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LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

Posted on 11 agosto 2024 by admin

BanskiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Leggendo trattazioni, principi, concetti e componimenti che compilano la legge a titolo, va rilevato un dato inconfutabile, ovvero, se il legislatore ha dedicato tempo, impegno e spesa per tutelare le minoranze storiche del Italia intera, nell’atto legislativo di inseguire questi esempi di integrazione mediterranea, non si comprende come sia stato possibile smarrire la rotta dei contenuti essenziali.

A ben leggere interpretare e “tradurre” l’adempimento a tutela, emerge palesemente il valore del mero parlato, anche se questo tema fondamentale non si specifica con dovizia di particolari quale debba essere e, di quale espressione si debba fare tesoro.

Nello specifico, leggendo Art. 2, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione, va in favore del parlato delle popolazioni Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il franco-provenzale, il Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo.

Entrare nel merito della filiera linguistica qui solamente citata per grandi linee, è impresa ardua, se non impossibile, ma considerato l’esempio primo di questo elenco; tema studio di questa diplomatica, si deduce che nei Katundë che identificano la Regione Storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, dopo oltre seicento anni di patimenti consuetudinari e della validissima partecipazione all’unità d’Italia, si dovrebbe tutelare la moderna Albanese, che ai quei tempi non era ancora costituita, visto che gli approdati di quella disopra balcanica parlano l’Arbëreşë.

Da ciò si deduce che i parlanti della lingua antica, per legge, e secondo le direttive della 482/99 dovrebbero utilizzare e promuovere a loro favore la lingua Albanese che è moderna ed è di uno stato che in quell’epoca non era ancora stato concepito.

A questo punto è utile fare un parallelismo più chiaro, semplice e intuitivo, svelando ogni sorta di dubbio del legiferato de 99, che a ragion veduta per noi Arbëreşë, storicamente non è un numero che porta bene, infatti riporta orecchio e memoria ad atti non proprio nobili, indirizzati verso le nostre genti.

Appare comunque evidente non chiara e limpida la direttiva espressa verso le genti Arbëreşë, a cui s’impone di eliminare tutti gli adempimenti di lingua antica, per quella moderna dello stato Albanese.

E volendo fare un parallelismo, con la lingua Italiana e quella di radice Latina, si chiede, anzi si legifera che tutto deve essere cancellato per valorizzare l’Italiano moderno e, della sua radice Latina nulla ha più senso e vada cestinato, per meglio dire dimenticato.

La legge così scritta è un propositivo che non ha eguali e, neanche la fonderia più tecnologica, dell’età moderna, riuscirebbe a trafilare, un metallo idoneo a sopportare una resilienza così violenta, dannosa o distruttiva, dirsi voglia.

Stiamo parlando della lingua indo europea tra le più antiche del vecchio continente, essa si sostiene con la metrica del canto, non contempla alcun tipo di scrittura e, a fare da padrone non è l’occhio umano che legge, ma l’orecchi che registra nella mente, qui per non dimenticare, si sostiene l’uso della rima e incide ogni cosa utilizzando sin anche i movimenti del corpo del parlante.

A modesto avviso, non essendo lo scrivente legislatore ma tecnico parlante l’Arbëreşë assiduo, preciso e senza sfumature di sorta, per questo sostiene che la legge nel suo specifico sviluppo applicativo, manca dell’articolo nove della costituzione e, sarebbe stato solo grazie ad esso, che avrebbe potuto risolvere ed evitare tutte le angherie che la minoranza subisce dal 1999, e questo solo a sentimento di memoria.

Ed è da questa data che, senza soluzione di continuità non si riesce ad arginare nulla se non peggiorare le cose, diffuse dagli inopportuni adempimenti di metodo o enunciati, preposti per la tutela, gli stessi, siccome allestiti ad est, remano solo verso una parte del fiume adriatico che vuole emergere in Europa.

Esempio sono e restano le perdite delle macroaree italiane e da un po’ di tempo a questa parte, sin anche le donazioni che provengono dagli ambiti dove il sole e la luna sorge, come se per secoli, non sia mai terminata, l’epica battagli iniziata il giorno di sant’Antonio del 1389 e mai terminata seguendo imperterrite forme di dominazione per i sopravvissuti e le discendenze ancora libere da quella velatura immaginata.

Va in oltre diffondendosi la massima espressione storico culturale, di alcune figure secondarie del XIX secolo, lasciando nell’oblio le eccellenze nate e vissute ancor prima, le stesse che hanno piantato radici per germogliare impulso linguistico, sociale, economico e culturale, lo stesso estesosi in tutto il continente antico, per avvolgere anche i novi ancora in fasce.

Le leggi e le cose che si occupano di territorio, uomini, storia e natura vanno studiate e progettate con parsimonia e dedizione e non con le volontà dell’epoca che scorre, invitando al capezzale figure di esempio culturale, riuniti apposite camere multidisciplinari.

Conferma di un esempio moderno sono le prospettive proposte da Adriano Olivetti, sia nello studio realizzato per rispondere alle nuove prospettive di vita, per quanti vivevano alla fine degli anni cinquanta, nelle abitazioni estrattive dei Sassi di Matera.

Nove relazioni multi disciplinari che hanno fatto la radice del progetto architettonico finale, capace di rispondere con educazione alle esigenze di quegli indigeni locali, che a quell’epoca erano, che manifestavano la classe operaia in paradiso, mentre a Matera vivevano un inferno umido e senza fuoco.

Una manchevolezza vergognosa della politica italica, che in ritardo si rendeva conto di quella realtà, non al passo con i tempi che volevano tutti i cittadini con pari dignità sociale davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

Sempre Adriano Olivetti nelle prospettive moderne dell’industria verde proponeva a Pozzuoli, in provincia di Napoli, un modello nuovo per quanti lavorano e operano nell’industria, la stessa che oggi è diventato esempio di lavoro green nel mondo e a quel tempo correva il 1954.

Oggi percorrendo quei luoghi di Iunctura familiare allargata, Arbëreşë, bisogna attraversarli con le orecchie tappate e gli occhi chiusi, onde evitare l’ascolto e le visioni a dir poco inopportune e colme di sentimenti svuotati, perché proveniente da est.

Immaginando nella mente e nel proprio cuore il riverberarsi delle antiche melodie di genere materno, che qui avevano luogo, quelle stesse che secondo l’elevato sonoro delle sorelle di governo, risvegliano antichi enunciati di operosità condivisa, in ogni dove negli e senza sosta condotti.

Come non ricordare i lunghi pomeriggi davanti al camino, ad ascoltare favole e ironici versi, come dimenticare gli odori che preparavano, taralli, docci, conserve o gli insaccati suini, in continuo progredire, a cadenza mensile per il pane, annuale del suino e stagionale per i conservati e succulente prelibatezze delle occasioni importanti.

Quanto erano buoni quei pani a dimensione di adolescente, che le nostre genitrici faceva, quale premio per essere stati cauti e buoni nel tempo della panificazione, come non ricordare la colazione per la campagna che non è un italianismo ma un spagnoleggiante sostantivo a memoria delle province della Mursia, che nei tempi degli aragonesi, si diffuse anche nei paesi arbëreşë “mursiellë”, da Mursia, una provincia ispanica del mediterraneo da cui provenivano le capre dei paesi albanofoni della preSila calabrese.

Una razza singolare perché oltre a figliare, assicuravano latte per nove mesi/anno, alimento fondamentale per lo sviluppo e la crescita di noi bambini.

Dalle stesse province si possono estrarre, secondo la striscia mediterranea vernacolare del costruito storico, colori, odori, convivenze e necessità identiche, riverbero che va dalla punta più estrema del portogallo sin dove termina il territorio della Grecia antica.

Sono tante le cose che qui si potrebbero citare, ma visti gli atteggiamenti storici rivolti allo scrivente, si ritiene che solo chi volge rispetto culturale, potrà avere visione di un numero indefinito di componimenti storici certificati e validati dal mondo Arbëreşë, ovvero trascorsi della Regione Storica Sostenuta da queste caparbie genti, distinguendo ben ventidue macro aree di specie, idoneamente circoscritte e nominate con opportuni storici sostantivi di luogo.

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LA FORESTA DEL NON VISSUTO AVVOLGE LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENIUTA DAGLI ARBËREŞË (La prima lettera scritta da Banski; E parà kartë i scrùiturë ka Banski)

LA FORESTA DEL NON VISSUTO AVVOLGE LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENIUTA DAGLI ARBËREŞË (La prima lettera scritta da Banski; E parà kartë i scrùiturë ka Banski)

Posted on 10 agosto 2024 by admin

112388676NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per raccontare raffigurare o tracciare momenti epici di un determinato luogo, bisogna averli vissuto o almeno, partecipare o essere parte attiva nei momenti topici, di un ben determinato ambito, altrimenti si compromette definitivamente la memoria, oggi condotta in malo modo in quella identificata Terra a termine.

Cosi come depositare effigi di ironica memoria moderna, senza senso, e privi dei minimali principi di educazione, la stessa che finisce per violentare pesantemente quei luoghi dove la storia, più sanguinaria ha avuto luogo, facendo cosi piangere lacrime di sangue, alle madri lì in preghiera perenne.

