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UNO STUDIO MULTIDISCIPLINARE ESEGUITO A RIDOSSO DEGLI ANNI CINQUANTA

UNO STUDIO MULTIDISCIPLINARE ESEGUITO A RIDOSSO DEGLI ANNI CINQUANTA

Posted on 18 novembre 2017 by admin

SAMSUNG CAMERA PICTURES NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Il testo che vi apprestate a leggere, per renderlo tipicamente Arbëreshë basta sostituire “Gjitonia” alla parola “Vicinato”, a questo punto avrete titolo per essere antropologi o addirittura storici; che si parli, poi,  di altre persone, altri ambiti e altre culture o il prodotto di analisi sia il frutto di indagini eseguite per emergenze abitative che si riteneva terminare nel primo dopo guerra è poca cosa; tanto il traguardo che si vuole perseguire nel caso degli studiosi del nuovo millennio è di fornire  elementi utili  per entrare trionfalmente  e con titolo nei benefici della legge 482 del 1999.

Questa è la prova, che gli studi delle pertinenze della Regione storica Arbëreshë , sino ad oggi sono state cavalcate da guerrieri senza lode ne cavallo,  rubando la scena ai legittimi protagonisti  d’ambito, che conservano imperterriti  le caratteristiche di minoranza.

La trattazione qui riportata è il codice errato da cui letterati e ogni sorta di cultore ha copiato ripetutamente e senza riguardo ciò che non è il tangibile e l’intangibile Arbër.

Il Vicinato

“‘Vicinato’ è chiamato ai (…..) quel gruppo di famiglie le cui case sono disposte in modo da affacciare su una delimitata area comune.

I vicinati più facilmente riconoscibili sono quelli costituiti da abitazioni affacciantisi sui cortili a pozzo o sui recinti.

Dei vicinati si sono però costituiti anche lungo le strade diritte, del resto assai rare ai (…..)”. Questa la descrizione in termini fisici e spaziali fatta da (…..); ad essa segue e si lega la descrizione in termini sociali: “funzioni principali del vicinato erano quelle di associazione, di mutuo aiuto (…) o di controllo sociale.

La vita familiare era in stretta relazione con la vita del vicinato, l’integrazione vicinato-famiglia aveva notevole importanza, soprattutto per la donna… ”.

Il vicinato assume un “valore quasi istituzionale” e la sua insorgenza, dovuta alla densità abitativa, riveste una “funzione psico-sociale, di solidarietà morale e materiale, di controllo, di influenza per la formazione di atteggiamenti e la modificazione di opinioni”.

In tal modo il vicinato, “mezzo di trasmissione della cultura e quindi di educazione sociale” ha “un indiscutibile vantaggio di precedenza sulla scuola”.

E’ importante rilevare come il vicinato ha una sua “fisionomia precisa” dal punto di vista topografico, dato dal “gruppo di case disposte intorno ad una piazzetta o cortile nel quale si svolge quasi in comune gran parte della vita dei bimbi, delle donne e, in misura minore, degli uomini”.

Tutto ciò “ha messo in luce una grande carica di tensioni negative tra le famiglie dei vicinati studiati, e pochissima coesione nel gruppo”; pertanto, benché esistano ancora prodotti positivi frutto di questo vivere in comune, “è raro il caso” di una famiglia che, “pensando all’eventualità di cambiare abitazione, mostri il desiderio di avere ancora i vicini che ha attualmente”.

Oggi quasi tutti i ragazzi vanno a scuola, molte famiglie hanno la radio, giornali ed opuscoli circolano ovunque, ed al cinema si va con una certa frequenza: sarebbe assurdo pensare che il vicinato potesse (sic) serbare intatta la sua funzione. Nuove forme di vita si vanno inserendo rapidamente sul vecchio sistema di valori, il che è inevitabile e certamente benefico per molti aspetti, ma ha creato un forte squilibrio tra vecchia e nuova generazione”. Nonostante queste valutazioni, chiare e poco opinabili, “forse uno dei mezzi per ricostituire più solidamente ed in un’atmosfera rinnovata e democratica la vecchia trama sociale del mondo contadino è quello di non lasciar naufragare il vicinato, di valorizzarlo e potenziarlo invece come gruppo sociale per meglio agire attraverso esso”.

Questo scrivevano alla fine degli anno quaranta del secolo scorso, sociologi e antropologi incaricati di analizzare i problemi abitativi del dopoguerra e portare la classe operaia verso orizzonti che ad oggi non sono stati ancora raggiunti.

Il progetto per modalità di esecuzione e finalizzazione assomiglia alla vicenda che oggi vive una piccola parte dell’arbëria moderna.

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MESI DELL’ANNO PER LA REGIONE STORICA ARBËRESHË

MESI DELL’ANNO PER LA REGIONE STORICA ARBËRESHË

Posted on 13 novembre 2017 by admin

Calendario Arbereshe1NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’enunciazione, all’interno della Regione storica Arbëreshë, dei mesi del calendario non è concepibile che si possa fermare a maggio  menomata di ben sei mesi.

A tal proposito è bene precisare che il calendario arbëreshë segue, le fasi lunari a cui sono legate le attività terrene; un,attività inscindibile tra consuetudine, credo religioso,  luoghi e attività agresti.

Gli arbëreshë usano appellare i mesi dell’anno come qui di seguito elencati; tuttavia alcuni  variano seconda la consuetudine di macroaree e i mesi, rappresentano sin anche le regole di vita Kanuniane, direttamente legate  “alla consuetudine e la religione”, rigorosamente riferite e pronunciate in Arbër.

  • GennaioJamari – Mese dedicato a Ianus (Giano), Dio bifronte, che segnava simbolicamente il passaggio dal vecchio al nuovo anno; in oltre Ianua in latino significa “porta.
  • Febbraio – Fjovarideriva da  februa  “purificazione”, il mese in cui si praticano le attività per la purificazionedei campi prima della semina.
  • Marzo – Marsi o Shën SepaMese dedicato a Marte, dio della guerra o il mese dell’Equinozio di Primavera cade generalmente il 20 Marzo a tal proposito è bene citare un antico detto: “S. Giuseppe riporta il candeliere in cielo che San Michele aveva portato in terra”.
  • Aprile – Prilj dall’etruscoApru, Afrodite dea greca e prima ancora, fenicia: essa rappresenta la dea della forza vitale, sotterranea, che induce le gemme a fiorire.
  • Maggio – Maji il mese di Maia, dea della fertilità, era in questo mese che nell’antichità si praticavano i rituali mirati alla fertilità dei campi e si apponevano amuleti per allontanare il malefico.
  • Giugno – Querishtua o Curishtuail mese dedicato alla dea Iuno, cioè Giunone; tuttavia è anche il mese delle ciliegie (quèrshi) e dalla mietitura (Cuermi), tagliare accorciare, raccogliere il grano.
  • Luglio – Lionarj – Dedicato a Gaius Iulius Caesar, Giulio Cesare,
  • Agosto – GushtiDedicato a Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus, l’imperatore Ottaviano Augusto.
  • Settembre – VjesgtSettimo mese dell’antico calendario di Romolo che vedeva settembre come settimo mese da marzo, e per alcune culture la numerazione si dilunga sino al dodicesimo mese dell’anno; tuttavia in questo mese cade l’Equinozio di Autunno (22 o 23 Settembre) nel quale il Sole sorge esattamente ad Est .
  • Ottobre – Shën Mitri o Vreshëtottavo mese dell’antico calendario di Romolo, gli arbëreshë attribuiscono a questo mese anche significati consuetudinari/religiosi legati alla raccolta delle uve, da qui Shën Mitri o Vreshët.
  • Novembre – Shën Mërtini o Vereth nono mese dell’antico calendario di Romolo gli arbëreshë attribuiscono a questo mese anche significati religiosi e legati alla maturazione del vino da qui Shën Mërtini o Vereth.
  • Dicembre – Shen Ndreu – decimo mese dell’antico calendario di Romolo esso rappresenta anche la fine del Solstizio d’Inverno che cade il 21 o il 22 Dicembre. In questi tre mesi ultimi mesi il Sole nel cielo è stato sempre più basso ed il suo percorso sarà sempre più breve.

