Archive | In Evidenza

LE RADICI PROFONDE DELLA CULTURA ARBËRESHË

LE RADICI PROFONDE DELLA CULTURA ARBËRESHË

Posted on 14 marzo 2021 by admin

StoriaarberesheNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando si affronta un tema così delicato e “profondo”, come la radice dell’identità di un determinato popolo, bisogna essere opportunamente formati e avere, un bagaglio di ricerca acquisito a seguito di un caparbio percorso di ricerca.

In tutto, esperienza storica supportata con titoli e dati dati, la cui trattazione è  professionalmente rilevata, sia nell’ambiente naturale e sia in quello del costruito, nei tempi e nei modi dei protocolli che garantiscono il giusto prosegui di quanto posta a dimora.

Non basta  vestire  colori variopinti in forma idiomatica, stringendo comunemente per mano, laceri volumi trovati in archivi e biblioteche,  per ritenersi capaci di selezionare  l’humus ideale, perché così saccenti, non si offre alle radici trapiantate nei paralleli luoghi, la giusta ossigenazione, producendo pena culturale, per i futuri germogli.

Operare o delineare la storia di minoranze storiche, si deve conoscere passato, presente per essere in grado di proiettare nel futuro le reali necessità di tutela, dei parallelismi mediterranei posti tra il 18etismo e il 42esimo parallelo,  fascia in cui la radice riconosce diffusamente il suo ambiente naturale,basta solo risalire la china collinare; non serve altro specie i noti e ripetuti  adempimenti sterili in forma culturale, come da diversi decenni  operano,  verso la sostenibilità fuori terra, della radice arbëreshë.

Per questo motivo è giunto il tempo di iniziare a dare significato alla storia degli arbëreshë, dai tempi in cui errano appellati  Arbanon o Arbëri, dalla radice pura della, famiglia allargata Kanuniana, vera è unica risorsa organizzativa, consuetudinaria, in senso di scuola di tradizioni, valori, rispetto mai tanto solidi e radicati in altri popoli del mediterraneo.

La loro notorietà germoglia quando l’impero romano era tanto esteso che la capitale fu trasferita a Costantinopoli e l’impero per difendere i suoi confini inventò i famosi gruppi militari di frontiere, tra cui brillarono nelle aree balcaniche gli Stradioti, “Soldato Contadino”.

Sono loro organizzati secondo il modello di famiglia allargata Arbanon che diventano esempio di garanzina di confine, autonomamente sostenibili e nello stesso tempo garantire remunerazioni annuali  al governo centrale.

Essi rispondevano oltre modo a due domande; la prima alla sostenibilità del gruppo familiare rendendo fertili i terreni a loro disposizione; oltre a garantire una figura all’esercito di frontiera, adeguatamente formato, armato e agile cavaliere.

Sono questi uomini che ben presto renderanno famosi gli arbëreshë, nelle strategie militari, specie a seguito della battaglia dei merli, nell’odierno Kosovo.

A seguito di questa storica battaglia  fece seguito, dopo qualche anno, la stipula dell’Ordine del Drago, un patto di mutuo soccorso per quanti non potendo, da soli, battersi contro le soverchianti forze militari turche, la cui finalità mirava a ricattare i principi Arbanon, sottraendo la discendenza maschile, per terminare la conquista, senza incutere distruzioni radicali al territorio.

Tra questi faceva parte anche il principe Giovanni Castriota, cui  sostrati i quattro figli subì l’inesorabile ricatto, sino a che, Giorgio, in più piccolo dei figli diverrà, dopo una lunga serie di avvenimenti, una spina nel fianco dei turchi.

La sua strategia di conservazione, conoscendo la potenza di fuoco dei turchi lo fece diventare l’ago della bilancia che intensificò l’esodo degli esuli albanesi nelle terre parallele del meridione, da un lato; e dall’altro dispose strategie per non sgretolare le terre degli storici governatorati.

L’esodo  sempre stato florido dalle terre dei Balcani verso l’adriatico, vide prima  Venezia protagonista , dove la richiesta in garzoni di bottega a riscatto vedeva preferire gli arbanon per il forte attaccamento ai patti stabiliti; poi in seguito nelle coste delle Marche come bonificatori eccellenti per porre a dimora il trittico mediterraneo, che ancora oggi caratterizza quelle colline.