La memoria storica locale, come sempre avviene quando ad essere coinvolte sono le alte sfere, riporta sempre alla insignificante domestica Bertina, ma tutti noi che conosciamo la storia sappiamo bene che essa fu solo un capo espiatore, della plebe a cui addossare la violenta piega storica.

Purtroppo, al giorno d’oggi essere “Bertinë” è diventata un adempimento di quanti siedono negli scanni decisionali, al maschile e al femminile, definendo così da qualche anno a questa parte, anche percorsi di termine storico senza precedenti.

In tutto una raffigurazione trasversale, alle ironie coerenti di Banksy e, purtroppo, in questa foresta di incoscienza storica, violentano prospettive, offendono personaggi e devastano figure locali, le stesse che dettero la vita, per una giusta e idonea dignità locale, mai allo stato delle cose raggiunta.

Oggi per vedere “Bertina” con i suoi panni o stracci dirsi vogli basta attendere una qualsiasi manifestazione ed essa appare sottoforma di sposa senza marito, Cattedratico senza un palco, banditore senza offerte, viandante senza meta e tutto questo accade perché le istituzioni della nostra Terra, siccome poco attente o maliziosamente hanno taciuto le cose della storia, hanno dato luogo a mendaci ed ingrate osservazioni di alcuni stranieri, provenienti dalle ische.

Questi ultimi da diversi anzi troppi decenni, fuggendo le nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade umide, non han potuto altrove trovare agio, sanità, quiete e, sotto il nostro amenissimo clima con la protezione di neri locali, che non sono fra le migliori che onorano il loco Terra.

Sono tutti pronti a compromettere il decoro della nostra ingiustamente malmenata patria e, allo stato delle cose si rende necessario un libro che in forma di manuale ne metta con chiara parsimonia in vedute e trattazioni, lo stato fisico e morale, di questi gloriosi ambiti della nostra storia.

Il fine vuole che anche uno svagato lettore che voglia solo deliziarsi di materia, prospettive e curiosità, sia costretto, suo malgrado, a conoscere la parte morale e trovare nello stesso tempo quelle notizie che in una terra, come quella di Sofia, rendono facile l’acquisto di tutte le comodità che fan la vita dilettevole.

Se tale scopo giunge a conseguirsi col presente lavoro, sia giudice il pubblico imparziale che sino ad oggi non sa ancora leggere e collocare le cose della propria storia, nel più idoneo e giusto solco per germogliare storia vera e non racconto o tradimento come era uso fare “Bertina”.

Oggi quante vestono bambine con la prova di gravidanza appesa al collo in abiti da sposa, ballano sostenendo la ruota o la coda, ancheggiano, ruotano in non rispetto del consorte, tengono il giacchino clerico lontano dal seno, sollevano le braccia al cielo, traducono tutto con l’essere, diventare e fare la “Bertina”.

In tutto la rappresentazione più degenere possibile mai in nessuna epoca immaginata, infatti se lei “Bertina” tradì il Vescovo in quel vicolo prima del granaio, aveva a suo favore l’attenuante che non conoscesse le cose, chi va con stoglie per tradire se stessa e la sua discendenza tutta, non ha attenuanti perché da decenni sono redarguite e invitate alla ragione, nell’indossare quel protocollo di vestizione.

A tal fine va ribadito un principio sacro che fa parte del protocollo del progettare, specie nei luoghi antichi e colmi di storia come lo sono le strade, i vichi le porte gli archi i vicoli ciechi e le pertinenze botaniche in Terra di Sofia, se a questo associamo il dato che l’arte vive dove difende da sola e, non certo esponendola alle intemperie di levante e quelle di ponente le più infime.

Ma se si dovesse, per ovvi motivi, ignorare questa norma di protocollo e di buon gusto, sarebbe prima il caso di fare approfondita ricerca storica, di quel luogo specifico, definendo cosa rappresenta per le genti di quel luogo e poi operare con sentimenti di rispetto, tenendo di quali coloriture possano maritarsi con le prospettive impegnate, con messaggio nel pieno rispetto di centro antico.

Se non si fa questa fondamentale attività di ricerca in anteprima e, come svegliarsi la mattina ignorare i propri genitori, che si avviano e rendono possibile la tua esistenza di civile convivenza locale.

Le apparizioni figurative all’interno del centro antico, devono essere discrete e rivolte sempre verso un emblema di credenza, altrimenti finiscono di essere deriva culturale senza alcuna attinenza locale sia verso le consuetudini e sia verso la credenza, per questo destinate ad essere terminate, dal tempo e dalla natura, specie se allocate nei centri antichi di Iunctura familiare Arbëreşë.

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LA PIAZZA È MIA (Trappezà hëştë himja)

LA PIAZZA È MIA (Trappezà hëştë himja)

Posted on 06 agosto 2024 by admin

1943NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È notte, le strade sono deserte, un personaggio irrequieto del paese, irrompe nella piazza vuota, gridando: “La piazza è mia”; questa è una delle scene più belle del film “Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore”.

Il film che ha come oggetto la piazza, riferimento storico primo dei suoi abitanti, purtroppo è una bugia diffusa, in quanto essa rappresenta l’occupazione irresponsabile, di estranei e di figure senza alcuna forma di rispetto per quel luogo, rappresentativo dei locali in continua pena.

E siccome, quasi sempre, la piazza è circoscritto o vetrina di politici, tecnici, burocrati, imprenditori e, ogni sorta di figura che vuole mettersi in mostra, sin anche riferibile a occulti e diffusi poteri, tutti apparendo in veste buone finiscono quasi sempre lì a insediarsi.

Il libro a titolo, racconta la storia urbanistica di un paese, allocato alle porte di Palermo, il di cui male in affari, tenta di impossessarsi e per questo, viene elogiato quanto impegno viene profuso da quanti si adoperano ancora, per sostenere la piazza libera da ombre oscure.

In tutto è il racconto di un’esperienza emblematica di azione urbanistica di contesti malavitosi, dai quali noi siamo completamente estranei i piccoli centri urbani in povertà.

Tuttavia è forse possibile trarre qualche riflessione o spunti utili dal rapporto che scaturisce tra, straordinarietà e ordinarietà nella gestione del territorio e dei suoi elevati.

L’interesse per la Piazza nasce, in quanto luogo di promesse e falsità consegnate per essere condotte a buon fine e, per questo si dispone il figurante locale sempre presente, nel corso di eventi.

In tutto fatti e cose delle generazioni dagli anni cinquanta del secolo scorso sempre attiva e presente, il cui obiettivo mira a  è denunciare, riflettere e disporre in modo ideale, su come sia possibile fare le cose con parsimonia, finalizzata al bene della comunità, escludendo ogni ambizione personale di gruppi organizzati, atti a disturbare sotto false vesti il buon nome di luogo.

Ognuno di noi ha una piazza che considera e sente propria, per i trascorsi che lo hanno visto protagonista incontrastato o elevato con la crusca locale per le capacità innate, palesemente dimostrate in quella piazza, con riti di cadenza confermate dagli astanti, segnando episodi qualitativi e quantitativi salienti, del vivere civile, specie se di crusca Arbëreşë.

In specie, la piazza storia del centro antico di Terra di Sofia, è stata la prima prospettiva larga, oltre la recinzione dove sono cresciuto sino a cinque anni, diventando parlante di loco senza dubbio di pronuncia locale, per poi attraversarla e, andare all’asilo prima, poi frequentare la prima elementare, in quella stanza con camino, lavagna banchi e cattedra, posta nell’angolo opposto del quadrilatero in pianoro.

Qui in questo spazio ameno, ricevette sin anche la prima bocciatura, perché il professore distratto, lo credeva muto, ed è sempre qui che da giovinetti la Bugliari, mis Italia, redarguiva perché il figlio si scatenava sudava troppo e, dava agli onnipresenti Atanasio e Marcello ogni colpa.

Va in oltre sottolineato che su questa piazza nota come “Trappesà himè”, ovvero la “Piazza Mia”, lo studioso e poi architetto venne incoronato a intraprendere gli studi; per tornare un giorno non remoto a, illustrare quale significato avessero gli edificati che la perimetravano, assieme a quelli apposti in secondo piano, sino alla parte più estrema del centro antico di memoria Arbëreşë.

Compito che del natio di loco, ebbe modi di attuare con titolo secondo accademico, dato che il primo, quello della crusca locale lo aveva già acquisito nelle Terre di Sofia, in giovane età con i migliori educatori dell’epoca, poi estinti e non più parimente disponibili.

È in questo pianoro che amici parenti e la futura moglie, si disposero guardando il sole che sorgeva la mattina prima di andare in chiesa e fare nozze.

È qui che gli furono negati aiuti e risorse, per poter dare seguito alla nascita in una nuova stella, che dovette spegnere prima che prendesse forma riconosciuta.

È da oltre due decenni che attende di dare agio e luce a questo anfratto storico locale, come a tutti gli altri che compongono il centro antico e l’agro di pertinenza.