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Contributo per la costruzione di un PROGETTO POLITICO - per L’AUTONOMIA dell’ARBȄRIA

Contributo per la costruzione di un PROGETTO POLITICO – per L’AUTONOMIA dell’ARBȄRIA

Posted on 06 novembre 2017 by admin

SecessioneBOLOGNA (di Giuseppe Chimisso) – L’Arbëria deve occupare il posto che merita nell’acceso dibattito politico in essere sulla rinascita dell’Europa delle piccole Patrie, dibattito che rappresenta una ferita aperta per l’establishment burocratico di Bruxelles il quale deve dare forzosamente il consenso istituzionale ai governi centrali degli Stati nazionali, ma si sente in difficoltà rispetto alle legittime richieste di autonomia da parte di numerose regioni e territori europei.

Scriviamo poche note per fare il punto non tanto sulla precaria situazione che vive l’Arbëria, argomento trattato in diversi momenti non solo dallo scrivente, non vogliamo quindi proseguire a praticare lo sport preferito da molti riguardante la lamentazione a josa fine a se stessa, ma piuttosto per esporre una serie di proposte che penso utili, non solo per riflettere, ma per acquisire la coscienza e la determinazione che porti all’organizzazione delle forze disponibili per cambiare lo stato di cose presenti in Arbëria. Ecco perché parlo di Europa: perché la richiesta dell’Autonomia Amministrativa per l’Arbëria è parte di quell’eterogeneo  ma vasto movimento che coinvolge il continente e vede decine di regioni e nazionalità richiedere a viva voce l’Autonomia per le proprie culture e genti. Questo per rammentare chel’Arbëria non è sola nel richiedere l’autonomia economica, ma è in buona compagnia assieme alle Isole Canarie, Andalusia, Galizia, Paesi Baschi, Aragona e la Catalogna in Spagna; al Nord Irlanda,  Cornovaglia, Galles e Scozia nella Gran Bretagna; alla estesa Occitania, Savoia, Alsazia, Bretagna e Corsica in Francia; alla Frisia, Vallonia e Fiandre nei Paesi Bassi e Belgio; alla Slesia e Moravia tra il sud Polonia e Repubblica Ceca; per non scrivere delle tante piccole comunità storiche sparse a pioggia in Italia e nel continente che hanno levato laloro voce, esempio per tutte le puntiformiIsole Aland nel Mare del Nord. Sulla presenza delle minoranze linguistiche  in Italia abbiamo scritto in passato, quindi non ci ripetiamo. Proprio perché crediamo ad una Europa di storie, linguaggi, luoghi, di “vaterland” ed “heimat”, memorie che devono essere valorizzate, tutelate e reciprocamente dialogare, al fine di creare mentalità moderne che sapranno proiettarsi nel futuro, a condizione di saper includere nella propria esperienza quella del passato che indubbiamente fa parte del presente, come questa dell’avvenire.  Quanto sopra al fine che in Italia ed in Europa non si parli solo di economia e di banche , idea d’Europa questa,  per altro foriera di tragiche negatività, molto distante da quella dei Padri Fondatori che preconizzavano  una Europa dei popoli, delle comunità e delle persone, degli stili di vita, delle culture e delle loro storie, del rispetto delle differenze soggettive, culturali, etniche e linguistiche; tutti questi elementi vitali ed imprescindibili dell’insieme.

Questo è l’orizzonte ideale al quale fare riferimento nella nostra battaglia politica non-violenta per la richiesta dell’Autonomia Amministrativa dell’Arbëria calabrese ed italiana.

Penso sia opportuno fare il punto per la difesa della storia e del futuro dell’Arbëria e riassumere tutta una serie di posizioni espresse e maturate nel tempo.

Le comunità arbëreshë per secoli, dopo il loro insediamento, erano rette da “capitoli” e regolamenti e, seppure assoggettate a pesanti corvée da parte dei feudatari locali, possedevano sovente piena autonomia amministrativa e religiosa che permise loro di rimanere isole socio-culturali nel tempo e preservare anche la lingua, le proprie costumanze e l’ organizzazione urbana.

Purtroppo nell’ultimo secolo e mezzo con il mutare delle condizioni politiche e socio-economiche e con la perdita dell’autonomia giuridico-amministrativa tradizionale, numerose decine di comunità italo-albanesi hanno perso le loro caratteristiche etno-linguistiche, quelle esistenti vivono un forte travaglio e sono in serio pericolo, sul loro futuro si profila la lenta ma inesorabile estinzione. La mancata tutela, il sottosviluppo delle aree ove sono insediate, le conseguenti migrazioni economiche, rappresentano, assieme allo sviluppo abnorme dei mass-media e della scolarizzazione monoculturale nella lingua egemone,due ganasce della tenaglia che stritolano sempre più tutte le minoranze linguistiche. Da queste scarne e sintetiche considerazioni ne discende la necessità di richiedere il ripristino dell’autonomia giuridica tradizionale dell’Arbëria, la formazione quindi della Regione storica Arbëreshë (R.s.A.) come condizione  irrinunciabile per la salvezza della minoranza italo-albanese e porre termine all’etnocidio culturale silente in corso. Solo l’autonomia dell’arcipelago arbëresh, formato dalle miriadi di isole culturali alloglotte, le famose “oasi” di M. Ҁamaj, rappresenta una valida prospettiva per lo sviluppo economico, quindi culturale dell’Arbëria; prospettiva che affonda le proprie radici nel passato e che deve essere richiesta con forza alle istituzioni ed essere argomento di confronto, di dibattito e di mobilitazione da parte di tutta la popolazione arbëreshë con azioni politiche e mediatiche anche eclatanti e certamente non violente.

L’Arbëria rappresenta un bacino geo-culturale di approvigionamento emancipatorio che va oltre i propri confini ed il suo sviluppo economico potrà fare da volano per interi territori regionali.  Il concetto di R.s.A si pone appieno nell’attuale  dibattito politico in Europa e contribuisce a tentare di sanare la ferita odierna della realtà europea lontana dal sentimento comune e dall’Europa dell’Utopia preconizzata dai Padri Fondatori. Questa è la battaglia civile ed assieme culturale e politica che ci attende a difesa della nostra cultura e nel contempo di una nuova Europa .