Tuttavia, Giorgio Castriota, volgarmente denominato Scanderbeg (*), dalla battaglia di Terra Strutta nei pressi di Greci (AV) e le innumerevoli partecipazioni dirette e indirette a favore dei casati Aragonesi, gli stessi facente parte del patto di mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, divenne lo stratega che disegnò  le arche di allocamento che diedero modo di occupare agli arbëreshë, secondo un progetto strategico studiato a tavolino, quando a Napoli fu ospite del re Aragonese.

Se escludiamo alcuni aiuti militari che i principi albanesi offrirono ai regnanti del meridione, al papato, a Venezia e le restanti insule bizantine, il vero esodo degli Arbanon verso il meridione, dal 18etismo e il 42esimo parallelo,  iniziato dopo la battaglia di Terra Strutta, intensificandosi dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota, nelle odierne sete regioni meridionali, secondo arche facente parte di una strategia di controllo a favore sempre degli aragonesi, poi dismessa, escludendo qualche eccezione, solo dopo l’Unità d’Italia.

La stessa strategia che vede accolta a Napoli  nel 1469 la moglie dell’eroe Arbanon e dopo qualche decenni grazie alle direttive degli esuli insediati, porre fine alla congiura dei baroni di simpatia francofona.

Questa ultima nota è la conferma che  i cento e nove paesi che si andavano innalzando, sarebbero stati una garanzia in forma militare e rimanere viva secondo il modello consuetudinari originale, una  forza che radicava la sua difesa nella  lingua parlata non scritta, impenetrabile e un credo religioso in linea, per discendenza, a quello di Roma.

 

“Sono trascorsi i venti minuti, si continua nel prossimo intervento”.

Commenti disabilitati su LE RADICI PROFONDE DELLA CULTURA ARBËRESHË

UNA DIPLOMATICA ARBËRESHË

UNA DIPLOMATICA ARBËRESHË

Posted on 11 marzo 2021 by admin

Diplomatica

NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – È stato scritto che esistono due storie, quella, ufficiale menzognera, comunemente diffusa, insegnata e raccontata ovunque, senza remore; poi c’è la storia segreta, “quella vera”, dove si trovano le gesta di uomini, avvenimenti colmi di attività in forma di lealtà tradite, sotterfugi e fatti impronunciabili.

Quale di queste due ha determinato gli ambiti per la permanenza identitaria arbëreshë, in questo breve, sarà lo scopo che si vuole perseguire, tracciando, con cura e dovizia di particolari politici, sociali, religiosi, con padronanza linguistica, al fine di confrontare minuziosamente carte, territorio e uomini.

Una vera e propria diplomatica dei tempi moderni, come si usava fare per scoprire le menzogne dei grandi imperi, gli avvenimenti, gli uomini e le nazioni che ne ebbero i conseguenti benefici, in tutto dei vincitori, specie di quanti senza gloria e meriti, si è seduta, “sulla cattedra”, privi dei basilari concetti di come e quando utilizzare la seggiola trafugata ai giusti.

Per discutere, parlare esporre o dialogare della regione storica arbëreshë, serve consapevolezza, prima di ogni altra cosa, per smettere di appellarla, arberia, in quanto, il sostantivo non ha alcuna attinenza con gli arbëreshë perché, riferisce di una parte minimale del territorio che fu dell’Epiro nuova e dell’Epiro vecchia, ai tempi in cui la capitale dell’Impero romano era Costantinopoli e sino al XV secolo.

Un paese Arbëreshë non è semplicemente un borgo o burgensis napoletano (‘o buvarése), dove abita gente che parla, balla, fa mercato e prega secondo consuetudini diverse, regolati dall’esclusiva metrica linguistica.

A tal proposito è bene precisare che i paesi arbëreshë sono cerniera dove avviene il confronto perenne di accoglienza culture, i cui presupposti ideali per convivere trovano le radici in antichi principi culturali.

Gli stessi che esperti dipartimentali di storia antica e moderna, riferiscono che se fossero stati noti ai romani, essi ancora oggi avrebbero tenuto vivo il loro impero dismesso.

Per questo i Katundë non devono essere considerati museo, piattaforma da cui emergono idee alloctone perché poi ristorate da quanti ignorano il valore del territorio, del costruito e di ogni adempimento vivo all’interno dei centri antichi della minoranza storica.

Un Katundë rappresenta la culla del confronto culturale e il suo futuro non può essere pianificato comunemente, perché solo seguendo la retta via, dettata dalla radice sotto terra riflessa nello sviluppo esterno la rendono, tassello indispensabile del modello d’integrazione tra i più solidi e duraturi del mediterraneo.

