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VALJE

VALJE

Posted on 10 aprile 2016 by admin

SAMSUNG CAMERA PICTURESNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Allocate nei versanti Est e Ovest della Manfriana, nel parco del Pollino, Civita e Frascineto sono due paesi Italo albanesi noti rispettivamente per la Gola del Raganello – Golja thë Raganelith e la Timpa del Corvo – Tìmpen e Korbith; all’interno della Regione Storica, tutelano il valore delle Valje, che, il martedì dopo Pasqua, riecheggia tra gli splendidi scenari del Dolce Dorme calabrese.

I due borghi seguono un percorso di tutela secondo punti di vista antitetici; mentre il primo accoglie nuove sonorità e associa alla metrica del canto suoni e vestizioni sempre più moderne; Frascineto rimane abbarbicata alla vecchia tradizione consuetudinaria del canto e delle caratterizzazioni tipiche.

Gli ambiti del “Dolce Dorme”, per i dissimili aspetti culturali, dinamici e statici, assumono, durante l’appuntamento secolare del Martedì di Pasqua, il ruolo di “Purpignera delle Essenze Culturali Arbëreshë” (vurvìnereth e arbëreshë) per questo è doveroso valorizzarle e mantenerle partecipate al fine di non perdere l’originario senso delle Valje.

E. Fortino, negli anni sessanta del secolo scorso, partecipando ad un convegno, sottolineava che: gli arbëreshë si rinnovano ogni volta che due o più  si incontrano e parlano conversando in lingua madre; Civita e Frascineto, rappresentano i palcoscenici naturali dove questa magia si ripete ogni anno e porta un gran numero di albanofoni a rendersi partecipi dell’evento, che con canti è danze confermano l’appartenenza ad un etnia, che sente e vede la fratellanza ritrovata.

Il motivo sociale che ha generato la manifestazione, in ottica odierna, appare irrazionale e a dir poco paradossale, ma se analizzato secondo le dinamiche dei trascorsi arbëreshë, si aprono scenari che trovano logica collocazione negli ambiti di minoranza.

La testimonianza che lega le Valje al secolare appuntamento di Pasqua nel Pollino è resa nel paragrafo “Etimologia” del 1835 da S. Basta, il dottore nel suo trattato relativo a Civita riporta quanto segue: “É tradizione tra noi, che i nostri padri avessero edificato i primi abituri in due punti diversi, e la vetustà delle case esistenti nel Piano del Magazzino, e nell’ estremità superiore del paese ci persuadono a fa­vore. Esistevano in questi due piccoli villaggi due diver­se famiglie condizionate, ambedue di cognome Bellusci; dominate dallo spirito di ostilità, 1′ influenza che esse estendevano sui loro coabitanti manteneva una viva dissensione, e coglievano l’occasione nei tre giorni di Pa­squa, quando solennizzavano i Piekisit (vecchi), per ve­nire a dei fatti d’arme, e sfogare i loro rancori; le cau­se produttrici dell’odio nei Bellusci, che indussero la co­lonia a scindersi in due partiti, hanno dovuto essere va­levoli anche a dare una diversa denominazione ai rioni che abitavano”.

Dei tanti capitoli che raccontano lo stato del paese arbëreshe è interessante ciò che viene riportato nella disamina dei “ Tre giorni di Pasqua”: “nel dopo pranzo di Domenica, Lunedì e Martedì a Pasqua varie compagnie di giovani, hanno consuetudine di riunirsi e vestiti alla foggia orientale, con turbanti in testa, con spade levate in alto e con bandiere, “vanno cantando i fatti guerreschi del Eroe di Croia”.

Le donne nella ridda unite cantando ancor esse canzoni nazionali ed accrescono al diletto ai curiosi dei paesi vicini, che corrono a divertirsi.

È tradizione esser state stabilite queste feste per avere nel decorso degli anni una memoria del natio paese,che imperiose circostanze costrinsero ad abbandonare.

Ci duole non poter qui riportare questi canti popolari che il tempo vorace a ridotto in frazioni sconnesse, e siamo assai dolenti di veder cadere in disuso le patrie costumanze.

