NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sino all’unità d’Italia, ha visto partecipi e attivi figure notevoli Arbëreşë nei fermenti culturali di tutta Europa e, i paesi allestiti secondo il bisogno vernacolare dei natii, divennero centri laboriosi, con caratteristiche identitarie, resistenza, rinnovamento sociale, culturale e architettonico.
Questa caratteristica è rimasta costante, amplificandosi senza soluzione di continuità, fino agli anni Novanta del secolo scorso, sostenuta da un interesse terminato poi in timide o incerte iniziative locali per il recupero di una memoria nobile qui sconosciuta.
Già alla fine degli anni Cinquanta, lo slancio promozionale, intrapreso dall’allora nascente Automobile Club d’Italia (A.C.I.) sembrava voler risollevare gli ambiti della “Regione Storica Sostenuta in Arbëreşë” inserendola in una visione turistica e culturale del Paese Italia in movimento veicolare.
Ma nulla di sostanziale venne realizzato se non episodi disconnessi tra loro, che per questo hanno persi sinanche il valore storico che dovevano esaltare e, le promesse di valorizzare quei territori, si sono scontrate con l’inerzia istituzionale, la mancanza di investimenti e l’assenza di una visione strategica ampia e mirata, perché incentrato esclusivamente al “regime di restanza locale”.
Le successive leggi nazionali e regionali lì a poco poste a regime, pur se fondamentali a titolo simbolico, sono state subito, intese con luce divina, generando più aspettative che risultati concreti da produrre con sudore o forse meglio dire miracoli.
Nei fatti, le leggi sono rimaste prive di una reale capacità di incidere sui territori, sulle scuole, sulle economie, sulle relazioni sociali o i beni architettonici, non includendo neanche beni materiali ed immateriale in forte disequilibrio.
Anche se la vera risorsa non doveva ricadere sulla legge o le leggi, quanti le avrebbero dovute interpretare per adoperarle e utilizzarne i fini di resilienza, materiale ed immateriale in affanno, non hanno mai saputo leggerle e interpretarle a dovere.
Nel frattempo, i Katundë arbëreşë sono diventati oggetto di una narrazione monocentrica e svuotata di ogni significato, avendo come tema innovatore il “borgo da recuperare e salvaguardare”, o “da rigenerare”.
A questa si è sommata l’onda lunga degli itinerari artistici o pittorici dirsi voglia, spesso guidati da figure incomprese o isolate, oltremodo estranee alla storia profonda di questi luoghi, colmi di parlato e ascolto, comunque tutti desiderosi di vederli all’ombra di minareti e non dei saltellanti campanili di est e di ovest.
In molti casi, queste incursioni culturali e sociali, pur se animate da buone intenzioni, hanno finito per costruire un racconto superficiale, scollegato dal vissuto delle comunità e dalle radici storiche che danno senso alla loro presenza qui nel meridione Italiano.
Oggi i Katundë arbëreşë rischiano di essere percepiti come “borghi borgate coli di bovari”, il tutto come se fossero campi di pascolo unitari dei quadrupedi senza distinguere bovini e suini, per riempire di contenuti estemporanei, sminuendo o addirittura cancellando ciò che li ha resi unici e saldamente ancorata alla storia di questi luoghi che sono i paralleli alla terra di origine oltre il fiume adriatico nel caso specifico la parte senza abbracci.
Il risultato è una trasformazione più estetica che sostanziale, che punta al “decoro ignaro dell’identità”, in tutto un’operazione che, senza consapevolezza, rischia di cancellare in nome di un “rilancio” che privilegia la forma e nulla della sostanza, innescando un processo degenerativo culturale fuori dalla promessa fatta in terra madre terra madre, (Besa).
La regione Storica Diffusa Sostenuta in Arbëreşë, è uno spazio dove si incontrano mondi diversi, vivono storie irripetibili e luogo di figure elevate, in tutto un luogo non circoscritto dove oggi viene compressa e rievocata ogni cosa immaginata liberamente secondo teoremi di memoria velata dal folclore, senza aver mai avuto una reale occasione di definirsi dentro la storia rispettosa, inclusiva e profondamente connessa al proprio passato.
La mancanza di risorse in forma di formazione e ideali che colpisce i centri antichi arbëreşë, non può essere attribuita unicamente alle istituzioni fuori dai confini locali o alle leggi oggi in vigore.
Sebbene tutte queste abbiano spesso mostrato disattenzione, la responsabilità più ampia risiede nelle trame locali, che restano ancorate a una formazione culturale debole, frammentaria e statica, paragonabile a club solitari dove si mescola il sugo con le cose del vicino, che non è mai gradito al momento del pranzo domenicale.