Mentre qui sono continuamente invitate persone meno adatte da ogni dove  indigeno, per parlare di cose scomposte e senza senso locale, addirittura di architettura storica o vernacolare, la stessa, che ha reso il Trappesò unico, irripetibile e, non da sottoporre alla pubblica Furcillense degli Arbëreşë, ammesso che ne esistono capaci di sottrarli a questa antica gogna, fatta di comuni viandanti, o frequentatori seriali di archivi e biblioteche, gli stesso di sovente facenti uso basare le proprie ricerche non su progetto, come in genere fanno i maestri, ma abbarbicandosi a documenti singoli dei quali non sanno interpretare e tradurre neanche i tempi della punteggiatura.

Tuttavia un dato rimane ineccepibile o incontrastato, ovvero il non essere mai stato interpellato dai comuni conduttori locali, se non per appunti o pareri trascritti in fortuna frammentaria, gli stessi che una volta riletti, sono stati diffusi per conto e studio dei liberi e inadatti liberi pensatori locali.

In quella piazza fu stretto un patto di studio, tra l’eccellenza della lingua storica Arbëreşë e, un futuro architetto, a cui fu chiesto di rileggere e svelare, la storia del costruito, o meglio il genio di minoranza Arbëreşë, è qui che fu stipulato con una promessa data con una stretta di mano il primo impegni di studio che non fosse radice di albanese parlato, ma compositivo materiale.

Patto che ancora oggi attende di essere definito secondo la richiesta dell’eccellenza locale in campo idiomatico che ancora nessuno propone o mette alla prova perché concetto inarrivabili, e mentre il tempo scorre e cancella le cose, mentre chi di dovere si esibisce in cose senza platea, perché il fine primo rimane, salire sul palco disadorno, per apparire, senza alcuna finalità informativa, per la comunità; la stessa che intanto si rifugia nell’ombra o nel buio culturale senza un domani.

Nasce come luogo lacustre che sfiorava i il vuttò della mensa vescovile, frequentato di poveri che qui si recavano raccogliere il prezioso trappesò alimentare e, cibarsi alla stregua degli animali con resti di mensa intrisi dal lavinaio.

Sviluppatosi come spazio inedificato nella schermata aerea eseguito dalle truppe alleate l’undici agosto del mille novecento e quarantatré, alle sette e cinquanta cinque, il circoscritto, secondo una storica addetta dell’istituto geografico di Firenze, era appellato il paese con la piazza grande.

Storicamente esso è stato un luogo acquitrinoso o Vutto diffuso, disposto tra le spalle della parte bassa del paese e, la più inferiore della alta, recuperato e rifinito nel corso del secolo scorso da quanti li avevano pertinenze prospicienti.

Alla metà degli anni cinquanta, quando il circoscritto Trappesò, venne migliorato nel suo aspetto e, vi furono elevati l’ina casa, l’edificio delle suore basiliane, l’asilo e la residenza parrocchiale, e allocato nelle pertinenze del palazzo Bugliari la sede Comunale di Terre di Sofia e, il quadrangolare che fungeva da piazza, venne definitivamente valorizzato, reso fruibile con caratteristiche strutturali e architettoniche dell’epoca in forte ascesa, carrabile.

Il luogo inizia la sua funzione di unione, con l’istallazione del frantoio e del mulino, che qui portavano continuamente i paesani a trasformare ulivi in olio, grano in farina e crusca, in tutto, due stabilimenti moderni ed elettrificati, che innestarono un più agile sistema di trasformazione, non più disperso nell’agro, trainato dal torrentizio Galatrella o Vote, ma nel centro più intimo e antico dell’abitato, dove la memoria rimane, nessuno la legge con educazione, garbo e buon senso.

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STELLA IRREQUIETA (ylljsbendë)

STELLA IRREQUIETA (ylljsbendë)

Posted on 04 agosto 2024 by admin

main-qimg-99abd66f0513b5a4a2fb61ad89268d4b-lqNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando le scelte di convivenza comune, non hanno forza e radici per segnare lo svolgersi della vita, in armonia con i tempi del vivere civile, questi, sono contraddistinti con appellativo di Gjitonë irrequieto.

Il senso di questo sostantivo in lingua Arbëreşë noto per la crusca letterale in: Sbèndë, se poi a fare il disturbatore di riverberi continuati e progressivi, nella quiete e i tempi del vivere civile che alimentano studio, sapienza e buon gusto, si antepone l’appellativo Yllj, ovvero Stella.

L’insieme così viene composto in “Stella inquieta”, (ylljsbendë), in tutto, discolo senza educazione, rispetto e regole, verso il prossimo, i saggi, e quanti si prodigano per lo studio al fine di tracciare storia vera.

A ben vedere e dopo aver ascoltato in diversi appuntamenti in presenza e documenti le esternazioni che da diversi decenni sono poste in essere dal dilagare di queste “Stelle inquiete”, (ylljsbendë), le stesse che, invece di fermarli, trovano agio, dalle istituzioni che godono con il moltiplicarsi di questi inopportune stelle disturbatrici.

Allo stato delle cose si può rilevare ch,e un numero consistente di progetti utili solo a deturpare i centri antichi, sono divenuti la deriva più  crescente, dopo quella degli anni settanta che sostituiva orizzontamenti varchi, porte e finestre, nella totale assenza delle istituzioni o dipartimenti preposti, i quali, invece di correre ai ripari, voltavano le spalle al violare questi luoghi e addirittura elogiando gli operatori, che in qualche caso di incoscienza estrema rimasero sepolti.

Ormai la dispersione culturale ha raggiunto e superato ogni limite di decenza, in tutto vengono citati e ricordati, fatti secondari e sin anche i protagonisti primi, sono preferiti ai comuni viandanti, che per la loro natura lasciva si facevano trascinare dalle correnti in atto, nei frangenti storici più significativi, per la tutela e la salvaguardia della memoria locale.

Esistono momenti storici, che superano lo scorrere modesto di un Katundë Arbëreşë, sono questi intervalli fortemente pregnanti, che vanno ricordati come memoria storica e, assieme ad assi le figure che li determinano, li alimentano con ragione, sentimenti e garbo.

Si potrebbero citare tanti episodi, relativi alla continuità storica di radice locale, del centro antico denominato “Terre di Sofia” e, sicuramente non mancheranno episodi, in continua produzione di buoni propositi con senso di radice locale.

Qui saranno rievocati luoghi fatti e figure locali, che hanno dato avvio alla Primavera Italo Albanese, nota come ottava di Sant’Atanasio, il gruppo in vestizione da sposa e da festa, e la nascita delle sonorità Belliniane che dalle processioni di “Terre” le stesse che sono diventate melodie diffuse in tutto il meridione italiano.

Progetti immaginati e posti in essere dall’operato del trittico culturale locale, noto con l’acronimo di: T.A.G., storiche figure che dagli anni cinquanta del secolo scorso, alimentarono o meglio fornirono i mezzi necessarie e complessi per valorizzare e sostenere lo scorrere del tempo in continuità di ragione, con consuetudini e atti di ragione sociale insostituibili.

Tuttavia, siamo in pochi a ricordare, come si svolsero i fatti che portarono il piccolo Katundë a non perdere i valori della retta a impronta di storica rievocazione, con rispetto dei nostri avi.

Come possiamo no ricordare Temisto, Angelo e Giovanni, i costituenti che trasformarono, tre suonatori storici, in trentatré maestri di melodie irripetibili, senza dimenticare, il dato che, ispirati dalle melodie canore, di Adelina, Ginevra e Maria, affiancate dalle storiche assonanze di genere maschili di Celestino, Orlando e Antonio, realizzarono con senso genio locale, il primo gruppo folcloristico in Terre di Sofia, del quale nessuno riconosce, luoghi cose e nascita.

Non da meno sempre gli stessi T.A.G. in collaborazione con il Fondo Ambiente Italia, inghisarono le reali radici delle Valljie, riportate nei discorsi storici di Pasquale Baffi, nella famosa ottava di Sant’Atanasio, notoriamente diffusa come “Verà Arbëreşë”.

Sono numerose le cose e le figure che hanno reso il piccolo centro Arbëreşë, famoso in tutte le macroaree di simili radici, tuttavia gli eletti locali di turno da troppo tempo ignorano questi fatti e tutte le cose prodotte nella più solida continuità storica locale, preferendo fatti secondari che non portano o forniscono alcun episodio della forte identità locale che da tropo tempo viene lasciata poltrire nell’ombra anche se degli antichi gelsi, ormai non restano che pochi rami cadenti che non fanno più ombra, alle figure moderne locali che sono Nemo Propheta in Patria.

Quando queste “Stelle inquiete”, la smetteranno di fare danno e spariranno dalla portata della vista, la voce, gli odori e daranno spazio ai prediletti Nemo Propheta in Patria, che finalmente siederanno dove gli compete e, potranno diffonderanno la più idonea crusca Arbëreşë, che ormai è indispensabile al nuovo tempo che scorre e non si è mai fermato con l’essenza storica del genio locale, quello buono naturalmente.

