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IL COSTUME E L’IMMUNITÀ DI GREGGE

IL COSTUME E L’IMMUNITÀ DI GREGGE

Posted on 06 ottobre 2020 by admin

AAAAAAAA1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Di sovente quanti indossano o espongono il costume, arbëreshë, nelle manifestazioni di ogni ordine o grado, non sono, il più delle volte, consapevoli che non si tratta di una comune trattazione, ma sacri messaggi di buon auspicio su base pagana e religiosa per la famiglia che si va a formare.

In quelle vesti, che in diversi modi sono palesemente esposte o trattate a dir poco inopportunamente, è contenuto il disciplinare d’iniziazione e di augurio, di una nuova famiglia della minoranza storica Arbëreshë.

Parlare e trattare degli elementi che compongono le preziose vesti, non è un compito di facile attuazione, perché le vesti che sono giunte sino a oggi sono una sintesi moderna di quel disciplinare che in circa tre secoli di consegne generazionali ha smarrito grosse porzioni del protocollo di memoria.

Questo motivo ha indotto lo scrivente a disegnare una sorta di “esploso” di tutti gli elementi (il filo e l’ago compresi)che compongono il vestito matrimoniale, poi in seguito, con dovizia di particolari e perizia storica della memoria ereditata, è stato ricomposto il mosaico di elementi, secondo un ben identificato parallelismo di significati edificanti e mete da perseguire, secondo le basi delle vigili leggi consuetudinarie,  da  seguire  dai i due sposi per la continuità  e fornire nuova linfa alla specie.

 I contenuti e i messaggi che le vesti in senso di forma, colori  e diplomatiche, sono incaricate di riverberare, sono numerose, non certo in questo breve possono essere rievocate, quello che si può fare, sono accenni, cui poi i in altra sede, saranno forniti dettagliatamente come analisi.

La vestizione che poi è il prodotto finale di un’accurata composizione sartoriale è fatta di postura e quindi di un adeguato spessore di tacco, che dovranno produrre i giusti presupposti di portamento per coprire e avvolgere senza esternare le forme femminili dai fianchi sino a sfiorare la pinta delle scarpe sul davanti.

Dalla vita, è un susseguirsi di regole dove, dopo aver indossato il merletto “imbosato” sulla camicia bianca che si estende sino alle ginocchia,  posizionando “prima sutana e poi la zoga”, queste con le apposite bretelle, sovrapposte, devono essere calibrate con saggezza e arte sartoriale, per descrivere alla  base di entrambe, un piano perfettamente orizzontale.

Sia suttana che la zoga rappresentano figurativamente gli emblemi delle due figure maschili della sposa, secondo le rigide  regole Kanuniane.

La parte posteriore e i fianchi, la veste deve descrivere su tutto il semi arco posteriore, prima una semi curva a sbalzo affinché la linea perpendicolare verso terra, non interferisca con nessuna delle parti anatomiche femminili sino al piano orizzontale idealizzato in precedenza.

Dopo indossato le zoga e il merletto, calibrato il tutto, si passa alla vestizione del gjpuno, che deve avvolgere le spalle descrivendo la zoga, una linea sui fianchi, sino alla prossimità del seno per avvolgerli per meta e curvare oltre la linea baricentrica di questi, per poi risalire e girare attorno al collo, ripetendo lo stesso tragitto sull’altra “baffa del corpo”.

La testa della sposa è un emblema di significati materni, la cui origine fonda nella storia di Zeus riflesso nel cappello dei Dogi veneziani, ed emulato nel copricapo di Scanderbeg.

La Kesa per questo rappresenta l’emblema dorato di crescita, che copre le nudità dei capelli femminili raccolti a modo di fonte këshetë; per questo ogni elemento come quest’ultimo, sono caratteristiche figurative e subliminali, che attraverso la vestizione vantano un quadro augurante e bene augurante, il continuo della specie sotto quell’ombrello di inculturazione.

Questa  non deve essere intesa come un espediente unico di quella giornata, ma quanto indossato, rappresenta il totem della famiglia, “il libro mastro identitario” di quella specifica coppia; tutte le persone che lo vogliono generalizzare o banalmente indossare, quanto usano anche frammenti ricomposti con altri, se non adeguatamente calibrati, indossati ed esposti, sono irrispettosi, verso tutte le nostre madri, le ultime ad averle utilizzate con saggezza, eccetto un paio di eccezioni,  che con diligenza abnegazione e rispetto le hanno portate in dosso, al fine di inculturare, quanti in grado di percepirne il senso e il valore.

Il costume tipico arbëreshë delle fasce bizantine della Calabria citeriore e un libro non scritto, com’è consuetudine della minoranza; lo  legge solo chi ha percorso le tappe dell’inculturazione locale, diversamente da quanti s’inventato, lettori provetti.

Questo dato ormai alla deriva, più devastante, ha raggiunto il suo culmine proprio un anno addietro, quando i vantatori seriali essendo stati preferiti alle persone di cultura, si sono dilettati a dare spettacolo stendendo a terra il proprio gonfalone , disponendo donne in costume inginocchiate attorno.

Certamente le consuetudini di capitolare dei popoli, non saranno il nocciolo culturale di queste figure, ma se non si rendono conto di quello che hanno fatto, dopo un anno dall’accadimento, la tragedia finale è in atto; non per i pochi che sanno e tirano per rimediare, ma per le capre che credono che i prati verdi, sono per brucare, correre e belare.

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QUANDO L’INDAGINE PER LA VALORIZZAZIONE E’ IL FRUTTO DEI COMUNEMENTE;

QUANDO L’INDAGINE PER LA VALORIZZAZIONE E’ IL FRUTTO DEI COMUNEMENTE;

Posted on 01 ottobre 2020 by admin

DSC_34NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – I beni tangibili e intangibili del patrimonio culturale della minoranza storica arbëreshë, avrebbero dovuto esse considerati indistintamente, eccellenze da tutelare, dopo essere state opportunamente catalogate, nelle forme e nei luoghi dove si sono sviluppati secondo le esigenze degli uomini e del tempo.

Ciò nonostante “i detti saggi generali” hanno preferito seguire la deriva del mono tema, tralasciando progetti, in grado di predisporre strategie di sostenibilità, accomunando l’intangibile con il modello abitativo minoritario di base, in ogni loro aspetto caratterizzante.

Alla luce di ciò “i saggi” saranno ricordati, nei secoli a venire, per lo spreco di fondamenti andati dispersi o espressi senza adeguata cognizione, in specie l’esperienza abitativa; la culla, dove è stata allevata la radice identitaria della minoranza nel corso dei secoli.

Ciò nonostante la cosa che più duole si racconta nel fatto che non è stato un momento di sbandamento o di perdita della retta via, ma una scelta politica studiata a tavolino, il cui fine mirava a lasciare al libero arbitrio, la fonte primaria d’insediamento, nonostante apparisse evidente l’importanza del modulo abitativo tipo e della sua radice nel corso dei secoli.

E nonostante quest’ultimo, assieme all’ambiente naturale abbiano contribuito, in maniera fondamentale, al riverberarsi identicamente nel tempo della propria tradizione identitaria, le vicende storiche della minoranza arbëreshë, cono state considerate irrilevanti e per questo imprestato dalle genti indigene.

