Archive | Racconti

STORIE SILENZIOSE

Posted on 26 settembre 2012 by admin

ROMA (di Paolo Borgia) –  C’era una volta un asino. La sua vita era quella di tutti gli animali domestici. Si può dire che se la passava bene. Il suo padrone, vecchio e malato, lo teneva per sé solo per andare nel suo campo appena fuori paese. Aveva, raro privilegio, una stanza solo per sé e con l’ingresso indipendente. Qualche volta il figlio del fratello del padrone, morto ancora giovane, lo prendeva in prestito. Anche quel giorno il giovane lo prese per raggiungere il luogo dove si celebrava la Festa dei Lavoratori a quattro chilometri dal paese. Una gita per lui: Nino, il ragazzo, era magro. Come tutti, allora.

Giunti nella zona dell’evento, dopo aver lasciato l’asino nello spiazzo dove erano tutti i quadrupedi, il giovane si recò nel luogo dell’adunanza. E l’animale ne approfittò per fare una dormitina.

Improvvisamente si svegliò di soprassalto. L’aria si era riempita di crepitii assordanti, come quando esce di chiesa la processione nei giorni della festività. Però questi erano colpi di mitraglia sparati sulla folla. Una tragedia, una strage di innocenti ammazzati da un nemico vile e senza volto. L’asino sentì un fitto dolore alla pancia. D’istinto si svincolò e fuggì. Ma come provò a correre, il dolore si fece più forte. Così decise di tornare piano piano a casa sua. Trovò la porta della stalla spalancata e si mise davanti alla mangiatoia, aspettando che il dolore passasse, come le altre volte. Più tardi, giunse anche Nino concitato e agitato per la scomparsa dell’asino a lui affidato. Quando lo vide, si rasserenò e si mise a raccontare allo zio quello che era successo e di come avesse avuto paura di morire.

Due giorni dopo l’asino stramazzò al suolo, morto. Solo allora si accorsero che nel fianco che dava al muro l’animale aveva un foro di proiettile infettato. Per tutti era ‘L’asino’.

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Il padre pensò che fosse arrivata l’ora di staccare il figlio dalla madre e di farlo entrare nel suo mondo, quello degli uomini. Decise così che quel giorno il figlio di cinque anni sarebbe andato con lui alla Festa dei Lavoratori. Era una persona dal carattere impossibile. Litigava con tutti. In casa non parlava, al massimo urlava comandi: un orso selvatico.

Fino a quel momento per il bimbo l’idea di padre era per lui assai diversa da quella di madre. Così il bambino, quando per la prima volta si trovò solo con lui in mezzo alla folla, era intimidito, frastornato ed inerte…

Tutt’a un tratto esplose l’inconsulta guerra. L’uomo capì subito quello che stava succedendo e senza perdere tempo prese tra le braccia il figlio e si gettò per terra, coprendo la sua creatura con il proprio corpo. Restarono entrambi indenni dalla furia dei banditi e dai proiettili della mitraglia. Ma tutto era cambiato nella vita del bambino.

Poi, crebbe e andò lontano per trovare lavoro, come la maggior parte. Ogni anno, tutte le volte che può, torna a casa per rivedere la madre e quell’uomo dal carattere impossibile, che occupano i suoi pensieri. Però, quei pochi fotogrammi di una sequenza-azione nata forse più dall’istinto primordiale che dalla consapevolezza tornano ripetutamente nella sua mente, e destano i sentimenti più dolci che un uomo possa sentire. Senso profondo anche nella più insignificante delle storie umane.

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La ragazza si fermava a parlare con un ragazzo, che gli era simpatico. Riusciva a farlo solo mentre aspettava il turno per riempire alla fontana la ‘nxirja’ (recipiente di legno). Non c’era nessuno con cui parlare di questa nuova esperienza. La sua amica fidata si era sposata e con lei ormai c’era il divieto d’incontrarsi, parlare: il racconto della sua esperienza coniugale avrebbe potuto turbarle l’anima innocente. Con sua madre, parlarne significava non potere più uscire di casa da sola. Sì, perché il ragazzo faceva il muratore, mentre la famiglia di lei viveva del lavoro dei campi e questo costituiva un impedimento al fidanzamento: non erano dello stesso ceto sociale. Solo per carnevale riuscivano a stringersi, ballando mascherati. Poi, solo sguardi di intesa da distante e poche parole rubate alla fontana.