Si scriveva in altre occasioni del lavoro da compiersi per la costituzione degli Stati Generali dell’Arbëria, che dovrebbe rappresentare un alto momento mediatico-politicocon la partecipazione di massadei cultori e partigiani dell’Arbëria  ed aperto a rappresentanti di altre minoranze e di Stati albanofoni, per aprire un dibattito pubblico che superi i confini nazionali, abbia risonanza mediterranea e sia propositivo sulle tematiche a noi care perché vitali per la salvaguardia della nostra lingua e cultura. Stati Generali in cui richiedere tra l’altro l’Autonomia amministrativa dell’Arbëria (R.s.A.); la richiesta di un Consigliere Regionale Permanenteche rappresenti tutte le minoranze esistenti e da queste espresso. Solo nell’ambito della Regione storica Arbëreshë sarà possibile la pari dignità sociale della lingua materna e di quella italiana con l’insegnamento dell’arbërisht  nelle scuole, lo sviluppo della cultura, della stampa cartacea ed on-line in lingua arbërisht ed il conseguente aiuto finanziario per realizzare quanto detto. Con l’autonomia dell’Arbëria finalmente si potranno costruire progetti attuativi per le singole macroaree territoriali e tra queste creare una rete che consenta di superare l’insularità presente per la difesa dei beni tangibili ed intangibili classici della nostra cultura e puntare a ben conservare  i centri urbani ed i territori rurali valorizzandone le eccellenze e le aree naturalistiche, a ridefinire itinerari di sviluppo architettonico ed urbanistico d’ambito e far rispettare i canoni dei modelli consuetudinari albanofoni che rappresentano le vere fonti della nostra cultura. Impegnandoci per la R.s.A. non solo diamo solide basi ai giovani ed al loro futuro nell’ambito della nostra cultura, ma salviamo la nostra specificità e nel contempo diamo un solido contributo alla Democrazia Politica del Bel Paese perché la Democrazia Linguistica, mai attuata in Italia, ma prevista da Padri Costituenti non è un aspetto secondario della Democrazia, ma uno degli elementi fondanti di questa.Proprio per questo dobbiamo chiedere con forza la piena applicazione dell’Art. 6 della Costituzione – Le popolazioni arbëreshë dopo aver dato un alto contributo di sangue, di energie e di intelligenze per la costituzione dell’Italia unita, in questo caso darebbero un altro grande e storico contributo per rafforzare la Democrazia italiana, attualmente monca, oltre che malata. Solo con la costruzione di una Regione autonoma (R.s.A) sarà possibile una rinascita dei nostri territori (Nuova Rilindja Arbëreshë),sarà possibile organizzare e finanziare progetti di sostenibilità e gestione dei musei, biblioteche ed edifici religiosi con la costituzione di banche-dati comuni, al fine di permettere la fruibilità a tutti i visitatori e di costruire una sana politica turistica non invasiva ma rispettosa delle comunità e delle popolazioni, ne discende la formazione di corsi specifici per ‘operatori culturali’ affinché i nostri giovanisi possano costruire la loro professione in risposta alle esigenze del territorio e non saranno più costretti a contribuire allo sviluppo di regioni lontane, a piegare le spalle e la testa per sostenere l’economia del nord-Italia o di altri Stati. Solo così si potranno organizzare nuovi processi di alfabetizzazione culturale ed identitario per rafforzare e sviluppare la consapevolezza e quindi l’orgoglio arbëresh, e, perché no, costituire un ampio movimento di studio per analizzare le diverse parlate arbëreshë e giungere alla codifica di una lingua arbrisht comune per tutta l’Arbëria, con proprio vocabolario ufficiale; effettuare, in poche parole, un percorso parallelo a quello fatto per la codifica ufficiale della lingua shqip (in quel caso dal ghego e dal tosco), oltre l’Adriatico. La Regione storica Arbëreshë – R.s.A. – con la sua autonomia amministrativa potrà anche ‘de Jure’  finalmente contribuire a dare alla nostra cultura minoritaria il senso della propria specificità ed unicità: oggi la lingua la si difende solo difendendo la cultura che ne è l’indispensabile supporto, e, quest’ultima vive se affonda le proprie radici su una economia di base solida che permette ai propri figli di lavorare e vivere in loco. Dobbiamo chiedere ed arrivare ad imporre soluzioni che garantiscano il sostegno finanziario della tutela del territorio arbëresh rurale ed urbano per incentivare e favorire associazioni di piccole imprese giovani impegnate sul piano economico e produttivo, nei beni culturali, nel turismo, nel commercioe nei servizi socio-culturali. Il corretto sviluppo economico dell’Arbëria, quindi, deve essere il nostro obiettivo.Cosa vuole dire Autonomia Amministrativa ? Certo vuole dire anche autogovernodella Regione storica Arbëreshë, ma non solo. Per finanziare la R.s.A. dobbiamo pensare all’istituzione di una ZONA FRANCA; questa ha una lunga storia che trova le sue radici nei Padri Costituenti ed agli ART. 116 e 117 della Costituzione, per passare al trattato di Roma del 1957, senza tralasciare le Direttive Comunitarie n° 69/75/CEE e n° 69/74/CEE .L’ART. 12 della Legge Costituzionale n° 3/1948 tratta sulla sua normativa e il successivo D.Lgs. 75/78 entra nel merito specifico. Questo per quanto riguarda la cornice legale occorrente. In poche parole l’istituzione di una ZONA FRANCA Integrale(per l’Arbëria) come recitail D.Lgs. 43/73 che codifica il diritto di ritenersi o istituire zone franche per la caratterizzazione geografica di lontananza, di isolamento ovvero di natura demografica (un tempo la città di Trieste, oggi la Valle D’Aosta e dal 4 luglio ’17 -cosa nota a pochi- la Corte Costituzionale ha deliberato che la Sardegna da decenni doveva essere considerata Zona Franca in base alle Direttive Comunitarie quindi i residenti dal 2010 dovrebbero ricevere rimborsi o sgravi doganali….). Entriamo nel merito di quelle compensazioni fiscali che competono ai residenti di un territorio extra-doganale detto ZONA FRANCA: abolizione  di tutte le imposte fiscali (Iva-Irpef-Irpeg) le accise sui beni di consumo quali alcolici e carburanti e cosi a seguire si potrebbe estendere il regime fiscale anche ai Tiket sanitari ed a spese sanitarie private……….

Questa che delineo rappresenta una strada possibile, perché legale, costituzionale, quindi praticabile che certamente darebbe l’impulso vitale alla rinascita economica dei nostri territori e non solo. Certo uno Stato che sino a d‘ora non ha rispettato la propria Costituzione, merita poca fiducia, ma le popolazioni arbëreshë che si sentono parte fondante del processo di costituzione unitaria dello Stato Italiano ed hanno un corposo e lungo “cahier de doleance” da rivendicare in quanto gruppo etno-linguistico mai tutelato, debbono fare uno sforzo ulteriore per salvare la propria cultura, malgrado e contro i burocrati romani, affinché si applichino le leggi. Perché la ZONAFRANCA? Perché gli automatismi distributivi del passato non possono più essere dati per scontati. Spesso questi automatismi, in specie nel Meridione d’Italia, hanno finito di riprodurre nel tempo la sindrome del sottosviluppo; i casi della Germania e della Spagna dimostrano invece che i divari regionali non sono una condanna biblica, ma possono attenuarsi grazie ad incentivi intelligenti (Zona Franca) ed i seguenti investimenti capaci di attivare dinamiche endogene di crescita. Basta con l’assistenzialismo che crea dipendenza ed attendismo, si allo sviluppo all’interno di una Autonomia Amministrativa, nel quadro di un agonismo sinergico con lo Stato nazionale.

La richiesta di dare ‘battaglia politica’ per la formazione della R.s.A.,non mi sembra assolutamente una proposta incostituzionale visto che in Italia si continuano a fare e disfare Province e Regioni (!) spesso e volentieri solo per motivi clientelari ed elettorali.