Le manifestazioni folk in senso generale hanno perso la direzione per il quale furono realizzate, non conservano più l’originaria radice che affondava sia nel canto che nelle melodie ad esse direttamente connesse”.

I due trafiletti storici  riportati da S. Basta con garbo, sottolineano due momenti distinti della storia arbëreshë, il primo legato a esigenze territoriali dei primi insediamenti, mentre il secondo rappresenta la riproposizione della tradizione arbëreshë e confermare la metrica con la quale si tramanda il disciplinare linguistico – consuetudinario.

Si può, quindi, presupporre senza commettere errori, che l’origine nasca con il racconto etimologico e poi con il tempo, l’esigenza di tramandare le proprie origini all’interno della Regione Storica, abbia assunto valore folcloristico nei Tre giorni di Pasqua, in essi sonno riversati gli ingredienti tipici della minoranza, il canto, i costumi, la consuetudine, il valore della fratellanza, la confermare l’integrazione tra arbëreshë e indigeni, anche se già dal XV secolo, la nota del Basta termina con il rammarico di un processo che iniziava deteriorasi.

E. Koliqi, attribuisce alle Valje un ruolo identificativo per tutti i discendenti della diaspora balcanica ben preciso, in quanto, i canti tradizionali, narrano la lotta, contro il turco invasore, il dolore per quanto dovettero abbandonare la terra natia, i solidi sentimenti di fratellanza, l’ammira­zione per i guerrieri che li difesero, in altre parole la storia degli arbëreshë.

Non avendo avuto agli Albanesi una letteratura scritta, per le vicende storiche ben note, favole, racconti, proverbi, detti e canti in specie, divennero l’unico mezzo per tramandare i sentimenti, gli affetti e la storia.

Gli arbëreshë amano i canti, perché rappresentano l’enciclo­pedia storica, morale, civile, patriottica, che conserva attraverso la metrica del canto, nella radice originaria.

Sono canti amorosi, nuziali, natalizi, funebri, morali, giocosi, satirici, storici, che, diffusi per i monti e per i piani, nei villaggi e nelle città, tra i pa­stori e tra i contadini, tra i notabili, tra i vassalli e formano il solido collante per il popolo arberi.

Esse rappresentano la parola d’ordine che unisce tutte le comunità albanofone sparse in ogni dove, il codice in terra straniera, in mezzo al caos etnico, al cosmopolitismo assimilatore delle immense metropoli, sono i ricordi, le memorie storiche degli Albanesi, che per mezzo di questi canti mantengono, vivo il culto della lingua e delle costumanze della patria d’origine, vivendo da secoli tra popolazioni diverse, essendo gli arbëreshë cittadini della seconda patria.

Dalla nascita alla dipartita di ogni arbëreshë, esiste una svariatissima quantità di manifestazioni canore, i conviti sono allietati dagli improvvisatori di versi, le feste nuziali si svolgono anche oggi, benché meno che nel passato, come un rito dalle fasi regolate da rigorose e minuziose tradizioni, con canti per ognuna di queste fasi.

Il canto delle Valje a tre momenti salienti e si svolgono così come segue: il coro delle donne viene avanti, cantando il primo distico; quando questo è terminato, si fa avanti il coro degli uomini, cantando il secondo e alla fine un intreccio di tonalità mette in relazione i due gruppi che vogliono suggellare la fratellanza dei generi.

Essendo l’arbëreshë, una lingua che si tramanda oralmente, il canto rappresenta la metrica attraverso cui si lascia in eredità il senso linguistico.

Esse divengono il momento di massima espressione linguistica e consuetudinaria, matrimoni, lavoro nei campi, spogliatura dei prodotti agrari, le festività, i momenti di giubilo e quelli del trapasso sono Valje.

I temi spaziano in ogni ambito della vita e delle vicende che hanno visto gli arbër protagonisti, esse sono un espressione identitaria senza luogo e ne tempo in quanto esprimono le vicende passate presenti e future.

Lo stesso Vincenzo Torelli nella sua carriera giornalistica fu ispirato da questo modo di portare notizie e creò una sorta di battaglia tra il canto e la musica, ritenendo che la vera espressione artistica era racchiusa nel canto mentre la musica era solo un accessorio.

