Archive | In Evidenza

URBANISTICA E ARCHITETTURA DEI PAESI ARBËRESHË

URBANISTICA E ARCHITETTURA DEI PAESI ARBËRESHË

Posted on 07 gennaio 2020 by admin

SCACCIAMO LA VOLPE ARBËRESHË3

 

 NAPOLI (Atanasio Pizzi ARCHITETTO) – Il XV secolo è uno dei momenti della storia, di quella che si identificava un tempo Epiro Nuova ed Epiro vecchia, tra i più articolati e difficili di questo territorio, sia dal punto di vista della difesa territoriale e sia di quella identitaria, questo è il motivo, per il quale, si sarebbe dovuto indagare analizzando fuori dai temi unitari, al fine di fornire una visione completa adeguata e priva di atti inesistenti.

Un intervallo che per la sua durata, contiene la sofferta scissione storica tra territorio e identità di quanti la vissero sino ad allora, tuttavia per non perdere senso e restringere il campo di azione analitica, approfondiremo l’intervallo, dal 1389 sino al 1562, non prima di aver  delineato un progetto ad ampio contributo disciplinare, specie se ad essere indagatati sono le gesta di un popolo privo di qualsivoglia  patrimonio scritto grafico, in quanto, tramanda storicamente la propria identità nella sola forma orale e dai consuetudinari atteggiamenti.

Se a questo si aggiungono gli esigui sforzi per costruire barriere difensive di mutuo soccorso, da quanti la abitarono per impedire l’imperante marcia ottomana per la conquista territoriale e sin anche per la sottomissione identitaria, è opportuno comprendere come abbia potuto lo stratega, ovvero, il lungimirante stratega Giorgio Castriota “comunemente denominato Scanderbeg” trovare soluzione con le arche arbëreshë tracciate nell’Italia meridionale.

Appare evidente che avere consapevolezza delle metriche materiali e immateriali ottomane a cui si opponevano insufficienti forze dei principi Arbanon, capaci di iniziative  di breve durata; una misura alternativa, per la difesa non del territorio, ma almeno dell’identità Arbanon doveva essere immaginata e posta in essere.

Fu proprio la stagione delle migrazioni verso le “arche territoriali parallele” tracciate e predisposte sotto la veste di controllo territoriale e in favore dei regnati partenopei, durante le sue visite nel meridione, dal 1461 e sino alla dipartita del principe Giorgio Castriota.

Arche tracciate in difesa e  controllo, ancora oggi identificabili sul territorio meridionale, con la semplice sovrapposizione della gestione politica, clericale ed economica di quell’intervallo storico, ciò tuttavia non sono idoneamente interpretate dagli unitari, anzi, ritenute a torto, casuali, ininfluenti  o improvvisazioni prive di scopo.

Se oggi analizziamo le sette regioni tra insulare e peninsulari del fu regno di Napoli, attraverso le caratteristiche ambientali idonee alla vita del modello Arbëreshë, si comprende per quali motivi venne immaginata, proposta e lasciata attuare.

Una vera e propria regione storica diffusa, capace di restituire valori identitari paralleli alla terra dio origine sia dal punto di vista materiale e sia immateriale

Circa cento Katundë che trà paesi, frazioni e casali abbandonati rappresentano una tessitura raffinata di urbanistica e architettura, la cui linfa traeva la sua forza dal rione romano dal punto di vista territoriale, inteso dal punto sociale al pari delle haretë dai greci

La differente mentalità nel modo di insediarsi rispetto agli indigeni locali, che usavano all’interno delle murazioni dei borghi, gli arbëreshë preferivano casali e comunque agglomerati senza mura, legati idealmente a presidi religiosi.

Ponendo a confronto i valori spaziali dei nuclei urbani mono centrici degli indigeni e quelli policentrici Arbëreshë si comprende quale sostanziale differenza distingueva quanti s’insediarono in fuga dalle terre oltremare.

Una volta che gli arbëreshë si disposero lungo le arche predisposte da Giorgio Castriota presero a modello gli ordinamenti delle classi sociali Kanuniane, prive di forme aristocratiche piramidali economiche.

Sulla corrispondenza delle norme sociali e distributive adottate, tutti gli agglomerati sin dai primi tempi di insediamento le identiche caratteristiche, sia si tratti della Sicilia, della Calabria e sino all’estremo Molise, questa ultima, il confine del meridione, assieme al Lazio papale.

Il discorso, nasce in base a rilevazioni locali, esse vedono protagonisti i centri antichi dei “paesi”, che da ora in avanti chiameremo con il nome in arbëreshe: Katundë.

Essi sono altimetricamente distanti dalle pianeggianti rive marine mare e i ristagnanti dei corsi fluviali, perché considerati in sostanza, salata e amara vicinanza.

Essendo gli arbëreshë i figli di quei soldati contadino, per questo esperti conoscitori del territorio, s’insediarono secondo le predisposizioni di Giorgio Castriota, incentrando e calibrando nel breve tempo quali fossero le zone sicure sotto il punto di vista geologico per edificare i propri moduli abitativi, in oltre la toponomastica storica ci consente di definire quali fossero i margini, lasciati liberi per il migliore insediamento scartando le zone più incerte e edificare senza imbattersi in eventi di smottamenti naturali nel corso dei secoli.

Nel primo usarono insediarsi con l’ausilio dell’architettura estrattiva, poi in seguito, come vedremo più avanti, adoperandosi a realizzare architettura additiva.

Le arche predisposte dal Castriota s’intercettano secondo linee strategiche denominate: del Limitone tarantino, della Daunia pugliese, della Sanseverinense citeriore, quella di due mari o il confine della Calabria citeriore con l’ulteriore, del Bove siciliano, della Ginestra palermitana e in fine l’eccezione abruzzese di Villa Badessa, che conferma la validità di quel progetto antico.

Tutte queste sono linee strategiche d’insediamento, che trovano riscontri negli eventi della storia dal XV secolo e restituiscono ragione e forza a un progetto di ricerca condotto dallo scrivente.

Le “Arche” disegnate dal Castriota offrono agli arbëreshë un’alternativa territoriale ideale dove approdare,  e difendere la propria identità sociale, culturale e religiosa, terre parallele predisposte per riverberare nei secoli il modello Arbanon, oltremodo avendo cura di innescare i presupposti di strategie politiche di difesa dei territori a favore di quanti consentirono i processi di accoglienza e inculturazione.

Se oggi ancora una lingua poco comprensibile ai non parlanti, riecheggia in questi anfratti meridionali, come dai giorno del loro arrivo si deve appunto da quanto immaginato e predisposto dal condottiero di Kroja concertando  quanti accoglievano e da quanti venivano accolti su territori ritrovati.

