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NON È UNA RIPARTENZA, PERCHÈ SOLO ADESSO  INIZIEREMO A CAMMINARE.

NON È UNA RIPARTENZA, PERCHÈ SOLO ADESSO INIZIEREMO A CAMMINARE.

Posted on 15 luglio 2020 by admin

AthanorNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La Regione Storica Arbëreshë ha avuto una brusca frenata relativamente agli appuntamenti d’estate; comunemente appellate Valje, e dell’inverno con i soliti riversamenti di cultura; a tutt’oggi non si riesce a comprendere come e quando questo “modo di confrontarsi” avrà termine.

La pausa, causa del Covid-19, e il conseguente distanziamento fisico o per meglio dire isolamento sociale, è comunque un’opportunità “irripetibile” per ricalibrare l’Athanor per ottenere la pietra filosofale tanto attesa e molte volte millantata, per la sostenibilità tangibile ed intangibile della regione storica.

La calibratura dei soliti riversamenti di cultura, la ricerca archivistica confrontata con il territorio, renderà più chiare le vicende della storia, elementi indispensabili per manifestazioni irripetibile e indispensabili a restituire solidità alla compromessa radice minoritaria.

Premettendo che questo non vuole essere un indirizzo definitivo, ma visti i risultati solidamente ancorati a documenti e territorio sino a oggi ottenuti, sono da ritenere come una traccia da percorrere per una meta certa da conseguire.

Ragion per la quale l’esser sati interrotti in manifestazioni canore, culturali, folclorico e di sviluppo del territorio, viene intesa come l’opportunità, per ricollocare elementi multi disciplinari nel forno ovoidale; l’Athanor con l’auspicio che la combustione sortisca nella pietra filosofale arbëreshë tanto attesa.

Tracciare la storia degli omini che della regione storica ne hanno fatto una ragione di vita presenta numerose difficoltà. Queste storie molto spesso sono propinate al pubblico come «storie di Scrittori», senza badare che si tratta, nella maggior parte dei casi, di «cose» diverse, di storie uomini che della scrittura conoscevano bene Latino e Greco mentre l’arbëreshë lo sapevano solo parlare e che muo­vono in una direzione che si chiamava ricerca del «BENE DELLA COMUNITÀ – ED ALLA GLORIA DEGLI UOMINI DI TUTTO L?UNIVERSO».

Gli arbëreshë rappresentano la parte buona della società in ogni epoca e, come sovente accade, anche qui trovano rifugio avventurieri e ciarlatani, alla continua cercano di entrare a farne parte del glorioso elenco di eccellenza, per trarre qualche profitto personale.

Dimostrare che siano riusciti a distrarre l’Istituzione storica dal suo compito principale di formazione degli uomini a scapito dell’ esaltazione delle loro virtù  diventa sempre più preoccupante, a tal proposito e per scoprire le loro vesti sarebbe il caso interrogarli pubblicamente durante i loro rocamboleschi concerti e spegne una volta per tutte la falsa pietra filosofale, che dicono di possedere, dentro le casse armoniche di organetti mandolini e le pelli tese dei tamburi.

Adesso che inizieremo finalmente a camminare, per essere atleticamente mentalmente e liberi da falsi miti e comini leggende parallele, dobbiamo liberarci, dei veli pietosi che ci offuscano la mente oltre la copiosa polvere, che appesantirebbe il nostro cammino di eccellenza.

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PASHKALI I BASHITH;

PASHKALI I BASHITH;

Posted on 11 luglio 2020 by admin

01 - RaccontiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – .Un Sofiota, vero, emblema incontrastato della storia letteraria della odierna Regione storica Arbër, arche ancora oggi vive secondo il buon progetto lasciato in eredità dall’eroe Arbanon, Giorgi Castriota di Giovanni.

Santa Sofia rappresenta per questo un’icona indispensabile per la storia della minoranza e Pashkali i Bashith per le sue note, (la maggior parte carpite e rese pubbliche da fraterni traditori), rappresenta la via per la migliore applicazione delle caratteristiche linguistiche, sociali, metriche e religiose della regione storica.

Egli, con i suoi studi, in capo storico e della definizione linguistica arbëreshë, è il primo a riferire che non ci fosse alcune legame tra la lingua arbëreshë e la lingua greca, se si escludevano, chiaramente, alcuni prestiti come si usa fare nel buon vicinato territoriale.

Affermazione più certificata di questa l’intera galassia linguistica non poteva averla, dato che “Bashith” fino a prova contraria è stato la figura più titolata delle lingue greche e latine sino al giorno della sia morte l’11 Novembre del 1799.

Comunemente si enuncia, senza averne consapevolezza della sua grandiosità culturale, che non abbia scritto nulla in arbëreshë e quindi non rientra tra le eccellenze della minoranza; affermazione a dire poco bizzarra, perché se volessimo confrontare quanti hanno scritto in arbëreshë, con quanti hanno fornito linfa pura e costruttiva come il “Bashith” apriremmo il dibattito che la regione storica tiene coperto con panni a dir poco indecenti e da troppo tempo ormai.

Pashkali i Bashith in poco meno di un trentennio, è riuscito a laurearsi da solo; insegnare nell’università più antica del meridione; passare nella scuola più moderna del settecento; diventare una delle prime figure ad interessarsi della questione meridionale; creare il promo catalogo bibliotecario del meridione; diventare ministro della Repubblica “una e indivisibile” partenopea; ricevere accreditamenti e riconoscimenti dalle espressioni culturali di tutta Europa, compreso Angelo Maria Bandini.

Tutto questo mentre il suo paese, meno uno, non aveva consapevolezza di tanta luce, non rendendosi conto della sua grandezza neanche quanto il gran tour, portò letterati dall’Europa a curiosare nella stanza dove egli nacque.

Tanto lustro e tanto sapere che persino chi ebbero modo di tradirlo, scippando pochi appunti del suo sapere, fu accolto con benemerenza dal clamore e l’eccellenza dei salotto europei per quelle idee libere da imposizioni, reali e vaticane.