La deriva cosi sostenuta e voluta ha finito nel ritenere quale elemento complementare lo studio e l’analisi storica dell’architettura minore, ovvero l’ambiente costruito secondo le necessità del luogo naturale, senza porre alcuna riguardo per i valori in essi conserva o contenuti, sicuramente difficili da interpretare da comuni ricercatori, questi in specie ha  portato lo scrivente, da diversi decenni a lamentare la carenza di studio in tale disciplina o direzione dirsi voglia.

Un campo lasciato al libero arbitrio, dove a germogliare è stato la faciloneria diffusa di studiosi contemporanei senza alcun titolo specifico, i quali ritenendosi eccellenze incontrastate e forti della loro posizione politico/culturale, hanno assunto verso questa storica disciplina un atteggiamento molto soggettivo, tradottosi nel breve di un decennio, in supervalutazione delle influenze architettoniche maggiori, calettandole gratuitamente  nell’intimo del costruito Arbëreshë.

Una diffusa compagnia di non titolati della storia dell’architettura ha immaginato modelli costruiti all’interno dei centri antichi, quali manufatti realizzati nel tempo di una stagione, come avviene in epoca moderna, collocandoli e stimandoli come elementi di una circoscritta e ben definita parentesi storico edificatoria.

A tal proposito e per meglio comprendere il discorso è opportuno fare una premessa; notoriamente gli arbëreshë quando riferiscono di una casa, una dimora o manufatto architettonico in generale lo pronunzia al plurale, ad esempio, la casa di Bugliari è detto le case dei Bugliari (shëpitë e Bulërveth).

Ciò è riferibile al corso del tempo, in quanto, la casa, nata sotto forma estrattiva si era evoluta nel tempo sino a diventare prima manufatto additivo a piano terra, poi  elevato in altezza e in fine diventare espressione nobiliare, ovvero le diverse case che avevano avuto nel corso di cinque secoli una ben identificata famiglia, cambiata con le vicende sociali del tempo e dell’economia crescente secondo le dinamiche e le necessità di quel ben identificato gruppo familiare.

Genericamente oggi si rende merito al paese arbëreshë e agli ambiti dove si parla l’antica lingua ritenendo che dove questa non si riverbera più, quell’ambito è magicamente diventato indigeno, come se si fossero volatilizzati per incanto i trascorsi della storia tra uomo e ambiente costruito.

Ebbene non è così, in quanto un ambito abitato per secoli dalla minoranza, non smette di essere un luogo segnato solo perché non si parli l’antico idioma, come se fosse vera la leggenda dello Skirrò, che senza alcun rispetto o vergogna diceva, che la “sua arberia” era dove due arbëreshë si erano fermati a parlare per poi partire, in poche parole untori di territori.

Come se i membri della minoranza fossero untori seriali di territorio, per il loro modo di colloquiare spargendo saliva e chissà cosa altro, fortunatamente non è così, giacché, la stria ci da meriti più consistenti e di altra natura.

Prendendo spunto da questa volgare affermazione si può dedurre che un termine più razzista, omofobo e privo di alcuna consistenza storica e spregevole poteva essere partorito dall’inadeguatezza dell’uomo.

Egli sin dalla notte dei tempi ha avuto tempo per migliorarsi per poi prendere la china e distruggere quanto innalzato e se volessimo fare una disamina di quanto dura questo principio, ci sono grandi margini entro i quali avrebbe potuto correggere tale affermazione, tuttavia si continua imperterriti su tale deriva, e non si fa errore nel ritenere questa, la più ignobile e denigratoria affermazione che, la storia ricordi.

Gli arbëreshë hanno una tradizione di accoglienza e di principi sociali, consuetudinari che farebbe invidia alle più moderne società avanzate ideologiche e di pensiero, essi non sono un’utopia, sono realtà culturale, che si riverbera da secoli nel silenzio delle ideologie di partito, ritenendo che la magia della loro esistenza è racchiuso nel loro modo autonomi a rispettosa dello stato shëshi.

Ritenere che la regione storica arbëreshë sia fatta esclusivamente di espressione idiomatica, associata alla consuetudine alla metrica canora e alla religione greco bizantina è un errore storico senza eguali, in quanto il vetusto ed irriverente enunciato, è un prodotto alchemico studiato a tavolino, senza avere consapevolezza di luoghi, immaginando che solo i prodotti archivistici e scrittografici possano delineare il corso della storia.

L’unico e solo progetto d’indagine tiene conto degli ambiti attraversati bonificati e costruiti dagli arbëreshë, la vera espressione scrittografica, fatta di solchi colmi di sudore e sangue sulla terra dove essi fermarono per essere utili e uniti con gli indigeni.

Le case arbëreshë non sono le case kotra o le Albanesi  kulla, in quanto la prima non esiste, in quanto un mero abuso edilizio realizzato con materiali delle industrie negli anni del dopo guerra del secolo scorso; mentre la seconda è un elemento fortificato del XIX secolo, quando gli albanesi preferirono allocarsi nelle zone più a valle pianeggianti, e per difendersi realizzarono questa sorta di fortino verticale che non fa parte della storia degli insediamenti collinari.

La casa tipica degli arbëreshë è un modulo tipo che ritroviamo in tutti i cento dieci paesi che formano la regione storica, e quando di questo modulo tipo, non vi sia traccia, basta indagare abitazioni più recenti, per trovare al suoi interno la perla abitativa, come quando si separa  lo scafo di un’ostrica.

I Kastrijonì (i Paesi o Katundë, dirsi voglia, ma non Borghi) erano dunque, un’unità territoriale, con una società organizzata secondo radice antichissima, dove trovavano dimora i meccanismi istituzionali in grado di preservare tutti gli aspetti immateriali.

Sono questi ambiti a divenire vere e proprie purpignere, che dal XII secolo, sono state in grado di consentito alla radice, importata dalla terra di origine, di fiorire e riverberare quegli elementi che senza uno sheshi, senza una casa non avrebbero avuto modo di durare tanti secoli. 

Il modello in origine limitava persino di contrarre matrimoni all’interno del proprio ambito e tra gruppi esterni e comunque indigeni. 

La tutela e la valorizzazione dei Kastrijonì Arbëreshë e Albanesi, attraverso un’attenta analisi degli elementi giunti sino ai giorni nostri, è ancora in grado di fornire una traccia solida, che nessun documento è in grado di fornire.

Ciò ha fatto nascere negli ultimi anni la conseguente necessità di pervenire alla conoscenza delle tipologie in grado di offrire risposte alle vicende del passato ponendo in analisi l’edificato delle varie epoche, associandole a forme di dimore prima estrattive e poi additive.

Esse sono riscontrabili in specie negli insediamenti nell’Epiro nuova e nell’Epiro vecchia, relativamente al tardo medioevo, poi in seguito, dal XV secolo, in quelli arbëreshë del meridione italiano e di tutta la fascia del’entroterra collinare adriatico.

Le capitolazioni, che per il loro significato sono un atto di sottomissione non possono riferire della storia degli arbëreshë, ma le pietre si; tanto meno la possono rilevare i catasti onciari, questi per i presupposti secondo cui vennero realizzati a dare risposte alla questione meridionale, essa rimane viva e pietosamente frena ogni ambito del sud, diversamente dai paramenti murari che raccontano, con le loro consistenze verticali, orizzontali, inclinati e i tipici affacci, come si trasformava i paesi minoritari.