Gli agglomerati urbani degli arbëreshë (Katundë) nascono secondo interessi economici per la difesa e la valorizzazione dei territori più esposti alle dinamiche del mediterraneo, limitando l’aspirazione dei nuovi arrivati verso i minimi requisiti di sostentamento, giacché la parte più consistente, di quanto derivante dalle attività, seguiva la filiera economica delle aristocrazie locali.

Queste ultime defi­nivano persino la caratteristica di articolazione degli agglomerati urbani, alla luce di una vecchia direttiva ispanica, la quale mirava a realizzare modelli urbani di tipo aperto e in linea con lo sviluppo flessibile del “Rione” auspicando future espansioni in numero di addetti, cosi come avvenne per diverso tempo con le note sovrapposizioni derivanti da nuove migrazioni.

Le arche segnate dal condottiero Giorgio Castriota, stabiliscono anche il nu­mero complessivo dei residenti, determinando, in questo modo, anche il valore di quelle terre per questo rese produttive, all punto di rendere meriti a quelle terre, denominate anche “ il granaio del regno”.

A questa prima fase segui una seconda, detta dell’architettura additiva, in cui si assegnarono le terre con l’opportunità della discendenza e per questo, la volontà di realizzare abita­zioni di maggiore qualità, con materiali non deperibili, da ora in avanti si elevano le prime Kalive in pietra calce ed arena, modeste abitazioni mono cellulari che daranno fine all’epoca del nomadismo o della’architettura estrattiva.

Va in oltre sottolineato che secondo una direttiva greca di insediamento si devono delimitare adeguatamente in rapporto alle condizioni geografiche e a quelle politiche della zona circostante; il territorio ha un’estensione sufficiente quando è in grado di alimentare un certo numero di cittadini entro i limiti di un medio tenore di vita, il numero dei cittadini d’altra parte deve essere tale in rapporto alle capacità produttive.

Da ciò potremo determinare il numero di addetti, soltanto dopo aver presa conoscenza del­la regione e dei suoi abitanti e di cosa da essa si vuole ricavare.

Trattandosi di una nuova colonia, insediatasi in aree geografiche disabitate in precedenza, bisogna prima di tutto sistemarne la parte, per cosi dire, architettonica, in generale, dire ciò è come saranno fabbricati e disposti i presidi religiosi, disporre le abitazioni private sulle alture per ragioni igieniche e di sicurezza espositiva e geologica.

Vicino alle chiese gli ecclesiasti e relativa famiglia allargata; s’inizia a costruire le case  private, al fine di consentire al sistema ambiente naturale e ambiente costruito di assumere la dimensione di  fortezza strategica, gli accessi delle case, secondo la consuetudine greca, sono disposte sulle strade secondarie utilizzando l’identico modello abitativo e in grado di garantire i parametri di sostenibilità intesa come micro clima al gruppo allargato; non è piacevole a vedersi un Katundë che appare di casa simili, e disposte apparentemente senza regola, tuttavia esso è un sistema eccellente per il controllo del territorio e dello stato locale all’interno del perimetro Sheshi, su base di facilità con cui si presta la disposizione dei Rioni e i relativi spazi liberi e costruiti.

Kisha, Bregù, Sheshi e Katundi sono rispettivamente: il rione, religioso,  controllo, e sociale, costruito e non, inteso e generare  le attività produttive e di crescita comune.

La descrizione del Katundë, accoglie le convenzioni caratteristiche e tipiche delle città agricole tipiche delle primordiali greche, in cui la disposizione articolata, delle case sono anche fortezze di inculturazione o cuore pulsante di un integrazione che non è finalizzata al mero atto della discriminazione, ma verso una  cultura economica che da spazio a alle diversità per crescere senza protagonismi.

Fine della I° Parte

Commenti disabilitati su URBANISTICA E ARCHITETTURA DEI PAESI ARBËRESHË

LA SALITA DELLA SAPIENZA (discorso - XV° - Un mito o emulazione)

LA SALITA DELLA SAPIENZA (discorso – XV° – Un mito o emulazione)

Posted on 03 gennaio 2020 by admin

ARISTONAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Se nel 1408 l’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo con l’adesione del re Alfonso d’Aragona e dei principi, Giovanni Castriota, Vlad II e di altri, nell’intuire l’indispensabile utilità di costituire l’insula ideale di mutuo soccorso, detto Ordine del Drago, noi oggi non staremmo qui a elevare agli onori della storia falsi miti e leggende editoriali senza senso.

Quando si ritiene di mettere in campo temi, per esaltare le vicende storiche con protagonisti gli Arbëreshë e Albanese si deve prima conoscere la storia e poi magari sventolare il copricapo di chi ha vissuto nel corso del XV° secolo,“ comunemente denominato Scanderbeg”.

Gli Arbëreshë e ancor peggio i cugini/fratelli Albanesi, ignorano completamente il corso, gli eventi e quali uomini hanno reso grande la regione storica Arbëreshë, riverberando anche il valore dell’Albania.

La mancanza di un progetto di formazione culturale ha reso vulnerabile la numerosa schiera di figure che per questo preferisce sintetizzare, tralasciando addirittura, la massima espressione culturale, scientifica, editoriale e clericale luce sin anche alle ideologie di confronto dell’Europa intera.

Si è preferito avvantaggiare i trascorsi di analfabeti che si sono ostinati a dare una forma scritta al codice consuetudinario più antico del vecchio continente, faccendieri guerrafondai e ogni sorta di alchimista che poteva essere di supporto a falsi miti e banali leggende.

Le gesta del comunemente denominato Alessandro il Grande, non sono altro che la riproposizione di un progetto antico da lui eredito e messo a frutto nel XV secolo.

La narrazione della sua nascita, le gesta della sua crescita, le sue vittorie e gli apprezzamenti delle figure più rappresentative delle cristianità di quel tempo, sono simili se non addirittura ispirate dalla storia di Carlo Magno.

Vicende identiche, cui non si può sorvolare senza che non sorgano dubbi, quando si confrontano le vicende del grande della storia cristiana con la figura “ comunemente denominato dai turchi”, combattete di ideali mutevoli, secondo le epoche e i venti che tiravano.

Non è dato a sapere con certezza chi lo abbia volutamente marchiato, se lui stesso o l’inadeguato Ottomano, sicuramente se fosse stato coerente, rispettoso della sua discendenza, non avrebbe dovuto assumere un’alternanza di fronte così volubile.

Se oggi Arbëreshë e Albanesi devono ringraziare figure per la loro icona nella storia del vecchio continente, lo devono a quanti realizzarono l‘Ordine del Drago e i quei quattro illuministi: due di Santa Sofia, Casale di Bisognano, in Calabria citeriore; uno do Maschito e uno di Barile, in terra di Lucania.