Ci rendiamo conto che molte persone e personaggi arbëresh trattano da anni le diverse argomentazioni riportate in questo scritto in maniera più esaustiva e completa, da veri professionisti, proprio per questo sono invitate ad intervenire, integrare e modificare quanto viene espresso da alcuni anni; solo così possiamo costruire un progetto di alto valore politico per l’Arbëria e definire il suo futuro: è ora che tutte le forze sane presenti sul territorio, a cominciare dagli amministratori più sensibili ed avveduti si muovano, pena essere schiacciati da avvenimenti ormai incombenti……; in passato si è scritto anche della possibilità della costituzione di un ‘Governo Ombra’, inteso come strumento propositivo e di propaganda mediatica, lo stesso dicasi per lo strumento del Referendum (vedi la Catalogna, la Lombardia ed il Veneto), che aprono prospettive nuove in Italia ed Europa. Certo tutte opzioni possibili e da non escludere a priori, ma tutte abbisognano di lavoro di sensibilizzazione, di precisa informazione e di azioni mediaticamente eclatanti, che, come si dice in gergo giornalistico,  ‘bucano’, facciano notizia. Stessa cosa dicasi per la problematica dei mass-media e delle TV Regionali che debbono inserire nel loro palinsesto trasmissioni nelle lingue minoritarie presenti nella regione; l’obiettivo dei mass media, infatti, non è quello di informare e tanto meno di formare, ma quello di uniformare le menti ed i comportamenti per imporre il pensiero culturale ‘lëtir‘già dominante. Stessa cosa dicasi, per tutelare la nostra esistenza culturale, che dobbiamo attivarci affinché i rapporti di amicizia tra l’Arbëria e gli Stati albanofoni (Albania, Kosova, Macedonia e perché no, Montenegro) si trasformino da puri rapporti di cortesia ed amicizia, caratterizzate da vicendevoli visite reciproche di uomini politici, di artisti, gruppi canori, a metà tra il rapporto culturale e la vacanza spesata, quali sono quelli attuali, si trasformino, si diceva,inrelazioni nelle quali esercitare una chiara ‘pressione’ politica al fine che detti Stati pongano nel calendario dei loro rapporti con l’Italia la questione della tutela della minoranza italo-albanese ancora presente nel centro-sud della penisola.

Questovolutamente piccolo contributo, senza rischiare diavventurarci nello scrivere quelli che potrebbero divenire i menù delle osterie dell’avvenire, punta a sviluppare un dibattito, il più ampio possibile, che rappresenti un crogiuolo nel quale tutti possano portare contributi per forgiare gli strumenti dell’azione futura per la salvezza della cultura Arbër, nostro unico obiettivo. A questo proposito non ci sentiamo di escludere la possibilità o la necessità della formazione di un movimento politico arbëresh trasversale ai partiti, alle associazioni, ai ceti sociali, alle ideologie ed ai riti, che si faccia propositore di iniziative nei confronti delle autorità locali, regionali e nazionali, per raggiungere le proprie mete; un movimento che sia aperto a gruppi e singoli cultori e partigiani dell’Arbëria, intellettuali ed artisti, amministratori, insegnanti, rappresentanti di categorie e giovani. La possibilità di costruire un movimento persistente, creativo e non-violento che appoggiandosi e mettendo le proprie radici nel substrato culturale e nelle numerose strutture di resistenza esistenti all’interno e fuori delle nostre comunità, abbia la capacità di divenire primo attore “politico” per la Rinascita dell’Arbëria.

Non pensiamo che le varie considerazioni esposte rappresentino l’unica soluzione proponibile, l’unica strada per la salvezza della nostra lingua e cultura attraverso lo sviluppo economico che si potrà avere con la conquista e l’istituzione della Regione storica Arbëreshë(R.s.A.), caratterizzata dalla Zona Franca e quanto precedentemente esposto. Da quanto si proponesi sottintendonoe si esprimono chiaramente gli obiettivi da raggiungere – Autonomia Amministrativa dell’ Arbëria e suo Autogoverno – Il confronto determinerà modi, prassi e tempi per percorrere questa strada perché la democrazia, per parafrasare Vaclav Havel,  ‘ non è una griglia di parole crociate in cui vi è una sola soluzione corretta’, ma qualche cosa di più complesso, dove non bastano le risposte tecnocratiche, ma queste vanno raggiunte considerando  lo stato dei fatti (!), le priorità, i possibili attori in campo e le proprie qualità, le opportunità , gli strumenti ed i progetti per raggiungere gliobiettivi prefissati.

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IL RODITORE ASCOLTA E STA RINTANATO IN SOFFITTA CON I TARLI “Miu gijegjien e ri i shegur te canicari me Kopizenh!”

IL RODITORE ASCOLTA E STA RINTANATO IN SOFFITTA CON I TARLI “Miu gijegjien e ri i shegur te canicari me Kopizenh!”

Posted on 04 novembre 2017 by admin

IL RODITORE ASCOLTA E STA RINTANATO IN SOFFITTA CON I TARLINapoli (di Atanasio Pizzi) – In questo breve trattato seguiremo la rotta che dall’Albania condusse gli arbër in Italia, un itinerario alla ricerca delle cinque insule diffuse che attraverso la stessa radice uniscono sotto gli stessi ideali, la popolazione della Regione Storica Arbëreshë.

Un itinerario che si snoda attraverso le terre del meridione, lo stesso, che ha consentito d’individuare i luoghi ideali da addomesticare per poi elevare i modelli paralleli arbëreshë del XV secolo.

Gli esuli per adempiere alla promessa data, si avventurarsi attraverso itinerari impervi, seguirono corsi fluviali inesplorati, mari in tempesta e in fine salirono la faticosa china di quelle che in lontananza apparivano come le insule ideali dove depositare e difendere ciò che non doveva essere dismesso.

È chiaro che raggiunta la meta, solo i presupposti territoriali ritrovati non bastavano, giacché, occorreva innestare i valori storici, sociali e religiosi, con quelli delle terre ritrovate per consentire la migliore crescita, nel rispetto delle consuetudini indigene.

Intanto appare evidente che l’Albania di allora non fu completamente abbandonata, in quanto, “molti altri che abitavamo il paese di fronte”, preferirono rimanere in quelle terra, con il fine di difenderlo dagli invasori ormai alle porte.

L’esodo cinquecentesco, segna la linea di confine di due distinte società, che oggi pur avendo la stessa radice sono lontane tra loro, da oltre sei secoli di avvenimenti sociali, economici e culturali.

I due diversi atteggiamenti oggi ci restituiscono una popolazione che ha seguito rotte diverse, una che ha difeso il territorio e l’altra che ha tutelalo l’identità; “il codice”.

Entrambe hanno sacrificato una parte di se stessi, per cui chi ha difeso la terra ha associato al suo unicum una sintesi della vecchia radice culturale; chi ha deciso di difendere la radice il codice, si è accontentato della la sintesi territoriale; i due processi scaturiti dalle diverse scelte hanno generato due distinte etnie:

– il primi denominati Arbër, “i tutori del codice”, sono i membri dell’antico governariato a cui prende il nome la regione storica; essa, vuole indicare quella popolazione che si prese carico della difesa dei protocolli identitari, li difese a costo di doversi allontanare dalle terre natie, con il compito di non inquinarle da consuetudini, civili e religiose che non avessero coerenza con la sua radice originaria e vissuto sino al XVI secolo;

– il secondo denominato, Skipë “i detentori del territorio” e sono la popolazione che ha continuato a vivere in Albania, prediligendo il territorio e i suoi ambiti, alla radice identitaria che ha subito un radicale rinnovamento sin anche nelle essenze fonetiche;

Oggi purtroppo si è dato avvio a una nuova diaspora, la quale, assume aspetti preoccupanti, paradossali e degenerativi, in quanto, per cercare di dare una impronta caratterizzante alla R.S.A. si sta, incautamente, mescolando le due colonne idiomatiche, senza aver preventivamente posto in essere ricerche o indagini che possano garantire la caratterizzazione dei due ceppi storici, consuetudinari, metrici, idiomatici e delle architetture.

Questo errore fondamentale ha prodotto una nuova deriva epocale, ”i litìrh e gli skipetari”.

Essi non parlano l’arbër, ma per un perverso gioco dipartimentale parlano il Kalabrese e l’Albanese di radice ignota, dettano regole fuori da ogni metrica che penalizza pesantemente chi vuole detenere la vecchia radice e “crescere arbër, nel secolo appena iniziato”.

