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KAIVERICI I VJETER UNA LEZIONE DI GJITONIA

Posted on 02 febbraio 2014 by admin

KAIVERICI UNA LEZIONE DI GJITONIA NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’enciclopedia Treccani descrive gli Stati Generali come l’assemblea dei rappresentanti dei 3 ordini o Stati (clero, nobiltà e ‘terzo Stato’, ossia la borghesia), prima della Rivoluzione nel Regno francese.

Volendo accumunare questi sostantivi agli albanofoni odierni, sarebbe identificabile rispettivamente nel clero, nei letterati e nei cultori.

Tutti uniti dal legame di sangue albanese, per esaltare i propri diritti della Legge del 15 Dicembre 1999, n. 482,che ha moltiplicato come per miracolo storico il numero dei grecanici a scapito degli albanofoni, così anche quando si promuove il ricordo di luminari o  la realizzazione di sagre ed eventi tra i più disparati; in questi casi  pronti a dare battaglia sotto la bandiera bicipite, in favore dei valori caratteristici della minoranza.

Purtroppo lo stesso entusiasmo e gli stessi principi, con molto dispiacere, nei giorni scorsi  non li ho riscontrati nel leggere le relazioni della conferenza di servizi che ha riunito i vertici della regione Calabria, della Provincia di Cosenza e del Comune per la delocalizzazione del centro albanofono di Kaiverici i vjeter.

Dalla diffusione della notizia dell’evento franoso, alla realizzazione del progetto, sono trascorsi oltre otto anni, nessuno degli Stati Generali, Associazioni, Proloco o liberi movimenti atti alla valorizzazione delle pertinenze albanofone, ha sprecato una parola, nonostante gli organi di informazione e i prodotti messi a stampa ci informavano che c’èra la volontà di costruire un intero paese albanofono, delocalizzandolo dal suo vecchio sito, depositando al suo interno la Gjitonia (?) e non una ma, addirittura, cinque (?).

A questo punto due sono le domande che è legittimo porsi; o nessuno ha consapevolezza di che cosa sia la gjitonia; oppure la volontà di difesa e valorizzazione delle pertinenze è solo un sentimento platonico.

Vero è che tanti arbëreshë, quanto si contano nelle dita di una mano, sono stati costretti, nonostante minoranza linguistica, ad addossarsi la croce sostenendosi esclusivamente negli ideali arbëri, depositati nel loro piccolo agglomerato da cui erano stati allontanati.

Oggi nonostante una sentenza abbia dato a loro ragione, i perseguitati albanofoni, rimangono ancora da soli e nessuno supporta le loro ragioni che affondano le radici in quei dettami identici a quelli di tanti paesi minoritari della Calabria, della Sicilia, del Molise della Puglia e di Lucania, che potrebbero vivere lo stesso trauma sociale.

Da nessuna di queste regioni i discendenti del Kanun o dei Koronei ha soffiato un alito di vento a sostegno dei valorosi abitanti di Kaiverici i vjeter.

Questi ultimi rappresentano l’esempio moderno della vera arberia, armati di una grande forza di volontà hanno difeso la storia di noi tutti (per coloro che non lo sanno, questa è l’originario significato della gjitonia), salvaguardando il modello sub urbano arbëreshë e non solo.

I valori di appartenenza sono gli stessi che nel quattrocento indussero il Kastriota alla guida del piccolo esercito di Albanesi a impartire dure lezioni a chi metteva a rischio gli stessi principi della fratellanza albanofona.

http://www.amatelarchitettura.com/2014/01/cavallerizzo-la-legge-e-legge-ma-solo-se-ce-la-deroga/comment-page-1/#comment-5672

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QUALE RECUPERO DELLA TRADIZIONE?

Posted on 25 gennaio 2014 by admin

ConseguenzaNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Conseguentemente ai palesi, ma non ancora del tutto redenti, errori nell’utilizzare in modo improprio il patrimonio minoritario, si cerca di rime­diare ripiegando l’interesse verso proposte all’insegna del recupero della tradizione.