L’assenza di una visione condivisa, rende il peso delle dinamiche locali, al pari di una coscienza storica sottosviluppata, in continuo bollore per ostacolare ogni possibilità di riscatto di quanti, come si fece in passato, partivano per migliorarsi.
Senza un rinnovamento dal basso, nessun intervento dall’alto potrà mai essere davvero efficace e, i risultato restano stesi al sole in quel campo che non è stato mai seminato.
Il problema non risiede tanto nell’inadeguatezza delle leggi, quanto piuttosto nella mancanza di formazione giuridica, tecnica, storica e culturale degli operatori incaricati di applicarle, i quali spesso non dispongono degli strumenti, uomini e mezzi culturali necessari per un’applicazione corretta ed efficace.
Questo ragionamento si può applicare a molti ambiti, dalla giustizia alla pubblica amministrazione, fino alla gestione delle innovazioni tecnologiche e, solleva un punto chiave per la qualità dell’applicazione della legge che non sono fine a se stesse ma dipende direttamente dalla competenza di chi la gestisce o le deve interpretare secondo il tema in gestione.
Se volessimo analizzare un Katundë a caso, dalla fine degli anni cinquanta ad oggi, nulla è stato fatto da chi è partito per tornare e rendere migliore, con la partecipazione corale un centro antico colmo di storia e figure di rilievo che hanno fatto la storia.
Infatti escludendo i formati si è finiti di esaltare i non giusti, i traditori e non fedeli, in tutto gli artigiani bravi ad essere candarari.
Un dato accomuna tutti i centri storici di origine arbëreşë strutturati secondo il modello del Katundë: fino al 2009, nessuno di essi era mai stato oggetto di un’analisi approfondita riguardante gli aspetti costruttivi e formali dell’architettura del bisogno all’interno dei nuclei antichi.
Si tratta di sistemi urbani sviluppatisi secondo una logica vernacolare, privi di tecnicismi o interventi progettuali certificati.
Inizialmente edificati con materiali poveri come l’adobe, successivamente in pietra, calce e sabbia, questi insediamenti si sono evoluti secondo morfologie urbanistiche via via più articolate, dapprima con impianti paralleli, poi con sviluppi verticali a servizio dei profferli.
Il tutto rispondendo a esigenze pratiche e immediate, senza alcuna pretesa estetica o accademica, infatti le prime direttive tecniche in questi ambiti arrivano imposte dalla direzione napoletana dopo il terremoto del 1783.
E dopo la riforma pel la chiusura di cassa sacra e, le relative dimostranze legali per l’acquisizione delle terre da parte di conduttori storici, rese l’economia locale più solida e molte famiglie nei centri storici edificarono i cosiddetti palazzati nobiliari con emblemi architettonici dell’illuminismo in forte ascesa.
Le famiglie più nobili costruirono i nuovi volumi di rappresentanza, avendo come cuore sempre pulsante l’antico modulo vernacolare del bisogno, ma queta volta secondo disposizioni regie e, con forme architettoniche progettate.
Essi così avevano nel propesero principale, ingresso e finestre dei depositi contornati da pietre locali lavorate, al primo piano balconi di rappresentanza e finestre, mentre tra il tetto e il pino nobile, aperture di ventilazione per i sottotetti indispensabili a temperare il volume della parte abitativa, mentre i depositi al piamo terra erano temperati dai riverberi naturali del terreno su cui erano costruiti gli elevati murari.
Questo accadeva per le famiglie più in vista mentre per i sottoposti la crescita economica si palesava nelle loro case con imitazione dei portoni di ingresso che erano allocati in quei volumi che un tempo compilavano i profferli che venivano inglobati al fabbricato di pertinenza.
Gli stessi che in alcuni casi e in epoca più recente associati alla categoria delle superfetazioni poi assoggettati al modello dell’abuso edilizio e per avere una parvenza di logica architettonica appellate case antropomorfe.
Tuttavia l’intero costruito che ebbe modo di espandersi dal decennio francese sino alle soglie del XIX secolo determina, anche il sistema toponomastico che del 1929 intitola, vie, vicoli piazzette e piazze, mentre i rioni storici restano nelle memorie storiche locali senza futuro, perché gli addetti che fanno restanza, non si muovono dai loro scanni della cultura trovando un fatto degenere andare in giro a chiedere.
Ma questa è un’altra storia per la quale la quale lo scrivente venne appellato: “lo sgarbi dell’inferno Arbëreşë”.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-08-16