Commenti disabilitati su LA SALITA DELLA SAPIENZA (discorso – XV° – Un mito o emulazione)

PRIMA DI ANDARE A VOTARE

PRIMA DI ANDARE A VOTARE

Posted on 01 gennaio 2020 by admin

Elezioni in calabria indexNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) –  Questa magnifica provincia è fertile oltre misura. Non vi cresce solo tutto ciò che serve alle necessità della vita, ma anche tutto ciò che serve alla salute.

Tutti i monti e le valli sono utili e non improduttivi, vi cresce in grande abbondanza ogni tipo di frumento, vino e frutta, tutto della miglior qualità.

Lo stesso vale per l’olio, il formaggio, lo zucchero, il miele, la cera, lo zafferano, il cotone, l’anice, il coriandolo in gran quantità, come pure per la resina, la pece, la trementina e lo storace.

Non mancano miniere d’oro, d’ar­gento, di ferro talco e altri come il sale minerale e il sale marino, il marmo, l’alabastro, il cristallo, la marcasite, il gesso di tutt’e tre i ti­pi, il minio, il buolo, l’allume, lo zolfo, la calamite, la pietra d’aquila.

Si producono naturalmente consistenti partite di canape e lino e v’è più seta in questa regione che nel resto d’Italia.

Si trovano oltremodo bagni termali, alcuni caldissimi, altri caldi, altri tiepidi, altri ancora freddi, giovevoli in molte infermità.

Sulle sponde dei suoi mari, come pure all’interno, vi si trovano i più bei giardini di limoni, cedri ed aranci di ogni tipo.

La regione è ricchissima di corsi d’acqua, grandi e piccoli, come pure, sulle colline dell’Appennino, dove trovano l’ideale dimora folti boschi di pini, aceri, larici e querce, in clima ideale dove cresce il fungo agarico, candido, profumato, e riluce di notte.

Luogo di pascolo ideale giacché consente transumanze brevi grazie ai suoi pascoli di pianura collina e montagna, in queste ultime trovano dimora ricche riserve di caccia.

Per ciò, non mancano i cinghiali, i cervi, i caprioli, le lepri, le volpi, i ricci, le focene, le martore, le linci, i tassi, i ca­mosci, gli stambecchi, le capre selvatiche, le tartarughe di terra e di ma­re etc. I suoi mari sono pescosissimi e in molti punti vi crescono i coralli bianchi e rossi, tutti della migliore qualità.

Sulle spiagge si trova anche la pietra di paragone di cui ci si serve per l’oro, l’argento e altri metalli.

Secondo la descrizione della Calabria del XV secolo se  associamo il florido approdo, che fu per molti popoli che vi si trasferirono, non per conquistarla ma per viverla in comune accordo con le genti indigene,   più di ogni altra regione, una magia innata che possiede solo questa terra  e quanti hanno avuto la fortuna di nascervi la deve avere.

E’ opportuno per questo che alla eccellenze naturali siano associato il più idoneo e appropriato indotto culturale su base consuetudinaria,  di questa regione,  servono allo scopo  figure con alto bagagli culturale e sensibilità in grado di avviare l’irripetibile macchina culturale ed ambientale, con processi sostenibili, per dare luce a quanto sino ad oggi è rimasto imbrigliato nei veli provenienti da altre latitudini, gli stessi che per la loro rozzezza richiedono  considerevoli energie su base  culturale per spazzarle il più distante possibile.

Alla luce di tutto ciò, sarebbe il caso che tutte le persone di buon senso, chiamate alla fine di questo mese di gennaio, a scegliere quali programmi e chi dovrà governare, tutelare e preservare questo patrimonio, senza essere assoggettati a falsi  personalismi di partito come spesso inducono ad errore; il momento pretende una saggia riflessione di voto, per una ponderata scelta di  futuro sostenibile,  atteso dalla calabria e dai calabresi ormai da diversi secoli.

Buon Voto! e ricordate che i domani per la tutela diventano sempre meno, ragion per la quale sappiate usarli con garbo, grazia e rispetto.

Commenti disabilitati su PRIMA DI ANDARE A VOTARE

LA SALITA DELLA SAPIENZA DISCORSO ANNO ZERO, L’ORIGINE DELLA FINE

LA SALITA DELLA SAPIENZA DISCORSO ANNO ZERO, L’ORIGINE DELLA FINE

Posted on 29 dicembre 2019 by admin

Defunti Arbereshe

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) –  Se nel bel mezzo del vecchio continente tra gli anfratti dove termina l’adriatico e inizia lo Jonio circondati dalla cultura Orientale, Alessandrina, Latina e Greca, esisteva storicamente un popolo che ha vissuto, secoli dignitosi, pur privandosi dell’uso di un qualsiasi forma scritta, una ragione ci deve essere stata e andava ricercata con dovizia di particolari.

Se imperatori, re, papi, papesse, condottieri e ogni sorta di valorosa figura della storia, non hanno esitato a coinvolgerli proprio per questa consuetudine, è un dato steso alla luce del sole.

Se i grandi della storia hanno lasciato gli Arbanon, gli Arbëreshë dell’era illuminista, vivere secondo le consuetudini per secoli, i motivi per creare i presupposti di tutela, sarebbero dovuti essere pianificati secondo un disciplinare rigido e condiviso.

Se agli atteggiamenti delle figure dominanti, l’antico continente, si contrappongono, l’inadeguatezza storica culturale delle guide idiomatiche e spirituali, pionieri della scrittura  con segni appartenenti agli storici alfabeti del vecchi contenete, a perdere il valore delle cose è stata l’umanità intera.

Fu questo l’inizio di un calvario senza fine, in cui l’idioma delle genti arbëreshë, vide essere difeso e tutelato da imperatori, re, papi e condottieri da una parte, mentre dall’altra, locali e inadatti cultori, si ostinarono a scrivere per produrre il più inadatto e l’allegorici alfabetario.

Che cosa abbia spinto questi viandanti culturali senza tempo non è dato a sapersi, ma presumibilmente, si può ipotizzare che volessero diffondere il codice linguistico attraverso una scrittura utile all’identità moderata della religione, greca bizantina, facendo riverenza ora ai latini cristiani e ora agli ortodossi greci.

L’ostinata rotta di associare una forma scritta al codice linguistico arbëreshë, ha prodotto una disarmonia culturale senza eguali e senza  attinenza con la consuetudine di questo antichissimo popolo.