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MENDULÀ THË LINACÀSA (Il mandorlo di Ina Casa)

MENDULÀ THË LINACÀSA (Il mandorlo di Ina Casa)

Posted on 02 agosto 2024 by admin

mandorle-albero-convicinum-1024x681NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto BASILE) – Nel corso e la durata degli excursus turistici locali nei “Katundë Arbëreşë”, in genere sono evidenziati, i principali manufatti architettonici civili e religiosi e, alcune sottigliezze figurative moderne, invece di elevare i trascorsi di questi luoghi, e mi riferisco a tutte le cose che potrebbero essere esempio e vanto di coesione sociale, preferendo illustrare cose comuni di secondo ordine.

Si ignorano così, lasciando in secondo ordine le prospettive storiche, fatte di elevati in diversa forma e misura, vichi, archi, orti, il tutto secondo l’antica consuetudine di Iunctura familiare, le magiche Gjitonie senza confini, di generi e natura.

La storia dell’architettura o genio dell’uomo, è articolata in base a episodi significativi, tuttavia e nonostante tutto si preferiscono espedienti secondari al fine di orientarsi e confondere gli stili, che in questi luoghi sono vanto e primato di evoluzione fraterna

Il dato che prevale del protocollo storico, sono le vicende marginali, inutili e dispregiative, in tutto, coloritura moderna senza rispetto del luogo dove sono apposte, incoscientemente dall’infante che saluta strillando a voce alta “MIrë Mëbrëma” che è un inno di Albanistica moderna.

Tutto il figurativo deve avere un attestato di riconoscimento storico a monte e certificato dalla crusca locale, al fine secondo cui, quanti si accingono o vogliono fare da guida per illustrare, o far emergere tutti i tasselli della storia che conta di un luogo, sano consapevoli che sia vera radice del genio consuetudinario Arbëreşë e non di altra stirpe alloctona o di “Stellare Operato”.

Questo breve, mira a sottolineare le principali tendenze dell’architettura, prima estrattiva poi additive e in seguito intercettandone la sintesi più intima e accessibile (la più esaustiva) degli stili e di cosa abbia sostenuto e accompagnato le famiglie Arbëreşë, in quel percorso di Iunctura sociale.

Lo stesso che rende questi luoghi, percorso dell’integrazione in terra parallela ritrovata, di popoli antichi che diedero linfa al germoglio delle società moderne in allestimento nelle terre di origine.

Qui tratteremo del “mandorlo storico”, ovvero, la memoria dell’orto botanico della famiglia Bugliari di sopra, in Terre di Sofia, dal del XVII secolo, gli stessi ambiti dove si elevarono le case nobiliari del casato, oggi note come Museo del Costume.

Un mandorlo che nasce inclinato si un terreno instabile e poi l’uomo e la natura lo resero pianta nobile che mira orgogliosa da secoli verso l’alto a respirare aria ed essere rifocillata dalla luce del sole.

In tutto un esempio dell’uomo che nasce piccolo e deforme e poi si eleva orgoglioso ad essere guida e agio per imeno fortunati di genio storico, educazione e rispetto verso le cose e del prossimo.

Una estensione Botanica a servizio del manufatto edilizio di rappresentanza nobiliare, alimentato da tra reflui o lavinai storici naturali, due posti alle estremità del rettangolo arboreo e, il terzo fungeva da divisorio idrico della parte floreale, più rappresentativa, posto ad Ovest, da quella botanica, medicale più essenziale e meno appariscente, posto ad Est.

Di queste essenze arboree e floreali ad oggi restano solo il mandorlo dell’ina casa e un ulivo bianco riproposto selvatico di memoria, tutto il resto per necessità edilizia abitativa e di rappresentanza, ormai dismesso rumane traccia solo il mandorlo storico e l’ulivo di memoria ripiantato.

Questi due esempi di memoria, aprono uno scenario di Iunctura familiare, che riporta la memoria agli orti storici del centro antico, che a buon ricordo, non erano pochi o episodici spartani senza utilità specifica.

Vero è che consultando antiche planimetrie del percorso e dello sviluppo del centro antico nel corso dei secoli, si evincono un numero consistente di orti, più propriamente botanici che ortofrutticoli, infatti, erbe e attività medicinali avevano la priorità rispetto ad altre piantumazioni.

A tal fine corre in nostro supporto sin anche la toponomastica manomessa, relativa alla detta “Via degli Orti”, che un tempo, delimitava, con una murazione le pertinenze familiari dei gruppi indigeni, con quelli che si associarono agli epiroti di primo arrivo e disposti lungo la via Morea e Albania.

Conferma, di quanto sino ad ora accennato, sono l’organizzazione sociale de tipici Sheshi, ovvero i rioni che compongono questo centro storico di antichi sistemi di confronto e movimento lento, che si difende non dall’esterno con cinte murarie, porte controllate, ponti levatoi e ogni sorta di impedimento circoscritto.

Vero resta il dato che questo modello di Iunctura sociale si difende dall’interno, evitando che quanti non appartenenti alla fratria sociale nota, non trovano agio nel recarsi attraverso le articolate viuzze, vicoli senza sbocco, archi di misura, orti botanici, il tutto a servizio delle piccole dimore disposte per rendere controllate le vie su cui affacciano i tipici accessi/finestra, sempre aperte e quando non lo sono, un piccolo occhio vigile, controlla la cadenza dei passi, dalla apertura di ventilazione gemellata alla porta di accesso.

Un sistema metrico di percorrenza lenta, sempre controllato e mai lasciato al caso, dove le grida dei ragazzi intenti a giocare, il suono della campana della chiesa, associato ai battiti che segnano le ore e i tempi della preghiera, associato agli odori della lavorazione casalinga giornaliera e stagionale della proto industria.

Tutto questo associato al vociferare del governo delle donne, la cadenza del parlato delle giovani generazioni, ogni passo del vicino di casa, quando torna dal duro lavoro dei campi, rende magico questi abbracci materni dell’architettura, nati dal genio e la consuetudine; un matrimonio ideale, germoglio indelebile del divulgare con garbo, il sapere e il vivere sociale Arbëreşë.

Storicamente è notoriamente diffuso il dato che la disposizione degli Sheshi Arbëreşë, unisce un numero considerevole di orti botanici nell’articolato sistema urbano.

La finalità mirava ad avere un ventaglio completo di erbe medicamentarie per la sostenibilità della medicina empirica, quella che utilizzava intrugli naturali.

Il protocollo ha una radice antica è nasce dal genio di un pellegrino greco di nome Pontus, che fermato nella città di Salerno, nel corso della notte scoppiò un temporale e un viandante malandato si riparò si trattava del latino Salernus; quest’ultimo era ferito e il greco, si avvicinò per osservare da vicino le medicazioni che il latino praticava alla sua ferita.

Nel frattempo erano giunti altri due viandanti, l’ebreo Elinus e l’arabo Abdela, tutti assieme si dimostrarono interessati alla ferita e alla fine si scoprì che tutti e quattro si occupavano di medicina.

Decisero allora di creare un sodalizio e di dare vita a una scuola dove le loro conoscenze potessero essere raccolte e divulgate. L’incontro tra i viandanti sotto le volte della via che dal Monastero di S. Sofia conduce al Monastero di S. Lorenzo siano I leggendari fondatori, della scuola di medicina empirica; identificati in Garioponto (Pontus), Alfano di Salerno (Salernus), Isacco l’Ebreo (Elinus) e Costantino l’Africano (Abdela).

Questo è un breve accenno sull’origine degli orti che caratterizzavano ogni Katundë arbëreşë, gli stessi che nel corso dell’amministrato inopportuni degli ultimi decenni ha dismesso e cancellato ogni sorta di orientamento, medicale, storico consuetudinario e religioso della memoria.

Di questi spazi medicali e delle regole di utilizzo, valga di esempio l’aneddoto che qui mi appresto a raccontare, con protagonisti, mia Madre Adelina, Francesco e Achille i suoi due confinanti: lei una donna minuta ed energicamente puntigliosa mentre i die confinati espressione di primati di sopruso continuato nei confronti di tutta la comunità sofiota in misure olearie e di confini.

I tre confinanti con i reciproci orti botanici, avevano una stradina comune, un vicolo cieco, che serviva i tre possedimenti del centro antico, e quel vicoletto a percorrenza pedonale era esclusiva dei tre.

Francesco ed Achille, pretendevano: siccome i loro appezzamenti erano posti ai lati della strada e quello di mia madre Adelina a termine, era possibile per loro attraversare il giardino di Adelina a loro piacimento.

Premesso che anche se questa discussione avveniva alla fine degli anni settanta del secolo scorso e tale regola è riportata sin anche nel Kanun di Leke Dukagjini; non certo mai letto da nessuno dei tre discutenti e, a quel tempo anche me compreso.

Ma la risposta di mia Madre, Adelina Basile la Figlia di Antonio prima zitti i due faccendieri di gratuita percorrenza e, poi li fece voltare e andare verso casa loro con la testa china.