Due termini antitetici di cui a ben vedere: il Recuperare, esprime le gesta del rivitalizzare, rimettere in funzione o semplicemente rispolverare ciò che è stato dismesso; la Tradizione invece è il filo ininterrotto che unisce le conoscenze al passato, senza soluzioni di continuità.

Come si può recuperare la continuità storica, se coloro che la devono salvaguardare, non sanno riconoscere le azioni delle esperienze tramandate dissociandole dalle aliene contaminazioni?

Il recupero, segna il cambio di tendenza e di gusto individuabili nel:

–          Determinarsi di una nuova etnia che è interessata non più a sé stessa, ma al fenomeno;

–          Deter­minarsi di un nuovo concetto di storia distaccata dal passato e che traccia il trapasso da storia-racconto a storia-problema;

–          svilupparsi dei nuovi processi sociali legati alle innovazioni tecnologiche.

Ora, mentre l’ultimo punto è senz’altro chiaro, molti più dettagli occorrono per comprendere gli altri due.

Il termine tradizione deriva dal latino e significa consegna di una cosa ad altri, e quindi anche trasmissione attraverso il tempo di nozio­ni e ricordi, in forma raccontata e vissuta, come avviene per le minoranze nel meridione.

La consegna di un’eredità consuetudinaria, come nel caso degli arbëreshë, implica, la contemporanea pre­senza di chi riceve e chi da; il racconto orale, non può avveni­re altrimenti, che con la partecipazione all’azione vivendola e raccogliendone tutti gli aspetti caratterizzanti.

Chi narra è sullo stesso piano di chi ascolta: entrambi usano lo stesso linguaggio, entrambi partecipano al fatto, entrambi possono provare e riprovare ciò che hanno appreso perché i mezzi, le gesta e il fine a loro disposizione è comune.

Questo indica palesemente quali siano stati i precursori principali, del secolo scorso, che hanno dato avvio al processo di degrado del modello sociale legato alla consuetudine.

La tradizione, allora, implica contatto diretto tra chi tramanda e chi apprende il processo, affinché vada a buon fine, richiede che le due sfere coinvolte appartengano all’etnia, parlino la stessa lingua e abbiano cognizione dei dettami di patrimonio.

La tradizione non è altro che la trasmissione dell’espe­rienza, vincolata a regole ferree, per cui l’attendibilità del messag­gio e regolata dall’appartenenza del comunicatore e dell’ascoltatore, il buon fine delle consegne da tramandare, avviene se il maestro che trasmette il messaggio e l’allievo che ascolta si prefiggono comuni intenti.

Appare evidente che il sapere ha una diffusione lineare, da padre in figlio, senza intromissioni o ricerche di conferme è cosa ben diversa lo sperimentare, che per aver valore, ha bisogno di essere condivisa perché non è attendibile.

Stando a queste inconfutabili interpretazioni, la tradizione ha avuto una prima aggressione proprio dalla diffusa sperimentazione, legato, poi, al discorso della divulgazione che è racchiuso nella seconda affermazione; il passaggio da storia-racconto a storia-problema.

Il passaggio dell’esperienza all’esperimento implica anche un largo coinvolgimento di soggetti ammessi a parteci­pare alla narrazione attraverso il racconto scritto, in cui tutti possono prendere parte al  evento di sperimentazione, non come attori, ma come spettatori e quindi l’idea moderna di storia basata sull’oggettività del fatto.

E per rag­giungere tale livello di obiettività è necessario presupporre un distacco dall’evento descritto, una non partecipazione a esso.

La trasmissione di questi saperi sono per lo storico come dei fenomeni, con la nuova idea di storia, non interessano la cose, ma gli effetti.

La storia continua a esser fatta di racconti, ma l’oggetto della narrazione non è più l’evento vissuto in prima persona, piuttosto è il fatto, il documento.