Una cosa è certa, chi ha seminato sapienza e sapere rimane sempre visibile agli occhi di tutti è non ha bisogno di essere annunziato, chi si è sporcato di fango per essere illuminato, attenderà inutilmente che venga la pioggia: egli non sa che l’anima non si lava con acqua.

Buon Compleanno “Pasquale Baffi” di Santa Sofia D’Epiro.

Un tuo Paesano

Atanasio Architetto Pizzi

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DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHË Arbëreshi hëshët garbë me dùartë, satë rrhuechë sa janë, lipia misavetë e shetrolith

DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHË Arbëreshi hëshët garbë me dùartë, satë rrhuechë sa janë, lipia misavetë e shetrolith

Posted on 06 luglio 2020 by admin

DEFINIZIONE DELLA COMUNITÀ CULTURALE ARBËRESHËNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel 1975 un gruppo di studiosi dell’Associazione Internazionale per la Difesa delle Lingue e delle Culture Minacciate, si è recato in ricognizione nelle macro aree della regione storica arbëreshë alla ricerca dei centri di minoranza linguistica rilevandone i vari aspetti identitari.

L’occasione fu fondamentale per individuare previa analisi dei luoghi, un numero considerevole di nuclei urbani, i cui elementi caratteristici in forma di cultura tipica erano riconducibili alla minoranza storica arbëreshë.

A quel dato di valutazione i centri urbani, furono individuati, visto anche il poco tempo a disposizione, in numero di novanta cinque, così suddivisi: Nove in Sicilia, Cinquanta in Calabria, Sei in Basilicata, Diciannove in Puglia, Due in Campania, Uno in Abruzzo, Otto nel Molise.

Il rilevato in numero di comuni arbëreshë, del 1975, non ebbe a crescere, nonostante nuovi dipartimenti iniziarono a produrre storia, letteratura e ogni tipo di adempimento, sorvolarono sul fondamentale principio del genius loci,  favoriti oltremodo dalle leggi che dagli anni ottanta miravano alla difesa delle minoranze storiche .

Il sovrapporsi delle leggi e degli eventi produsse una sorta di anomalia numerica che invece di integrare e far crescere la consistenza numerica dei paesi, creò una sorte di “unione riservata, una sorta di borgo chiuso”, che non superava le cinque decine, il tutto stranamente proprio alla vigilia che rendeva attuativa la legge 482/99.

Il dato appare sconcertante perché, invece di aumentare di numero, per il crescente studio predisposto e proposto da molte università, il numero è stato dimezzato alla luce del solo fattore di estrazione idiomatica.  

Nonostante la presenza arbëreshë è confermata, anche in nome di Greci di Schiavoni o Slavoni, per la credenza religiosa radicata nel loro modello consuetudinario, la storia li nomina come gli addomesticatori di terre, le stesse a essere oggi il vanto della viticultura storica delle colline meridionali e dell’Italia centrale.

Più in particolare, per la loro capacità di muoversi in gruppi familiari allargati, riconosciuti come sistema autosufficiente capace di essere radicato in un qualsiasi ambito collinare e porre a regime perpetuo il trittico mediterraneo in senso generale, si continua a menzionarli e tutelarli secondo le disposizione della legge 482/99 che fa confusione perfino tra Albanesi e Arbëreshë, non citando nei suoi articoli  mai appellativo della minoranza storica italiana.

Ricerche approfondite del meridione italiano, peninsulare e insulare, alla data del maggio 2019 individuano con certezza circa il triplo dei paesi certificati, come paesi di origine arbëreshë o casali ripopolati per essere poi continuamente vissute da dinastiche che se pur hanno perso la valenza linguistica, conservano i modelli edilizi in forma urbanistica, architettonica e le consuetudini tipiche riconducibili al sociale e al regime produttivo dell’area agreste di pertinenza.

Che un centro abitato sia stato innalzato e realizzato dagli arbëreshë, non è solo legato all’espressione linguistica, la stessa che per forme di rotacismo può mutare nei secoli.

Tuttavia la minoranza storica anche in senso di regione possiede come identificativo, la metrica non intesa solamente come espressione idiomatica, ma anche in senso di consuetudini, religione e tutta la filiera di adempimenti tipici nell’insediarsi, dare spazio alla crescita edilizia, la stessa che notoriamente li rende differente dai sistemi urbani indigeni, limitrofi.

Un confronto che può essere fatto con dati storici e sociali inconfutabili, perché se le genti arbëreshë portavano con loro un tesoro identitario non scritto, è anche vero che il luogo per tutelarlo doveva rispondere a caratteristiche in grado di non compromettere quella radice solo fatta di forma idiomatica.

Non è concepibile che comunemente i paesi arbëreshë sono associati a “borghi”, quando il tempo del loro innalzamento o ripopolamento, appartiene al periodo del rinascimento e ben lontano dal buio medioevale.

I piccoli centri collinari di radice arbëreshë, oggi, li troviamo in forma di casali, castrum, civitas e un’ampia definizione di agglomerati urbani di quel meridione notoriamente caratterizzato dai bizantini, dai greci e non certo dai longobardi invasori, gli stessi abituati a rintanavano nel buio delle loro murazioni, per vivere, vita da carcerati per consuetudine.

Gli arbëreshe appartengono al periodo dei nuclei urbani aperti, sono il prototipo delle odierne luoghi senza vincoli distinzioni e classi sociali, gli stessi che la società moderna mirano a raggiungere; la stessa meta che gli arbëreshë vivono da sei secoli, in quella che si identifica regione storica diffusa arbëreshë.

Ragion per la quale ritenere che un pese arbëreshë sia legato solo a metriche di carattere linguistico vuol dire essere irriverenti verso un modello che non deve, è non può essere considerato monotematico.