La frase fu questa: Hoj Franghì; Hoj Akj, voi conoscete bene la regola del vicolo cieco, ma se nel caso l’avete dimenticata, la porta del cimitero è sempre aperta, andiamo tutti assieme nelle tombe dei vostri cari genitori e, ripetetemi quando qui affermato se avete onore.

La regola dell’antichità Iunctura familiare, si riverberava qual giorno, come da secoli negli ambiti del centro antico, in Terra di Sofia.

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ARBERIA: EQUIPOLLENZA CARSICA DI GRATUITE CREDENZE CULTURALI  (ghë ghèrë ischinë zimbunàt sot nà kindruanë lavinatë me balljëtë)

ARBERIA: EQUIPOLLENZA CARSICA DI GRATUITE CREDENZE CULTURALI (ghë ghèrë ischinë zimbunàt sot nà kindruanë lavinatë me balljëtë)

Posted on 28 luglio 2024 by admin

ImmagineNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La cultura dei popoli si manifesta nel corso del tempo e, poi diventa storia, attraverso l’ausilio di due strumenti fondamentali, l’uno relativo all’ascolto orale e, poi seguito in epoche più recenti da quello scritto.

Due modalità espressive o tec­niche memorative, il cui apporto consente l’ampliamento e la conservazione della me­moria, for­nendo e permettendo all’esperienza individuale e collettiva, un nuovo supporto per un nuovo vivere, in tutto, lo spiccato ruolo propulsivo del processo che porta al migliorarsi della collettività.

Da ciò quanti sanno parlare e scrivere diventano veicolo di un potere comunica­tivo maggiore rispetto agli altri e, godono anche di un potere sociale e politico verso la collettività che li segue.

Infatti, poiché l’organizzazione civile è codificata in norme tramandate e scritte, i governanti hanno avuto bisogno di chi fosse in grado di utilizzarle, per poi tramandare ai sudditi per leggerle leggerle e riportarle.

Questo è allo stato un processo negativo che conduce la collettività a dividersi e produrre pensiero di confronto, che allo stato moderno delle cose non conducono a nulla di propositivo o di beni uniformemente distribuiti.

Anche i sacri granai sono basati sulla rivelazione delle scritture dette sacre e le consuetudini pubbliche, hanno avuto agio e si sostengono degli stessi espedienti o esigenze dirsi voglia.

Quanto maggiore è la capacità di raccontare, ascoltare, scrivere e leggere, altrettanto profondo è il gradiente per coinvolgere la collettività verso il sole il sole che sorge o verso dove tramonta.

La diffusione della scrittura attenua le differenze sociali e garantisce la genuinità delle cose perché dette o scritte da altri tempo prima per questo è un susseguirsi di attestazione o riverso di equipollenza mai attestata in duplice miracolo.

Da ciò deriva l’importanza dell’apprendimento della scrittura in ogni società che miri ad incuneare l’armonia più opportuna al sociale in crescita.

Il grado con cui viene diffusa la scrittura in età storica mira a diventare in epoca più recente un sicuro indice di cose fatti e uomini, che ha solo la verifica del riportato, abbarbicato nell’assoluto protagonismo dello scrittore che riporta fiero la certezza delle cose, dette o scritte da altri senza verificarne i contenuti.

Un tempo quando i riportati scritti alteravano il senso delle cose, si ricorreva alle diplomatiche, ma queste essendo motivo di approfondimento di fatti e cose, furono espulse dai canali forti della politica e della cultura alla fine del XVIII secolo.

Il cammino della collettività verso una consapevole coscienza della propria civiltà, nei fatti diventa dominio degli strumenti e dei prodotti del­la scrittura.

Nei fatti un processo graduale, non necessariamente e progressivamente lineare, in quanto gli unici ad averne agio e profitto sono le sfere alte del potere della società, quest’ultima inevitabilmente coinvolta per sostenere e valorizzare le pieghe della politica forte, o di quanti costruiscono piramidi senza contenuti e agio collettivo.

Lo sforzo se poi è rivolto verso una minoranza storica bisogna dedicarsi con molta passione e appropriarsi degli strumenti della cultura raccontata e scritta, della propria appartenenza evitando di cadere nel carsico invaso dei comunemente evitando di rendere l’invaso culturale, penoso acquitrino della sua storia.

E questo accade quando si utilizzano senza ragione sostantivi, pronomi, aggettivi e verbi non si fa altro che depositare nelle distese naturali pronte a dare germogli buoni, forme estreme che inquinano e fermano il naturale progredire dele cose utili all’uomo.

L’esempio più dannoso in campo culturale lo si può riassumere nell’utilizzare caparbiamente Arberia per indicare una regione storica come quella sostenuta dagli arbëreşë, che come un lago carsico, depositandovi eresie diventa palude non più atta a fare emergere germogli di cultura, ma frenare e non far emergere frutti buoni di quelle terre, che a quel punto ha degenerato in lago carsico, privo di ogni defluenza futura possibile.

A ben vedere anche l’equipollenza risulta essere storicamente un culto spontaneo e largamente diffuso in questi ambiti carsici, che sono colmi di elementi senza indagini specifiche e senza attendere il verificarsi di prova miracolare.

Tutto il prodotto culturale termina con le beatificazioni e canonizzazione del trapassato, per il quale non si esegue un regolare processo per individuare l’esistenza di un dato riconosciuto, quindi, credenza senza prova alcuna.

Questi sono gli elementi che senza soluzione di continuità servono a sostenere e valorizzare il patrimonio fatto di sacrifici senza eguali portati a buon fine da fondamentali figure, oggi sostituite da comunemente o viandanti locali, quali essendo i rappresentanti di istituti o istituzione dirsi voglia seminano fatuo.

Sono questi ultimi che non fanno altro che mirare alla Iunctura sperimentale, riversando nel carsico contenitore, cose e fatti mai avvenuti o che abbiano un barlume di consuetudine Arbëreşë.

Il concentrare senza soluzione di continuità i questo invaso, detriti culturali in forma di editi, dicerie e costumanze senza alcuna regola, ha frenato il normale deflusso o movimento culturale, quello indispensabile che portava eresie e ogni cosa dannosa verso il mare, grazie al quale per la sua salinità rendeva i ristagni concime per la semina buona.

Arrivare a questa deriva di equipollenza carsica, così estrema, denota un danno prodotto irrecuperabile, e come se i genitori che vivono in una casa con i propri figli e parenti, vendano furbescamente per fare commercio, le parti costituenti le fondamenta della propria casa, senza avere misura del dato che in ogni momento, gli innalzati o orizzontamenti facente parte del fabbricato, dove vive e opera la comunità, trasformarsi e fare tragedia di loro stessi.

Altra marea di affluenza carsica sono le attività poste in essere o messe in atto, con risorse pubbliche e, senza alcun tema o diplomatica assegnata per finalizzare con senso le cose, a cui fanno seguito risultati di genere alloctono; gli stessi che non contribuiscono alla conoscenza della formazione generazionale future di questi luoghi, notoriamente diretti e certificati senza controllo e se avete dubbi in tal senso fate nota e visare illuminato ogni scenario ormai a termine.

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L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI ALIMENTA ORTI E DISEGNA, CASE, VIE, VICHI, PIAZZE  (Chi resta Dimentica; Chi parte, Studia Ricorda Valorizza e Tutela da remoto)

Protetto: L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI ALIMENTA ORTI E DISEGNA, CASE, VIE, VICHI, PIAZZE (Chi resta Dimentica; Chi parte, Studia Ricorda Valorizza e Tutela da remoto)

Posted on 21 luglio 2024 by admin

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LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE OGGI IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Bashëkia thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

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Posted on 20 luglio 2024 by admin

Senza titoloNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ho vissuto gli ambiti natii, secondo le consuetudini familiari degli anni cinquanta sino agli anni settanta, del secolo scorso, in armonia con le cose i fatti e i luoghi secondo i parametri giovanili di una memoria piena di interesse e, l’entusiasmo di un ragazzo arbëreşë che vuole apprendere, senza mai disdegnare o trascurare alcun particolare o regola dello statuto familiare di qui tempi.

Quindi una memoria vigile attenta e sempre pronta a confrontare le cose di ieri con quanto è posto in essere in questa nuova era globale che appiattisce cose, in favore di prospettive, allevate senza le fondamentali granuli di crusca locale, la stessa che faceva il buon pane, secondo gradienti o lievito madre passato di generazione in generazione senza mai violare quel pane benedetto.

Della mia giovinezza ricordo pietre, alberi. strade, case, palazzi, orti, vicoli, forni, archi, alberi o anfratto naturale che resisteva, caparbiamente, all’interno del centro antico, sin anche i dislivelli naturali dove si riunivano i noti governi delle donne, Gjitonie, contornati da fanciulli e fanciulle, in tempo per essere formati.

Gli stessi luoghi, dei cinque sensi, dove scuole, promesse, novelle e ogni sorta di avvenimento, materiale e immateriale, con energica passione, trovavano sostegno, sviluppo agio e sin anche patire.

