capo famiglia che decide assieme alla consorte senza pregiudizi o favoritismo, per i beni di comodo che per i ruoli assegnati non producevano alcun attrito trasversale.

Davanti all’uscio di casa un sedile rappresentava il luogo di aggregazione all’aperto il trono pubblico del capo famiglia, esso era per lo più fatto di pietre rifinito con impasto idraulico, con tetto spiovente sono i moduli abitativi ,non avevano pavimentazione in quanto i calcari sciolti una volta livellati avevano la giusta durezza e durevolezza, in un secondo momento negli spazi di risulta in fondo alla stanza, per la pendenza del tetto, indispensabile del deflusso delle acque meteoriche,  si ricavava una sorta di soppalco che serviva o da dispensa o si realizzavano giacigli per i più giovani del gruppo.

Ma il luogo aperto era anche la Gjitonia, c il luogo di ricerca del originario ceppo, che viene sottoposto alla prova dei cinque sensi, la stessa che consente di condividere lavoro, patimenti, preghiere e operato.

Tale tipo di urbanistica e architettura rurale la troviamo sparsa in modo diffuso e precisamente identico nel territori di tutta la regione storica o aree rurali dove vissero i profughi arbëreshë.

Il fenomeno di raggruppamenti diffusi agresti, di origine tardo medievale, dipendeva anche dal fatto che consentiva di sfuggire al rischio di esposizione, alla malaria, cui erano penalizzati quanti vivevano dentro le mirazioni  dei borghi.

Il vivere fuori dalle murazioni, a debita distanza dai luoghi mercatali, vicini ad una chiesa, un monastero, un castello o arteria stradale principale, consentiva di proteggersi dai pericolosi nemici invisibili e anche visibili.

Una diversa distribuzione degli insediamenti dava origine a quella lenta trasformazione che si discosta dal secolare buio del Medioevo.

Definito lo spazio abitativo, la Kaliva, riconosciuti i valori mercatali, per accedere definire gli scambi, secondo la Bagliva o Baliva, gli arbëreshë iniziarono il duro percorso di integrazione, alcune volte seguendo le regole altre volte meno, comunque con i primi due adempimenti acquisiti avevano preso consapevolezza che la terra ritrovata aveva regole precise e andavano rispettate e seguite.

Il nuovo indicatore della cultura architettonica e urbana si manifesta nel campo delle  tecniche  costruttive  generalmente attinte delle  soluzioni tipologiche formali, anche del borgo, che comunque rappresenta un modello di ispirazione.

Nascono per questo con l’andare del tempo le scale esterne, il portico, la loggia, cioè tutta quella volumetria architettonica che si aggiunge al nucleo originario e si sviluppa in altezza quando lo stato recinto non ha più spazio da offrire, fe prende corpo il complesso architettonico delle case con profferlo.

È anche da questi modelli antichi sommati a disposizioni post terremoto del 1783 che prende spunto l’edificare palazzotti padronali, dal decennio francese, ma questo è un periodo particolare e ha bisogni di anticipazioni e premesse più articolate e di altra natura e radice.

P.S. nell’immagine la mensa ponderale del Regno di Napoli, manca l’asta dei pollici, murata dalla curia napoletana, in un sito poco distante.

Comments (0)

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!