Per terminare questo breve è bene ricordare che gli storici dell’architettura sono una cosa, quanti corrono per fotografare documenti sono altra cosa, comunque risultano essere più affidabili i primi, gli unici in grado di collocare adeguatamente nel progetto della storia, cosa e chi ha vissuto quella terra.

 

P.S.  Se siete documentaristi ed esperti lettori della Regione storica arbëreshe, scrivete un libro basandovi su questa immagine: ma devono essere almeno mille pagine se siete veramente bravi.

L’immagine non sta in archivio ne in biblioteca e ne in un museo, la trovate in Via lëm letiri a Santa Sofia.

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L’ORIZZONTE CON LA STELLA DEL GARBO E DEL SENSO

L’ORIZZONTE CON LA STELLA DEL GARBO E DEL SENSO

Posted on 24 settembre 2020 by admin

195NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Se tutte le cose hanno un’origine, uno svolgimento e un ricordo duraturo, nel corso dei secoli, anche per il costume tipico della Regione storica Arbëreshë, vale il principio.

Comunemente replicato nella macro area delle miniere e in quelle del pollino, esso ha la sua origine nel mandamento dei comuni di: Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone e Spezzano Albanese.

Ancora oggi giorno, un buon osservatore  può trovare questa radice, sia per il modo in cui viene indossato e sia con il garbo, la delicatezza oltre al buon gusto per il quale si dispongono, le vesti, per rendere merito a questa opera irripetibile.

Indossare un costume arbëreshë è un atto complicatissimo e riuscire nell’impresa non è una cosa da poco o alla portata di tutti, per questa ragione, negli ultimi venti anni non si commette errore nell’affermare che solo due ragazza sono state vestite esponendo il costume arbëreshë, nel rispetto dell’antico protocollo senza eccessi o restrizioni di sorta.

Questa non è la conclusione, scientemente realizzata seguendo con dovizia di particolari un numero elevatissimo di manifestazioni ed eventi posti in essere; quale architetto ricercatore, con esperienza cinquantennale, in quanto va considerato principalmente il dato di essere vissuto a fianco di mia madre, che per una consuetudine di natura genetica della sua famiglia, mi relegò al suo fianco per molto più del mio primo decennio di vita.

Lei, una delle ultime tutrici del protocollo di vestizione, e non lasciava mai nulla al caso, specie quando doveva vestire giovani ragazze, con il suo abito nuziale, non c’erano ragioni per dare atto alla vestizione, se non era positivo l’esame metrico a misura parallela e dei tre requisiti di riferimento.

Da questo breve accenno che è solo la base del principio di vestizione, è palese sostenere che negli ultimi venti anni solo due le ragazze, possono vantare di aver indossato ed esposto con garbo educazione e sostenibilità, il costume tipico della Regione storica Arbëreshë.

Generalmente, confermata l’altezza, piede, fianchi e spalla, comparata la corporatura si dava avvio alla vestizione e dove le rotondità fisiche mancavano si riparava depositando frammenti di stoffa o tovaglie sapientemente camuffate tra corpo e l’abito.

Diversamente avveniva se le dimensioni erano fuori misura o abbondava rispetto al vestito,  sia in altezza e sia nello sviluppo formale del corpo, in quel casi si riferiva che il costume era stato depositato da poco e non poteva essere rimosso.

Un espediente spesso adoperava per evitare una cattiva vestizione; negazione gentile per non essere irriverente verso quelle preziose stoffe ed esporre alla berlina la natura formale di quella ragazza e violentare stolitë.

Sono numerosi i casi in cui, ciò,purtroppo avviene comunemente, in numerosi eventi, a quel punto il ricordo va a  quelle “sagge vestitrici” che non approvavano in alcun modo queste false vestizioni e per evitarle arrivavano al punto di negare di possedere il costume.

Tornando alle due notizie buone, esse si possono rievocare rispettivamente: nel Caso Sofiota di Martina L. e  Spezzanese di Filomena N.;

  • la prima vestita dalla madre Mariella L., rifinita dalla Signora Mariuccia R. cresciuta sotto le direttive di una saggia Sofiota, questa vestizione ho avuto modo di possederla nel 2014 e la scelsi come prima slaid di una relazione tenutasi a Firenze; una sala rumorosa di vociferare disinteressato di chi mi aveva preceduto, improvvisamente appena proiettata la foto nel maxi schermo e il silenzio invase la sala e la narrazione della storia arbëreshë ebbe inizio;
  • la seconda vestita dalla madre Caterina P. la cui madre risulta essere una delle sarte più sagge di Spezzano, tra le pagine di Arberia Web Tv, nei giorni scorsi, ho trovato quest’altra immagine, esempio positivo di vestizione, portamento e garbo, in oltre considerato che viviamo nel 2020 il punto più buio della vestizione, l’esempio mi lascia ben sperare.

Da questi brevi accenni si può notare che le tradizioni consuetudinarie non sono un’invenzione, o qualcosa che si può predisporre sulla base di sentito dire o improvvisazioni prive dei minimali requisiti di senso; esse sono e devono essere il risultato di lasciti tra generazioni e non è un caso, che quando questo avviene, si può dire che tutti hanno fatto il proprio dovere nel corso della propria esistenza.

Comunemente quanti non sanno e non hanno consapevolezza di cosa si discuta e di cosa si voglia tutelare, preferiscono le vie di fatto, definendo quanti cercano di dare respiro alla consuetudine e alla storia degli arbëreshë, “devastanti”.

Certamente è preferibile essere ritenuti  “devastanti Arbëreshë con Laurea di Ragione” , che condannati comuni nel girone dantesco della vostra dell’Arbëria, dove da troppo tempo il fuoco distrugge e devasta ogni cosa.

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ALLA RICERCA DELLE IMPRONTE ARBËRESHË; IL POPOLO CHE NON USAVA SCRIVERE

ALLA RICERCA DELLE IMPRONTE ARBËRESHË; IL POPOLO CHE NON USAVA SCRIVERE

Posted on 03 settembre 2020 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Gli enunciati identitari comunemente diffusi all’indomani della pubblicazione in G.U della legge 482/99, prima durante e dopo le conferenze culturali con tema, Gjitonia, erano il seme dei trentatré alfabeti, citati da Norman Douglas, circa un secolo prima.

Fece seguito il sancito, secondo cui erano fuori dalla cultura identitaria quanti non avessero utilizzato uno degli alfabeti, per produrre componimenti di specie con tomi, volumi e tascabili, scritti in arbëreshë.

Lascia dir poco perplessi la teoria secondo la quale sono ritenute eccellenza solo gli scrittori; come se, chi si è distinto in discipline umanitarie, scientifiche, politiche, economiche e di ogni genere sia ritenuto al pari di un contadino capace di usano la zappa per far male ai piedi.

A tal proposito è più ragionevole sostenere tutto l’insieme delle figure distintesi all’interno del modello territoriale, denominata Regione storica diffusa Arbëreshë, senza discriminare quanti ritenevano opportuno solo parlare, l’antico idioma, e nel frattempo partecipare come eccellenza alla cultura e alle innovazioni in senso più generale.