Del canto albanofono riferisce anche Pasquale Scura, ponendo in evidenza le doti canore innate degli arbëreshë, le innumerevoli cantate che caratterizzavano i luoghi d’insediamento e le attività agricole, silvicole e pastorali, canto come forza trainante con la quale s’immaginava il ritorno nella terra d’origine rispettosi delle antiche tradizioni.

Questi sono i motivi per i quali le valje, divengono, il momento della massima espressione culturale albanofona, Civita e Frascineto rappresentano le pietre miliari dell’arberia,segnano il percorso antico, tuttavia negli ambiti Civitioti confermano quella preoccupazione di Serafino Basta che oggi è diventata certezza.

Sonorità canore accompagnano o addirittura sostituite con suoni di tarante, tarantelle e suoni Albanesi acquisiti dopo la diaspora dagli invasori turchi, cadenze e movenze per le quali gli arbëreshë preferirono l’esilio, oggi si confondono in quella manifestazione che dovrebbe darci la certezza della nostra identità, la stessa che i nostri avi proteggevano a costo di sacrifici e patimenti.

A Frascineto la manifestazione nasce sicuramente da simili avvenimenti, ma rispettosa dell’antico senso socio culturale e rimane radicata ancora alla valorizzazione della metrica del canto, anche se poi le cantate non hanno una logica per la quale si possa giungere a una caratterizzazione dell’evento, per cui le esternazioni e le motivazioni, rese ai midia non chiariscono in maniera univoca il senso storico linguistico delle Valje, vurvìnari arbëreshëvet.

Mi rivolgo ai Sindaci e agli Organizzatori di queste fondamentali manifestazioni, ricordando che il tema delle Valja, si rispetta  con i costumi della modestia  culturale, questo è il modo  di fare  tutela per la comunità albanofona intera; valorizzare le Valje diffondendo essenze originarie, fa si che tornando a casa, siamo  sicuri di aver fatto un ottimo lavoro, altrimenti si promuovono, sotto mentite spoglie, le tarantelle e i balli turchi, che sono altra cosa.

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I PATTI DELLA SCRITTURA, LA VOLUBILITÀ CONSUETUDINARIA E LE CERTEZZE ARCHITETTONICHE

Protetto: I PATTI DELLA SCRITTURA, LA VOLUBILITÀ CONSUETUDINARIA E LE CERTEZZE ARCHITETTONICHE

Posted on 22 marzo 2016 by admin

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GRECI - KATUND “Apertura di un nuovo spazio di fatto”

Protetto: GRECI – KATUND “Apertura di un nuovo spazio di fatto”

Posted on 21 febbraio 2016 by admin

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PERCHÉ LA TRADIZIONE ARBËRESHË È DIVENTATA TRASVERSALE

PERCHÉ LA TRADIZIONE ARBËRESHË È DIVENTATA TRASVERSALE

Posted on 07 febbraio 2016 by admin

TRADIZIONI TRASVERSALENAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Per ricucire il continuo delle tradizioni, all’interno della R.s.A., si è ricorso all’utilizzo dello “slogan del Recupero della Tradizione” inconsapevole modello dei mali prodotti.

Due termini antitetici a ben interpretare, in quanto, il senso della parola “Recuperare” intende rimettere in funzione una cosa nelle disponibilità, che per un periodo prolungato è stata dismessa o in parte dimenticata.

La “Tradizione” rappresenta il filo ininterrotto delle conoscenze e quindi legano l’essere senza cesure o soluzione di continuità; come si può allora recuperare una continuità da cui non si può prescindere?

L’opera del recupero ha come fondamento la certezza che la tradizione si sia interrotta per il determinarsi di una nuova scienza, di un rinnovato concetto da storia-racconto da storia-problema, o per lo sviluppo dei nuovi processi, sociali, industriali ed economici.

Se l’ultimo punto è molto chiaro, gli altri due vanno analizzati con più attenzione.

Il termine Tradizione (dal latino traditiònem deriv. da tràdere = consegnare, trasmettere) assume il significato di passaggio di nozioni e racconti, soprattutto in forma orale, così come è fortemente radicato nei paesi albanofoni.