Era in questi ambiti senza confini che le nostre famiglie, sino alla fine degli anni settanta del secolo scorso, esprimevano l’essere caparbia, unica e irripetibile minoranza storica arbëreşë.

Se a questo associo il dato che ho vissuto a fianco stretto di mia madre e mio padre, i quali, mi rivolgevano particolari attenzioni per la mia ereditata natura e, preoccupati che potesse degenerasse e diventare non più autosufficiente mi tenevano impegnato a partecipare alla vita di casa come loro discepolo prediletto.

Mi ha permesso di memorizzare tutte le considerazioni e ricostruzioni che usavano fare genericamente per ogni persona, notizia o cosa che, grazie al mestiere di mio padre, ovvero, vigile urbano e responsabile del civico acquedotto locale, giornalmente al rientro a casa, a mezzo di e, la sera, riferiva per informare noi familiari.

Questo associato alla particolare attenzione che mi volgeva, volendomi sempre al suo fianco di fatto mi rendeva testimone di ogni cosa avvenuta o compiuta in paese per il primo un decennio e mezzo della mia vita.

La conferma la ebbi quando un mio vicino di casa, che mi aiutava ad ordinare le mie manchevolezze scolastiche dell’italiano scritto, ai tempi delle scuole medie, mi disse; perché tu stai sempre a casa e non scendi in piazza a incontrare i tuoi coetanei?

O come negli anni settanta del secolo scorso, con mio padre sofferente per malattia, mia madre affrontò nel pubblico Trapeso locale, due confinanti che volevano il passaggio nel suo podere, alle parole: andiamo al cimitero davanti la tomba dei vostri estinti e giuratemi di avere ragione di questa regola, vidi i due bellimbusti voltare i tacchi e passare in ritirata.

Quel giorno mia madre forse non lo sapeva, ma io che avevo letto Il Kanun si; quella mattinata mia madre ebbe ragione nell’applicare applicato senza alcuna difficoltà, la regola del passaggio pedonale tra confinanti Arbëreşë.

Come questi episodi, potrei raccontare tutte le cose di cui discutevano per valutare gli avvenimenti o i legami conseguenti al vivere in quel centro antico di radice minoritaria, riferite da mio padre e dedotte poi assieme ai miei familiari tutti, non solo del centro abitato ma anche di quanti vivevano e operava nell’agro di terra di Sofia.

Come l’essere redarguito da Carmela e Temisto, i quali mi invitavano a sedere al loro fianco e ripetere piano le parole da me diffuse a squarcia gola in lingua locale, consigliandomi prima di verificarle piano, specie in loro presenza, cosi avrei evitato, crescendo, di essere scambiato per un bambino disperso e portato a San Demetrio dove tutti facevano le mie grida e gesta.

Non mancavano i momenti in cui seguivo mio padre nella sua officina, per rendere efficiente la sua moto Ducati 125 degli anni sessanta.

Rimangono ancora impressi nella mia memoria i battiti della macchina da cucire Singer, serie Sfinge, matricolata, febbraio1926, mentre intento a giocare, sognavo di essere il costruttore Genj, a quei temi esperto nell’assemblare abitazioni agresti, mentre, mia madre, si ingegnava a riparare e rendere efficienti i costumi tipici locali.

Lei era una delle poche donne, in grado di realizzare il pezzo più complesso di quel protocollo di vestizione, oltre a riparare e fare ogni pezzo del costume, che se non era perfettamente ordine celato delle anatomie della prescelta.

Era lei stessa molte volte a rifiutare il protocollo di vestizioni di giovinette che i genitori emigrati sognavano di esporre con quelle vesti e, molte volte rifiutava per il messaggio che sarebbe stato formalizzato negativamente con la frase: la ragazza non ha glutei, fianchi e seni adeguati, per la vestizione secondo il protocollo storico.

E se oggi vedo chi camminava a capo chino, per non farsi riconoscere la fascia nera al collo con pendaglio orafo, esporre, disporre, disquisire delle cose del passato, dire che rimango basito è poco, perché se un giornale è stato sempre scritto nella storia in Terra di Sofia, quello di casa mia era il più titolato e leale, a cui ho assistito dai tempi della mia infanzia e oggi sono la storia.

Se a questo aggiungo il posto in cui sono nato, le madri di scorta che ho avuto nella mia infanzia e, poi i maestri qui a Napoli per elaborare e trovare conferma di tutte le cose vissute e provenienti da mio loco natio, oserei paragonare la mia conoscenza al pari di chi si è formato all’interno di una redazione giornalistica senza mai perdere una delle notizie diffuse.

Quando si è vissuto l’epoca in cui i percorsi pedonali interni al centro storico, furono cementate rimuovendo i vecchi paramenti in pietra o scalinate, rimodellando, e soprapponendovi cemento nei luoghi per secoli identificati di comune convivenza e promessa data.

Ho visto asfaltare la strada provinciale nel centro antico e lungo le strade a salire al bivio e scendere a Bisignano, sostituire solai e varchi di accesso di vecchie case, violandone gli equilibri strutturali, e delle coperture storiche in armonia con l’ambiente naturale, ho assistito alla rimozione di orinatoi pubblici e stabilizzare la corretta fornitura di acqua potabile nel centro storico intro.

Assistito alla crescita edilizia e urbana lungo tutto la Via Roma e la stessa crescita dal Prato, sino al colle dei Gallo, che oggi non esiste più.

Lo stesso colle sotto il quale la strettoia del piccolo ponticello fermava la corsa di moto e autovetture, nota come “Ka Tirata”, dove si cercava incoscientemente con lo scopo di raggiungere e toccare i cento km/h, con la seconda marcia, di mezzi tra i più moderni della vantata economia locale di quel tempo.

Ma non solo luoghi, cose e costumi fanno la storia del mio luogo natio, in quanto lo sviluppo urbano, che ha avuto inizio, dal dopo guerra, ha violato il senso, consuetudinario che il Katundë aveva avuto dalla sua prima pietra in senso generale.

Iniziava così ad avere rilevanza la resilienza, forse non adeguatamente prevista dalle valide figure di un tempo, le quali, per il troppo rispetto e fiducia che volgevano, alle generazioni a venire, poi trasformatisi in mescitori di intonaco e non lasciavano al vento neanche più la polvere, anche essa scomparsa, o magari venduta per pochi danari

Il valore culturale risulta essere così degenerato, che non contempla o proferisce, alcun agio genuino, alle cose sino ai nostri tempi di giovinezza egualmente tutelati come pervenuti.

Sono spesso contattato ripetutamente per ricevere conforto culturale dalla mia professionalità per riferire cose inedite, dalle stesse persone che poi negano di conoscermi o ricambiare almeno con una minimale forma di rispetto la novità ricca di particolari trasferita al loro misero sapere.

Se a tutto questo associamo l’dea spontanea di un noto professore di Albanistica, il quale mi invitava il pomeriggio del 17 gennaio del 1977 a ingegnarmi secondo un nuovo stato di fatto indispensabile agli studi arbëreşë e, indagare di urbanistica, architettura e territorio, chiedendo di tornare, per svelare il valore di uno specifico numero di edifici, gli stessi che ancora oggi non hanno collocazione storica e di memoria, raccontata senza alcuna consapevolezza di secoli, di luogo e appartenenza.

Tutto quanto raccolto, memorizzato e studiato, allo stato dei fatti, resta a disposizione di tutte le amministrazioni locali arbëreşë, le quali più volte invitate a uniformare la storia di questi luoghi, pubblicizzati per” Borghi, Civitas” e chissà quante altre apparizioni storiche inopportune, rimandano l’appuntamento a un settembre che forse non vedrà mai agio storico o memoria da individuare.

Un dato e certo: hanno preferito fare altre cose o disporre inutili rievocazioni senza fondamento e distribuire attestati, onorificenze, ruoli e agio di notorietà a figure inopportune.

È stato proposto di formare giovani figure locali, le quali, invece di espatriare all’estero, desertificando il Katundë, potevano valorizzare il centro storico e i relativi cunei agrari e della credenza.

Tuttavia si è preferito are agio a liberi interpretatori di cose mai esistite, che accolgono turisti per raccontare il luogo di movimento secondo adempimenti alloctoni o interpretazione carpite a veri cultori, per poter apparire esperti di arbëreşë, senza alcun fondamento storico se non il comune campanilismo locale che tritura ogni cosa.

A tal scopo sono valorizzati cose, fatti e uomini della Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, con episodi estranei alla storia dell’architettura, che non può essere argomento di liberi pensatori locali, i quali, confondono sin anche campanili con minareti, borghi con Katundë, Gjitonie con Vicinato e Sheshi con Piazzette e in ultimi mattoni in laterizio con moduli di adobe essiccata al sole.

Dal canto mio, oltre la laurea in architettura dal lungo tirocinio, intesa dai comunemente locali come abbandono di studio, scambiando la frequenza assidua delle botteghe storiche dell’architettura partenopea in collaborazione non dipartimenti, la stessa che non ha eguali e ti rende unico e completo professionista il giorno della laurea, un giorno precedente i prima cinquanta anni.