Un giorno decisero di ‘fuggire’ – e fuggirono con tutta la nxirja -, mettendo i genitori di fronte al fatto compiuto. Poi, l’indomani, festa del 1° maggio, si presentarono dal prete per il matrimonio riparatore. Questi li lasciò soli in sacrestia  e andò a cercare i genitori e pacificare gli animi. Quando furono riuniti, i due ragazzi, messa la corona, bevvero il vino dallo stesso bicchiere. Poi ridotto in frantumi: come tutte le regole.

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TRA SISIFO E PROMETEO – MONS. PAOLO SCHIRÒ

Posted on 26 luglio 2012 by admin

PALERMO (di Paolo Borgia) – Scendere a Palermo da Piana e fare ritorno in paese con una cavalcatura o con un calesse in tutte le stagioni dell’anno, cento anni fa – e ancor oggi, nonostante il manto di asfalto – significava  viaggiare per cinque ore buone.

C’era, allora, chi ogni settimana si sobbarcava questo strapazzo per portare un foglio manoscritto in tipografia per stamparlo, per correggere la bozza dello scritto della settimana precedente e per ritirare l’ultimo numero di “Fjala e t’in’Zoti”, la Parola di Dio. Rivista settimanale diretta da Antonio Masi, dal  25.2.1912 al 28.2.1915 (nei numeri di aprile, giugno, luglio dell’anno 1912 comprendeva anche “Fjalori”, vocabolario, vocaboli premessi alla rivista): dove Antonio Masi era famiglio nell’Episcopio e la rivista era un foglio scritto in arbrescio, distribuito per la liturgia domenicale. La chiusura del periodico coincise con l’inizio della grande guerra e con la sua opprimente ombra di morte caduta su molte famiglie della nostra comunità.

L’idea, originale novità editoriale in assoluto, è di Mons. Paolo Schirò.

Ma per la comunità “Fjala e t’in’Zoti” è molto di più, è una manna di vita culturale (cfr.Norbert Jokl, Geitie, Guys, Holger Pedersen). Continue Reading

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NJE VASHEZ ARBËRESHË

Posted on 30 giugno 2012 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Quando la giovane Eleda completò gli studi dell’obbligo al collegio, si aspettava che i genitori, così come avevano già fatto con i suoi fratelli maggiori, le avrebbero offerto la possibilità di proseguire gli studi universitari.

Invece i tempi e le regole di allora le imposero marito, e l’agoniata università e quel corso di laurea divennero solo un sogno.

Quella mattina, quando io la conobbi in ospedale, la prima cosa che mi sentii dire fu: ho sempre sognato Napoli come il luogo dove poter approfondire i miei studi ed allargare i miei orizzonti, non mi sarei mai aspettata di venire ed avere la conferma che non ho più un domani.

Il primo di Marzo, era una splendida giornata di sole e con passo sostenuto mi dirigevo verso la stazione ferroviaria di Napoli, per raggiungere Salerno dove mi recavo compatibilmente con gli impegni universitari.

Salito sul vagone di coda, del treno che collegava Torino con le zone più estreme del meridione, era mia abitudine soffermarmi ad osservare le allegorie che trasportava quell’indispensabile mezzo di speranze e aspettative future.

Quel giorno  fui incuriosito dal modo in cui era vestito un viaggiatore,  le sue scarpe, raccontavano la  vera estrazione sociale.

Esse, nonostante fossero state pulite e portate a lucido, conservavano evidenti i segni e i patimenti dei contesti rurali in cui erano abitualmente utilizzate.

La conferma la ebbi quando osservando con più attenzione intuii che, una probabile emergenza lo aveva portato ad abbandonare la sua vita quotidiana e proiettato in questa realtà che non gli apparteneva e lo metteva in soggezione. Continue Reading

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ARBËRESHË – Italo-albanesi

Posted on 30 marzo 2012 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’arberia è nei fatti disunita e senza fini comuni, ha una bandiera che non è la propria, non ha un centro politico comune che abbia rilevanza nelle sedi della Nazione Italiana.

Smembrati in 50 e più comuni, indipendenti l’uno dall’altro, senza alleanze, senza unità di interessi materiali e non, inceppati con il progresso, privi di manifatture che vivono dell’incremento di duecento anni orsono e le attività commerciale non splendono certo della diversità di cui si va tanto fieri.