La consegna di nozioni da una generazione all’altra, richiede la contemporanea presenza di chi riceve e chi da: il racconto orale non può avvenire che con la partecipazione dell’azione.

Chi racconta è sullo stesso piano di chi ascolta, entrambi devono appartenere alla stessa categoria idiomatica ed entrambi partecipare all’azione più volte, perché i mezzi a loro disposizione sono identici e appartengono allo stesso gruppo cui fa parte il rito da tutelare.

La tradizione implica contatto diretto tra chi tramanda e chi apprende, ciò comporta che le due sfere coinvolte appartengono allo stesso ambito, in funzione della vicinanza parentale.

La tradizione non è altro che il passaggio dell’esperienza vincolata ad alcune regole fondamentali la cui attendibilità del messaggio è garantita dall’appartenenza, del comunicatore e dell’ascoltatore.

A fare da contro altare a ciò è la prassi largamente diffusa dell’esperimento che affonda le radici in presupposti dissimili dagli enunciati originali, l’approssimazione è padrona, e le lacune per questo, cercano l’allineamento senza mai trovarlo, perché perpendicolare alla linea della tradizione originale, producendo così surrogati senza senso, tempo e luogo.

Appare evidente che nel momento in cui si è andato a rispolverare elementi fortemente radicati nelle singole macroaree, immaginando di rivitalizzare o dare continuità a riti, consuetudini, costumi, attraverso il contributo di figure che hanno vissuto ai margini della comunità, il messaggio diffuso è fortemente distorto e colmo d’incongruenze.

Questo penoso atteggiamento è stato possibile vista la statica degli addetti istituzionali storici e clericali, i quali invece di intervenire, energicamente, alla messa in opera del modello trasversale “ del Recupero della Tradizione”, hanno preferito non intromettersi e attendere gli eventi per criticarli.

Il dato è paradossale, in quanto, sarebbe stato più ragionevolmente e costruttivo, predisporre, almeno un momento di confronto per evitare la messa in atto delle pericolosissime e trasversali nozioni, queste ultime amplificate oltre modo, nel corso di appuntamenti storici delle comunità, che per la mancanza, del indispensabile Tavolo hanno confuso: Primavere con Vale; Carnevali per appuntamenti Istituzionali; Riti Religiosi con Eventi da Stadio.

Questo chiaramente per evidenziare solo gli aspetti più elementari, giacché volendo addentrarsi in aspetti legati all’idioma, all’arte e alla consuetudine per i quali è indispensabile una formazione accademica, la manomissione ha innescato infiniti stati di labilità.

Allestimenti innalzati come originali da cento (tanti quanti sono i paesi nel meridione di etnia minore) Armate Brancaleone, che si appoggiano allo slogan e nella migliore delle ipotesi con fare elementare persino nell’utilizzare sostantivi quali: Gjitonia, Rioni, Quartieri, Sheshi, Uhda, Rugha, Shpia, Kaliva, Katoj, Vatra, per gli aspetti urbani; per non parlare di quando i figuranti si auto elevano a ricercatori sotto le vesti di: Linguisti dei Terreni, Scriba, Dottori, Traduttori, Foto-ricalcatori e Antiquari, immaginando che il popolo più anziano del Continente Antico, radicato al solo idioma, si possa interpretare solamente perché si ha nelle disposizioni finanziamenti elargiti, senza cognizione e parsimonia, dalla Comunità Europea o dagli organi preposti per l’emergenza delle calamità naturali.

P.S. – Gli atti volti a individuare le caratteristiche urbanistiche e architettoniche della R.s.A. (Regione storica Arbëreshë) sono stati qualificati secondari o minori, rispetto a quelli confinanti.

Per questo è indispensabile eseguire approfondimenti che partendo dalla lettura geoeconomica, connesse con lo studio degli ambiti storici, urbanistici e architettonici, forniscano elementi utili dai quali e con i quali, identificare il concetto di “Minore”.

Esso va inteso non come inferiore o marginale ma ingrediente indispensabile per scrivere la storia di una macroarea nota; volendo usare un eufemismo sarebbe che: per fare il pane serve tanta acqua e farina “ la Maggioranza”, cui vanno aggiunte piccole dosi di lievito e di salela Minoranza”, ma tutti gli ingredienti sono fondamentali per fare il vitale alimento.