E’  di questa mescolanza incontrollata che si vuole porre l’accento; essa rappresenta una spiaggia pericolosissima, giacché, l’antico codice che non è costituito, di costumi dorati, di libri rari, o altri apparati solidi, è storicamente nota che basa la sua solidità nei semplici principi della scuola di Licurgo.

L’auspicio  tende a illuminare il vero nocciolo della cultura arbër, analizzando gli ambiti attraversati ricostruiti e vissuti, per garantire la necessaria linfa vitale a tutti gli arbër che intendono continuare a tutelare l’antico codice.

Si vuole, in poche parole, evidenziare come, la consuetudine identitaria Arbëreshë, traslocata dall’Albania al meridione italiano, non abbia subito alcuna violenza, giacché, trasportate attraverso la memoria, senza alcun materialismo di sorta, motivo per il quale ogni profugo che intraprese la via di esodo, ognuno di noi che sente nel cuore e nell’anima di essere arbëreshë, diventa una “frase” di un racconto antico ancora non scritto, che solo l’unita (della R. s. A.) potrà comporre, per consegnarlo alle nuove generazioni.

Prima facevo riferimento a una deriva pericolosa che oggi viene frequentata inconsapevolmente; essa rappresentata la mescolanza incontrollata di manifestazioni tra Albanesi e Arbëreshë in cui, non sono agli Albanesi a raccontare il territorio e gli Arbëreshë a raccontare del codice, ma per un gioco delle parti gli Skipë parlano di lingua e di canzoni e gli arbër con i loro costumi improvvisano balli e cantano una lingua ignota.

Certo che un modo meno adatto per incontrarsi e scambiare ciò che i due gruppi di figli d’Albania avevano difeso non potevano certo scegliere.

Va in oltre affermato, che le nuove generazioni arbër, vivono un momento di stallo culturale, in quanto quelle che li hanno preceduti, non sono stati idoneamente formati, giacché, figli di una legge debole e che non trovava idonea applicazione, in quanto lasciava al libero arbitrio alla valorizzazione d’ambito, per questo si è prodotto un rigetto generazionale dell’essere arbëreshë che ha lasciato campo libero a manifestazioni di interesse senza senso e garbo.

La legge ha reso per questo diverse generazioni orfane del codice, unendo l’essere arbër con metriche alloctone, e arti figurative non propri; oggi cosa si predilige fare per recuperare il tempo perduto? Si corre nelle terre della madrepatria Albania per chiedere del codice ai fratelli che scelsero di difendere la terra e non il codice; non avendo neanche l’educazione di guardare all’interno della R.s.A. la stessa che per i suoi trascorsi la detiene depositata e va solamente rispolverata per essere assimilata, così come i nostri avi avrebbero voluto.

Un altro elemento devastante che oggi invade l’arberia è l’ostinazione di voler mettere in luce gli ambiti dell’arberia in chiave turistica; il possesso del “patentino di paese minoritario” consente a numerosi elementi di avere agevolazioni e risorse per ottenere ogni cosa; questa al momento è il dato più pericoloso, in quanto, chi si pone alla testa di massa rinnovatrice, non ha alcuna conoscenza della storia e del consuetudinario arbëreshë, nonostante si faccia scudo dell’ideale minoritario per manifestazioni di interesse, adir poco devastanti e senza riguardo per tutti gli arbër che nel XV secolo affrontarono ogni tipo di avversità pur di garantire a noi figli di un’identità tra le più antiche del mediterraneo; la stessa che inconsapevoli  stanno svendendo al mercato del baratto e dell’usato, perché non sanno cosa sia.

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TURISMO DI MASSA; QUALI CERTEZZE DIVULGHIAMO?

TURISMO DI MASSA; QUALI CERTEZZE DIVULGHIAMO?

Posted on 31 ottobre 2017 by admin

TURISMO DI MASSA; QUALI CERTEZZE DIVULGHIAMONapoli (di Atanasio Pizzi) – Il patrimonio culturale, ambientale, paesaggistico e religioso della Regione storica Arbëreshë ha assunto e riveste un ruolo innegabile, in tutti i territori del meridione, dove gli esuli arbër s’insediarono, per questo, caratterizzarono i settori produttivi e sociali anche degli ambiti con cui si rapportarono.

Un territorio i cui confini linguistici hanno definito le regioni e non  quelli geografici, storicamente noti, per essere stati ridefiniti nel corso dei secoli per le storie di popoli diversi.

Se a questo si associa la caratterizzazione di religione greco bizantino con un consistente numero di elevati conventuali e di presidi di preghiera, un parallelismo territoriale più idoneo gli arbër non potevano farselo sfuggire, quando gli fu proposto di risollevare l’economia di queste aree in forte difficoltà economico/sociale.

È chiaro che l’opportunità di innestare la propria identità in un territorio più idoneo e riconfermare la consuetudine, la memoria metrica del canto per il popolo arbër non poteva essere persa.

La storia degli esuli arbër assume, per quanto, su citato, un ruolo fondamentale nelle formazioni dei giovani, della Regione storica Arbëreshë e deve diventare una coscienza diffusa, condivisa per concorrere alla formazione dell’identità locale delle nuove generazioni.

Il patrimonio culturale della R.s.A., costituisce un “bene comune”, come l’aria, l’acqua e tutti i beni di prima necessità; per gli addetti deve essere un dovere di partecipazione attiva per la conservazione, la tutela e la valorizzazione di questo patrimonio irripetibile e/o inestimabile.

È verso le nuove generazioni che bisogna puntare e restituire significato all’identità, analizzando prima di tutto quali atteggiamenti si sono assunti e si prevedono nei confronti del patrimonio storico/culturale.

Ciò deve avvenire senza tralasciare l’apporto che le mutazioni tecnologiche nei processi della documentazione, della conoscenza e della narrazione creativa possono fornire al su citato patrimonio; un progetto possibile tra antico è moderno in cui i giovani – nativi digitali arbër – propongano alle generazioni future una versione più solida del proprio patrimonio culturale/identitario.

Può apparire una contraddizione valorizzare il patrimonio culturale mediante i ritrovati digitali moderni, ma non è così, in quando, opportunamente utilizzate la storia antica, è quella moderna, avranno ruoli inscindibili per il trapasso generazionale, dove la linea tra moderno e antico non potrà essere confusa per altra cosa, in quanto, la cultura è il soggetto e il supposto tecnologico, il mezzo di trasporto nelle sue forme originarie.

La gestione del patrimonio culturale dei borghi, gli abitanti, il territorio e la caratterizzazione locale, assume il ruolo di piattaforma culturale in cui sono delegati,  i dipartimenti universitari, le istituzioni d’area esperti d’ambito, ad assumere l’onere di raccolta e catalogazione di dati immagini;  impronte territoriali uniche direttamente connesse alla definiszione dei confini linguistici.

Istituzioni pubbliche, scuole, associazioni che da anni si sono affannate per sviluppare progetti identitari, restituendo un  nulla  concreto, (se non al depauperamento dell’identità locale arbër) dopo il tempo di un’ampia riflessione, su come applicare il nuovo modello identificativo,  potranno recuperare attraverso immagini e registrazioni, le identità poste pericolosamente sul baratro.