Eccellenze  territoriali che abbondano in una provincia, difettano in un’altra senza che si sia mai posto un adeguato senso comune per ristabilire un ideale equilibrio.

Trenta o più modelli linguistici ci uniscono in una fratellanza che se da un lato ci fanno dialogare gli uni agli altri dall’altra ci pone alla stessa stregua di  estranei.

E tutti questi paesi, sono governati dispoticamente privi d’intenti comuni, è indubbio che una regione che si potrebbe definire arbëreshë esiste e potrebbe formare un grande gruppo politico economico e sociale unitario, ma allo stato è pura utopia.

Non vi sono cinque, quattro, tre, o più Arberie, esiste una sola, i suoi confini sono delineati nei contesti più suggestivi del sud Italia; il risultano di simboli della loro natura. Continue Reading

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LA CANZONE DEL CANE TURCO

Posted on 29 marzo 2012 by admin

 

 

 

 

 

NAPOLI – (di Atanasio Pizzi) –  Gli usi, i costumi e le tradizioni popolari degli albanesi in Calabria, anche se hanno subito
ingerenza, hanno conservato, in buona parte, la schiettezza della loro terra d’origine.

A Santa Sofia d’Epiro il linguaggio è quasi originale, la si noti nella canzone qui di seguito riportata:

 

Linghirjan di vochiche

Tinghe pe eia pevo u.

Unghe pe da pevoti.

Iscia gna Turca te aio vota.

Ma gna vascia ta liturid,

Liturid pra va sceccia.

Poi me raun te gna erna:

Se, ti zot, e ti gra mastra,

Lascom ta liturid,

Ta Teja gna pica uja.

Ghat goja, chieni Turcu!

Unga dua te cupa Jote,

Se u dua te grusti imma,

Mo pregasti tanazon

Te driggon diza ribara,

Za ribara e za grusara

Za grusara nga ghiacu isaji,

Appena sosi fialzan

Marrivati za ribari,

Za ribari eza grusarì,

Za ribari nga ghiacu i sufi

Turcona ma fundacosan,

Vasciana ma je rumbiena,

Conca viena me sosudidh.


La traduzione italiana è rilevata da una Rivista del 1890, così tradotta:
Discorrevano due fanciulli

 

Tu non vedesti ciò che vidi io

Io non vidi ciò che vedesti tu

C’èra un turco a quella volta,

con una giovane legata,

legata per la treccia per la treccia,

e mani e treccia.

Poi giunsero ad una fontana:

O tu, Signore e gran signore,

allargami la legatura.

Affinchè io beva un po’ d’acqua

Che ti mangino la gola,

cane turco, non ne voglio alla tua coppa,

perché voglio al mio pugno

Poi pregò il Signore di mandarle alcuni difensori,

alcuni difensori e parenti,

difensori del sangue suo.

Appena che ebbe finita la preghiera,

arrivarono i difensori,

alcuni di­fensori e parenti,

difensori del sangue suo. I

l turco stran­golarono,

la fanciulla gli tolsero.

La canzone è terminata.

Un argomento, come si vede, che si riporta al secolare odio verso i turchi, invasori della terra d’Albania, violenti e selvaggi, che, per le efferatezze commesse avevano co­stretto i vinti a fuggire in cerca di una patria adottiva.

Ma la cosa che ha più rilevanza, sta nel fatto, che la poesia è scritta con l’alfabeto delle magiche 21 lettere.

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22 GENNAIO 1912 – 22 GENNAIO 2012 – Janari i Passionatit

Posted on 22 gennaio 2012 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Lunedì ventidue Gennaio del millenovecento dodici, in via Ascensione 24, nasceva Janari i Passionatit, mio padre.

La sua famiglia di umili origini, seppe educarlo secondo nobili principi e lui, facendo tesoro di quelle basi, seppe emergere prima come pastore e poi con il solo bagaglio di arte e manualità, ereditata da suo  padre,  riusciti a dare valore alla sua vita in modo egregio e dignitoso.

Il matrimonio con la sua amata Lina, mia madre, la fedele compagna con la quale ha condiviso tante gioie e difficoltà.

Come le vicissitudini della guerra, che li aveva divisi, sino a quel rocambolesco ritorno a piedi, da Riva di Trento sino in paese, che come un segno del destino termino’ il 2 maggio a ostilità concluse, presentandosi davanti al sagrato della chiesa mentre il santo era portato in processione.