Valga di esempio cosa succedeva nel 1835 a Ginestra degli Schiavi un paese notoriamente arbëreshë, oggi provincia di Benevento, già a quei tempi piegata la popolazione, da decenni alla lingua degli indigeni locali, in una nota storica del prete di estrazione latina, riferisce come gli abitanti del piccolo centro, ricordassero e santificassero alcuni appuntamenti religiosi senza attinenza con il calendario latino, ma ogni anno in date specifiche si fermavano a onorare i defunti, accendere falò o produrre manicaretti e riunirsi in conviviali manifestazioni.

Se a questo aggiungiamo il dato inconfutabile di riconoscimento rilevato in un convegno del 2017, grazie al quale sono state attestate la posizione geografica, lo sviluppo storico dal punto di vista urbanistico e architettonico l’articolazione di spazi strade e vicoli propria della casistica dei paesi arbëreshë, Ginestra degli Schiavoni ha avuto ampia certificazione che non basta perdere la consuetudine linguistica per essere riconosciuti illegittimi.

La stessa cosa si può dire di Casal di Puglia, dove notoriamente a oggi parlano la lingua arbëreshë un numero considerevole di abitanti, tuttavia non riconoscendosi negli spazi e nella distribuzione del centro antico.

Durante un convegno è stato ampiamente confermata da una ricognizione in loco e attraverso carte storiche e la toponomastica storica corrente anche in forma dei rioni kishia, Bregu, l’enigmatico Sheshi e l’insieme Katundë, con le rispettive fontane che il sito ha un’impronta tipica delle genti arbëreshë.

Se la comunità scientifica odierna si ferma all’identificativo di una popolazione storica come gli arbëreshë, solo ed esclusivamente al’intensità con cui è pronunziata una favella antica, è il caso di rivedere i progetti e magari consigliare di ritornare a sedere dietro i banchi di scuola.

Questo perché è una forma di non rispetto, verso quanti sanno fare e propongono componimenti completi, senza mai mettere da parte, il violentato e vituperato, anzi direi volutamente escluso, GENIUS LOCI ARBËRESHË.

Una minoranza storica detiene un patrimonio, colmo d’infiniti elementi caratteristici, sia in forma tangibile e sia in forma intangibile, ridurre tutto nella parlata locale come il solo emblema identificativo, offende tutte le genti che nel corso dei sei secoli di storia ha dato se stesso per tramandare l’antico modello.

Per terminare, si ritiene poco rispettoso verso i “TANTI” che hanno dato, rispetto ai “pochi” che non avendo nulla da perdere si sono nutriti di bighellone rie culturali e minare irreparabilmente uno dei quattro elementi fondativi della minoranza arbëreshë.

Si potrebbe presupporre che non sapessero, ed erano ignari del tema che calpestavano; ma se fosse vero, perché si sono prodigate a pregare che l’orticello spontaneo continuasse a dare i propri frutti, gli stessi, che  non  sanno neanche contare.

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QUANDO LA COMPETENZA È DEL DIAVOLO Il diavolo vive e vi osserva dove un tempo si separavano i prodotti della grancia!

QUANDO LA COMPETENZA È DEL DIAVOLO Il diavolo vive e vi osserva dove un tempo si separavano i prodotti della grancia!

Posted on 03 luglio 2020 by admin

inferno gelatoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Con i principi che guidarono la Rivoluzione del 1799, i Borbone e l’Europa intera, comprese che eliminare fisicamente gli antagonisti, liberi pensatori, non era più sufficiente, bisognava deviare le nuove idee e piegarle per il proprio tornaconto.

Oggi se analizziamo con dovizia di particolari, quella metodica di eliminazione fisica e ideologica, essa viene applicata senza alcuna mutazione, nella regione storica, in particolare in quel luogo, dove senza soluzione di continuità trova applicazione dal 11 novembre del 1799, se si esclude la parentesi di progetto sino all’agosto del 1806.

Se l’eliminazione fisica non è più praticabile per ovvi motivi, quella morale in senso di razzia letterale, scippo di concetti, plagio di idee verso quanti vivono l’esilio culturale (volontario di memoria) è una prassi che non smette di terminare.

La vile abitudine di appropriarsi delle altrui ricerche dipende dalla vicinanza e dall’interesse che si vuole derubare e si manifesta nelle figure di: Fratelli, Parenti, Gjitoni e persino in “Garzoni di Bottega” che dopo che hanno rubato gli attrezzi del maestro,  si illudono di essere ciò che non saranno mai.

A queste indicibili figure a due facce, (non per unire come simboleggia e vuole, l’aquila a due teste civile e di credenza divina, ma per dividere), va tutto il più intimo disprezzo per l’egida attività cittadina.

L’atteggiamento denota la deriva culturale diffusa fatta di frammenti di cose, “moto rotatorio perpetuo”, in cui ad essere protagonista è il cane il di cui unico scopo, non è la tutelare della casa del padrone, ma ostinatamente perde tempo nell’intento di accalappiare con i denti la coda.

A tutti questi, “amici”, è bene ricordare che la genuinità culturale, frutto di sudore mentale, è un codice; per questo di un solo proprietario.

Enunciare e portare avanti discorsi altrui è peccato, specie se il frutto ottenuto ha richiesto grandi sacrifici economici, fisici, prodotti oltretutto in contro corrente rispetto le masse, libere di pascolare nei campi fatui.

Comunemente  si racconta in alcuni ambienti,  che la migliore arma sia il perdono, sarà pure vero è il alcuni casi l’ipotesi potrebbe essere comprensibile, tuttavia le “pratiche di viltà, perpetrate nel tempo e alle spalle dei Grandi”, stanno sul tavolo del Diavolo, allora il metro di condanna, diventa un problema molto caldo nel breve termine e freddo nell’attesa del lungo termine.