Se a questi elementi si associa l’inopportuno uso della metrica canora, rimarrebbe la struttura religiosa, ma purtroppo anche questa trascinata dalle inappropriate scelte di rito ha condotto l’insieme dei quattro quarti arbëreshë, verso la soglia dove si perde la sapienza e la speranza di recuperare almeno l’esenziale.

Un dato fondamentale emerge dall’ascolto delle sonorità musicali di quanti avrebbero dovuto tutelare l’elemento metrico canoro, queste figure in specie e non sono poche, nella quasi totalità dei casi è partita da presupposti secondo cui il canto arbëreshë era da ritenere libero da obblighi consuetudinari e purtroppo così non è.

Gli arbëreshë non avendo alcuna forma scritta, legavano tutto al canto e alle sonorità espressamente canore, valga l’esempio nell’ottocento Vincenzo Torelli uno degli editorialisti e musicologi più in vista del tempo, il quale per valorizzare la sua origine arbëreshë, quest’ultimo di tutte le sue attività musicali per spargere un seme dedicato, aveva realizzato due personaggi, la musica e il canto; nei suoi episodi settimanali messi in stampa, ricercati da tutti i compositori italiani e non dell’epoca, in cui la infinita battaglia vedeva la forza del canto sopraffare la musica, perché metrica originaria.

Il canto per gli arbëreshë, rappresenta il supporto fondamentale della lingua, cantare in ogni macroarea è un rito, una consuetudine è la conferma della propria identità e non una libera interpretazione senza radice.

Ho ascoltato, quanti dicono di essere la crema della cultura canora per gli arbëreshë, non comprendo chi dove e cosa rappresentano con sonorità fuori dalle più elementari nozioni musicali di lingua arbër.

A questo punto sorge spontanea la domanda: essi sanno di Torelli, sanno cosa cantando, sanno di essersi uniti ai danni del terremoto dipartimentale?

Se non c’è risposta resta solo di fissare la data per la chiusura dell’ultimo giubileo,  concelebrando una pontificale idiomatica e musicale  in memoria della Regione storica Arbëreshë .

Commenti disabilitati su LA SALITA DELLA SAPIENZA DISCORSO ANNO ZERO, L’ORIGINE DELLA FINE

La salita della sapienza (discorso - VII°) IL TERRENO MIGLIORE SU CUI SPARGERE IL SEME DELLA CULTURA

La salita della sapienza (discorso – VII°) IL TERRENO MIGLIORE SU CUI SPARGERE IL SEME DELLA CULTURA

Posted on 27 dicembre 2019 by admin

OlivetariNAPOLI (Atanasio Basile Pizzi) – Due mondi apparentemente lontani legati dalle consuetudini degli arbëreshë si possono incontrare e germogliare, specie se i cultori ostinatamente producono presupposti di tutela e valorizzazione.

Quando un seme antico è nelle disponibilità da un sapiente contadino, difficilmente si spreca, se poi quest’ultimo è di origini arbëreshë, possiede nel suo intuito di visione generale di luoghi, la capacità di riconoscere ambiti di semina per un’ideale e proficua resa.

Questa sera, un giovane la cui discendenza locale appartiene alle colline ai piedi della Sila arbëreshë, ha saputo scegliere il terreno migliore su cui spargere il seme della “Cultura Smarrita”.

Vero è che in forma di Amministratore, un discendente, di quanti resero, gli ambiti attigui ai corsi fluviali, tra la sede citeriore dei Sanseverino e il casale terra di Santa Sofia, tanto floridi da meritarsi lo pseudonimo di Giardini delle delizie, ha preferito, per una serie fortuita di avvenimenti, discutere di valorizzazione e tutela della regione storica arbëreshe non un luogo panoramico o rilevante sotto l’aspetto dell’architettura, ma l’ambito di vendita che un tempo fu delle delizie del monasteri degli Olivetari partenopei, oggi adibito a semplice marciapiede.

Una scelta casuale e fortuita, comunque è stata la prima volta che un amministratore della regione storica si è recato a Napoli chiedendosi, di cosa è intrisa questa capitale, dopo sei secoli dalla venuta gi Giorgio Castriota per tracciare le note “Arche dell’infinito arbëreshë”.

In apparenza la visita potrebbe sembrare semplice o addirittura una gita turistica, ma nonostante tutte le apparenze essa rappresenta un momento storico da cui ripartire per rendere più chiare la nebulosa di avvenimenti senza senso, che ad oggi riempiono convegni, eventi, scaffali editoriali e ogni sorta di avvenimento che ha come argomento la popolazione, che ancora oggi pur parlando una lingua minoritaria non è in grado si scriverla e leggerla fraternamente.

Incontrarsi in quello che era considerato il mercato degli Olivetari, non è un caso, se poi a questo volessimo aggiungere che proprio li di fronte, ha sede la chiesa che ha contribuito alla questione meridionale, sotto l’aspetto politico legislativo e scientifico, non è certo dire poco, specie se parliamo dei luoghi dove ruotava la forza culturale degli arbëreshë a Napoli.

A tal proposito si può affermare che l’atto di spargere il seme è stato compiuto, ora bisogna attendere la stagione buona per veder germogliare le prime essenze floreali, il produrre frutti, solo il tempo e i domani lo potranno confermare, il gesto rimane come cosa fatta.

Commenti disabilitati su La salita della sapienza (discorso – VII°) IL TERRENO MIGLIORE SU CUI SPARGERE IL SEME DELLA CULTURA

Innesto inopportuno

Innesto inopportuno

Posted on 16 dicembre 2019 by admin

innestoNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Le insule abitate dalla popolazione di radice arbëreshë, s’identificano sin dalla loro origine come agglomerati urbani diffusi o“ proto città aperte” in base alle regole con cui in origine gli esuli sì insediarono per la crescita futura; realizzate e vissute, dopo una radicale bonifica territoriale di media valle, rappresentano un fenomeno sociale urbanistico irripetibile, giacché per rispondere alle esigenze dell’epoca venne utilizzata la metrica consuetudinaria Bizantina.

Gli agglomerati e l’insieme delle sei insule diffuse della Regione Storica Arbëreshë, si possono identificare in silenziosi tasselli d’integrazione Mediterranea o pagine inesplorate stese al sole.

Attraverso la lettura delle caratteristiche territoriali e dell’edificato storico, si possono estrapolare quale siano state le valenze per il rilancio sociale economico e culturale meridionale, in senso di  uomini, pensiero e tradizioni, con radice i temati dall’Impero romano, quando la capitale fu Costantinopoli.

Gli ambiti bonificati e gli edificati dagli Arbëreshë, vanno considerati come veri e propri contenitori di una raffinata cultura, le di cui origini sono sancite, non in produzioni scritte e grafiti da interpretare, ma nel riecheggiare di una lingua ermetica ed essenziale.