Gli obiettivi di una metodologia operativa pedagogica in tal direzione, possono essere sintetizzate nei seguenti punti:

  • riconoscere cosa appartiene al patrimonio culturale e paesaggistico, quale bene comune, tangibile e intangibile, in quanto, eredità ricevuta e da trasmettere;
  • educare alla conoscenza della storia e all’uso consapevole del patrimonio culturale linguistico, consuetudinario, metrico e religioso per l’apprendimento del reale e dell’identità locale o di macroarea;
  • accrescere il senso di appartenenza, elaborando progetti di “avvicinamento emozionale e di apaesamento Gjitoniale” che, attraverso l’esame del territorio e dei suoi elementi costruiti e costitutivi, possano risvegliare istintivamente (grazie al contatto visivo ed emotivo) il cittadino con l’eredità del passato e sollecitino proposte per un futuro sostenibile;
  • dare luogo a reti digitali tra privati, scuola, amministrazioni, istituzioni culturali e territorio, in cui quali ciascuno fornisce le sue eccellenze, all’interno di un progetto di una R.s.A. digitale;
  • elaborare “percorsi” di riflessione ed esperienza per la conoscenza e comprensione del territorio come “bene culturale diffuso e condiviso”, in modo che i (giovani) cittadini interagiscano con le istituzioni, i soggetti produttivi e quelli culturali per l’individuazione di azioni conoscitive e formative che seguano un itinerario unico, fornito da esperti d’ambito con titoli e meriti guadagnati sul campo;

La scelta di tema e l’esame delle “opere” in campo dell’arte sartoriale, delle tecniche costruttive, dell’uso del territorio, della metrica, la necessità di avvalersi di diverse competenze e contribuire da un lato alla conoscenza della storia, dell’arte, dell’architettura, del paesaggio del proprio territorio e alla formazione – soprattutto nei giovani – del senso di appartenenza e di responsabilità verso un patrimonio culturale visto troppo spesso come estraneo alla propria esperienza quotidiana;

Tutti questi elementi, se idoneamente esposti o messi nelle disposizioni delle nuove generazioni, possono diventare elementi di orientamento alla professione e al proseguimento degli studi delle nuove generazioni;

Sicuramente fare educazione al patrimonio culturale in un territorio disastrato dovrebbe essere l’interesse principale anche dei beni culturali rispetto alle attese dei giovani per il futuro, e non si possono attendere le critiche dei componenti, delle visite guidate per avere consapevolezza che tutto è stato cancellato non dal tempo e dall’incuria ma esclusivamente dal’inconsapevolezza di quello che si possiede.

Il patrimonio culturale non va considerato come un’opportunità formativa per la costruzione delle competenze chiave del curricolo o per salire su un palco e strimpellare senza senso frasi, racconti storici a ritmo di tarante e suoni che diventano gelide ventate di levante.

Quando si avrà consapevolezza che il patrimonio culturale non è un affare in denaro, ma un fattore d’identità e d’intercultura, sicuramente gli ambiti della R.s.A. avranno la giusta sistemazione negli scenari della politica e della società, che decide i domani di tutti noi.

Oggi non rimane che la comunicazione didattica del tangibile e intangibile degli arbër, l’ambiente storico e territoriale del bene, la sua lettura, le osservazioni fatte o che possono essere fatte, il commento critico costruttivo condiviso, la ricerca sul territorio come occasione di attività tecnico-pratiche:

Consolidare tutto ciò attraverso le conoscenze e di verifica, la consultazione delle fonti (musei, archivi) innanzitutto diretta e quindi analisi e comparazione con gli ambiti costruiti e non del territorio, educano le nuove generazioni allo studio di cose che sentono e non avevano gli elementi o gli strumenti idonei per metterli in luce; un percorso esperienziale: non può “accontentarsi” dello studio teorico, più o meno ben fatto o meramente illustrato ma esso necessita di una conferma sul territorio:

  • del contattato diretto con il bene culturale o paesaggistico, supportato da una narrazione esperta;
  • di essere replicata, anche riesaminando uno steso bene o paesaggio, per procedere all’individuazione di nuovi stati di fatto inesplorati o non intercettati per una comprensione, più approfondite ma anche interiorizzata;
  • rielaborazione di gruppo, per coglierne appunto la dimensione di bene “comune” nelle sue parti più intime e recondite;
  • di valutazione, cioè di assegnare e/o riconoscere il valore (non economico) del bene culturale ma quello che esso rappresenta all’interno della comunità o degli eredi dell’antica Gjitonia;
  • di analizzare le tappe della storia attraverso la consistenza degli apparati murari, per riscontrare la “fatica e i patimenti” per riconoscere le capacità e competenze implicite nella produzione del bene;

Dopo quanto esposto, ritengo che urge sedersi attorno a un fuoco avendo bene in mente che non basta esprimersi con l’antico idioma del codice, in quanto, quelle parole e quelle scelte faranno la differenza per la vita di uomini, donne, e bambini, che attendono il loro momento per tutelare un’identità culturale, che purtroppo negli ultimi tempi è stata messa nelle disponibilità degli elementi che non hanno né cuore, ne testa, né braccia per sostenerlo, senza dimenticare il dato inconfutabile, ovvero, non hanno mezzi per camminare sulla strada che tracciarono sei secoli or sono gli irriducibili arbër del codice.

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-DA CONDOTTIERI A POVERI INFERMI SULLA SEDIA AROTELLE-

-DA CONDOTTIERI A POVERI INFERMI SULLA SEDIA AROTELLE-

Posted on 07 ottobre 2017 by admin

Arberia oggiNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Certo che studiare a largo spettro, la storia della R.s.A., ti fa rendere conto di quanto siano decadute le caratteristiche che hanno distinto le eccellenze arbër in Europa.

All’alba dell’illuminismo, mentre le genti di tutta Europa rimanevano relegati dietro le cinte murarie monocentriche, avendo persino timore di aprire le porte di accesso, gli albanesi circoscrivevano i perimetri dei presidi urbani policentrici.

Addentrandoci ancora negli ambiti della storia sociale e architettonica va sottolineato il valore che veniva dato al nucleo fondamentale della società, ovvero il gruppo familiare allargato, esso aveva un suo direttivo e un responsabile, che non era il più vecchio o il più saggio, ma la persona più dinamica e pronta rispondere a tutte le esigenze del gruppo; questo mi sembra sia i prototipo di un gruppo imprenditoriale moderno.

Se poi analizziamo il pensiero e le note storiche che hanno visto protagonisti: Pasquale Baffi, Luigi Giura, Pasquale Scura, Mons. Francesco e Giuseppe Bugliari, Cav. Vincenzo Torelli, Giorgio Ferriolo, non faremo altro che rievocare la storia degli ultimi tre decenni della Repubblica Italiana; sarebbe come rievocare le stesse vicende e gli identici eventi degli uomini che hanno contribuito con il loro sapere per non stallare allo stato di fatto che ha preso la rotta odierna.

Dopo questi uomini nulla è stato fatto per tenere alta la bandiere delle eccellenze della R.s.A., dando avvio a uno stato di fatto degenerativo senza eguali.

Ormai all’interno della R.s.A., non si fa altro che andare allo sbaraglio inventando e ponendo in essere, avvenimenti senza senso; sicuramente a tutti voi non sarà passato inosservato, che negli anni ottanta quando la tendenza generale, di tutta Europa, mirava alla valorizzazione e al ripristino degli elementi caratterizzanti i centri antichi, pedonalizzando queste aree di inestimabile valore.

Ebbene come per incanto in tutta la cinta Sanseverinense, e anche oltre, si sono avviati i processi di devastazione dei centri antichi, per il fine di veicolare l’interno di ogni, paese, borgo e frazione.

Il senso della ragione ormai è smarrito e se non ci si ferma a ragionare davanti alla scesa, il dinamismo crescente  impedirà una  lettura completa delle anomale identità, stese al sole.

Se a ciò aggiungiamo il dato che si è smarrito il senso anche all’interno dei presidi religiosi, greco bizantino che fino agli anni ottanta era saldamente protetta dalla iconostasi; occorre ridare senso alle cose e ognuno di noi deve fare la sua parte sia chi siede  davanti e chi deve saper stare dietro le iconostasi, altrimenti vale la regola che abbiamo perso una grade porzione della nostra identità.