La storia è la forma scientifica di memo­ria collettiva, ciò vuol dire, che una cosa è il dato materiale, un’altra è il racconto che scien­tificamente è redatto per produrre testimonianza imperitura.

Va oltremodo affermato che il passaggio di consegne da una generazione a quella successiva avviene sia per gli ambiti materiali che per quelli immateriali, due aspetti inscindibili e univocamente commessi gli uni dagli altri.

Stando a questo dato fondamentale, infatti, non avrebbe più senso parlare di conservazione del manufatto in senso generale o salvaguardarne il dato documentale o narrativo; tutela fisica del manufatto, ma anche adoperarsi a proteggere il dato, documentale.

Purtroppo riguardo queste condizione si cerca di ottenere molte notizie e riempire gli archivi, le biblioteche, con monumenti di carta, fotografie e incomprensibili prodotti scrittografici, prestando in questo modo il fianco ai restauri moder­ni utilizzando in maniera incauta, metodiche non in linea con le abitudini locali.

A che serve allora conservare il dato narrativo se poi il monumento, la strada o l’anfratto, sono oggetto delle più clamorose e anomale manomissioni?

Basti pensare ai restauri condotti durante tutti gli anni Ottanta con la sostituzione di parti degradate di edifici, con materiali seriali di produzione industriale, impiegati come panacea a qualunque tipo di causa ammalorante, producendo in questo modo la perdita di una moltitudine di soluzioni storiche e quindi anche della perdita del significato materico, architettonico  e strutturale.

Un esempio per tutti, che poi è quello più appariscente, s’individua nell’utilizzo dei nuovi intonaci derivati da sintesi industriale.

La diffusa pratica, ogni volta che si è intervenuto su di un manufatto, ha prodotto lo scarnificare degli strati d’into­naco a calce esistente, sostituiti con intonaci cementizi, con la relativa stesura superiore di tinte al quarzo o ai sili­cati, provocando danni irreparabili alla stessa statica degli edifici, in quanto l’alieno strato di intonaco non ha permesso alla muratura sottostante l’idonea traspirazione, di conseguenza, l’umidità in esso contenuta ha dato avvio al processo di ammaloramento del nuovo intonaco e il distacco della pellicola di pigmento.

Gli esempi messi a frutto negli ultimi decenni sono tanti e molte volte hanno messo a rischio la statica degli stessi edifici che in apparenza possono sembrare in ottimo stato, ma nelle parti più intime della statica e del loro valore storico sono stati gravemente compromessi.

La tendenza delle istituzioni e specialmente nel meridione, cerca di imporre modelli di nuova concezione che diano almeno conforto alla statica degli edifici storici, ma la piaga prodotta è troppo devastante, per cui si preferisce sottacere, augurandosi che non accada mai quello che hanno visto protagoniste le murature d’Abruzzo, nell’evento sismico del 2009 quando le nudità murarie orizzontali e verticali ha messo in evidenza quanta e quale incoscienza era stata operata in quegli ambiti.

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Protetto: L’ARBERIA OGGI: DISCORSO SULLA SOSTENIBILITÀ ETNICA (nëng qëndroi faregjë)

Posted on 12 gennaio 2014 by admin

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Protetto: UNA LIBRERIA INCASTONATA TRA I PERSONAGGI IN TERRACOTTA A VIA SAN GREGORIO ARMENO 4

Posted on 10 novembre 2013 by admin

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Protetto: REGIONE ARBERIA ULTIMO BALUARDO PER LA MINORANZA

Posted on 27 ottobre 2013 by admin

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FOLKLORE E IL SUO SIGNIFICATO.

Posted on 31 luglio 2013 by admin

Napoli ( di Atanasio Pizzi) – Il termine Folklore è usato da molti per indicare esclusivamente quelle rievocazioni recenti (spesso arbitrarie) di antiche feste cittadine in cui fanno sfoggio gruppi che cantano e danzano.