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GLI ABBARBICATI DEL TERMINATIVO “OLOGO”

GLI ABBARBICATI DEL TERMINATIVO “OLOGO”

Posted on 29 giugno 2020 by admin

Gallo ologoNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – I primi giorni di gennaio del 1954 iniziarono le trasmissioni della televisione italiana e con esse anche la programmazione per gli adulti in forma di giornale, didattica e intrattenimento, oltre per i ragazzi con serie di telefilm e cartoni animati.

I programmi erano intrisi da una forte connotazione educativa e informativa, la televisione si prodigava a diffondere notizie di politica cronaca, l’importanza delle norme igieniche e di vaccinazione, oltre a intrattenimento a fini istruttivi.

Un cubo magico attraverso il quale si prendeva atto di cosa avveniva in tutto il mondo, stare davanti ad ascoltare e vedere era un rito, un appuntamento irrinunciabile, di cui hanno goduto divertendosi e traendo spunti di vita, generazioni intere.

Tuttavia e ciò nonostante, le cose utili e belle non durano molto e finiscono per appiattirsi o diventare trasparenti; così lo è stato in tutti i sensi anche per la televisione: prima cubo, poi parallelepipedo, oggi piatto rettangolare a modo di quadro e nessuno di noi in fondo lo gradisce.

Se la luce emanata dal tubo catodico si poteva sopportare, perché tenue e surreale, le migliaia di piccoli quadratini che si mescolano costantemente e restituiscono immagini moderne, sono insopportabili oltre misura.

Oggi la televisione è diventata il luogo  di spunti anomali, per attrarre l’attenzione e gli sguardi di un ideale ed invisibile platea, fatta di numeri e supposizioni statistiche.

Il protagonismo è l’elemento predominante,  anzi direi proprio povertà teatrale, senza cultura.

Esso ha due radici: una di carattere apparentemente formata a seguito di titoli e l’altra senza ne arte e ne parte; quest’ultima la più pericolosa,  per darsi una parvenza culturale usa il terminativo “ologo” come ad esempio: espert-ologo, tuttologo, pens-ologo, saggi-ologo, borg-ologo, music-ologo, architt-ologo, ecc., ecc., ecc.

Si enunciano comunemente borghi da recuperare e rivitalizzare, un appellativo importato e imposto dai longobardi che nelle terre germaniche ne facevano un grande uso per vicende legate a conquiste a fini distruttivi e nella penisola dell’odierna Italia, adopera gli appellativi di altra radice linguistica.

Per quanto riguarda la categoria dei non formati, e mi riferisco quella del noto, terminativo “ologo” i più facinorosi, non avendo alcuna formazione generale, si associano al terminativo citato, non avendo la ben che minima idea di  sheshi, di sistemi viari che ti abbracciano prima e poi ti liberano sul piano, perché riconoscono la tua genuinità.

Tutti siamo consapevoli che che ogni mattina il sole sorge, più difficile è parlare di case, il luogo dove si è nati, cresciuti e vissuto gioie,  patimenti della propria esistenza, “la  casa mia” non il luogo di altrui genti, giacché quella piccola, grande o misera dimora, è il punto fermo da cui si dirama la nostra vita; sarà sempre nostra, i ricordi, partono da quell’antica cellula e arrivano senza soste direttamente nel  cuore, senza mai rimanere incustoditi nelle spiagge di miti e leggende altrui.

Un paese è fatto di tempo, natura, storia, pietre, patimenti, sheshi e uomini; i più capaci li sentono, li vedono perché li conoscono e sanno raccontare; gli altri, si adoperano per salire sul palcoscenico  del comunemente “ologo”.

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L’OLIO D’OLIVA PREFERITO ALLA SETA SECONDO LE POLITICHE DELXVIII SEOLO

L’OLIO D’OLIVA PREFERITO ALLA SETA SECONDO LE POLITICHE DELXVIII SEOLO

Posted on 26 giugno 2020 by admin

IL corpo umanoNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – Nel settecento il sud dell’Italia e in particolare la Calabria viveva un momento storico non dissimile da quello attuale, genericamente diffuso in tutta la nazione italiana.

La Calabria, nel settecento, era considerata il sud depresso, del Regno di Napoli, rivedendo scientemente gli aspetti, sociali ed economici odierni, si può sintetizzare nel presente come l’Italia intera, è verso l’Europa unita del nord.

Le difficoltà del mercato e il progressivo indebitamento, per opera del fisco, nel settecento, rese i poli produttivi economiche labili, e fino a quando fu più possibile sostenerli, nonostante non mancarono riformatori, i quali constatato la crisi della seta di Calabria, l’eccellenza di quel tempo, non ebbero sufficiente istinto imprenditoriale per  introdurre tecnologie in grado di rinnovare l’antica filiera seticola e della filatura in generale.

Nonostante, la Calabria dal Trecento, era stata la patria del telaio senza mai scendere dal piedistallo, rimase abbarbicata a metodiche di lavorazione non in grado di confrontarsi con i nuovi mercati in crescita da altre latitudini già dal XV secolo.

Anche quando la domanda continuava imperterrita a scendere, perché pretendeva standard più accessibili, come ciò che era prodotto fuori dalla Calabria, i regnati partenopei, immaginavano che l’attesa avrebbe fato la differenza e quanto prima avrebbero partecipato da protagonisti alle richieste del nuovo mercato.

La crisi strutturale specie della seta calabrese divenne irreversibile,giacché, dalle misure intraprese dai grandi proprietari di gelseti, che seguivano una progressiva riconversione più remunerativa verso la granicoltura e soprattutto nell’olivicoltura, mentre i possessori di piccoli giardini con gelsi proseguirono la produzione asettica che non poteva rispondere adeguatamente alla richiesta di un mercato in piena espansione, sia in qualità che in quantità.

Valga di esempio il caso di un grande produttore di seta, il quale, investì  per acquistare  un considerevole numero di unità fondiarie nel basso Ionio da destinare a gelseto, questi visto trascorsi anni senza l’intervento dello stato, che in qualche modo incentivasse il settore, preferì predisporre le colture a fini cerealicoli estensivi e dell’olivo.