Sono proprio queste figure a distinguersi, anzi raggiungere la vetta degli itinerari di formazione, in numerosi campi, rendendo merito con il loro lume, alla regione storica, specie nei salotti culturali più in voga di tutto il vecchio continente, dal settecento e sino ai giorni nostri; oltremodo condividendo i risultati, con quanti, della popolazione indigena intuirono la loro potenzialità.

Non si possano ritenere, eccellenza della regione storica, solo quanti si sono applicati comunemente a scrivere un antico codice identitario e ancora oggi dopo sei secoli di tentativi, nessun ritiene imitarli; nonostante, nella capitale del regno, più volte eccellenze più formate in campo della diffusione culturale, nel corso dell’ottocento, abbiano redarguito ragionevolmente, con la matita blu i provetti divulgatori.

Quanti hanno dato lustro alla regione storica, in senso di scienze, matematica, ingegneria, economia, musica, letteratura oltre ad aver tradotto antichi testi Greci e Latini, spargendo primati di miglioramento diffuso e comune convivenza, non sono stati certo quanti si dimenava a scrive un parlato antico senza mai raggiunger u traguardo plausibile.

I veri eroi della regione storica, del meridione italiano, sono proprio quanti sono riusciti a portare il proprio ingrgno, quale germoglio d’integrazione nella terra ritrovata, condividendo i risultati con i fratelli indigeni.

Risultati ottenuti non con mezzi di alta tecnologia o con apparati di elevata caratura, ma solo ed esclusivamente con la forza del loro sapere.

Le stesse che oggi mantengono primati e sono alla base di studi e ricerche, come la questione meridionale che sin dalla metà del sedicesimo secolo era argomento di studio, giacché luoghi depressi e senza un futuro, nonostante il territorio garantisse ottime possibilità di rilancio.

Se analizziamo gli eventi storici, dalla fine del seicento, quanto ormai i processi integrativi, prima di scontro e poi di confronto erano stati dissipati, vano rilevate le evoluzioni antecedenti, il decennio francese sino all’Unità d’Italia.

Sicuramente senza tralasciare gli elementi più rilevanti della riforma che miravano alla configurazione territoriale delle istituzioni amministrative, i cu processi governativi definitori delle élites, furono scossi assieme a quanto radicato come solida eredità iniziò a sgretolarsi.

Soprattutto per il Regno di Napoli, anche se, gli studiosi hanno comunemente rivolto la propria attenzione verso i meccanismi amministrativi della regione, trascurando in questo modo, cosa e come abbia caratterizzato la configurazione orografica, con l’applicazione delle ormai collaudate leggi francesi del ventotto, ventoso, anno VIII.

Che sino allora fossero state ritenute marginali i legami tra territorio, strade, in specie l’apporto che queste esercitavano sull’architettura, il paesaggio e la nascita oltre all’evoluzione degli insediamenti abitativi era un dato di fatto.

Solo di recente, anche nel campo degli studi meridionali, è emersa la necessità di occuparsi del territorio inteso come apporto fondamenta della trasformazione in atto, la cui orografia ha reso possibile sistemi e modelli di tutela e residenza; una nuova analisi, dove il lungo diventa capitolo introduttivo, maglia evolutiva del meridione.

Il nuovo stato di analisi e di ricerca si presenta come fioriera di grande novità, nel panorama degli studi meridionali, le ricerche finalmente aprono nuove riflessioni, radiografando gli insediamenti e gli eventi che hanno innescato l’evoluzione, riverberando aggregati urbani e sociali, solidarizzati nel rapporto dell’ambiente naturale in armonia con il costruito.

Per contribuir a rendere possibile questo nuovo modello di analisi ed evoluzione sociale, contribuirono in calabria citeriore le strategie partenopee messe in atto dal gruppo capeggiato da pasquale bassi di Mons. Bugliari, del Belusci seguite e poi fatte proprie nel decennio francese dal Masci, che al seguito di Murat poté mettersi in mostra.

Tutto ebbe inizio con i rapporti che il Baffi intrecciò con i massimi esponenti della cultura europea dalle quali scaturì il progetto di trasferire il collegio a Sant’Adriano per creare un polo di formazione solido in quel nocciolo duro delle aree depresse della Calabria citeriore, stimando con dovizia di particolari le possibilità che offrivano strategicamente quelle terre se idonea mente condotte da eleggibili del popolo liberi da pensieri élitari .

Un quadro geografico feudale da cui emergono strutture amministrative, nei primi decenni, del Seicento, della fiscalità dei casali e le richieste di autonomia in occasione delle disposizioni per la stesura dei catasti conciari.

Avendo come riferimento la legge del 14 dicembre 1789 in discussione, prima di stendere la maglia dipartimentale, visto la necessità di sostituire con istituzioni più solide le municipalità nate nel caos dei mesi precedenti la rivoluzionarie, fu determinato un limite demografico sotto il quale non si sarebbe potuto costituire il comune.

A tal fine furono indicati in 4 – 5 mila abitanti, i cui fine coltre che amministrativo sottraeva i piccoli insediamenti alla facile influenza della chiesa e della nobiltà locale.

Oltre a questo dato di rilievo, si cercava un sufficiente numero di cittadini, attivi e reclutabili, per l’amministrazione della comunità, un sufficiente numero di eleggibili induce la costituzione ad accorpare le comunità locali con una popolazione inferiore ai 5 mila.

Fanno parte di questa nuova strategia di accorpare le aree geografiche con simili consuetudini, le disposizioni di Carlo IV per lo studio dei costumi tipici nel 1783, da cui ha origine il costume tipico arbëreshë, lo stesso che ancora oggi è l’emblema della minoranza e contiene tutti i componimenti religiosi e consuetudinaria.

Mi riferisco al costume del pentagoni di Spezzano, Santa Sofia, San Demetrio, Macchia e Vaccarizzo, il solo costume rappresentativo della minoranza; ma questa è una storia più complessa e richiede una trattazione specifica e dettagliata, in tutti i suoi caratteristici originali e irripetibili, componimenti sartoriali.

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LE MINORANZE STORICHE APPRODI AVVANTAGGIATI RISPETTO LA MAGGIORANZA LOCALE

LE MINORANZE STORICHE APPRODI AVVANTAGGIATI RISPETTO LA MAGGIORANZA LOCALE

Posted on 27 agosto 2020 by admin

PesteNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La pandemia non sconfitta, si è insinuata nella nostra vita e per certi versi ne fa parte, tracciando, per questo scenari nuovi, secondo cui le attività sociali vanno riviste a nuova misura secondo un ipotetico, e non ben definito distanziamento fisico, igienico con le cose, riconfigurato nel rapporti tra ambiente naturale e ambiente costruito.

Ciò ha penalizzato a dismisura gli agglomerati in senso di metropoli, città e paesi di varia caratura, in ogni dove, ponendo tutti nella stessa linea di partenza, dal punto di vista economico, dei servizi e della partecipazione sociale.

Degli ultimi fanno parte i noti agglomerati storici detti minori come i Katundë arbëreshë dell’Italia meridionale.

Tutti ancora fermi sulla linea di partenza, a misurare distanze, paure ed economia, immaginando che ciò non estenda la pandemia anche in senso economico.

Certamente dei modelli costruiti delle urbe moderne quelli che hanno più possibilità di ripartire velocemente e che dovrebbero avere una corsia preferenziale sono proprio i centri detti minori, di cui fanno parte i Katundë Arbëreshë.