Da ciò, ogni volta che si vuole sporcare un muro, trasformare un’abitazione, chiudere una strada, modificare finestre porte apponendo materia anodizzata, sostituire un tetto, violare la toponomastica, piantumare essenze arboree alloctone piantare campi di ulivo o coprire addirittura i corsi storici fluviali, si commette una grave violazione alla propria identità storico/culturale.

Allo scopo, per evitare che si ripetano queste libere consuetudini senza gloria e tempo, occorre un confronto genuino e civile, tra vecchie e nuove generazioni, premesso che, queste ultime ancora non certificate, abbiano ventennale padronanza linguistica, siano in possesso di titolo idonei e umiltà culturale sufficiente, per acquisire i valori da ereditare.

Un “paese arbëreshë” non è un” borgo” e quanti li chiamano per una moda senza senso, ignorano il significato di questo sostantivo, almeno nell’uso che esso aveva nelle vicende storiche di espansione nel regno di napoli dal XIV secolo in avanti.

Un “paese arbëreshë” non si gestisce con gli orientamenti politici, né con le classi comunemente dominanti o organizzate, come avviene nei modelli fallimentari che mutano le idee, secondo chine, stagioni e mode che scorrono senza lasciare memoria.

“Katundë” non a caso vuol dire “il luogo del movimento” e non è ruotare attorno a se come fine prioritario, in quanto luogo del movimento è anche la culla del confronto, dove la radice delle proprie idee rimane intatta, nonostante si apra verso forme di dialogo, ma senza mai capitolare o sopraffare il proprio patrimonio.

Un paese arbëreshë è il luogo in cui si muovono uomo e ambiente naturale; l’uomo costruisce le sue dimore per mitigare le esigenze della natura, questa risponde e offre presupposti climatici, come premio delle comune sostenibilità, gli stessi che l’antica teoria di Aristotele diceva essere la migliore crescita per i buoni popoli, rispetto ad altri non proprio mediterranei.

Un “Centro antico” arbëreshë non è “la gjitonia come il vicinato”, il quartiere, il rione, le porte che menano sulle piazze o su una storta o dritta via, non è neanche il semplice luogo dove si scambia il lievito quando arriva il tempo per panificare.

Quando si discute e si espongono le caratteristiche tipiche dei centri antichi, da con confondere con i centri storici, si tratta di gjitonia  e in queste poche righe si vuole dare una solida e sintetica definizione:essa è il luogo dei cinque sensi arbëreshë, .

Essa non è altro che un laboratorio dove si intercettano le antiche radici del gruppo familiare allargato, lo stesso che nel corso dei secoli ha migrato per imposti modelli economici e sociali: prima nel concetto di famiglia urbana; per terminare oggi, nelle settiche paludi del modello metropolitano che isola persino i conviventi.

Un “casale” arbëreshë, non ha quartieri, potendo però fare un parallelismo con i rioni che nella fattispecie arbreshe si possono per certi versi e non completamente al concetto di sheshi; insieme di strade, vicoli e larghi definiti dagli elevati edilizi dell’antico ceppo.

È  l’insieme di sheshi allocati secondo regole strategiche che definisce l’insieme urbanistico del centro antico dei Katundë arbëreshë, che ha seguito solo dopo che vennero ritrovato i caratteristici ambiti paralleli della terra di origine, realizzando i tipici sheshi, organizzati in maniera  impenetrabile vicino la chiesa, nel punto di strategico di avvistamento, nel luogo più soleggiato e quello dell’unione.

Storicamente hanno gli stessi toponimi e disposizione in tutti i paesi delle regione storica che in sette regioni meridionali sommano più di cento agglomerati, che in egual misura sfuggono nell’essere alla lettura e alla finalita per la quale furono organizzati  

Questo è solo un accenno dedicato a quanti immaginano che parlare per nome e per conto degli arbëreshë e della loro storia, basta andare a scartabellare le carte degli archivi delle diocesi che furono bizantine, per poi proporre percorsi storico identitari che lasciano in tempo che trovano, perché esse stesse sono la negazione di se stesse.

Parlare o definire le tracce storiche degli arbëreshë ha bisogno di studio, intuito, tempo e pazienza, tanto meno si può paragonare a un punto di vantaggio, segnato nella rete di un campo di calcio, dove chi grida di più è ha la bandiera da sventolare crede di essere l’unico ad aver visto la rete gonfiarsi.