Quando finalmente l’investitore calabrese aveva ormai terminato il processo conversione, il governo centrale  spedì macchinari per la produzione di seta, mettendole a disposizione gratuita  degli industriali del luogo, ma purtroppo nessuno ne volle trarre profitto, perché ormai il processo seguiva la via dell’olio.

Ormai, l’antichissima produzione della seta di Calabria era scomparsa per sempre, dismesse le grandi estensioni di gelseti elemento fondamentale della filiera, il governo centrale era rimasto immobile senza operare attività economiche ce ne potessero cambiare la tendenza, che certamente non sarebbe avvenuta nel breve periodo.

La riconversione fu imponente e soprattutto a favore dei saponifici francesi e delle industrie meccaniche inglesi, dove la richiesta preferiva l’olio di bassa qualità calabrese.

Le esigenze di riconversione, andarono notevolmente in questa direzione, i gelseti erano dappertutto abbattuti con l’accetta, l’impianto di oliveti non conosceva sosta e ciò avveniva nelle aree più produttive della Calabria.

L’impianto olivicolo fu avviato, senza grandi investimenti, per cui mancarono, da subito la raccolta razionale delle olive dall’albe­ro, differenziandoli con quelle raccolte a terra, oltre mancava o era completamente assente l’indispensabile sistematica potatura, queste, tutte attività che avrebbero preteso abbondanza di manodopera, allungamento dei tempi di produzione e capitali più cospicui da investire nella nuova attività.

I proprietari del tempo, non fecero altro che sostituire il gelso, e impiantare l’oliveto dovunque era possibile.

La conseguenza fu l’enorme accrescimento della produzione globale dell’olio nella Calabria, destinata a superare spesso, l’antica produzione puglie­se, con uno smercio che favoriva le attività di taluni porti tirrenici, i quali non erano mai stati al centro di tale vivacità.

Tuttavia va rilevato che la qualità dell’olio calabrese non riuscì a diventare pari alla quantità di produzione, nonostante fosse diventato un vero fiume che andava a sostenere, la produttività, dei saponi francesi e per ironia della sorte come lubrificante delle macchine dell’industria inglese, proprio in campo tessile.

Così, le macchine inglesi per produrre tessuti marciavano grazie all’olio di quella Calabria che, per produrre quell’olio, aveva rinunciato alla seta e alla tessitura in senso generale.

La conferma che la Calabria fosse diventata il fornitore ufficiale, sin dai suoi primi passi dell’industria inglese, lo riscontra ancora oggi nella misurazione del litro tipico dei frantoi, infatti, l’unità di misura ”il litro oleario” corrisponde a quattro “pinte britanniche” ovvero poco più di 2 litri dell’attuale misura commerciale.

Abbandonata i gelsi e la sericol­tura per la scarsissima irrorazione di capitali e di lavoro specializzato, fece si che l’olivicolture divenne ben presto la risorsa economica che impegnava più famiglie e più nuclei produttivi, mantenuto comunque un livello assai basso rispetto a come era stato per la seta.

Il cambiamento segnava anche la fine di un primato millenario, destinato a ripercuotersi in enormi perdite di capitali che non sarebbero stati più recuperati.

La Calabria, non ha storicamente un’esatta localizzazione sul territorio regionale di esemplari particolarmente estensivi, di uliveti, in quanto, da millenni è presente l’oleaster (in arbereshe liosterà) una sorta di cespuglio spontaneo di olivo, ancora diffusamente presente in molte zone e da cui si estraeva un rudimentale olio.

La piantumazione e la cura della pianta, si deve sicuramente attribuire ai monaci Basiliani, che affinarono questa attività, ed e grazie al monachesimo latino, benedettino, cistercense, certosino, florense, e, infine francescano, che questa attività ha avuto una tradizione che oggi caratterizza con eccellenze il territorio.

L’olivo è segnalato nel Cosentino e sulle coste del reggino dall’epoca sveva; si hanno testimonianze, per il territorio di  Bisignano e Luzzi nella valle del Crati già dal XIII secolo.

Lo testimoniano, le entrate dei feudi cosentini dei Principi di Bisignano tra il 1578 e il 1580, che segna l’inizio della maggiore diffusione della coltura dell’olivo nella provincia e nella regione, causa l’esenzione di tasse,  cui godrà la l’attività fino ai primi decenni del Seicento.

In questo periodo nella Calabria citeriore ebbero un ruolo fondamentale, i profughi arbanon, questi per la loro grande esperienza nel rassodare e porre a dimora ogni genere di coltura da un lato si resero protagonisti nel mantenere i gelseti ancora produttivi e dall’altra rassodare e riconoscere quali fossero i terreni più idonei per vite, ulivo e cereali.

Gli arbëreshë dopo aver rassodato il terreno lo osservavano, lo tastavano, misuravano con le mani la consistenza e poi lo odoravano e ne sentivano il sapore masticandolo.

Una consuetudine antichissima che usava sia per le attività agricole ma anche per quelle d’insediamento per la realizzazione delle “dimore sia in forma estrattiva sia in quella compositiva”.

Oggi, dopo alcuni secoli di lenta ma progressiva espansione dell’olivicoltura, essa è presente su buona parte del territorio della provincia, escluse le superfici occupate dalla catena appenninica e dall’altopiano della Sila ad altitudini in media superiori ai 600 m.

Le maggiori concentrazioni si registrano nella sibaritide, sulle colline ioniche presilane, nella fascia prepolino e nella media valle del fiume Crati.

Resta un dato fondamentale, ovvero, per non aver difeso le attività che rendevano la Calabria l’eccellenza nella produzione della gelsi-sericol­tura, non aver intuito dare forza economica finalizzata a rinnovare la filiera di questa eccellenza, si è finiti per oliare gli ingranaggi delle industri britannica che aveva sottratto il primato.