In ultimo ma non per importanza, in questi giorni è rimbalzata la notizia della costituzione, di un consorzio di eccellenze, Civili, Istituzionali, Dipartimentali, Associativi e Religiosi che dovrebbe dare avvio alla svolta per una campagna di recupero del tempo e delle cose perdute.

Il mio auspicio è che si possa arrivare a brillanti risultati, tuttavia ritengo che non andrà così, in quanto l’elenco dei partecipanti “alla competizione” lasciano presagire  un nulla di fatto epocale.

Questa è una mia personale punto di vista e in cuor mio mi auguro di aver frainteso tutto; tuttavia gli addetti che si preparano a partecipare alla “manifestazione di interesse”, hanno già ispezionato i percorsi, le asperità territoriali e gli avversari; essi  indossato già pantaloncini, scarpe da corsa, magliette, con numero, logo raffigurante l’aquila bicipite, questa  mi auguro che assieme a loro ci sia una sostanziale novità, ovvero, lasciar partecipare alla competizione anche chi è munito di sedia a rotelle, quelli che oggi appelliamo con grande rispetto diversamente abili, almeno si garantirà quel vantaggio, che non lascerà scampo ai tanti rinnovatori, senza arte, parte e titolo acquisito sul campo.

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CANTANDO E BALLANDO AL RITMO DI VALIE CHE NON APPARTENGONO AL CONDOTTIERO

CANTANDO E BALLANDO AL RITMO DI VALIE CHE NON APPARTENGONO AL CONDOTTIERO

Posted on 01 ottobre 2017 by admin

Albania

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Al giorno d’oggi, ogni inesattezza o manifestazione, per avere più forza e credibilità storica, si dice che sia appartenuta al consuetudinario arbëreshë, che è corso dal 6 Maggio del 1405 al 17 Gennaio del 1468, come se l’arberia sia nata e si sia dissolta nel tempo di una generazione.

Fortunatamente non è così, essa è molto più antica, anzi proprio alla fine dell’intervallo su citato, ha esternato la sua solidità storica, utilizzando il cuore e la mente; la sua parte migliore per difendersi.

Cercare di avere ragione di questo dato di fatto è complicato, specie se il confronto avviene con quanti non conoscono la consuetudine; non hanno dimestichezza della metrica del canto (escluse poche formiche bianche oltremodo ignorate e considerate, addirittura, diversamente abili); non rispettano il disciplinare religioso al di la e al di qua dell’Iconostasi; non sanno parlare l’idioma arbër; tuttavia proprio per questo in questi ultimi tempi si sono attivati processi di auto tutela che se ben accolti dovrebbero recuperare il maltolto.

Chi ha competenza e titoli per questo si devono attivare e assumere il ruolo di Iatrua” e predisporre le metodiche più idonee e debellare un virus antico, che dopo “circa seicento anni” è diventato virulento anche all’interno della Regione storica Arbëreshë e va assolutamente debellato.

Specie quando coinvolge i giovani che frequentano le scuole dell’obbligo, proprio questi , sono costretti a scimmiottare un modello che non ha senso, proprio perché  presidi atti a formare e non piegare alle volontà fuori dai programmi ministeriali della Repubblica Italiana.

Alla fine degli anni quaranta del secolo scorso si chiamava analfabetismo, quando fu avviata la procedura per sconfiggerla, appariva un’impresa titanica, ma poi la buona volontà e tanti accorgimenti, attuati dalla sapienza degli uomini, già negli anni settanta del secolo scorso portarono alla meta prefissata, è la totalità della popolazione riusciva a firmare senza utilizzare il segno della croce.

Oggi purtroppo l’alfabetizzazione identitaria mira a cose più complicate, per le quali si deve possedere un bagaglio multidisciplinare più completo, motivo per il quale, i risultati finali non mirano ad ottenere la mera firma del proprio nome, ma il riconoscimento di un’identità culturale, che ormai per colpa di quella firma, associato al saper leggere ha portato a intorbidire le acque identitarie della minoranza.

Nonostante gli accademici si ostinino a richiedere capitolazioni e ogni sorta di documento di archivio, (anche se in molti casi sono documenti notarili realizzati nella totale inconsapevolezza dei rappresentanti del tempo), chi va avanti sono le masse di cultori locali (senza alcuna formazione, nel canto, nelle danze di macroarea) e innalzano eventi privi di ogni sostanza identitaria riferibile a tuta la Regione storica Arbëreshë.

È largamente noto che lo “storico” è una sorta d’imprenditore culturale con capacità innate, in grado di mettere in sintonia, archeologi, architetti, antropologi e geologi, che studiano analizzano ed esaminano il territorio oltre al suo costruito, tuttavia queste figure vanno coadiuvate con le ricerche documentarie, scritto grafiche e di analisi sul territorio, a cui va poi aggiunta la selezione delle memorie storiche d’ambito.

Purtroppo sino a oggi in luogo della R.s.A., “storico” è considerato, a torto, chi ha una nonna e ha disponibilità economiche per recarsi a Napoli o addirittura a Barcellona, (a fare cosa non è dato a sapersi) poi, che esso sia un suonatore di flauto (dei topi) o altro, ma comunque senza alcuna formazione, nell’interpretare, documenti, leggere il territori e in alcuni casi eclatanti, neanche  parlante l’arbëreshë, “poco importa” (almeno per i saggi che rimangono sempre muti ad osservare gli eventi ed esternare mosse di sorrisi ironici).

Questo quadro, che purtroppo si trascina dagli anni ottanta del secolo scorso, invade gli ambiti di quasi tutte le macroaree e nonostante i saggi si ostinino a parlare di capitoli e di platee, quello che più appare e lascia il segno sul territorio, sono le manifestazioni estive e i convegni, dove i soliti noti se la cantano e se la ballano secondo una infinita battaglia che lo Scanderbeg ha continuato a fare prima, durante, e dopo la sua morte.

A tal proposito, vorrei precisare che, l’esercito di questo condottiero turco-albanese, prediligeva eliminare fisicamente i nemici e non fare prigionieri, come può essere possibile oggi, ballare al suono di tarantelle, secondo coreografie che emulano accerchiamenti, per fare prigionieri che devono pagare pegno, è la caratteristica del nostro popolo?

Non è più possibile andare avanti in questa direzione, basti pensare che uno dei casali di un noto paese (che vive inconsapevolmente una maledizione culturale dal 1806), non trova la collocazione di uno dei suoi casali; eppure bastava andare nella biblioteca diocesana locale e trovare dove è collocato san Benedetto.

Questo è solo un esempio del percorso storico orfano delle figure fondamentali, come il dato che ritiene simili i paesi minoritari da quelli indigeni, tralasciando e ignorando il “genius loci”, uno dei principi fondamentali su cui si basa la storia dell’architettura e dell’urbanistica.

Lo stato di fatto posto in essere, dalle amministrazioni e dagli istituti di formazione è diventata paradossale non avendo oggi alcun che di nuovo da argomentare, ne mete nuove da perseguire, motivo per il quale urge darsi delle regole in cui la R.s.A. non sia proprietà territoriale di coloro che si ostinano a scrivere una lingua che si avvale esclusivamente della forma parlata, della consuetudine e un poco meno del canto e dei valori religiosi davanti e dietro l’iconostasi.

Occorre un percorso nuovo che distingua albanesi da arbëreshë, in modo netto e ben differenziato; con il  fine di seguire la rotta per la ricerca delle motivazioni che hanno innestato questo disciplinare storico nelle regioni del meridione; oggi diventato il modello di integrazione idoneo a garantire gli eventi migratori in atto, gli stessi che creano identiche instabilità sociali e religiose  sei secoli orsono.