L’episodio  segnò la vera ascesa per assumere la meritata posizione sociale, per la quale alcune persone si posero sempre come ostacolo, perché non facile figura da emulare, specie per il fatto, di voler  consolidare un gruppo familiare che nell’ambiente del piccolo centro, si distingueva per; rigore, onestà e validissima operosità.

Niente e nessuno ha mai potuto disgregare il modello di famiglia  realizzata, pur se i tentativi a tal proposito non furono né pochi e né flebili.

Donasti ad ognuno dei tuoi figli, il meglio di te, arte, operosità, parsimonia e caparbietà, ma per colpa della salute, che è venuta meno troppo presto, non hai avuto l’opportunità di trasferire compiutamente i valori in alcuni di essi, per questo motivo l’operosità divenne indifferenza e la parsimonia avarizia. Continue Reading

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L’ACQUA, LA TERRA E IL CIELO

Posted on 12 dicembre 2011 by admin

ROMA (di Paolo Borgia) – Cielo, terra e mare sono lo spazio tripartito in cui si svolge l’esistenza umana entro il solidale consorzio biologico. La consapevolezza, che questi tre luoghi sprigionano energia, spinge il primordiale uomo a costituire negli stessi luoghi un’altra realtà parallela trascendente, con cui stabilire una relazione subalterna di devozione: il sacro. Distinte dagli eventi ed arcane sono le cause: il maleficio offende gli dei. L’uomo teme la furia degli eventi naturali, prodotti da dei in persona. Cerca di propiziarli, offrendo sacrifici all’altare su cui arde il fuoco e il dio Fuoco, Agni, perché facendo così, ritiene di sanare l’ira delle divinità a cui ha sottratto qualcosa. Ha vergogna di aver turbato l’ordine precostituito, nell’essere predatore da preda che era nel cosmo – la realtà bella. Qui non ci sono città, nè esiste la parola per designarle (nella letteratura sanscrita iniziale). Dieci mila pagine di sacri rituali meticolosi di culto ci restano, l’anima ardente di questa profonda civiltà scomparsa per sempre dall’India (cfr. Roberto Calasso, L’ardore, Adelphi Ed. Milano, 2010).

A 4600 anni dai Ŗgveda cielo, terra e mare sono la sede del divenire del tempo. Questo obbedisce alle leggi della fisica e non ha nessun sensibile ritegno etico: dire tempo cattivo, avverso, clemente è solo ipostatica interpretazione umana della realtà, delle condizioni fisiche determinanti. Continue Reading

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PASQUALE BAFFI Santa Sofia d’Epiro 11 Luglio 1759 – Napoli 11 Novembre 1799

Posted on 09 novembre 2011 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Nella piccola comunità di Santa Sofia d’Epiro, colonia albanese di Calabria citeriore, l’11 luglio 1749 nac­que Pasquale Baffa.

I genitori, Giovanni Andrea e Serafina Baffa, entrambi di origini arbëreshë vivevano nel modesto agglomerato edilizio posto a ridosso della confluenza del camminamento per l’ospizio e il palazzo arcivescovile.

Il cognome, in albanese significa fava,  baf è uno di quelli associati alle famiglie più antiche del piccolo centro albanofono.

Pasquale Baffa rappresenta l’insieme flessibile dell’ingegno ellenico, intriso della caparbietà tipica dell’indole calabrese.

Cresciuto sotto l’occhio vigile della mamma Serafina e dei gjitoni che assieme alla famiglia baffa dividevano il lavoro ed i pochi frutti delle terre sofiote dovette affrontare  la vita sotto la guida dello zio in quanto gli vennero a mancare a poco più di otto anni la madre e l’anel 1759 il padre.

Nei primi tempi della sua carriera scolastica, si dimostrandosi poco appassionato agli studi, fu questo il motivo  iscritto tra gli allievi laici del collegio italo-greco di S.B.U.

Il giovane Pasquale docile ed educato, incline a non subire soprusi e ingiustizie di alcuna sorta, nel corso di una lezione, rimproverato a torto dal suo maestro di greco, esternò le sue perplessità relativamente ad un brano tradotto, invece di avere elogi subì una strappata di orecchie, com’era in uso fare per punire gli allievi. Continue Reading

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Protetto: SPERIAMO CHE CE LA CAVANO

Posted on 06 novembre 2011 by admin

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Protetto: PARAMENTI ORIZZONTALI E INCLINATI

Posted on 15 ottobre 2011 by admin

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