Oggi che la seta proviene da altre latitudini, le stesse capaci di trarre profitto da quell’attività per la quale ci siamo dimostrati incapaci di saper amministrare, valorizzandola rimane l’olio, che a differenza di quelle epoche si raccoglie dall’albero e si estrae a freddo.

La particolare metodica sommata alle caratteristiche territoriali e climatiche della provincia citeriore e in particolare la media valle del Crati; culla naturale mediterranea, la stessa che consente di caratterizzare gli elementi tipici della “nota dieta mediterranea” riconosciuto diffusamente nel trittico alimentare: ulivo, vite e cereali.

Un equilibrio unico tra ambiente naturale e produttivo, che consente al territorio di auto rigenerarsi, mantenendo le produzioni in equilibrio perpetuo tra di loro.

Sicuramente la perdita del primato della seta è stata un pessimo affare, per la classe dirigente del settecento, ma l’equilibrio naturale che nel contempo gli operosi calabresi e le minoranze storiche sono riuscite a porre in  essere sono irripetibili.

Oggi la produzione dell’olio ha raggiunto eccellenze che nessuno avrebbe mai immaginato, considerando che si è iniziato con il fornire olio per sapone e ingranaggi e oggi l’olio calabresi sono esportati in tutto il mondo con valori di rilievo e raccontano di un olio ambito in tutte le tavole che contano perché in esso è racchiuso il valore unico di:

Colore: verde con venature oro e riflessi color smeraldo;

Odore: fruttato leggero e fresco, con piacevoli sentori di frutta, ortaggi, e cuore di carciofo;

Sapore: sapido, lievemente dolce, con gradevole percezione amara, discretamente pieno e persistente;

Sensazioni: aspettiamo le vostre in Regione Storica Arbëreshë, perché graditi ospiti, di una consuetudine antica.

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LA VIA DELL’OLIO “Kavaljoderë” Nella soglia della via?

Protetto: LA VIA DELL’OLIO “Kavaljoderë” Nella soglia della via?

Posted on 20 giugno 2020 by admin

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I PARALLELI DELLA REGIONE STORICA, SONO MOLTO PIÙ SOLIDI DEI MERIDIANI DELL’ARBERIA. ( mirë se na erdhit; non basta bilia ime!)

I PARALLELI DELLA REGIONE STORICA, SONO MOLTO PIÙ SOLIDI DEI MERIDIANI DELL’ARBERIA. ( mirë se na erdhit; non basta bilia ime!)

Posted on 15 giugno 2020 by admin

Asino e CapraNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – Trattare rispettivamente, in forma di Meridiani e Paralleli la regione storica diffusa arbëreshë è un po’ come diffondere l’arte degli asini che volano, invece di studiare, con profitto e avere consapevolezza delle proprie radici su base storica.

Che cosa abbia reso solida e forte i trascorsi delle genti e la cultura della regione storica più florida dell’Italia meridionale, oserei aggiungere, anche di tutto il bacino mediterraneo; non è la via che seguono i MERIDIANI, giacché è la direzione dei PARALLELI , quella del sole quando della Grecia, inizia a illuminare uomini e territorio sino alla punta più estrema della penisola Iberica; i  veri luoghi della cultura, della storia, del sapere e della sostenibilità degli uomini.

Questo è un dato che, storici e illustri di tutte le epoche sono univocamente concordi ad affermare e sottoscrivere.

Ragion per la quale chi si affaccia da un Meridiano e in ogni dove, divagando, quello che millanta essere “il sapere” dei quadrupedi volanti, non è un bel vedere, sentire o leggere, come  diversamente si adoperano a produrre le persone di garbo e di senso che studiano e divulgano certezze.

La credenza delle genti della regione storica arbëreshë è affidata alla religione, Greco Bizantino, di estrazione Alessandrina, la più solida e duratura del mediterraneo, essa risulta essere priva di ogni      forma di esoterismi e  credenza popolare in figure di “Magare” che sparlano  di generi; quanti divulgano  ciò o sono in malafede o cercano di imitare “il gallo sopra la discarica”(*), in quanto dal pollaio sono stati estromessi.

Tanto meno si possono rievocare le vicende storiche è i patimenti delle genti arbëreshë, del periodo post industriale o dell’alba economico degli anni dopo la seconda guerra mondiale, con prodotti della cinematografia senza avere una solida base storica, affidandosi a  memorie titolate e di sana formazione intellettuale; altrimenti si termina nel seminato del banale o del faceto.

Divagare sulla bandiera identitaria non è rispettoso per tutte le figure che compongono la regione storica; il costume  non è altro che la bandiera per noi Italiani di estrazione arbëreshë,  è un atto di garbo o di buon gusto.

Sicuramente non si è consapevoli di cosa si fa, quando comunemente lo si vuole trattare o divulgare; per questo è indispensabile  sapere che esso, “il costume tipico femminile arbëreshë”, contiene i valori materiale ed immateriale concretizzati nel grande rispetto che questo popolo aveva verso tradizioni, quali: consuetudini prosperità e valori religiosi, questo valori tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, vennero posti a dimora in quello della macro area della valle Crati, lato preSila, e ancora oggi attraverso i colori, le stoffe, gli ori e le tipiche diplomatiche mantiene viva la nostra storia.

Ritenere che il patrimonio storico urbanistico e architettonico della minoranza inizia con il borgo medioevale e finisca con abitazioni, le cui essenze formali e materiche, sono frutto di abusi edilizi, ormai prescritti perché degli anni sessanta, tuttavia così facendo si banalizza quanto con sacrifici professionalità in campo di  Architettura, Ingegneri e storia dell’arte con senso di indagine mira a dare  senso, al genius loci arbëreshë.

Se a ciò si finisce pure nel ritenere che le bevande tipiche prodotto irripetibile del  mediterraneo è meno genuino dell’ importato delle amariche, si fa torto alla vite mediterranea; elemento fondamentale del trittico più ambito da tutto il globo perché equilibrio tra ambiente e natura, inarrivabile.