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“hoj gàcë ku jie”

“hoj gàcë ku jie”

Posted on 21 settembre 2017 by admin

O MIA SCURE DOVE SEI!NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Un’arbëreshë di Acquaformosa al seguito di Garibaldi, durante una delle battaglie sul fronte lucano si rese conto che caricare il fucile era una perdita di tempo; e al grido di “hoj gàcë ku jie” stacco la baionetta dal suo fucile e affrontò il nemico.

Certamente oggi nella battaglia per la tutela delle eccellenze della Regione Storica, chi sente e avverte il che i propri valori sono calpestati e resi irriconoscibili, istintivamente gli ritorna in mente il grido dell’acquaformositano, per scacciare le innumerevoli inesattezze messe in campo.

Eppure l’estate appena terminata aveva fatto ben sperare dopo il convegno di Ginestra degli Schiavoni a maggio e in seguito a Luglio con la Vëllazëria di Casalvecchio di Puglia, purtroppo non è stato così, per colpa dalla mancata educazione storico culturale dei saltimbanchi che vagano come zombi affamati nei territori del principato Citeriore e Ulteriore, aldilà del faro.

Alle soglie del sesto secolo di tutela del codice più antico che vive, in quello che s’identifica come il vecchio continente, invece di seguire la rotta tracciata dai nostri avi, si preferisce seguire il turpiloquio, in cui la tarantella calabrese è il momento più coerente, a cu fa seguito l’armata di saltatori addomesticati, urlatori non parlanti e musicanti muniti di clarinetto, tamburelli e fisarmonica.

Parlare o discutere di turismo congressuale in questi scenari è come cercare di dare la benedizione al diavolo, in quanto tutti credono di possedere il contenitore del codice, inconsapevoli che in realtà non è altro che un “pacco napolitano”.

Le danze aprono le rievocazioni di avvenimenti mai esistiti, parlate alloctone, tradizioni diversamente abili, movenze turche, sonorità di tradizioni che spaventano e fanno fuggire i pochi studiosi e turisti accorsi.

La consuetudine, l’idioma, la metrica, la religione Greco bizantina, sono patrimonio unico e inscindibile, cercare di renderli indipendenti l’l’una dall’altra per il proprio tornaconto è come essere irrispettosi verso il buon nome di tanti valorosi che per difenderli attraversarono monti mari e ancora monti, sicuri che i loro discendenti nel corso dei secoli li avrebbero difesi allo stesso modo e onorato quel sacrificio in egual misura.

È per questo che bisogna stare molto attenti, nell’ esternare, sbagliando, le cose più elementari e non voglio trattare e dilungarmi su cosa succede quando si vanno a sporcare riti, che affondano le radici negli anfratti più intimi del codice arbër.

La storia dell’arberia non inizia nella seconda decade del ‘800, che rappresenta invece il momento cruciale della violazione del codice, per opera di uno scellerato che ogni qualvolta che a napoli iniziavano le rivolte, tornava a casa con la scusa di avere dolori addominali (prima di lui e molto meglio di lui) hanno illuminato la scena d’arberia, culturale e scientifica d’Europa, in maniera molto più pregnante e con argomenti e dati di gran lunga più seri.

Non sono pochi i dipartimenti nati per la valorizzazione di questo codice, che per non aver attuato come guida un progetto di ricerca, hanno perso la rotta e il lume della ragione, scavando a fare i piccoli archeologi (ironia della sorte o per incapacità interpretativa) lì dove tutto era cominciato sei secoli orsono, proprio lì dove i nostri avi avevano preferito fuggire, pur di non soccombere alle anomalie che avrebbero compromesso irreparabilmente il prezioso codice.

Oggi alle soglie del sesto secolo, ignari studiosi, hanno ritenuto che proprio quelle persone che volevano distruggere il codice potevano fornire elementi utili per arricchirlo, avviando così addirittura una trattativa culturale proprio con chi ambiva alla manomissione del codice; peggio di così, in un Europa così vasta, non si poteva inciampare

Tornando ai giorni nostri, non è concepibile che la tradizione e la metrica possa essere arricchita da chi la voleva distruggere, in altre parole non facciamo altro che alzare la bandiera bianca dopo sei secoli di onorato lavoro.

Scambiare canzoni con danze, persone anziane con carne cotta, parlate rarissime con scimmiottamenti turcofoni, il costume solenne per un abito di carnevale, solamente perche una legge elargisce risorse alle persone che amano flagellarsi; volendo usare un eufemismo, sarebbe come una mandria di bufali che corre su di un prato e punta verso bambini ignari che giocano.

Non resta che confidare nelle persone di buonsenso, che anche se poche sono comunque più preparate dei bufali, alle quali se si toglie il fieno a piccole dosi; augurandoci così che si sfianchino e non possano più calpestare il codice fatto di: famiglia, fratellanza, onestà e rispetto.

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ATTIVITÀ CONGRESSUALI EVENTO SCONOSCIUTO DELL’ARBERIA

Protetto: ATTIVITÀ CONGRESSUALI EVENTO SCONOSCIUTO DELL’ARBERIA

Posted on 16 agosto 2017 by admin

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MUSEI DEL COSTUME O RACCOLTA DIFFERENZIATA?

MUSEI DEL COSTUME O RACCOLTA DIFFERENZIATA?

Posted on 08 agosto 2017 by admin

Musei o discariche

NAPOLI ( di Atanasio Pizzi) – Si definisce museo l’Ambiente o complesso di ambienti adibiti alla raccolta e all’esposizione al pubblico di opere d’arte o di oggetti rari e di importanza storica, culturale, scientifica, al servizio della società, in quanto, emblema del suo sviluppo e delle testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente.

L’istituzione Museo le acquisisce, le cataloga, le conserva, le consegna alle generazioni future, giacché, elementi di studio irripetibili dell’identità culturale d’area.

Con la nota su citata si vuole rilevare quanto sia stata avventata, “l’idea”, di raccogliere e concentrare tanta storia in quelle strutture inadatte; operazione inopportuna cui bisogna porre al più presto rimedio, e parlo di quegli immobili che accolgono le arti minoritarie e impropriamente sono appellati museo (?).

La struttura museo in conformità con le esigenze conservative dei manufatti che deve accogliere, rappresenta un opportunità unica in quanto gli elementi da tutelare appartengono alle generazioni future.

Non è la quantità delle cose contenute che fa un ottimo museo, in quanto, è la capacita di conservare, proteggere dal tempo le opere, questo rende una buona struttura degna di questo appellativo, ogni altra cosa è solo Raccolta Differenziata destinata al macero.

Confondere il concetto di museo con la mera raccolta di oggetti e prodotti sartoriali della stessa essenza, è molto grave, specialmente quanto il luogo di accumulo non ha alcuna caratteristica per proteggere elementi così irripetibili.

Un museo è il luogo dove si tutela, si rispetta e si garantisce longevità all’elemento, che persone in buona fede affidano, all’istituto o istituzione innalzata, per essere tutelate ed esposte.

Raggirare la buona fede, con la velleità che più si accumula e più si sale la classifica museale è una menzogna, in quanto, senza cognizione di causa, si diventa distruttori certificati dell’unica forma d’arte presente negli ambiti della minoritaria.

È in atto lo sterminio più esteso all’interno della minoranza, quando si avrà consapevolezza di ciò, sarà troppo tardi, tra due o tre anni quando inizieranno a degenerare stoffe, pigmentazioni e gli intrecci dei tessuti si sfalderanno, dovrete dare conto alla storia per il danno prodotto oltre a rispondere del gran numero di elementi finiti, che avrete scientemente fatto scomparire.

 

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