I programmi  si basano su testi poetici e musicali elaborati da maestri che li istruiscono secondo gusti che si affidano alla preparazione storica e critica di una diffusa insufficiente valutazione della importanza del Folklore.

Il termine comparve la prima volta il 22 agosto 1846 unendo due parole antiquate e di origine sassone: folk= popolo, e Zore=sapere, che letteralmente tradotto vuol dire, sapere del popolo, e rappresentano l’insieme delle cognizioni e forme di vita tradizionale proprie delle classi popolari.

In Italia per un certo periodo fu usato dagli studiosi il termine demo­psicologia, sostituito poi con demologia: ma il termine che ormai si è imposto e a cui si deve un patrimonio inestimabile di valori pratici, etici, estetici, è quello di Tradizioni popolari.

Attività spirituale delle collettività, la quale crea, conserva, tramanda e rinnova la vita sociale e culturale oltre alle tradizioni che si dimostrano utili e congeniali alle collettività stesse, mentre elimina quelle che non si riconoscono come proprie.

Affinchè essa si realizzi occorre che un costume, una credenza, un canto, un proverbio, siano accolti e diventino la regolai di un numero più o meno grande di individui, si conservino nel tempo per una durata più o meno lunga e si diffondano nello spazio o area che talvolta si estende a regione storica.

Altro elemento è il tono psicologico di semplicità, di primitività che agevola l’assimilazione da parte delle classi popolari.

Il termine è assimilabile non ad una regione geografica, bensì a quella storica, che avvicina usi che risiedono nella cerchia delle classi popolari minori estese, basti pensare agli usi natalizi, nuziali e funebri, alle principali feste dell’anno o anche alle superstizioni, ai proverbi e così via degli arbereshe d’Italia.

Quanto al contenuto del Folklore e delle sue manifestazioni, rimangono tuttora valide, favole, racconti, leggende,  proverbi, motti, canti,  melodie, enigmi, indovinelli, spettacoli, feste, usi, costumi, riti, cerimonie, pratiche, credenze, superstizioni, tutto un mondo palese ed occulto di realtà e di immaginazione che si muo­ve e si agita, sorride, geme a chi sa accostarvisi e comprenderlo.

La scoperta del mondo popolare ebbe la sua prima divulgazione in Italia, a interessi artistici e letterari, attraverso le figure, scene di vita rustica o anche di Folklore cittadino già dal Cinquecento.

L’attenzione di pittori e incisori che ne fecero soggetto dei loro quadri e delle loro calcografie, in seguito vennero gli interessi scientifici di questa materia, con piena coscienza del suo valore documentario e culturale, si afferma con l’interesse napoleonico (1809-1811), per tutto il Regno centro-meridionale, su dialetti, costumi e l’indole delle popolazioni.

I documenti di questa inchiesta, offrono già un quadro ampio, preciso e prezioso, del Folklore italiano nei primi dell’Ottocento e permettono, tra l’altro, di confrontare le tradizioni popolari di allora con quelle di oggi.

Anche le fogge di vestire fu­rono documentate con il Leopardi che compose a soli 17 anni, oltre ai numerosi riflessi di vita po­polare che si trovano in tutta la sua opera poetica e letteraria.

I primi a raccogliere i nostri canti popolari furono i romantici tedeschi, a cominciare dal Goethe, ma ben presto la partecipazione dei nostri letterati alla discussione e alla raccol­ta dei materiali, si andò affermando, specie per quanto riguarda la poesia popolare pubblica Atanasio Basetti nel 1824.

La raccolta e la valorizzazione della poesia popolare fu una delle componenti di prim’ordine per la formazione dello spirito nazionale durante il nostro Risorgimento e la migliore sintesi che il nostro Romanticismo seppe esprimere in questo campo.