Il fine da perseguire deve essere indirizzato verso la ricercare dei diversi contributi delle comunità minori, questi ultimi, nella loro semplicità, hanno caratterizzarono il divenire del paesaggio, visto non tanto come condizionante, ma interconnesso con le realtà attigue, con le quali ha scambiato elementi caratteristici espressi negli ambiti architettonici, urbanistici e ambientali, indirizzati a produrre sistemi sostenibili che ancora oggi sono i contenitori preferiti della micro filiera delle eccellenze.

Va quindi considerato, come scrive L’autore di Sheshi che: “ le comunità, come gli individui, sono dissimili, così come le loro architetture segnano in maniera diversa il territorio dove sono depositati i valori dell’identità culturale”.

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SINO A QUANDO IL MIO PAESE, NON È PIÙ

SINO A QUANDO IL MIO PAESE, NON È PIÙ

Posted on 19 dicembre 2015 by admin

SINO A QUANDO IL MIO PAESENAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Non t’importa dove porta il tracciato della cinta Sanseverinense, fondamentale è seguirla per addentrarsi nel fantastico mondo consuetudinario di gesta, parole, canti e segni della cultura arbëri; indelebile modello tramandato oralmente senza soluzione di continuità sin dalla notte dei tempi.

L’arberia combatte, senza tregua, per la sua sopravvivenza, contro le avversità del tempo e degli uomini che per fare salvaguardia e conservazione si sono scambiati ruoli, arti, mestieri, professioni, divenendo fautori di tradizioni mai poste in essere; per questo è opportuno ricordare che:

Il mio paese mi apparteneva quando le stagioni avevano suoni, sapori, odori, colori, che riconoscevi; armonia di sensi che sbocciavano, s’intensificavano e poi scomparivano, per ripetersi identicamente gli anni a venire.

Il mio paese mi apparteneva quando il pane si produceva  in casa, durava un mese e si faceva con farina autoctona, acqua delle fontane naturali, sale di cava, il lievito, quello del XV secolo rigenerato secondo antichi dettami .

Il mio paese mi apparteneva quando le strade non erano utilizzate per collegare un posto con un altro, perché quel segno del tempo, rappresentava la fratellanza e il bene condiviso.

Il mio paese mi apparteneva quando i rapporti del vivere arbëreshë rendeva tutti protagonisti nell’indimenticabile palcoscenico del proprio rione.

Il mio paese mi apparteneva quando Francesco Fusaro, portava il lavoro a casa perché i suoi attrezzi (Ascia, Mazza e tre cunei di ferro) li poteva perdere recandosi a tagliare la legna a casa d’altri, per questo con la sua carriola, trasportava prima davanti a casa sua le grosse quantità di legna(30-60 quintali), per poi consegnarle  tagliate.

Il mio paese mi apparteneva quando fare fritùmetë era dovere di ogni gjiton e tutti erano fieri di partecipare per i dodici giorni che precedevano il Natale.

Il paese mi apparteneva quando alle ore 11.00 del Sabato Santo, alla fine della Santa Messa, le campane suonavano a festa e tutti si davano gli Auguri della Santa Pasqua.

Il paese incomincio a destarmi perplessità quando alle ore 11.00 del Sabato Santo di quest’anno, alla fine della Santa Messa, è stato vietato i suonare le campane a festa e dare gli Auguri della Santa Pasqua, perche si doveva cambiare la consuetudine da Greco Bizantina a Latina.

Il mio paese mi apparteneva quando le strade erano praticabili a piedi e a dorso di mulo e quelle più instabili erano lastricate con le pietre provenienti rigorosamente dalla cava thë pontìth i madh.

Il mio paese mi apparteneva quando i passi del vicino, ritmavano il tempo del mutuo soccorso, conferma vitale dell’antica ricerca parentale.

Il mio paese mi apparteneva quando lavina Shicshònes scorreva tutto l’anno.