Potrebbero diventare proprio questi i modelli ideali, dove provare strategie future di convivenza sociale, senza impegnare somme esose, che se distribuite in anfratti metropolitani dove il controllo sfugge e non si comprende l’efficacia, con costi di altra misura economica.

Chi si dovesse trovare a dirigere questi piccoli centro, oggi o tra qualche settimana per il rinnovamento elettorale previsto, se idoneamente coadiuvato, potrebbero predisporre strategie di confronto secondo protocolli di facile attuazione, in quanto, veri e propri laboratori di ricerca.

Sia dal punto di vista degli uffici pubblico, sia dei presidi scolastici, oltre a tutte le attività commerciali e ogni genere che diversamente dalle metropoli, dalle città e i gran centri urbani non possono essere sottoposte a controllo.  

Nello specifico i paesi di origine arbëreshë potrebbero diventare laboratori a cielo aperto e attuare prove di del distanziamento sociale più opportuno secondo se si tratti di accoglienza, spettacolo all’aperto o al chiuso e ogni attività di promozione e divulgazione secondo il consuetudinario storico che ha superato, pestilenze carestie e ogni sorta di emergenza, senza mai modificare il rapporto, nel corso della storia, tra ambiente naturale, ambiente costruito e uomini.

Il razionalismo mai sfarzoso al chiuso, comunque sempre ventilato e temperato; strade strette, il cui rapporto con il costruito manteneva con espedienti naturali il valore di salubrità all’aperto.

Scelte strategiche che utilizzavano valori calibrati della forza eolica, solare e idrica; una sorta di labirinto in apparenza casuale, ma in realtà nato secondo canoni atti ad assicurare la vita di quanti all’interno di questi sheshi, continuavano a superare avversità di confronto, sia naturale e sia indotti.

Luoghi di convivenza che non sono stati mai abbandonati, sempre vivi per condividere gioie e dolori prospettando futuri di rivalsa sempre migliori.

Aggi si cerca il distanziamento sia fisico e materiale, si vorrebbero allargare strade case e palazzi, su quale base scientifica non è dato a sapersi, o meglio chi lo dice sicuramente non ha letto di storia o conosce gli avvenimenti del passato.

Quel passato che conferma con stati di fatto che nonostante la peste nera, la spagnola e ogni sorta di emergenza sanitaria vissuta, a nessuno è venuto mai in mete di abbattere il centro storico con pala e piccone, di Napoli, Firenze, Roma, Venezia o ogni capitale che di questi avvenimenti è stato teatro.

Dopo sei mesi di blocco, nessuno ha avuto il buon senso di alzare la bandierina per la ripartenza, sicuramente lo potrebbero fare per i piccoli Katundë arbëreshë come da seicento anni fanno e forniscono un nuovo modo di integrarsi e convivere con la nuova emergenza sanitaria, così come fecero con le genti indigene e i territori paralleli ritrovati riconoscendone da subiti limiti e potenzialità.

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ERA AD OVEST DEL PAESE LA DOGANA DEL BENVENUTO

ERA AD OVEST DEL PAESE LA DOGANA DEL BENVENUTO

Posted on 25 agosto 2020 by admin

Costa1NAPOLI ) (di Atanasio Pizzi) -Tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, Lalë Costa, abitualmente  riposava seduto su una panchina posta, in quel largo in ombra, davanti casa sua.

Un luogo di osservazione dove, lui, certamente aveva controllato i materiali e viste crescere le mura e gli orizzontamenti dell’agogniata dimora secondo i dettami più rappresentativi dell’architettura Sofiota.

Con l’ordine delle aperture al primo piano ad impronta dell’antico palazzo Arcivescovile locale e le modanature laterali a rilievo di intonaco a impronta bizantina.

La storica panchina, posta in quel largo, sul fianco orientale del vallone del monaco, dove per rendere più piacevole la quinta, e coprire la depressione naturale era stata piantumato un filare di acacie, che nel corso degli anni aveva realizzato in un’emozionante quinta naturale.

Lalë Costa era generalmente lì a salutare con simpatia chiunque usciva dal paese per recarsi a lavorare le terre e accoglieva quanti, tornavano con le membra stanche e affaticate, ma fieri del proprio operato .

Un luogo ameno noto a tutti, in quanto, ambito di attesa in senso di medicina, per l’attività dei figli e anche dal punto vista sociale, in quanto, luogo  di costruttive riflessioni e confronti.

Lalë Costa non era mai solo, perché essendo, la sua, il primo manufatto di rilievo del paese, era diventata come una sorte di  dogana dell’accoglienza e di benvenuto e lui, con sorrisi e gesta gentili, intratteneva passanti e amici che lì si fermavano o si recavano a discutere vivendo quel benefico anfratto.

La prospettiva principale erano le architetture rinascimentali del suo palazzo, ma non da meno era la vista del paese e delle montagne dell’Appennino citeriore, e i profumi e l’ombra che in tutto il periodo dell’estate Alessandrina offriva il filare di acacie.

Non commetto errore nel dire che non ci fu persona Sofiota che in quella panchina non si sedette almeno una volta sola e non ci sia stato gruppo di amici o gruppi di amiche, che in quel luogo ameno non si sia fermato a sognare futuri condivisi e unioni ideali.

Quel luogo è rimasto sempre vivo anche quando Lalë Costa non c’era più e la panchina era rimasta orfana dello storico personaggio.

Quella dogana di benvenuto termina di essere tale, quando il Dottor Carlo, figlio di Lalë Costa, passò prematuramente a miglior vita, lasciando lo spazio antistante nelle disponibilità pubbliche.

Agli inizi degli anni ottanta, il rinnovamento nel centro antico, in forma di abbellimento, ritenne più opportuno fornire uno spazio verde alla comunità, eliminando quella depressione naturale che faceva parte delle consuetudini locali.

Rigenerarlo e bonificarlo sarebbe stato più idoneo, rispetta al dato che la comunità avesse urgenza di uno spazio verde progettato  per il centro storico, nonostante questo, fosse circondato di boschi, uliveti gelseti e vigneti senza soluzione di continuità; un po come a dire che il mare avesse bisogno di una goccia per sopravvivere.

Oggi rimane solo il ricordo di Lalë Costa, e di quel luogo di accoglienza semplice; le generazioni che hanno avuto la fortuna di vivere quei momenti, specie per il fortunato bambino che accompagnando i suoi genitori, viveva l’atto delle dieci lire e del conseguente corsa verso l’ambito gelato, gesti semplici ancora presenti nelle vive mente di quei bambini diventati adulti.

Comunque sia restano i ricordi e ogni volta che si giunge nel vecchio centro antico, da ovest, nel piegare la nota curva, ti aspetti che da un momento all’altro ti appaiono i gelsi, la panchina e il vecchio Costa, che saluta con la mano e ti da il benvenuto; poi subito la realtà, tutto è cambiato.

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LA MINORANZA STORICA E LE SUE ECCELLENZE

LA MINORANZA STORICA E LE SUE ECCELLENZE

Posted on 17 agosto 2020 by admin

Fumo arbereshNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Affermare ancora oggi, che la minoranza storica arbëreshë sia passata indenne allo scorrere del tempo, perché ha vissuto lunghi periodi d’isolamento, è un teorema privo di senso.