La stessa che avvolge magicamente ambiti ed elevati per poi incidere solchi inamovibili entro i quali scorrono la memoria e l’animo da ereditare, secondo l’inalterata/impenetrabile consuetudine.

La stessa sfuggita, sei secoli orsono dalle angherie di imperterriti avversari che cercavano di sopprimere; prima nelle terre poste al di la dei mari Adriatico/Ionio, da cui fuggirono; oggi dopo sei secoli, raggiunti ancora una volta dagli stessi persecutori, sotto altre vesti, si tenta di riprendere, dove interrotto, lo sterminio culturale di quanti vivono la Regione storica.

Quest’ultima considerazione è supportata dall’analisi dei disciplinari, secondo cui si dovrebbe tutelate le Caratteristiche che rende unica la storia di questo popolo antico.

Esse seguono la falsa rotta di tutela, senza alcuna cautela, attenzioni e rispetto, verso le residuali caratteristiche che segnano quei territori in senso di luoghi, di uomini e innalzati da loro prodotti nel corso della storia.

Nonostante dai tempi di M. O. Servio, venisse suggerito: “nullus locus sine Genio” , secondo cui nessun luogo era da ritenere privo di intelligenza umana coadiuvata dalle opportunità naturali del territorio, il genio dell’uomo si sviluppava e cresceva in stretta cooperazione alle naturali opportunità offerte del territorio.

Ciò premesso, la discutibile ed elementare tutela, in continua regressione culturale, ha innescato processi paradossali, per i quali e attraverso i quali sono state dismesse, danneggiate e in molti casi addirittura distrutte, considerevoli porzioni del tangibile Arbëreshë e ad oggi non si riesce ad avere misura di quanto male sia stato fatto, sia negli ambiti diffusi Arbëreshë che nella stessa nazione Albanese.

Sono le “rotte storiche” della minoranza, eseguite secondo protocolli di “ricerca sotto i fumi dell’inconsapevolezza”, la stessa che perennemente distratta nel guardarsi attorno tralascia gli ambiti attraversati, bonificati, costruiti e vissuti, nonostante fossero proprio questi i luoghi fisici dove vennero innestate le radici della caparbia popolazione.

Non si commette alcun errore nel costatare, che furono innumerevoli e tutti asincroni i filoni letterari, folkloristici, liturgici, iconografici e canori, ricollocabili nei luoghi vissuti e costruiti in Arbëreshë.

L’incapacità di lettura e interpretazione delle figure preposte che sono di tipo privato e pubblico, nel voler dimostrare a tutti i costi di saper operare in quelle discipline, si recava a copiare concetti e consuetudini altrui e contribuire incoscientemente a stravolgere i valori della minoranza, a iniziare dal dopo guerra del secolo scorso.

Basta solo citare due delle più grandi sviste,  purtroppo di questa misura esiste una ricca trattazione, venne sostituita in un capitolo di studi storici indigeno,la parola Vicinato con Gjitonia, per non parlare poi della svista storica che confondeva, addirittura, una lamia di marmo di una macelleria del XIX secolo, con l’altare di una chiesa cisterciense del IX secolo, questo è il metro con il quale sono state tutelate, difese e divulgate le consuetudini della minoranza arbëreshë dal punto di vista sociale storico e architettonico.

Chiaramente l’asticella delle ilarità imperterrita continua ad elevarsi, infatti, il continuo peregrinare trova la sua espressione massima nelle libere e personali interpretazioni dell’idioma, la letteraria e la metrica canora, queste in specie, nonostante disponessero, di presidi mirati e finanziati pubblicamente, si sono ostinati a volgere lo sguardo oltre Adriatico, penalizzando quanto solidamente innestato e ancora vivo nel territori paralleli ritrovati e incernierati nel: Sociale, l’Antropologico, l’Economia, stravolgendo addirittura le ere Geologiche e l’Architettura.

È chiaro che non è più sostenibile promuovere dinamiche storiche del tangibile e dell’intangibile arbëreshë, esclusivamente con mere veste colorate, tralasciando il senso delle diplomatiche e del portamento indispensabile per il valore dell’abito, tra l’altro non trovano ragione nel comune riconoscimento e della sostenibilità possibile, entro gli ambiti ben distinti da quelli indigeni adiacenti, in quanto non riverberano suoni e note di sfumature colorate tanto uniche e particolari.

Sarebbe una grave perdita culturale amalgamare in un unico prodotto di sintesi, ritenendolo genuinità del mediterraneo, quando la differenza sostanziale tra costumi, usi, e favella delle genti indigene, fiorisce petali senza senso, quando è innestata dove innalzarono e abitarono i rami dell’originaria radice arbëreshe.

Esiste un legame diretto, una capacità tenace, una vibrazione unica e irripetibile che porta a distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, si chiama promessa; essa rappresenta l’origine della parola data; l’onestà di vivere per mantenerla; la caparbietà di rispettarla e consegnarla intatta prima di finire questa vita terrena.

Le sintonie parallele che hanno generato i Katundë arbëreshë nascono quando gli esuli riconoscono i modelli geografici, orografici, la salubrità del territorio, l’equilibrio naturale e fisico, ereditato attraverso il vissuto con i loro padri, giacché, la lettura di documenti e atti antichi non erano parte della loro disciplinata e impenetrabile cultura.

Appare evidente che estrarre certezze con protocolli inesistenti in forma scritta, si è ben allontani dal modello di indagine più idoneo degli arbëreshë, specie se chi lo ha fatto non era un parlante di lingua madre, è per questo che il progetto cui si ambisce di realizzare affida la sua metrica alle arti e all’architettura nata in queste macroaree con figure nate e cresciute astretto contatto con il territorio e i suoi abitanti storici, i quali, non solo conoscono il territori, ma possono interpretare e riconoscere sia la favella antica degli uomini e sia il riecheggiare della natura che ti avvolge.

È questo lo spirito con cui si vogliono  approfondire gli argomenti di tema iniziando ad informare, avendo cura di saperle accogliere, le generazioni più giovani le uniche titolate ad accogliere e amplificare nel tempo le irripetibili nozioni per un più confronto condiviso con le realtà contigue.

La ricerca all’interno dei centri storici di macroare, fornirebbe elementi connessi tra di loro in seno a cultura, religione, scienza e arte locale, per un’unica sostenibilità possibile.

Tutto questo anche alla luce dei nuovi eventi migratori di cui il meridione rimane sempre approdo sicuro e possibile, visti i risultati eccezionali d’integrazione mediterranea ottenuti con protagonisti gli arbëreshë.