Questa purtroppo è un’altra storia, che i precursori odierni del folklore minoritario forse ignorano, giacché, attratti da inutili stereotipi.

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IL 14 LUGLIO, COMUNITÀ ARBËRESHË A CONFRONTO NELLA RIEVOCAZIONE STORICA DELLA “RETNES ARBËRI”.

Posted on 16 luglio 2013 by admin

SAN MARZANO (di Lorenzo Zolfo) – Per la prima volta nella storia di San Marzano (TA), centro arbereshe della Puglia, la più popolosa tra le comunità arbereshe sparse per il centro-Italia, con i suoi diecimila abitanti, tale da definirsi la “Capitale Arbereshe in Italia”, domenica 14 luglio si svolta la prima edizione della storica battaglia di Maschito (Pz) denominata  “RETNES”.  Le due compagnie d’arme del Capitano Stradiota Lazzaro Mathes di Maschito (PZ) si sono sfidate  nel centro di San Marzano (TA). E’ uno spettacolo con rievocazione storica della cittadina di Maschito in costumi e soldati Arbereshe e Greci di Corone. Entusiasti gli organizzatori pugliesi che hanno ritenuto questo evento una  delle manifestazioni più importanti della provincia di Taranto e l’intera Puglia, sponsorizzata dal  Comune di Maschito (PZ), Comune di San Marzano (TA), Regione Puglia, Basilicata Turistica, Meraviglia Italiana, Regione Basilicata, Gruppo Culturale San Marzano Turistica, Comitato Film e Spettacoli, Cosimo Di Maglie (promotore), Compagnie d’arme del Capitano Lazzaro Mathes di Maschito, Comunità Europea e tutte le testate giornalistiche e tv locali. Un evento, quello della Retnes prettamente arbereshe riproposta da alcuni anni dall’associazione culturale arbereshe di Maschito Compagnie d’Arme Lazzaro Mathes, presieduta dall’insegnante Elena Pianoforte il 5 e agosto e da pochi mesi questa rievocazione storica sta diventando itinerante per i paesi non solo arbereshe con lo scopo di mantenere viva la storia, la cultura e le tradizioni arbereshe del proprio paese. San Marzano, venuto a conoscenza di questo evento, ha voluto riproporlo ai propri cittadini ed i risultati sono stati positivi. Commovente è stato il momento in cui il banditore di questo gruppo ha annunciato, in lingua madre, l’inizio di questa festa arbereshe: “Onorevoli sanmarzanesi,uomini, donne e ragazzi, oggi domenica 14 luglio alle ore 20 facciamo una festa arbereshe nella piazza del Milite Ignoto. Venite tutti, vi aspettiamo”. La “Retnes”, non è altro che una rievocazione dell’origine di Maschito, fondato dai mercenari guidati dal Capitano Lazzaro Mathes. La Retnes, tra le manifestazioni maschitane è sicuramente la più antica ed interessante, risale certamente ai primi anni della nascita della cittadina (primavera del 1517) e commemorava la sua fondazione con una giostra di Stradioti. Alla luce di nuove ricerche storiche inedite singolari ed eroiche sul passato di questo centro arbereshe è stata organizzata, con minuziosità di particolari, sia nella realizzazione dei costumi, sia nelle armi tipiche nonché in tutti i dettagli di carattere storico, da alcuni anni, una rievocazione storica più vicina alla realtà della Retnes. Particolare attenzione è stata posta per organizzare i figuranti in due schieramenti che rappresentano le due etnie principali che fondarono Maschito: i Greci-Coronei ( che si insediarono nella parte nord del paese) e gli Albanesi-Scuterini (occuparono la parte sud del paese), i primi “Majsor” e secondi “Cndrgnan”, da sempre rivali per diversi motivi, anche futili, fino agli anni ’70. La conclusione, come nei migliori film, è piacevole, dopo la battaglia finale, segue la sfilata congiunta delle due fazioni al comando del Capitano Lazzaro Mathes dove la manifestazione si conclude con il giuramento di pace delle due fazioni. “La rievocazione della Retnes vuole essere un viaggio nella memoria per rinsaldare i vecchi legami con la storia e l’identità, un salto nel cinquecento tra colori,musiche,costumi, armi e cavalieri, per vivere l’emozione di essere trasportati nel passato” ha riferito Elena Pianoforte, presidente dell’Associazione Retnes. Presente a San Marzano anche Vincenzo Pianoforte, tra l’atro figurante ed ex amministratore di Maschito ed ideatore del gruppo storico Retnes: “ dopo i costumi maschili, il nostro prossimo obiettivo sarà quello di recuperare i costumi femminili. Dopo aver riprodotto per alcuni anni questa rievocazione storica a Maschito, da qualche mese sta diventando itinerante per i centri arbereshe d’Italia. Dopo Ginestra, altro centro arbereshe del Vulture, siamo stati ad Avigliano alla festa patronale di San Vito ”.