Tutto questo ha reso possibile acquisire dati per una formazione a trecento e sessanta gradi, che va dalla storia, l’architettura, l’urbanistica, la cartografia storica oltre a saper ascoltare ed interpretare e leggere tutti i lamenti strutturali ed estetici di ogni edificio storico, posto in esame, sino archivi, cattedrali o luoghi abbandonati ormai allo stremo delle forze come il Quisisana di Castellammare di stabia, la casa rossa di Anacapri e molto altro ancora.

Questo grazie a tante discipline che consentono di dialogare e trovare spunto per tutto quanto serve alla ragione storica degli arbëreşë che non è; non è; non è, esclusivo esperimento linguistico con giullari e vocabolari che procedono all’incontrario o meglio a modo di Caposotto.

Il mio Grido di dolore è rivolto a tutte le istituzioni, civili e religiose che contano, esso mira a formare gruppi di “giovani guide” che con il garbo e i modi tipici dell’accoglienza storica Arbëreşë, possano informare viandanti distratti e turisti della breve sosta annoiati, facendoli sentire ospiti privilegiati a cui trasferire nozioni antiche in campo delle consuetudini, della vestizione e del genio locale che ha sostenuto con sudore e patimento, negli Shëşë articolati di Iunctura familiare Kanuniana, la dieta mediterranea, qui  ancora pronta ad essere apprezzata nella ristorazione locale.

In tutto una ospitalità unica che nessuno potrà scambiare e definire mero turismo di massa, perché respirare, avvertire, ascoltare, vedere  ed assaporare, l’essere un arbëreşë è un modo, una sensazione, un privilegio per vivere fraternamente e senza prevaricazioni, luoghi, fatti, credenze, cose e sentimenti irripetibili, che non siano regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

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I KATUNDË ARBËREŞË SONO IL SUNTO STORICO URBANO/ARCHITETTONICO E SOCIALE DEI LUGHI RITROVATI

I KATUNDË ARBËREŞË SONO IL SUNTO STORICO URBANO/ARCHITETTONICO E SOCIALE DEI LUGHI RITROVATI

Posted on 14 luglio 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando i canali culturali dei media e istituzionali di ogni ordine e grado, trattano, analizzano o esprimono pareri sui centri abitati di radice arbëreşë, ovvero i Katundë, questi diventano argomento variegato di interpretazioni di epoche con cui non hanno nulla da condividere, perché sono la risorsa abitativa di luoghi in comune convivenza con le cose della natura che protegge l’uomo.

Ogni Katundë e, mi riferisco a quelli nati o ripristinati dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgi Castriota e, sino all’essedo concordato di termine del Impero Romano d’Oriente del 1533, rispetta lo stesso ordine dell’edificato, secondo quattro rioni tipici, che perimetrano spazi urbani, secondo iunctura dei gruppi familiari allargati arbëreşë.

La chiesa, l’antico loco indigeno, il promontorio, il nuovo edificato arbëreşë, sono il sunto dei rioni da cui prende avvio lo sviluppo di ogni Katundë, questo rappresenta il sostantivo in grado di riassume il valore di tutto il centro antico e nel corso del tempo di quello storico definendosi in lingua parlata della minoranza, luogo di movimento: Ka – indica un luogo; Tundë – sinonimo di Movimento.

Comunemente si riferisce di un “centro di radice Arbëreşë” definendolo, Borgo, identificandolo con disposizioni e tipologie urbane circolari e sociali, appellate Gjitonie, Sheşi o Quartieri, per poi tipizzare questi ultimi, nati attorno o nei pressi di palazzi nobiliari, dove sono conservati, pergamene, costumi e cose di varia natura, perché trascinate nei bauli ai tempi della diaspora del XIV secolo immaginando l’era medioevale come quella moderna della globalizzazione.

Si può da subito notare che nulla di ciò appartiene alla “Regione storica diffusa e sostenuta degli Arbëreşë”, quando si prende la via di approfondire argomenti e sostantivi, senza averne i requisiti di studio specifico, ma neanche basi di semplice lettura di un comune dizionario.

Specie se ci soffermiamo sul significato di Borgo, Sheshi e Gjitonia; secondo cui il primo dovrebbe essere una città murata e i Katundë degli Arbëreşë sono tutto e non vi è murazione che ne definisca termini e perimetri; il secondo dovrebbe essere uni spiazzo o piazza piccola e invece è un  “Rione”, dove la Iunctura familiare è fatta da Katoj, Vicoli ciechi, Orti, Vally, Supportici e viuzze strette e articolate; il terzo dovrebbe essere uguale al vicinato, ma se fosse realmente cosi, perché non lo si specifica e si usa questo sostantivo invece di Gjitonia e si spiega, cosa vuol dire? come qui di seguito faremo con dovizia di particolare ogni cosa.

Un Borgo è l’esatto contrario di un Katundë, in quanto, quest’ultimo, è realizzato secondo i canoni della città aperta, la stessa che oggi l’era modella appella come città metropolitana; lo Sheshi è un rione di Iunctura sociale, che non può essere definito da quanti non hanno titoli specifici in campo urbano o di valori sociali della storia degli uomini.

Uno Shëşi è un insieme costruito, fatto da case, vicoli articolati, orti, Vally e suppostici, dove la percorrenza del viandante ò regolata dalla articolata e difficile percorrenza delle strade pubbliche dove sono apposte gradinate e archi per la lenta percorrenza, queste ultime strette e colme di accessi delle piccole Kallive e, il più delle volte non conducono a spazi liberi se non in articolati spazi definiti Vally o negli orti di Iunctura dove non vi è via di fuga.

La Gjitonia è un termine con il quale gli arbëreşë, si organizzavano socialmente, negli ambiti del centro antico, definito “luogo dei cinque sensi”, lo stesso condotto diretto e sostenuto dal Governo delle donne che parlano vestono e crescono le nuove generazioni secondo protocolli rigorosamente in arbëreşë

A tal fine è bene precisare che un centro per essere definito di radice Arbëreşë deve contenere all’interno del suo perimetro primario, i Shëşi strategici di prima epoca, ovvero; il Loco degli indigeni locali e la Chiesa, a cui fanno seguito nell’attimo della riedificazione arbëreşë il Promontorio, il Loco di approdo, tutti disposti per consentire l’articolarsi e il confrontarsi secondo i principi di iunctura mediterranea.

Queste ‘architetture’, sia che nascessero con l’intento di integrarsi nei diversi ambiti culturali, sia che facessero dell’isolamento e dell’essere difesi dalle cose naturali il loro tratto distintivo, hanno contribuito a creare spazi urbani e luoghi dell’abitare, dotati di caratteri tipicamente ‘Arbëreşë’, continuando a vivere e svilupparsi radicandosi nei vari contesti paralleli ritrovati.

Le epoche che vanno dal XIV secolo Al XIX secolo definiscono spazi, vie e l’edificato, che nel corso della forbice prima citata, assume diverse tipologie e di espansione planimetrica, volumetrica e del tipo architettonico.

Questi si possono riassumere in: monocellulare piano, poi altimetrico, con profferlo, sino al XVII secolo, per poi assumere dopo il 1783 edificando la conformazione palazzata, naturalmente secondo le categorie economiche e sociali in differente crescita.

La tipologia monocellulare che dal greco individua la cellula abitativa tipica, ovvero Katoj o Katoj dirsi voglia, è una cellula primaria che racchiude i bisogni familiari primari, di rifugio e produzione e conservazione degli alimenti primari della dieta mediterranea o, delle tra “V” in arbëreşë, Verë, Vallë e Verdüràtë.

È qui che i valori di casa e le attività comuni di proto industria trovavano agio grazie alla fratellanza familiare che univa le madri nel tipico governo delle donne e produceva alimenti di conservazione di raffinata e eccellenza.

La mono cellula primari si componeva di uno spazio quadrangolare disposto lungo il vicoletto di transito pedonale con il lato più corto che in genere non superava i quattro metri e quello più esteso perpendicolare alla strada che aveva uno sviluppo variabile e poteva anche raggiungere i sei metri e oltre.

Il pianoro abitativo era ricavato scavando e rendendo piano nel solido terreno per la porzione utile a descrivere il perimetro interno della mono cellula che non aveva alcun sistema fondale, assicurato dalla solidità del terreno e quindi il perimetro murario che descriveva lo spazio casa aveva appoggi differente per i quattro muri perimetrali.

Gli agglomerati diffusi arbëreshë nascono secondo regie disposizioni e grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun.

I Rioni, del Katundë, ovvero Kishia, Moticèlleth o Kalivë, Sheshi, Bregù e Nxertath, o di espansione, rappresentano il percorso evolutivo seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico.

Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile e l’orto botanico era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto botanico e stagionale.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, da agio al realizzare dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat.

La Gjitonia, (dove vedo e dove sento, il governo delle donne), sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antico legame indispensabile per la consuetudine arbëreşë.

La Gjitonia ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nello sheshi e in tutte le direzioni delle articolate rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei territori comunali e non solo.

La Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata con precisi confini fisici.