Lo stesso che il presidente della repubblica Italiana, ripeteva a San Demetrio Corone, lo scorso novembre con l’enunciato: gli Arbëreshë rappresentano il modello d’integrazione diffusa, in età moderna, nel mediterraneo.

Commenti disabilitati su Innesto inopportuno

KATUNDI YNË (4 gennaio 1970 - 4 gennaio 2020)

KATUNDI YNË (4 gennaio 1970 – 4 gennaio 2020)

Posted on 08 dicembre 2019 by admin

Katundi YnëNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – G. Schirò fu citato da E. Fortino negli anni sessanta del secolo scorso, durante un congresso che aveva come tema la storia degli arbëreshë l’occasione segnò il tempo in quanto fu sancito che: ogni volta che due o più arbëreshë si ritrovano e iniziano a conversare è la dimostrazione che la minoranza è ancora viva.

Civita e il professor Demetrio Emanuele rappresentano da due quarti di secolo, “un approdo culturale sicuro”, un punto di accoglienza dove rifocillarsi per tutta la Regione storica Arbëreshë.

Esiste un legame diretto, una capacità tenace che porta a distinguere il vero, il giusto, in altre parole il buon arbëreshë; si chiama promessa ed è questo che portano avanti quanti tengono la rotta valori per il circolo Gennaro Placco; origine della parola data; la dignità del vivere per lo scopo di mantenerla; la volontà di rispettarla e preservarla.

Attraverso questi dettami antichi, trova il suo fulcro, la memoria, il confronto e la diffusione, senza soluzione di continuità della storia degli ultimi cinquanta anni per gli arbëreshë, ma non solo, infatti con l’avvento dei media moderni, inizia ad amplificarsi secondo arche per tutto il meridione italiano e non solo.

Il professore Demetrio Emanuele e i suoi collaboratori si possono identificare ad oggi, come il caposaldo della “Regione storica Arbëreshë moderna”, un porto sicuro dove approdare e trovare accoglienza culturale attraverso i suoi prodotti editoriali, ma non solo giacché il calore umano non smette mai di essere alimentato secondo la rarissima metrica arbëreshë.

Grazie di vero cuore, per tutte le cose che avete difeso per consentire alle nuove generazioni, di ereditarle cose sicure del nostro patrimonio materiale ed immateriale.

Commenti disabilitati su KATUNDI YNË (4 gennaio 1970 – 4 gennaio 2020)

ZUTË SE DUALI I LÀVURË BENITI?

ZUTË SE DUALI I LÀVURË BENITI?

Posted on 05 dicembre 2019 by admin

AVENDO AVUTO UN INVITO AD ASCOLTARE PER INTERVENIRE, VI INVIO QUANTO

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Mi giungono continuamente notizie tra le più disparate dalla regione storica arbëreshë e devo dire che questa, a titolo, trattando di una delle memorie storiche più pure del modello consuetudinario linguistico, canoro e religioso, oltretutto considerato da me, come il fratello che non ho mai avuto, mi ha particolarmente stupito; ho subito alzato il telefono per avere notizie.

Dall’altro capo, dopo pochi squilli, mi rispondono, ed era proprio lui, Benito G. e per evitare di dargli dispiacere, senza chiedere della sua salute ho iniziato la solita conversazione in arbëreshë.

La voce era poco affaticata ma data l’ora pomeridiana è la sua età di memoria storica, mi sembrava tutto entro i parametri della ragionevolezza più limpida.

Conosco bene le voci di Katundë, queste, quando vanno “lente” perdono il senso della matrice originaria, ragion per la quale ho iniziato una sorta d’indagine e verificare la “velocità” delle sue risposte.

Ho chiesto se per lui la gjitonia avesse nome o se era come un quartiere o addirittura un rione; mi ha risposto che la gjitonia è il luogo dei cinque sensi o luogo della verifica dell’originario ceppo familiare,poi ha aggiunto: non ha nome e non ha confini identificabili o tracciabili.

Del quartiere, mi ha risposto, che non trovava alcuna attinenza con le genti arbëreshë, specie se coltivatori preti e artigiani; del rione stava iniziando a parlare ma ho preferito interromperlo perché il disquisito molto articolato avrebbe richiesto tempi e luoghi più idonei di una semplice conversazione telefonica.

A questo punto mi ha domandato se in giro vagavano demoni senza memoria e continuano a enunciare teoremi senza senso, aggiungendo, se il numero era contenuto, ancora, entro i limiti di tutela; con mio sommi dispiacere ho dovuto rispondere con una bugia per non farlo preoccupare.

dopo una grande e liberatoria risata, sono passato a fare un’altra domanda, chiedendo se conosceva i rioni storici del paese e se questi erano riconducibili alle famiglie che vissero in passato; ha risposto che le famiglie a Santa Sofia erano predisposte secondo accomunamenti ben precisi, ma non certo superavano la notorietà della toponomastica storica, in quanto, essa disegna indelebilmente lo sviluppo urbano del paese secondo direttrici nord sud per indicare la parte vecchia, del centro antico, dalla parte più nuova, diversamente la direttrice est ovest indica l’originaria fontana da quella più recente.

 E i rioni storici sono la chiesa vecchia, Scigata, Trapesa, Limti lëtirve, Ka Prati, Ka kangeli, Karincareletë, Scesci Ka arvuem, Uda Kasanes, Stangoi, Moroiti, Udamade, in specie queste due ultime, coperte da avena fatua culturale.

Alla luce di queste risposte, ho iniziato ad avere il sospetto che la notizia che mi era giunta era di tipo lento e la roccia del vecchio saggio era intatta.

Tuttavia la conferma che a impazzire non era lui, ma erano gli altri, ovvero, gli stessi che senza età senza cuore, senza mente e senza titoli si menano quotidianamente a cibarsi nei pascolo del sapere, bighellonando nei pascoli dell’avena fatua.

La conferma che si trattasse di una notizia lenta è stata quando ho chiesto se per le processioni, sia opportuno seguire la via della condivisione popolare, o itinerari privati; lui ha risposto: “Shanà: na jemi arbëreshë e atà janë litirëth”.

Allora ho salutato il fratello che non ho mai avuto, rincuorato, che a impazzire sarà stato un omonimo stampatore economico e il danno si quantificherà nella perdita di ulteriori tasselli al modello di integrazione più solido del Mediterraneo.

Benito sta bene è solo dispiaciuto che nessuno lo ascolta, per la difesa, tutela e divulgazione delle cose giuste, di tutta la regione storica.

 

P:S chi sa dire quale agglomerato urbano occupa il gradino più alto dell’omertà di tutto l’universo che conosciamo?

 

Commenti disabilitati su ZUTË SE DUALI I LÀVURË BENITI?