Il mio paese mi apparteneva quando le notizie erano diffuse dalle campane; ore, festa, dipartita, allarme e inizio delle novene, battiti noti che riempivano le operose giornate.

Il mio paese mi apparteneva quando nelle sere d’estate i ragazzi riempivano di vita ogni anfratto del centro storico, mentre gli anziani guardavano divertiti.

Il mio paese mi apparteneva quando per pudore s’immaginava che Udha Kassanes, era la via che conduceva a Cassano Ionio.

Il mio paese mi apparteneva quando Tonino aspettava Marino thë Scigata, e lungo la mulattiera, ognuno su un lato della via in silenzio senza conversare si recava al Collegio, con la speranza che acculturarsi li avrebbe resi entrambi migliori.

Il mio paese mi apparteneva quando le donne con le tipiche vesti, nei giorni di festa, portavano in dote al Santo lo splendore delle stolit e Llambadhòr.

Il mio paese mi apparteneva quando B. Michele, B. Ottavio, F. Elio, C. Raffaele, P. Vito, B.S. Domenico, E. Francesco, L. Enzo, facevano le corse me Karozzet lungo Via Ascensione e la piazza, sin dove terminava la chiesa.

Il mio paese mi apparteneva quando i segni della storia su, udha madhe, udha stangoìt e udha ipeshpëk, scaturivano dalle radici e non da acculturazioni anomale e senza alcun senso storico.

Il mio paese mi apparteneva quando ad agosto, nei rioni si depositava la legna per i fuochi di settembre e senza soluzione di continuità il rito si prolungava per realizzare il falò alla vigilia di Natale con il fine di confermare, prima la vitalità , d’ambito e in seguito quella condivisa di tutto il paese.

Il mio paese cominciava a non appartenermi più da quando i fuochi si preparano poche ore prima dell’evento utilizzando autocarri e trattori che hanno tolto il senso e il sacrificio legato all’evento.

Il mio paese ha incominciato a non appartenermi più quando si è deciso di intraprendere la strada dell’accanimento terapeutico per l’affiancamento di una forma scritta, che ha spogliato il continuo storico di molte generazioni.

Il mio paese mi apparteneva quando le favole le raccontavano le nonne ai bambini; piccoli racconti dal grande valore.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando le favole le hanno raccontare i futurologi alle nonne; inutili dialoghi privi di radici.

Il mio paese mi ha dato l’impressione che mi appartenesse quel maggio dell’otta, ma è durato il tempo di un battito di ciglia, cosi anche in quello dell’anno scorso quando sollevando il coperchio della pentola dei contenuti culturali, sono rimasto oltremodo sconcertato.

Il mio paese iniziava a non appartenermi quando i costumi furono raccolti nelle “cristalliere pubbliche/private” e il vestire femminile è diventato farsa, utilizzato impropriamente per rievocare sin anche la leggenda della Nusia o per brillare nelle manifestazioni carnevalesche senza regola e significato.

Il mio paese mi piaceva quando la strada nuova è stata fatta lì dove esisteva un antico limite che divideva la parte alta dalla parte bassa del centro storico.

Il mio paese mi apparteneva quando gli abitanti nati a Ovest del paese, attingevano acqua a Moroìti e quelli nati a Est rigorosamente Stangùa.

Il paese era mio kur grath ndreqëjn murxjielin me bukë è pështier, për burrëth çë veijn e shërbejn asximes.

Il mio paese mi apparteneva quando i ragazzi per stare vicini alle loro ragazze andavano di notte nelle colonie estive creando sconcerto e panico, nonostante depositassero corone di ginestra fiorita.

Il mio paese mi apparteneva quando a Natale il presepe in chiesa lo facevano i giovani del paese e l’albero lo donavamo gli orerai dell’Opera Sila, ed era un pino naturale.

Il mio paese mi apparteneva quando mia nonna per non dirmi di no! Mi diceva :egni, biri nàneh.

Il mio paese mi apparteneva quando nella gjitonia riecheggiavano le frasi: Ndriculà Adolì ke brumìn?; – Menat veme vjelmì!; – Më ndihën sàt scalismi?; – Menatë vemi e cuermi!; – Mhë ndighen sat mbiedmi a tà di ulignë?; – Thë sola gnë lagane!; – Menatë hesht hënëz?; Më huen gnë kravele?