Poi, credere pure che la sola espressione idiomatica è la medicina che guarisce ogni male di queste popolazioni non ha alcuna fondatezza scientifica, anzi si esalta il senso della banalità o della leggenda.

Cosi anche quanti appellano comunemente l’insieme della popolazione Arbëria (sinonimo di stato), poi la seminano  in ogni luogo, ritenendo che essa si trova dove, due o più parlanti s’incontrano e iniziano a parlare.

Alla luce di ciò è bene precisare che la minoranza storica, non va circoscritta esclusivamente nell’idioma, perché si finisce per sminuire l’apparato tangibile e intangibile, la vera piattaforma attraverso la quale si tramandare l’identità, priva di forma scritta e arte figurativa.

La forza nel tramandare di generazioni, è racchiusa nel consuetudinari che si produce tra madre in figlia e pare in figlio, consuetudini condivise e ripetute sino all’ultimo respiro del più anziano, per poi ricominciare.

Sono proprio gli ambiti, naturali e costruiti in conformità a esigenze per rendere solido e duraturo il modello esclusivo mediterraneo, che restituiscono l’unicum che fornisce il suo apporto agli ambiti economici e sociali del macro sistema, rimanendo intatto nel tempo, senza degenerazioni di sorta.

Ritenere che la minoranza storica sia un prodotto di esclusiva radice idiomatica, poteva essere un argomento utile e pregnante sino alla meta degli anni settanta, per scopi politici o di casta culturale nascente.

Se a quei tempi per un presidio di studio, si poteva volgere lo sguardo, tale teoria oggi assolutamente non può passare inosservata e lasciata libera di vagare!

Essendo stati aperti, nel frattempo che i presidi prendessero forma, nuovi stati di fatto, oggi è giunto il tempo di restituire dignità e una chiara visione di quanto realmente è avvenuto in sei secoli di tenuta culturale contro le tempeste dei riversamenti scritto grafici degli edificati del sordo e del settimo degenere.

Terminato il tempo di riversare o addirittura copiare delle altrui culture, questa è la stagione del riconoscimento identitario arbëreshë, chi ha la forza di seguire la china culturale con garbo e dedizione è il ben venuto.

Quanti diversamente credono di prendere parte armati di organetti e strumenti sonori discutibili, immaginando che battere il passo, sia indispensabile, sappiano che perdono il loro tempo e dovranno prima o poi pagare per il maltolto, con la propria coscienza, ammesso abbiano conoscenza di un tale frutto.

Non è concepibile, per questo, che ancora oggi si possa riferire che una minoranza sia il risultato di “un idioma”, pur se è consapevolezza diffusa nel riconoscere sia giusto studiare la totalità degli aspetti materiali e immateriali che la caratterizzano e la rendono parte integrante, anzi oserei dire, fondamentale di un ben circoscritto macrosistema culturale, economico e sociale di maggioranza.

Nel corso della storia, legare la caparbietà Arbanon al solo fuscello idiomatico è stato un adempimento paradossale, in quanto, esso rappresenta solo una parte di un albero molto più articolato e complesso, sia nella parte visibile fuori terra, e sia delle radici indispensabili a sostenerla e alimentarla.

I gruppi familiari allargati di Arbanon, hanno rappresentato nel corso della storia una macchina sociale ineguagliabile, capace di insediarsi in località o meglio in ambienti naturali ben adatti a riverberare il proprio modello, in cui i cinque sensi convergessero in armonia con i presupposti di allocamento ideali.

Un insieme finito composto da uomo, consuetudine e natura, caratteristica viva sino alla meta del secolo scorso e in buona parte ancora oggi si cogliere indelebilmente, attraverso la toponomastica storica e negli elementi  naturali e costruiti.

Identificare una minoranza storica, che riverbera con caparbia determinazione la propria identità dalla notte dei tempi, attraverso l’esclusivo tema idiomatico, non rende merito alla caparbia e valorosa popolazione.

Gli Arbanon, Arbëri e oggi Arbëreshë, è un sistema di radici che ha bisogno del propria ambiente naturale per crescere e produrre quell’albero capace di riverberare al contatto con il vento e l’ambiente la propria natura.

Essa si materializza in consuetudini, riti pagani e religiosi, per poi marcare gli spazi privati, familiari o intimi, con il proprio idioma, gli spazi all’aperto con la metrica, con i calendari rituali lo scorrere del tempo.

Questi ultimi in specie, per una furbizia storica degli arbëreshë, hanno adattato miti, leggende, paganesimo, grecismi e latinismi per sfociare oggi nell’epoca bizantina, conservando indelebile un sottobosco esoterico tramandato nel chiuso di grotte case e palazzi.

Ermetici e abili addomesticatori di terre, fiumi e cavalli, nel pieno rispetto dell’ambiente naturale, sono stati preferiti nonostante, le diffidenze per la chiusura identitaria, da Regnati, Papi e ogni genere di sistema territoriale politico e religioso, per la capacita di mantenere fede a ogni impegno preso.

Oggi la voglia di emergere e di rendere merito alla storica minoranza, sfugge al controllo delle istituzioni culturali, che nel corso degli ultimi decenni nonostante qualche frammento legislativo, sia stato prodotto, non ha germogliato neanche un frammento di arche del buon senso.

Oggi aspettiamo il momento della rinascita, si cavalcano le vie del costume senza ago, filo e metro; quelle del canto con strumenti musicali; quelli dell’urbanistica e dell’architettura senza matita e compasso; gjitonie copiate dal vicinato; calendari rispettosi di anomali latinismi, immaginando, che così facendo, si possa annaffiare le preziose radici identitaria ormai in penuria idrica, da diversi decenni.

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ASPETTANDO CHE IL DIAVOLO SCENDA IN CAMPO

ASPETTANDO CHE IL DIAVOLO SCENDA IN CAMPO

Posted on 13 agosto 2020 by admin

inferno gelatoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando un  progetto di tutela, è accolto dagli organi superiori di buon grado e gli altri, mi riferisco ai sottoposti, non ne comprendono l’importanza, si potrebbe anche farmene una ragione perché chi nasce litireë non sarà mai un arbëreshë.

Tuttavia se poi il frutto della operosa e interminabile intuizione, finisce nelle disponibilità economiche di chi non ha doveri deontologici, perché senza titoli professionali; la cosa infastidisce e non poco, specie se a prendere lo scettro organizzativo sono persone che non hanno ancora compreso, nonostante la loro età, con quali dispositivi navigare, cosa ancor più grave, per ripicca infantile, sono rimosse anche le persone che  hanno operato con dedizione.

Dicono che Shë Thanasi aggiusta ogni cosa: questo e vero, ma è sempre un Santo e per prassi divina, dopo una penitenza in preghiere, perdona.

Allo stato, si vorrebbe  informare, gli ignari operatori economico-culturali, che il letto dove nacque i direttore d’immagine, resta ancora allocato sotto la sella, si dice sia appartenuta al diavolo, questo  è noto che non sia attorniato, ne dall’incenso e ne della beatitudine specie quando si tratta dei suoi protetti.

P.S. Alla fine si ricordò anche chi partorì sotto quella sella e chiese favori.