GIORGIO CASTRIOTA E LE INESPLORATE ARCHE D’ORATE ARBËRESHË

GIORGIO CASTRIOTA E LE INESPLORATE ARCHE D’ORATE ARBËRESHË

Posted on 01 dicembre 2019 by admin

battle_on_kosovo1389NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Se nel 1940, D. Zangari, rilevava ancora la mancanza di un trattato univoco che indicasse la rotta secondo cui fu possibile  lo stazionamento degli Arbëreshë in Italia, oltretutto per le conoscenze dell’epoca, suggeriva tra l’altro, una metrica di ricerca a dir poco elementare, completamente priva di confronto tra documenti, territorio, elevati architettonici e abitanti.

Se a questa epoca, escludiamo le eccellenze nate e formatesi dignitosamente tra la metà del settecento e scomparse vigliaccamente nel breve tempo del tramontare del XVIII e il sorgere del secolo XIX, perché colmi di libero pensiero e cultura, il resto della storia che caratterizza luoghi uomini e cose con protagonisti gli arbëreshë, sono consuetudine e null’altro.

Per questo concepimento di ricerca paradossale, basato su fondamenta di ispirazione notarile, a distanza di otto decenni del 1940, si rimane ancorati ancora saldamente al palo, ripetendo arche indicibili da quanti leggono e ripetono avvenimenti inesistenti dei trascorsi della storica minoranza.

La paura dei narratori erranti, è così radicata nell’esposizione generale, in quanto, trattano gli argomenti per interposto documento, persona o memoria, non assumono alcuna paternità del risultato storico frutto di sottrazioni e addizioni di cose vere o di cose false.

Trattano della minoranza storica presentandosi come portatori dei discorsi di altre persone, mai trattano delle loro capacità di ricerca e dei traguardi raggiunti, a tal proposito va rilevato; quanti hanno una professione e un titolo per trattare di trascorsi storici?.

Il narratore tipico si nasconde dietro il Rodotà, lo Schirò, il Capitolo, la Platea il Catasto e narra di archivi e biblioteche rinomate, non si espone nel dire questo è il risultato della comparazione di una moltitudine di eventi, documenti, uomini, dati sociali, riscontrati negli eventi, attraverso la cartografia storica e gli elevati architettonici oltre i segni urbanistici presenti sul territorio.

Quando smetteranno, queste figure senza alcuna formazione multidisciplinare, di palesare che la Regione storica Arbëreshë, è un semplice componimento linguistico o di qualche atto notarile?

Eppure parlano, trattano, pubblicano e distribuiscono nozioni della storia di uno dei popoli più longevi del vecchio continente; lo stesso che senza andare oltre l’era cristiana, erano noti come stradioti (Soldati Contadino), abitarono gli antichi themati dell’Epiro Nova e dell’Epiro Vetus, oltre le aree ad esse limitrofe, emigrati dal XIII secolo nelle terre del regno di Napoli e ancora oggi presenti in circa cento paesi o meglio Katundë.

Un popolo che raggiunto il colmo dell’esasperazione, grazie all’intuito di Zoti Gjergj detto Scanderbeg si divide in Albanesi e Arbëreshë, due dinastie ben riconducibili alla radice originaria, ma con compiti e menzioni materiali i primi e immateriali i secondi ben distinte.

Quale utilità possa portare la trattazione di un numero irrilevante di paesi arbëreshë sotto la semplice visione documentale o il ritrovamento del brandello perfetto da sbandierare, non è dato a sapersi.

Certo è che una visione generale degli eventi e gli accadimenti in veste multidisciplinare, è preferita, al brandello locale che molte volte risulta falso o manomesso per una volontà locale che mira al protagonismo.

Basta, Basta e ancora Basta!!!! con le vicende della gjitonia, quando poi non si ha neanche consapevolezza di questo fenomeno socio culturale, perché scambiata per lo sheshi e le case ad esso adiacente; è tempo di far smettere quanti escono da brutte esperienze mono dipartimentali o perche si sono recati in pellegrinaggio presso chissà quale inesistente archivi o raccolta privata.

Oggi servono figure rappresentative multi disciplinari che parlo non per partito preso, o per innalzare uomini e gesta di inesistenti eroi, non si sente mai parlare di argomenti con meta la regione storica, il frutto di gruppi di lavoro multi disciplinari, non si preparano convegni dove Archeologi, Geologi, Antropologi, Sociologi, Psicologi, Urbanisti, Architetti  e Urbanisti si confrontano sul tema dei Katundë arbëreshë.

Sono anni che temi mono dipartimentali fanno da padrone e molte volte si cerca la risposta in argomenti che sono della nonna o di quanti hanno vissuto, la regione storica, ai margini delle attività culturali più intime, o avendo l’immagine, la platea o breve alchimia che possa contenere lo svolgimento della storia di un popolo che dura da oltre sei secoli, per parlare solo di quanto avvenuto nel regno di Napoli.

La “Regione storica Arbëreshë” non è l’Arbëria, giacché, quest’ultima nasce e muore nel tempo di un’incontro fortuito; diversamente dalla “ prima” che vuole essere il luogo dove si vive perché il luogo della propria identità dove hai la possibilità di progredire e proliferare nel tempo, senza soluzione di continuità.

Aggiungere per ricordare a quanti, non più di un decennio addietro, enunciavano: “quale scuola di Santa Sofia se avete avuto nella storia solo un povero prete democristiano” il casale Santa Sofia Terra, quello di essenza arbëreshë, è stato il primo ad aver avuto un ruolo di osservazione assegnato direttamente da Giorgio Castriota, e nel corso della storia, non ha avuto ruolo di sezione partitica specie con la falce e il martello, ma di piramide culturale di pensiero liberale noto in tutta Europa nel XVIII secolo.

Commenti disabilitati su GIORGIO CASTRIOTA E LE INESPLORATE ARCHE D’ORATE ARBËRESHË

LA CULTURA È L’UNICO BENE CHE NE FRATELLI E NE GJITONI POTRANNO MAI PORTARCI VIA (Haretë e thë zënërveth jian thë ngruiturath cë ne vëlezerë e ne Gjitonërat nënghë mën na maren te gjiela cë jame scomi)

LA CULTURA È L’UNICO BENE CHE NE FRATELLI E NE GJITONI POTRANNO MAI PORTARCI VIA (Haretë e thë zënërveth jian thë ngruiturath cë ne vëlezerë e ne Gjitonërat nënghë mën na maren te gjiela cë jame scomi)

Posted on 08 novembre 2019 by admin

(AP Photo/Joe Rosenthal)                                                             Questi in figura hanno alzato la bandiera, si sono meritati un monumento e voi che l’avete stesa?