Per questo gli agglomerati arbëreşë rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storie dissimili, in grado di produrre il modello d’integrazione più riuscito del mediterraneo.

Il piccolo abituro, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia in tutto la nota adobe, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena.

Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.

Gli ambiti urbani calabresi assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello.

I successivi frazionamenti, richiesero l’uso delle scale esterne, profferlo, in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive all’interno dei borghi. Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.

Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e quella media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post decennio napoleonico.

Commenti disabilitati su I KATUNDË ARBËREŞË SONO IL SUNTO STORICO URBANO/ARCHITETTONICO E SOCIALE DEI LUGHI RITROVATI

LA TRANSUMANTI CULTURALE DA OLTRE ADRIATICO NELLA REGIOONE STORICA ARBËREŞË (Kielgnenë ziapë dji e lljopà, pà diturë ku jan e venë  i tue shëajturë)

LA TRANSUMANTI CULTURALE DA OLTRE ADRIATICO NELLA REGIOONE STORICA ARBËREŞË (Kielgnenë ziapë dji e lljopà, pà diturë ku jan e venë i tue shëajturë)

Posted on 13 luglio 2024 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È diventato uso comune, rifugiarsi in azioni a dir poco inopportune per non dire senza alcuna fondatezza storica e, prive di ogni minimale formazione, che dia agio o dignità a quanto si espone al pubblico giudizio.

Infatti i comuni operatori culturali, appaiono privi di ogni dignità, in tutto, senza una minimale vela maestra, capace di fornire un minimo di aderenza al pennone che potrebbe far muovere quella minuscola caravella, preferendo a questo, apparire per praterie dove calpestano le radici della memoria dello storico protocollo consuetudinario Arbëreşë.

Miseri stracci o, rattoppi di lenzuola vengono utilizzati a modo di vela, millantata di buona fattura, sin anche in grado di solcare le onde storiche della cultura locale; ma purtroppo per i straccivendoli, non si trova mercato, se non nei vicoli Furcillense, presentate al comune viandante, come mercanzia di eccellente fattura tessile.

Purtroppo non è cosi, in quanto non basta possedere ago e filo di Adelaide e, rammendare stoffe multicolori per coprire, forme intime illudendosi di non apparire equivoche alla vista delle altrui genti.

A tal proposito si potrebbero elencare un numero elevato di attività portate a inutile e dannoso fine di rappresentanza, le stesse che hanno innescato e prodotto la deriva, oggi divenuta peggiore del “Mercato Furcillense dei pacchi colmi di adobe e non seta rara”.

Quello noto sino a qualche anno addietro, perché ogni pacco, rifilato per buono, conteneva mattoni usati e sporchi di cemento, il cui risultato produceva truffe a discapito dei malcapitati che sorridenti si allontanavano da questi luoghi, certi di aver fatto un buon affare, con poco danaro.

Un tempo questo avveniva solo nella capitale del regno, ma purtroppo, oggi è uso comune anche nei piccoli centri, resi culturalmente simili alla Furcillense via, naturalmente, usando lo stesso metodo per fare eccellenza e, i pacchi invece di contenere mattoni, contengono principi culturali fasulli, come ad esempio: Borghi indigeni per Katundë Arbëreşë; Sheshi per Piazzette; Gjitonie per Vicinato; Bambini pronti a stipulare matrimonio; santi per condottieri; vili cavalieri per nobili erranti; oltre una miriade di pacchi preconfezionati presentati come consuetudine di eccellenza del Governo delle donne Arbëreşë, in tutto, una notevole quantità di pacchi opera dei transumanti che emulano le cose della consuetudine di radice storica di quello che un tempo era oltre adriatico.

Lo stesso gregge senza testa, che oggi è diventato vanto di stolti, i quali, senza alcuna consapevolezza delle cose che espongono nei loro mercatali atti, garantendo, siano avvenute nei luoghi di memoria locale, le stesse che i saggi considerano vergogna culturale.

Si parla delle famiglie storiche locali senza alcun contegno e, al solo pensiero per quanto dolore abbiano generato e profuso nei confronti di madri, figli, mariti e Gjitoni per molto tempo, i transumanti culturali proprio per questo immaginano che non sia più memoria di pena locale infinita.

Capita di sovente che per elevare il valore culturale delle consuetudini più intime, i comuni transumanti, per più elevarsi a scapito delle consuetudini più intime degli ambiti Arbëreşë, si cimentano in costumanze a dir poco offensive, disponendo nei banchi mercatali di arrivo in festa, le dette “Transumanze Inopportune Albanesi Moderne e Occulte” (T.I.A.M.O.), i quali, sbarcando in regione storica ritengono,  sia vanto addobbarsi con effigi mussulmane, oltremodo sormontate da caprini cornati, mirando a illustrare a noi Arbëreşë, come fare per non essere migliori dei credenti Bizantini.

Non ultimo, ma si ritiene sia il più inopportuno, osservare nel cimentarsi in costumanze a dir poco offensive, disponendo nelle manifestazioni finanziate con soldi pubblici, modificare e rendere più vuote di valori e colori locali le prospettive storiche per farle apparire che non avrà mai un orizzonte Arbëreşë.

È sovente trovare possedimenti abitativi appartenuti a quanti vennero sterminati e, oggi proprietà non della parentela di nuova generazione, che vergognandosi del maltolto, per distrarre la memoria locale, assembla atti e documenti non di storia vera ma di cicli brevi del comune apparire o affrancare numeri a volumi storici.

Ormai i percorsi di transumanza sono innumerevoli al punto tale da essere considerati, giubilo locale, per questo, esistono allestitori locali di campanile, che invece di esporre storia vera, impolverano cose spargendo farina al vento, la stessa che non potrà mai più essere usata per fare pane buono.

L’essere campanili ed apparire è diventato regola, mentre la coerenza delle cose esposta diventa un atto complementare o aperitivo culturale di liberi assaggi culinari, che ogni volta terminano in “abbuffate campestri collettive”, le stesse che servono solo ad annebbiare la mente, prima e dopo la digestione, al solo scopo di rigenerare vutti e lavinai mai dismessi, gli stessi che portano da secoli cose indicibili in fondo al mare, per essere consumati dal tempo e dall’acqua.

È diventato uso comune proporre il protocollo di vestizione della sposa in pubblica piazza e, per rendere la cosa più suggestiva, si usa utilizzare minorenni ancora da latte con apparati della medicina empirica a dir poco inopportuni.

Uno dei protocolli di vestizione che delinea e stabilisce solidamente i valori con cui la minoranza Arbëreşë, unisce indelebilmente, le cose di casa e la credenza Bizantina, ovvero, la famiglia.

Certamente non è un bel vedere, ogni volta, sceneggiare inopportunamente, vestizione in pubblica piazza e oltre esponendo generi esposti alla pubblica Furcillense e sia pel l’età delle spose con Bërëlocù, proprio quanti dovrebbero essere tutelati dai genitori maggiori, ancora acerbi, per le attività di genere perché ancora troppo acerbi di generare, al pari delle donne, quanto pronte pe essere moglie, poi madri, in tutto, ruolo di rappresentanza attraverso la vestizione della sposa, quale naturale sorgente di nuovi generi di una famiglia Arbëreşë.

Ma su questo ci sarebbe molto da dire e redarguire, tutte le figure che dagli anni novanta del secolo scorso, realizza inopportune manifestazioni popolari, come se le intimità di una famiglia, siano cose da veleggiare ed esporre in pubblica piazza, come si fa con le lenzuola che dopo lavate si stendono candide al sole ad asciugare.

Infatti per tramandare cose e consuetudini, nei tempi passati gli Arbëreşë, aveva allestito con opportuni protocolli la Gjitonia ovvero; il governo delle madri che ogni figlio e figlia doveva avere come guida, onde evitare di portare l’intimo in pubblica piatta dove ogni genere metteva in mostra il suo essere figura dignitosa di garbo e cultura finemente approvata dalle genitrici.

La regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë è un insieme di protocolli non scritti e, per questo solo chi conosce e comprende quei pochi e fondamentali sostantivi uniti dai congiuntivi, potrà interpretare i valori dei sistemi di iunctura urbana, capaci di riverberare identicamente e per secoli gesta, fatti e suoni vocali irripetibili.

Per questo in ogni Katundë della regione storica, non servono i transumatoti di montoni che prediligono stazionare, non nelle colline o le valli con effigi Bizantine, ma disporsi sulle cupole mussulmane a dichiarar vittoria sul drago, lo stesso che attende il maturare del tempo e lo scorrere dell’acqua, per uscire dalla tana e bruciare con il suo ardore il seminato di biancore fatuo ormai da troppo tempo lasciato libero di annebbiare menti e ragioni storiche Arbëreşë.

Oggi si vedono erigere totem orientativi e pietre su cui deporre l’eroe quando fu mussulmano a cavallo, e nessuno di essi sa indicare una cosa giusta, ma quello che più colpisce e la figura dell’eroe mussulmano che viene depositato sempre pronunciando le spalle alla sua terra e più ancora nel dettaglio il suo luogo natio dove sono sepolti i suoi cari.

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