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CARTA PENNA E CALAMAIO TENGONO IMPEGNATE LE MANI E LA MENTE DEGLI ARBERESHE

CARTA PENNA E CALAMAIO TENGONO IMPEGNATE LE MANI E LA MENTE DEGLI ARBERESHE

Posted on 08 agosto 2020 by admin

Pinocchio3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il percorso di tutela degli elementi caratteristici della regione storica segue l’ideologia del libero pensiero, come lo fu in quei giovani del 1799.

Si parte dal presupposto che dopo quella stagione il globo intero non ha più avuto una stagione cosi limpida e libera da ogni ideologia di potere politico o religioso.

È per questo che si raggiunse la più alta notorietà nell’intento di creare presupposti di cui avrebbe avuto godimento anche la regione storica, diversamente da come avviene oggi giorno, con sottomissioni riferibili a ideologie di varia natura.

Per questo, la narrazione per essere ben compresa, è fatta da quanti hanno educazione libera da pensieri alloctoni o condizionati, affinché il percorso di investigazione del seminato possa svolgersi, senza alcun precetto locale di arte e storia riversata.

Lo studio della Regione storica diffusa arbëreshë, segue gli avvenimenti di oltre cinque secoli, partendo dal presupposto che il patrimonio, oggi in parte compromesso negli ambiti dell’Epiro nuova e dell’Epiro vecchia, fu trasferito nella Regione storica Arbëreshë, per garantire una nuova via per il giusto apporto vitale del patrimonio in pericolo.

Per questo gli avvenimenti non devono e non possono sintetizzati secondo i limitati intervalli, pur se fondamentali, riferibili alla vita da arbanon di Giorgio Castriota, nelle mere vicende della gjitonia, citata come vicinato indigeno o nelle valje comunemente diffuse come il ballo tondo, per festeggiare stragi, battaglie senza titolo e senza trono.

Ciò nonostante, costatare che nei secoli e in diverse forme, a dir poco elementari, un numero considerevole di figuranti, ha ritenuto indispensabile tutelare il modello culturale per eccellenza di tutto il mediterraneo, tracciando con penna e calamaio, percorsi di alfabetizzazione, indirizzati comunemente verso quanti quest’arte non sapeva cosa farne e dove depositarla nei comò di casa è veramente paradossale.

Ai figuranti dal XVI che sino i giorno nostri si sono alternati in questa avventura, è sfuggito un dato fondamentale facilmente intuibile, ovvero, un modello culturale cosi radicato è protetto da questo popolo non è da ritenersi racchiuso esclusivamente nelle parlata idiomatica di locazione.

È conferma storica che il modello arbëreshë, non è solo un modo di esprimersi e parlare una lingua codice, ma ha anche elementi materiali e immateriali che la solidarizzano attraverso le consuetudini, i sistemi urbani tipici, nello specifico le dimore dove essa si riverbera senza mai perdere senso, perché avvolta e protetta dal luogo.

Sono i luoghi naturali e costruiti che la rafforzano, restituendo il senso linguistico; se esso continua ancora oggi a seguire imperterrito la sua strada, confrontandosi con le ire del tempo e della modernità, lo deve al luogo costruito dove sono stati depositati quei moduli abitativi, scrigno ideale di linfa buona per rigenerare il tesoro durante lo scorrere del tempo.

Sin dai primi esempi di modelli abitativi, furono realizzati secondo consuetudini che consentissero ai suoi abitanti di perseguire il rigenerarsi della specie secondo le proprie necessità, in senso generale e non preservavano esclusivamente uno dei suoi elementi caratteristici e caratterizzanti.

In questo percorso storico, culturale, sociale, urbanistico, architettonico, materico e di credenza arbanon, sono trattati argomenti i cui elementi s’imbibiscono nello scorrere delle letture storico-archivistiche, ambiti locali, trovando conferma nella sovrapposizione  di carte geografiche del meridione(G.I.S.), trovando conforto con le dinamiche politiche/sociali delle epoche riferite.

Va in oltre rilevato che i tomi dalle generazioni del passato pur se colmi del sapere di operanti alfabetari che di arbëreshë non possedevano o meglio non interessava avere una visione completa del patrimonio culturale, ma una regola da riversare per i propri fini.

Ostinandosi in questo modo a seguire una meteora ignota, annotando secondo le consuetudini di altrui genti ciò che intimamente numerosissime generazioni arbëreshë avevano difeso all’interno dell’articolato labirinto identitario.

Sono numerose le figure che comunemente confondono “Storia” con “Racconti”, questi ultimi ormai diventati leggenda, sono arte alchimistica diffusa, il cui fine mira ad adombrare il significato dell’accadimento o evento per fini personali o di casato.

Sono proprio questi ultimi a trasformarsi in veri e propri fiumi in pena, che formalizza e crea la comunità di “borgatari”,che si concretizzano come operatori in forma d’instancabili riversatori di cultura.

Essi si presentano come generici rappresentanti, elevandosi a vere e proprie dogane culturali locali; Bertine, sotto mentite spoglie.

Sono materialmente le vipere delle consuetudini, e per meno di tre danari, per una gloria che non avranno mai, distruggono e separano ogni cosa utile alla minoranza storica, giacché, nati per alimentare il girone degli Ignavi.

Vivono ai margini delle corti, in sottoscale dei potenti mercanti, vendono ogni cosa, persino il sangue culturale dei dotti, per stare più leggeri e rimanere a galla, per l’inopportuna posizione.

Gli appassionati cultori, sono gli unici ad avvertire la loro malefica presenza e infastiditi dalle movenze striscianti, con cui provano a darsi un contegno teatrante, nella sostanza sono “fumo malsano” che inquina perennemente l’ambiente culturale.

La loro missione mira a nascondere dividere e creare presupposti che rallentano la ricerca, non mettono in campo nulla per coinvolgere unire o confrontare l’opera dei dotti; figure nate perdenti, in quanto l’unica capacità innata si concretizza nel male, lo stesso che diventa consuetudine e ragione di vita e qundi ignari del loro operato deciso dal diavolo.

I “non fatti o le cose mai avvenute” sono le uniche azioni inconcludenti in grado di produrre, studi dozzinali, ripetitivi, talvolta fuorvianti, recepiti dalla gente comune con sensazione positiva.

L’attività di questi diavoli in pena, è di creare muri invalicabili contro la culture, cosa che gli riesce bene, perché si dispongono con furbizia vicino alla gente, inventando per nome e per conto di altri, atti e fatti percepibili dalla gente per un loro ipotetico uso o beneficio.

In altre parole sono l’esatto contrario di un ricercatore il quale produce “invece” rilevanti resoconti indispensabili alla gente che vuole capire, comprendere e decidere.

La Società di cui si compone la regione storica, non è ancora purtroppo «Aperta», in quanto, si distingue per gruppi secondo i quali le cose sono giuste se appartengono ad una categoria, le altre saranno da vedere a prescindere se esse siano giuste e finalizzate al benessere diffuso.

Tanti sono i figuranti e tutti accomunati nel principio secondo cui, la vittoria della scienza, la formazione e la cultura, esclude l’insieme chiuso e se ciò avviene, non sarebbero più in grado di porsi alla guida della nostra gente sottomessa culturalmente, per questo la loro battaglia perenne mira a far prevalere la mediocrità sulle capacità intellettuale.