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Uno dei principi indelebili che sostengono i valori della Regione storica minoritaria è racchiuso nella cultura, da non confonde con allegorie di sperimentazione   locale senza senso alcuno, anche se attuate da  katundarë,  Gjitoni, fratelli, gijirij vicini, a media distanza o lontani.  

La cultura è un dono, nasce innestato nell’animo e nella mente di chi la possiede,  le uniche titolate ad apparire per segnare  indelebilmente il territorio e le persone che da secoli hanno fatto la storia di ben identificate macro aree.

Una figura di cultura non inventa, perché il fine di apparire, ma studia intrecci e divulga nozioni ed eventi in armonia con la storia degli uomini e del territorio.

La cultura è prima di ogni cosa studio, poi confronto  multidisciplinari tra uomo, territorio ed epoche; semplicemente la valorizzazione del genio locale.

Chi la possiede conosce il senso delle cose, come presentarle al cospetto degli altri indossando sempre l’abito giusto, specie se si tratta dei colori caratteristici di una ben identificata minoranza, che per la loro consuetudine si rigenerano senza perdere  la rotta  della propria identità.

Addentrarsi in questi campi disciplinari  o si è nati con il dono di comprendere la minima inflessione consuetudinaria e linguistica  o si produce danno per se e per la comunità intera.

Una bandiera ha il suo valore quando, sventola perché rappresenta la vita, il vigore dei rappresentati e per questo si erige sulla vetta di un pennone per segnare uomini e il territorio.

Essa non deve mai cadere a terra o rimanere stesa in nessun suolo; la bandiere stesa a terra rappresenta la capitolazione, la resa, la morte e quanti ne fanno un uso  in tal senso, sicuramente non sono figli di quelle antiche terre, ma nemici infiltrati.

Tanti sono i valorosi che per raccogliere, la bandiere caduta in terra, durante la battagli hanno danno la vita per innalzarla come segno di continuità di appartenenza  cultura o di specie .

La bandiere stesa a terra, accerchiata da figure femminili, nel consuetudinario minoritario, è la rappresentazione teatrale del funerale e le donne poste ad arco indicano la via da seguire al defunto che non tornerà più invita.

Queste rappresentazioni poco attente e prive di senso, se poi vengono sommate ad argomenti elementari, restituiscono la misura della poca cultura che aleggia, tra le fila di quanti la dovrebbero tutela specie se  si erigono a rappresentati locali; ma questa è un’altra storia, troppo complicata e difficile da comprendere, per mancanza del senso della bandiera o addirittura di baluardi più personali quali gli stendardi  locali.

Allo stato delle cose non rimane altro che dissociarsi da questo imperterrito movimento franoso, che macina e amalgama radici fusti e piante, anche se i nostri padri  saggi avevano lasciato segni toponomastici precisi dei luoghi e delle cose da evitare per innalzare i luoghi della vita e li appellarono prudentemente castagneti.

Se una precisa e circoscritta comunità allocata dei fianchi di Sila Greca, non si accorge delle ilarità, personali messe a regime, preferendo tecnici romani più vicini di quelli partenopei, rende l’idea dell’orientamento culturale oltre al senso geografico delle scelte poste in essere.

Questo è il quadro nel quale si traggono le idee culturali  attraverso le quali escono  allo sbaraglio  eminenti e  titolate figure, le quali osano confrontarsi persino a  con quanti possiedono cultura da vendere , non avendo alcun rispetto e per questo certificato con il silenzio, temi minori  come la Kaliva, il Balivo, o la toponomastica locale, ritenendo inconcepibile le trattazione; per certi versi incutono profonda tristezza,  perché  misurano chi ha in affido il protocollo identitario per consegnarlo alle generazioni future.

Addirittura rilevano le trattazioni di Kaliva e Baliaggio come una caduta di attendibilità; “questi“ sono poi gli  “Diogene di Skip”  che dal 1973 vagano imperterrito affermando che la “Gjitonia è come il Vicinato”, confondendo un modello sociale mediterraneo con le consuetudini (leggi mai scritte) degli Arbanon, oltre a tutto ciò confondono clamorosamente Valije  che sono canti, ritenendoli addirittura i balli nati all’indomani di una inesistente vittoria dell’eroe nazionale Albanese “ comunemente denominato Scanderberg”.

Come se non bastasse, confondono, rioni con quartieri e addirittura non conoscono la “festa di primavera” che è una consuetudine di quanti abitarono gli antichi, themati dell’Epiro Nova e dell’Epiro Vetus, perché uniti dallo stesso credo Greco Bizantino.

Sono le stesse persone che può avendo avuto titoli e meriti non hanno ricucito nessuno dei tanti e irreparabili strappi (Skip) dell’idioma, della metrica canora, della consuetudine e per non parlare dell’infinita crociata, che non da pace neanche a quanti vivono nell’aldilà.

Tutto questo avviene perché non è stato trovato un modo per rubare la cultura a chi la possiede, ed ecco che la perversione prende il sopravvento, quello che non può essere sottratto neanche con ‘inganno, va debellato e bandito ad ogni costo, preferendo: cantanti che fanno lezioni di storia; alchimisti che fan da ballerini e da sarti; muratori che organizzano eventi;  non parlanti, imporre lezioni di radice idiomatici, per non parlare del genio locale, dell’urbanistica e delle architetture che qui evito, l’ulteriore slegamento dei capelli per piangere.

Se questi semplici fatti storici fanno piangere immaginate  se poi il discorso si dovesse riferire alle architetture sottrattive del periodo di scontro o di quelle additive del tempo del confronto e integrazione,  allo scopo si ritiene che debbano passare ancora altri domani per aprire questi temi fondamentali di lettura del costruito storico minoritario; intanto accontentiamoci di alzare le mani e per incanto metterci a ballare, un ignoto e demenziale ballo tondo(????).

Una piccola parentesi la vorrei aprire sull’argomento strade, ricordando che un buon uomo generalmente, le rimette in sesto appena scadono o vengono giù dalla montagna, non dopo oltre “un decennio di paura indotta”, nonostante la vegetazione e gli alberi cresciuti sulla frana, vengono su, dritti e rigogliosi; lasciando i non fruitori a vive un disagio che per essere lavato senza pena, deve durare ancora per altri due decenni.

 

Un dato è certo Shkoj, mot për mot, e sot, Napul, është e shpikset gjaku arbëresh i harruer.

Commenti disabilitati su LA CULTURA È L’UNICO BENE CHE NE FRATELLI E NE GJITONI POTRANNO MAI PORTARCI VIA (Haretë e thë zënërveth jian thë ngruiturath cë ne vëlezerë e ne Gjitonërat nënghë mën na maren te gjiela cë jame scomi)

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!