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IL SENSO DELL’APPARTENENZA

Posted on 05 luglio 2013 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – È un sentimento che caratterizza solamente alcuni soggetti di una determinata civiltà, l’innata indole contribuisce in maniera determinate a intuire quali siano i costumi originali evitando di incamminarsi verso oscuri sentieri.

Lo studio più idoneo generalmente è fatto esaminando non i migliori e i più suggestivi costumi, ma riconoscere quali siano i propri, degni di approfondimento e considerazione.

Ciò che non contiene e veicola modelli di appartenenza non caratterizza un popolo, una comunità o una minoranza, giacché solo gli animali sono inclini e attaccati ad imitare le cose altrui; mentre solamente quello che è proprio ed è radicato nell’ animo fa consolidare il senso dell’appartenenza.

Individuare esattamente i costumi propri, da quelli impropri, pone in piani differenti i soggetti che si possono classificare in uomini colti e barbarici.

L’analisi ideale progredisce comparando, la conoscenza delle caratteristiche morali, politiche, consuetudinarie sino a giungere alle forme dell’arte strettamente correlate con gli avvenimenti storici, sono questi gli oggetti di studio indispensabili, che contribuiscono a produrre un itinerario compiuto e privo di insane aberrazioni.

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PROGETTO “NOVECENTO”. FONTANA SKANDERBEG. MUSEO ALL’APERTO DELLA CIVILTA’CONTADINA.