Per terminare, sugli uomini e le figure che hanno fatto la forza della regione storica,  la fortuna intellettuale di questo popolo; o si conoscono le pieghe della storia dell’etnia o si finisce di vinviare, segnali di fumo e o quanti/e per necessità editoriali, hanno terminato per sostituito  il cavallo del condottiero Giorgio, con la “motoguzza” così come la chiamava in arbëreshë, Maria Rosa Scorzithë.

(*) detto Partenopeo: “U gallu chi canta nhgoppà a munnezza”.

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IL COSTUME ARBËRESHË; È LA BANDIERE DELLE SEDICI MACROAREE DELLA REGIONE STORICA NON È UN ESPERIMENTO SARTORIALE PER LE RAMMENDATRICI DEL PAESE DI FRONTE

Protetto: IL COSTUME ARBËRESHË; È LA BANDIERE DELLE SEDICI MACROAREE DELLA REGIONE STORICA NON È UN ESPERIMENTO SARTORIALE PER LE RAMMENDATRICI DEL PAESE DI FRONTE

Posted on 02 giugno 2020 by admin

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STORIA TRA ALBANIA E NAPOLI: MONUMENTI E ARCHITETTURA  (Dal centro antico di Napoli, al Padiglione Albania della Mostra d’Oltremare )

STORIA TRA ALBANIA E NAPOLI: MONUMENTI E ARCHITETTURA (Dal centro antico di Napoli, al Padiglione Albania della Mostra d’Oltremare )

Posted on 29 maggio 2020 by admin

Padiglione Albania

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Napoli e le sue provincie sin dai tempi dei fondatori sono state, per le caratteristiche climatiche, ambientali e strategiche, luogo di approdo, accoglienza e convivenza tra popoli con diverse ideologie.

Tra queste, resiste imperterrita, allo scorrere del tempo, la popolazione della minoranza storica Arbëreshë, che silenziosamente è protagonista incontrastata sia nelle provincie dell’antico regno e sia nella capitale partenopea.

Il centro antico della storica capitale dell’Italia meridionale, per la sua posizione baricentrica nel mediterraneo, facilitò l’approdo a Romani, Greci, Bizantini, Normanni, Francesi, Spagnoli, Austriaci e tante altre popolazioni e dinastie di rilievo.

Tutti depositarono temi indissolubili, i cui lasciti sono diventati la forza della città, tra questi a partire dal XII secolo,  vanno ricordati anche gli antichi abitanti dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, l’odierna Albania.

Le prospettive naturali, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto; dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine, raccontano attraverso le Carmina Convivalia l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienze turistica.

La città metropolitana di oggi e il centro storico e quello antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione Arbanon, racchiusi ancora oggi nel silenzio più intimo, tra i decumani del centro antico e in tempi più recenti nella piana del quartiere di Fuorigrotta e più in dettaglio all’interno dell’area dell’odierna Mostra d’Oltremare.

Dei due episodi storici di convivenza e cooperazione, il centro antico non corre alcun pericolo per i processi di tutela cristallizzati, giacché luoghi di storia protetta; diversamente accade nell’edificio che pur testimoniando, la prima pagina del rilancio culturale economico e produttivo dell’Albania di settant’anni addietro, non ha avuto lo sperato momento di gloria, cosi com’era stato immaginato dai suoi progettisti.

L’edificio fieristico denominato Padiglione Albania, fu edificato negli anni trenta del novecento, nella Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare di Napoli; dedicato specificamente all’Albania (stato Skipëtaro), unico padiglione, per i rapporti storici che lo legavano all’Italia, a essere contraddistinto con il nome proprio della Nazione.

Forte dell’esperienza barese, all’interno della Fiera del Levante, l’urbanista Gherardo Bosio, progettò il Padiglione di Fuorigrotta, affiancato dall’architetto Pier Niccolò Berardi.

L’opera espositiva a tema, esclusa la breve parentesi dell’inaugurazione, sembra aver assunto le caratteristiche delle pietre tipiche Albanesi e resistere solo per essere contemplato per la sua lapidea durevolezza.

Esso nasce come biglietto da visita delle eccellenze Albanesi, il cui tema architettonico metteva in evidenza le tipiche abitazioni denominate “Kulla” abitazione grazie alla quale le famiglie allargate Arbanon difesero la propria identità linguistica, metrica canora, consuetudinaria, e religiosa.

Diversamente dal progetto che mirava a valorizzare le caratteristiche: storiche, geografiche, della produzione e del lavoro, che avevano contraddistinto, l’Albania sia dai tempi dell’impero romano.

L’edifico si presenta come una struttura in pianta rettangolare, in bugnato e arricchita da aquile di epoca romana ai quattro angoli; la facciata principale ospitava, un ampio loggiato ornato da un altorilievo di Bruno Innocenti intitolato “Il trionfo navale celebrato in Roma da Gneo Fluvio”.

Il salone interno, si presentava rivestito da lastre di marmo apuano, ulteriormente impreziosito da lacunari in vetro di Murano che conferivano alla struttura un particolare irraggiamento.

Il percorso espositivo si sviluppava secondo priorità riferite all’Artigianato e all’Industria della Nazione Albanese dell’epoca, proseguendo, attraverso due scalinate, in marmo posti alla destra e alla sinistra rispetto all’ingresso, si giungeva al primo piano.

Nella scalinata di destra, dominava l’opera pittorica “Albania Romana” di Primo Conti, accompagnando il visitatore verso la Storia dell’Albania; la scalinata di sinistra, sovrastata da un dipinto di Gianni Vagnetti, conduceva alla sezione riservata alle opere che si andavano a realizzare in Albania.

Pregevolissimi erano i materiali archeologici secondo l’allestimento di Luigi Penta: essi consistevano in quattro statue collocate al piano terra, provenienti dallo scavo archeologico albanese dell’acropoli di Butrinto.