Il mio paese mi apparteneva quando luce, spazio e ordine, erano le cose di cui gli abitanti avevano bisogno, nella stessa misura cin cui avevano necessità di acqua, di pane e di una casa utile a vitalizzare gjitonin.

Il mio paese mi apparteneva quando il cantare era la musica dell’anima e del cuore, così come la vecchia consuetudine albanofona aveva insegnato.

Il mio paese mi apparteneva quando il palcoscenico del canto serviva per alimentare amore e lavoro, con le storiche melodie, diversamente a quanto avviene oggi con le mille comparse che del canto non conoscono il valore, il significato e la pronuncia, divenendo per questo apparati stridenti.

Il mio paese non mi apparteneva più quando a emulare la trafila tradizionale del matrimonio, sono stati i discendenti dalla famiglia che ha menomato una delle più belle storie d’amore arbëreshë e la ragazza rimasta in vita per tutta la sua misera esistenza era abitudine salutare: “malin tim më vran!”.

Il mio paese mi apparteneva quando la vestizione delle preziose stolit e Llambadhòr avveniva secondo le rigide regole conservate da Maria Teresa Baffa, Adelina Basile, Marchianò Rosaria, Erminia Miracco, Carmela Monaco.

Il mio paese non incominciava ad appartenermi quando la regia delle preziose stolit e Llambadhòr grazie alle disposizioni della politica fu affidata alla percezione delle tarantellare silanitide.

Il mio paese non incominciava ad appartenermi quando si è dato spazio alle “tarantellare silanitide” e ai fautori delle “cristalliere pubbliche/private” invece di realizzare una solida e capace mnemoteca molto più utile a conservare la naturale capacità arbëreshë.

Il mio paese mi apparteneva quando la vendemmia terminava con i muli caricati con le capienti sporte.

Il mio paese non mi apparteneva quando la vendemmia era l’occasione per invadere il paese con trattori, e motozappe trainanti i rimorchi che lasciavano segni sui paramenti delle strette vie.

Il mio paese mi apparteneva quando Vicèu Abramith faceva l’orto Moròith nelle terre dei Caccuri/Baffa e l’acqua che non veniva attinta, dalla storica fontana, era raccolta nella Gibia.

Il mio paese mi apparteneva mentre si riempiva la Gibia, per irrigare l’orto e il vecchio saggio realizzava nella storica capanna gli zoccoli per i più poveri del paese, proto industria delle calzature ortopediche.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando per dar spazio all’inventiva, figlia dei fumi del vino, si ammodernò la storica fontana, posta ai piedi thë campanarith, dismettendo sin anche il magico canale di displuvio che sfidava i principi della gravità.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando lungo l’antico percorso “thë stangoit”, costruirono un manufatto abitativo, espressione del più anemico periodo politico.

Il mio paese non mi apparteneva quando udha e ree partiva dalla piazza e arrivava sino al casale dei Fasanella.

Il mio paese non mi apparteneva più quando gervaso per costruire il sentiero veicolare, dovettero piegarsi al volere dell’ignoranza, della prepotenza e della bestialità.

Il mio paese mi apparteneva quando per costruire la strada nuova, (udha e ree) che attraversava il centro storico, furono realizzate le colmate: del vallone del duca, Ka Prati, Thë arra dhën Vicenzith; thë Shèshi Kuaravògnen, thë Màxhit, Për para Marìtit, thë tedera nenit, Prapa Klishësh, thë gabina e thë kstegnet i paulitanit; divenuti i luoghi moderni di aggregazione.

Il mio paese mi apparteneva quando per molti decenni le autovetture arrivate in piazza terminavano la loro corsa.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando con lentezza, prima Klishësha e Vieter, poi Trapësa, Udha Epiro con Udha Shicshònes, ha aperto il transito ai veicoli, violentando oltremodo vecchie consuetudini.

Il mio paese incominciò a preoccuparmi quando all’università dicevano che la gjitonia era funzione dell’uscio e dei paramenti murari o di aspetti ancor più elementari.