Gente che non ha nessuna remora a minimizzare il lavoro altrui, definendolo qualunquista, oracoleggiante, profetizzante, ecc., quando il qualificato, oscura la loro visibilità o denuncia il loro lento e trasversale modo di fare ed essere.

Anche per tale motivo, questa nota rientra nel ventaglio di lotta contro tutte le dittature che tengono prigioniera la regione storica nonostante sia stata capace di essere la più integrata del mediterraneo.

Questa vuole essere solo un breve accenno di una più vasta ricerca sul Brigantaggio della cultura della regione storica che parte dal 1799 e inizia a scorrere imperterrita dall’agosto del 1806, seguendo una deriva culturale che tutti osservano e nessuno ha lo spirito di fermare, perche si ostinano a tenere le mani impegnate con penna carta e calamaio.

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L’ARCHITETTURA DEI CENTRI STORICI MINORI SI LEGGE NEGLI ANFRATTI NATURALI,  NON SI CERCA NEGLI ARCHIVI PER POI RACCONTARLA CONFORTATI DALLA “CARTA”:  ESSA, L’ARCHITETTURA, NON È ALTRO CHE IL CONNUBIO LOCALE TRA UOMO E AMBIENTE.

L’ARCHITETTURA DEI CENTRI STORICI MINORI SI LEGGE NEGLI ANFRATTI NATURALI, NON SI CERCA NEGLI ARCHIVI PER POI RACCONTARLA CONFORTATI DALLA “CARTA”: ESSA, L’ARCHITETTURA, NON È ALTRO CHE IL CONNUBIO LOCALE TRA UOMO E AMBIENTE.

Posted on 06 agosto 2020 by admin

800px-Plato_Silanion_Musei_Capitolini_MC1377NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La straordinaria quantità di nuclei urbani presenti nel territorio dell’Italia collinare, obbliga a riservare molta attenzione nel tentare una qualsiasi definizione per identificare i detti ‘centri storici minori’.

Anzi è bene ribadire che il termine utilizzato dagli  urbanisti, è considerato come certezza di tipologia,  raffinata integrazione tra ambiente naturale e arte locale degli uomini.

Sul termine minore, non deve costituire aprioristicamente un parametro qualitativo, perché l’aggettivo, fa riferimento a un sistema costruito non nel tempo di una stagione, come avviene per l’architettura tutelata, ma sovrapponendo ere, esigenze e patimenti, per questo uno dei patrimoni più diffusi e caratterizzanti una ben identificata area mediterranea.

Centri storici minori sono la memoria diffusa di più epoche e per questo bisogna prestare molta attenzione nel considerarli di seconda categoria e magari ritenersi liberi nel definirli comunemente come Borghi.

L’Architettura dei piccoli centri minore è l’insieme di manufatti che definiscono l’ambiente costruito, accogliendo nel corso della storia, elementi architettonici sovrapposti secondo le necessità dell’economia popolare dall’alba del rinascimento.

In sostanza essi non sono altro che l’espressione delle tecniche di edificazione locale, gli elementi e i materiali tipici, gli schemi distributivi dell’edilizia, prima rurale poi urbana residenziale e in fine nobiliare, ossia le tradizioni costruttive in consolidato equilibrio rispetto alle condizioni dei luoghi e sempre rispettosi dell’esigenze di umini e ambiente.

Essa rappresenta il sunto delle condizioni economiche, il susseguirsi della formazioni delle classi sociali.

Nel corso dell’ultimo ventennio in ogni latitudine meridionale e in specie nella regione storica, è fiorito un nutrito numero di studi intorno al plurisecolare cammino della minoranza e non solo, i cui riferiti hanno avuto come argomento i centri storici minori e gli accadimenti di crescita sino i giorni nostri.

Il risultato finale di questa fioritura, che avrebbe più senso identificare Xylella, giacché la natura e la formazione degli autori, non avendo  alcuna cultura in fioriture,  produce un danno pari al noto sterminio degli uliveti pugliesi.

Le nozioni attinte dalle fonti più disparate e senza alcuna capacità di lettura e confronto con il territorio, ha seguito la via dei noti stregoni locali, per continuare, il componimento, con una forma di autorevolezza archivistica di ogni dove, per poi terminare con considerazioni storiche urbanistiche e architettoniche, addirittura strutturali, a dir poco infantili.

Tutto ciò avendo ben cura nel disertare le letture dei testi di cui il meridione è ricco o quelli storici che forniscono una solida traccia di base, da cui elevare gli eventuali progetti di studio; lo stato di cose ha innescato processi per i quali, a vario titolo sono apparsi alla ribalta fatti e conclusioni, la maggior parte dovute ad temi, dilettantistici.

Di essi fanno parte, generalmente figure che raggiunta l’età della pensione o addetti che trovandosi di fronte un qualsiasi documento, si elevano a ricercatori, che, presi d’amore per il natio loco, producono, testi a dir poco acerbi anzi innaturali o immaturi per l’ambito descritto.

Sono essi i cosiddetti “scrittori locali”, che trattano le vicende del  proprio “borgo”  (e già fanno il primo errore con questo appellativo) dal  lato prettamente  municipalistico, o per meglio dire di Baskia, occupandosi in genere esclusivamente del tema locale, dissociato, distaccato e disconnesso con la storia del comprensorio di cui il centro è parte.

Spesso tali lavori sono approntati da persone con il “pallino” della storia e, di pari passo con l’usuale  lavoro,  svolgono questa attività senza alcun confronto con gli specialisti locali o di quelle determinate discipline, che non fanno parte del loro percorso curricolare, che in molti  casi è ignoto.

Costoro, potrebbero essere definiti come gli storici dell’alchimia locale, sono per questo da considerare pericolosi rispetto lo storico professionista, soprattutto perché offrono  loro  notizie  forviati, in quanto lette e interpretate senza alcuna capacità di confronto con il territorio e gli specialisti locali, che dovrebbero iniziare a rispettare e riverire.

Tanti prodotti, anzi direi pericolosamente troppi prodotti editoriali, sono spesso infarciti di grossolani  errori e i loro autori seguono fedelmente quanto ammannito dagli antichi scrittori, specie quelli  estrazione professione avrebbero dovuto  redimere le anime, questi sono poi proprio coloro che accoglievano ogni bubbola come fosse oro colato, diffondendole nei loro comizi domenicali .

Ben più grave a tal proposito è la posizione degli istituti di cultura che avrebbero dovuto vigilare, e invece accolgono e spalleggiano tali prodotti con sorrisi ironici, che se da un lato si illudono di garantire la superiorità intellettuale dell’istituto, dall’altro lasciano diffondere eresie ed imprecisioni, che a breve richiederanno l’indispensabile apporto di  veri esperti, per differenziare la storia con le innumerevoli ilarità

La presente indagine, che studia tale produzione, vuol lanciare un grido di allarme e di dolore, affinché tale stillicidio della storia, le eccellenze delle architetture minori, non finisca in un soffritto dove a consumarsi sono, paesi, terre, contrade, fortilizi, castrum, e katundè, e vedono emerge sempre solo ed esclusivamente il rozzo e germanico Borgo germanico/francofono, nonostante la lingua italiana per la sua pulizia di espressione ci offre appellativi più coerenti e adeguati, per evitare che globalmente diventiate riversatori della storia locale.

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