Tra queste la scultura della Dea di Butrinto, della quale la sola testa ebbe ragione dei bombardamenti che di li a poco tempo l’avrebbero deturpata.

Il secondo piano ospitava otto teste che non subirono danno e dopo la guerra furono custodite per 20 anni dalla Soprintendenza Archeologica di Napoli prima di essere restituite all’Albania nel 1967.

Dopo appena un mese dall’inaugurazione, la Triennale delle Terre d’Oltremare fu chiusa a causa della guerra e nel corso del conflitto gli americani occuparono la Mostra per allestirvi il 21st General Hospital allocandovi nei suoi spazi le sale operatorie.

Con la fine della guerra, il polo fieristico rimase abbandonato fino al 1948, quando si diede avvio al progetto per la ricollocazione fieristica del polo, conclusa nel 1952 con la conseguente inaugurazione con titolo il Lavoro Italiano nel Mondo.

La manifestazione segnò anche l’inizio di una lenta e inesorabile manomissione del tema architettonico originario, stravolto per aver modificato alcune strutture identitarie dell’antico progetto, perché profondamente danneggiate dai bombardamenti.

Oltre ciò, nel corso del rifacimento il padiglione venne convertito, con poca attenzione del suo originario tema, intitolandolo al Lavoro Italiano in Oceanica.

Tuttavia, la nuova mostra non ebbe il successo sperato e chiuse, dando così avvio ad un secondo abbandono dell’ edifico, che questa volta si protrasse per oltre quattro decenni.

Alla fine degli anni ’90 furono messe in atto le prime manovre per il ripristino dell’area fieristica, che culminarono nel 2001 con la gestione di Comune di Napoli, Regione Campania e Camera di Commercio.

Da allora sono stati fatti grandi passi in avanti verso la definitiva riqualificazione dell’area, ma ciò nonostante il Padiglione Albania, fu abbandonato èd ebbero inizio le drammatiche vicende di abbandono e l’ovvio degrado.

L’ingresso all’edificio, infatti, è a oggi circoscritto da un muro in cemento che ne impedisce vista e accesso, la cui naturale conseguenza è la perdita immateriale del suo significato storico e l’inesorabile cedimento del suo particolarissimo bugnato. 

Tutta la vicenda del padiglione Albania cui si deve porre rimedio e dare lustro, sino a oggi si possono sintetizzare nel dato, che non rientra ne fa parte di questa analisi,specie quelle legate all’ultima vicenda che ha visto l’intero piano di riqualificazione dell’comparto, oggetto del ritiro dai fondi europei previsti per la sua riqualificazione.

Alla luce di ciò e di tutte le vicende storiche che legano Napoli, il meridione d’Italia e l’Albania, devono porre in essere attività in concertazione tra le istituzioni, affinché il padiglione assuma quella funzione di fratellanza storica, economica, sociale, culturale, religiosa e politica per il quale venne innalzato e contro ogni avversità degli uomini continua a resistere imperterrito.

Il Padiglione Albania, allocato all’interno della mostra d’Oltremare, non è un semplice involucro fieristico reversibile, e adattabile a ogni genere di avvenimento, in quanto, nasce come emblema storico di cooperazione e diffusione delle eccellenze di oriente e di occidente cordialmente convergenti nel bacino mediterraneo.

Un monumento realizzato a tema per unire l’Italia ospitante e l’Albania ospite, una caratteristica parallela che unisce i due ambiti territoriali posti di fronte e quanti hanno avuto la possibilità di farla brillare, non possedevano lo spirito storico culturale per comprendere il ruolo che esso doveva assumere.

Oggi le istituzioni Albanesi e Italiane dovrebbero rendere merito alla caparbia durevolezza di questo manufatto, segno di unione di due popoli e terre parallele, predisponendo misure adeguate per confermare il legame tra le due nazioni, essendo l’Italia, anche la patria ospitante la minoranza storica più numerosa del meridione italiano: gli Arbëreshë.

Per questo, urge istituire un comitato tecnico, politico e scientifico, al fine di concertare, appropriate iniziative per restituire al manufatto gli  originari temi divulgativi dei territori oltre adriatico sia dal punto di vista sociale e sia produttivo, degli Albanese a Napoli.

Basterebbe spolverare protocolli tecnici e porre in armonica cooperazione i Ministeri della Cultura, del Turismo, degli Esteri e dell’Industria, oltre Regioni, Provincie e Comuni, per rendere l’edificio, un luogo d’incontro per la minoranza storica arbëreshë, che con le sue eccellenze è stata sempre in prima linea con le vicende storiche partenopee, ancora oggi solidamente connesse alle realtà sociali culturali ed economiche meridionali.

Il padiglione Albania alla mostra mediterranea potrebbe diventare l’emblema di un trittico culturale senza eguali, per questo, attraverso il giusto progetto di restauro funzionale, si potrebbe allestire attività in rappresentanza di una Regione Storica Arbëreshë e della Nazione Albanese in terra d’Italia.

Un vero e proprio manifesto fieristico espositivo,da cui far emergere l’espressione culturale, senza soluzione di continuità, secolare, al fine di rendere merito al modello  sociale, culturale, linguistico, consuetudinari e religioso, tra i più solidi del bacino mediterraneo, frutto della buona cooperazione di radici solidali.

Il padiglione Albania monumento unico nel suo genere, rappresenta, il luogo in cui convergono culture diverse, per confrontarsi, per far emergere le cose buone dei due paesi di fronte, proprio come “l’Aquila bicipite”, che rappresenta un solo corpo, forte e solido, con le prospettive di orientamento ricolte sia a oriente e e sia a occidente.

Uomini culture religioni e operosità messi a confronto per migliorarsi e spargere esempi attraverso gli elementi caratteristici della regione storica arbëreshë, l’esempio mediterraneo di cui Napoli e l’antica Albania, hanno reso possibile, da sei secoli e senza soluzione di continuità sino a oggi.

 

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