Il mio paese incominciò a preoccuparmi quando la sua storia fu scritta immaginando l’agglomerato e i suoi abitanti estranei al territorio e i contesti geografici di macroarea, estrapolandoli e per questo immaginando scenari secondo il principio dello studio ideale.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando la demenziale preparazione storica degli amministratori ha sventrato fischien thë sheshit i caravonit.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando il compianto Padre Giovanni C., ammalato, lasciò lo svolgimento della processione del 2 maggio, che divenne evento da stadio.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando le manomissioni hanno dato avvio alla dismissione di un antico modo di vivere, per consentire alle autovetture di riverberare all’interno del centro storico, sonorità che coprivano le antiche gesta, fatte, di lavoro, voci e canti.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando è stato beolizzato, coprendo e devastando le funzioni e i significati storico religiosi di ogni strada, ogni angolo e ogni piazza.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando morto zio Kosta si è dato avvio alla realizzazione della villa comunale, la centrale telefonica e una strada inutile, violentando il senso di quel luogo ameno.

Il mio paese mi ha sempre destato perplessità giacché un numero considerevole delle eccellenze o martiri che qui ebbero i natali, rimangono addirittura sconosciuti, mentre i pochi a cui è stata dedicata una strada o un struttura pubblica non hanno coerenza con le dinamiche che li ha resi famosi.

Il mio paese mi lascia ulteriormente perplesso per i tanti edifici che hanno partecipato alla storia dell’unità d’Itali sono rimasti nelle disponibilità e nella direttive di ignari privati.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando via lëmi letirith e stata veicolata per coprire il valore storico a una delle più belle gjitonie della consuetudine arbëreshë.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando con un colpo di spregiudicatezza politica sono state rimosse tutte le fontane del paese.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando Thë Trapësa hanno unificato le quinte, replicando una metrica priva delle più elementari proporzioni architettoniche e il bel palazzo che fu la scuola media, Pasquale Baffi, fatto di mattoni  venne intonacato, in tempi recenti persino replicato l’errore.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando l’amministrazione ha ritenuto inutile mantenere vivo il senso di kroin e Stàngoitë.

Il mio paese incominciava a non appartenermi quando l’economia nelle disposizioni degli anemici della cultura, ha deturpato la splendida orografia dell’area a nord della storica Pedalati, dove è stata emulata Bisignano.

Il mio paese mi apparteneva quando nei pomeriggi di primavera le donne si riunivano per cucire rammendare, fare lavori a maglia, esaltando o minimizzando le gesta e gli atteggiamenti di amici e nemici.

Il mio paese non mi appartiene più da quando sono, stati tolti gli antichi riferimenti dell’infanzia, offeso oltremodo la ricerca, la professione e la voglia di tracciare la storia del paese.

Il mio paese non sarà più, in quanto, sono stati distrutti i cardini cui collegare i filamenti per riprendere la trama negata che giorno dopo giorno è stata disfatta.

Tuttavia avverto che il compito più utile da portare a termine sia di radunare il gregge all’interno dell’ovile, per chiudere l’uscio e custodire sotto lo stesso tetto quanto ancora nelle nostre disposizioni e che un domani, speriamo prossimo, vedrà protagonisti coloro che meglio di noi, sapranno vitalizzare e dare senso alle rigide metriche della magica consuetudine arbëreshë.

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UN PROGETTO PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’ARBERIA

Protetto: UN PROGETTO PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’ARBERIA

Posted on 09 dicembre 2015 by admin

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CANTI POPOLARI ALBANESI

Protetto: CANTI POPOLARI ALBANESI

Posted on 16 novembre 2015 by admin

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IL COSTUME ARBËRESHË SPEZZANESE  - “Llambadhor”

Protetto: IL COSTUME ARBËRESHË SPEZZANESE – “Llambadhor”

Posted on 08 novembre 2015 by admin

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Protetto: LO STORICO – Domandato Diogene perché non si astenesse da imitare il cane, rispose: « Perche abbajo agli ignoranti e lecco i sapienti ».

Posted on 31 ottobre 2015 by admin

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Protetto: L’UOMO ALBANITALIANO

Posted on 17 ottobre 2015 by admin

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