Posted on 01 luglio 2013 by admin

MASCHITO (di Lorenzo Zolfo) – Nei giorni scorsi, nell’ambito del  Progetto “Novecento”,  la Fontana Skanderbeg è stata trasformata in una Aia. Nonostante la partita Brasile-Italia, tanta gente ha partecipato a questo evento promosso dall’indefesso Michele Sciarillo, un emigrante che ritornato definitivamente a Maschito, ha deciso di rianimarlo con eventi arbereshe significativi. Una manifestazione che ha promosso antichi mestieri e la valorizzazione di alcuni piatti tipici arbereshe.In bella mostra utensili di una volta, tra questi l’aratro in legno (Suglion) ed il “Dirimone”, attrezzo agricolo che serviva per la pulizia del grano di Elia Cuviello, che nel centro del paese, custodisce in una cantina, altri attrezzi antichi, il suo desiderio è quello di creare un museo della civiltà contadina.Altri attrezzi in evidenza:  la macchina del grano di Tommaso Caglia. Giovanni Carlone, appassionato per la lavorazione in pietra, ha messo in mostra alcuni suoi lavori, bassorilievi con ricami in architrave. Antonio Bochicchio, dedito alla pastorizia, ha creato un piccolo gregge di pecore. Si è dato risalto anche alla cucina  contadina, preparata dalle massaie Teresa Manuto, Rosa Daraia e Maria Telesca con la lavorazione della pasta fatta in casa( hanno sostenuto: “ la pasta fatta in casa è più saporita rispetto a quella comprata, che viene prodotta da macchinari. Il segreto è la semola di grano duro che mantiene la pasta più resistente ed intatta”), assaggio di fagioli con la cotenna, peperoni cruschi, pettole,  e  preparazione di mozzarelle in seduta stante da parte di Rocco Caraffa dei Sapori Lucani di Filiano. Anche un gruppo di giovanissimi:Gabriella,Francesco,Roberta,Esmeralda e Domenico hanno voluto essere presenti per conoscere il passato dei propri antenati: “siamo curiosi di vedere all’opera massaie e contadini che dimostrano come si prepara la cucina di una volta e come si utilizzavano attrezzi di una volta. Conoscendo il passato si può meglio costruire  il futuro”. Presente anche il Sindaco, Antonio Mastrodonato: “un evento importante per i giovani e soprattutto un amarcord per gli anziani. Maschito ha bisogno di queste iniziative per arricchire il bagaglio della propria cultura arbereshe”. Michele Sciarillo, organizzatore, ha aggiunto: “è una rievocazione di antiche tradizioni. L’obiettivo è stato quello di rievocare quanto i nostri avi realizzavano nel loro quotidiano. Dalle numerose persone presenti, l’evento si può dire riuscito, grazie al contributo delle massaie e dei proprietari degli attrezzi agricoli”. Un intrattenimento musicale ad opera di Pasquale Cella di Muro lucano e Donato Albano di Forenza,all’organetto con il contributo di Nino Giuralarocca al tamburello, ha allietato la serata con balli arbereshe.

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BARILE 24 GIUGNO, FESTA DI SAN GIOVANNI. SI RINNOVA .IL RITO ARBERESHE DEL BATTESIMO DELLE BAMBOLE.

Posted on 20 giugno 2013 by admin

BARILE (di Lorenzo Zolfo) – Ritorna, secondo l’antica tradizione , la cerimonia laica del “battesimo delle bambole” (Puplet e Shenjanjet) nella festività  di San Giovanni Battista. Per iniziativa dell’Associazione Intercultura  presieduta dall’Insegnante Giovina Paternoster con la collaborazione del coreografo Robert Lani (un albanese trapiantato a Barile da oltre 20 anni e ben integrato nel tessuto sociale, fino al punto da costituire una scuola di ballo che promuove anche canti in arbereshe) e di numerose famiglie e giovanissimi in costume tipico arbereshe.Bambini ed adulti  lunedì 24 giugno alle ore 18, nel piazzale della stazione si esibiranno in questa cerimonia laica. E’ una antica tradizione arbereshe che si festeggia il giorno di San Giovanni Battista. Le bambine  tra i sette e gli undici anni, accompagnate dalle loro madri si recano allegramente presso il piazzale della stazione di Barile.Le bambine formano delle coppie, vicino ad una rampa di scale in pietra. In ogni coppia vi è una con una bambola confezionata appositamente per questa circostanza. Sono bambole ottenute avvolgendo delle fasce e pannolini per neonato attorno al manico di un grosso mestolo di ferro o di alluminio.
La testa ha la calotta sferica riempita di stracci e avvolta da un panno bianco con il viso dipinto sulla parte convessa. Cuffiette di lana, camiciole, magliettine, bavaglini e sacchetti porta infante completano l’abbigliamento delle bambole. A turno le bambine madri depongono a terra, con gran cura, come se si trattasse di neonati in carne ed ossa, le bambole-figlio collocandole subito sotto il primo gradino della scala di pietra e saltano per tre volte ogni volta pronunciando, cantilenandola, la seguente formula: Pupa de San Giuanni Battizzami sti pann Sti pann sono battezzate. Tutte cummari sime chiamate. Il rito finisce in questo modo:la pupattola viene presa e baciata, quindi la comare bacia la bambina- madre consegnandole la figlia. Dopo la cerimonia tutti festeggiano mangiando dei biscottini.

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