Commenti disabilitati su UNA DIPLOMATICA ARBËRESHË

UNA STORIA AI MARGINI DEL CENTRO ANTICO (Ka Kisja Vieter)

UNA STORIA AI MARGINI DEL CENTRO ANTICO (Ka Kisja Vieter)

Posted on 05 marzo 2021 by admin

Elio Formosa 1948NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – I prodigiosi eventi in continua evoluzione, che vorrebbero valorizzare ambiti e manufatti secondo le disposizioni dei Beni Culturali, sfuggono al controllo degli organi preposti, notoriamente pronti ad accogliere le allegorie della manovalanza locale, presa in prestito dalle attività agricole, silvicole e pastorali, in tempo di maggese.

Se in Italia, i Beni Culturali iniziano a essere tutelati in Toscana nel 1571, affinando ancor di più la tutela nel 1602, obbligando la popolazione a munirsi di licenza, rilasciata da giusta commissione Ducale.

Da quell’epoca un susseguirsi di leggi si affina sino decreto lgs. n. 42/2004 per i Beni Culturali e Paesaggistici e per la prima volta si giunge a dare una definizione di bene culturale, con due provvedimenti a tal fine, rispettivamente, in materia di beni culturali e di beni paesaggistici, nel 2008.

Predisponendo leggi per ogni elemento materiale, immateriale e ambientale con specifico interesse artistico, storico, archeologico, archivistico, bibliografico, etnoantropologico, nonché un interesse quali testimonianze aventi valore di civiltà.

Tuttavia per essere riconosciuti e tutelati dalla legge sui beni culturali, devono essere dichiarati tali, con giusto atto di notifica della dichiarazione d’interesse culturale storico-artistico.

Questo iter ha seguito anche il manufatto architettonico, che segna ancora oggi, l’estremo più a nord del piccolo centro antico posto lungo la strada grande e nonostante sia stato un solido riferimento per la storia e gli uomini  vissuti e formati grazie ad esso, l’apparire a oggi del luogo lascia a dir poco amareggiati.

Un complesso considerato povero, sottovalutando e abbandonato nelle mani dei meno adatti, che in poco più di cinque decenni è stato condotto verso una china vergognosa, in quanto  è stato dilapidato sia il valore storico e architettonico, oltre l’insieme di funzioni, lasciando nella memoria locale, esclusivamente il suo identificativo toponomastico Ka Kisja Vieter, l’evidenza sottolinea  quanto  poco rispetto è stato rivolto alla fabbrica e al luogo  e al suo senso in forma generale.

La chiesa, nel IX secolo, quando fu edificata, divenne anche campo di sepoltura cristiano, dove la maggior parte della popolazione trovava il riposo eterno, nell’ipogeo, attraverso due botole, la prima allocata davanti alla porta principale e l’altra nei pressi dell’altare, in complesso sotterraneo, esclusiva di  battezzati e cittadini illustri; di contro  la  prossimità esterna verso nord fuori da costruito, era il luogo dove trovava sepoltura, il ceto medio, i forestieri, le persone uccise, i suicida, gli adulteri, i ladri , i pagani, i laici di grande santità.

Senza entrare in dettagli storici e architettonici che renderebbero la vicenda a dir poco paradossale, andrebbe quantomeno ripristinano il senso e il valore dell’insieme chiesa ipogeo e campo per il riposo, oggi fuori da ogni logica di buon senso o rispetto, sia dal punto di vista religioso e sia di quello della memoria di quanti hanno fondato e fornito le solide basi culturali e religiose della popolazione che oggi vive il centro storico.

Avere nel proprio territorio un presidio religioso, il quale, senza soluzione di continuità ha consentito di pregare secondo credenze indivisibili, senza mai perdere la direzione, del IX secolo sino a oggi, dovrebbe esse un valore aggiunto, fosse solo per il dato inconfutabile che ha visto, prima soldati bizantini e poi dal XV secolo esuli dall’Epiro vecchia ed Epiro nuova, gli Arbëreshë pregare sempre con la stessa favela e melodia.

Nonostante le ingerenze e i numerosi tentativi dei Vescovi Latini, dopo il concilio di Trento, la chiesa ha sempre elevato inni greci e arbëreshë, sempre rivolti verso la madre della chiesa di Costantinopoli.

Descrivere  oggi cosa rappresenta il complesso è complicato e molto difficile, in quanto dal punto di vista della credenza è stato persa la memoria del luogo, intatto esclusivamente il nome che lo lega alla santa madre.

Dal punto di vista architettonico non appare nulla se si esclude l‘orientamento del manufatto, il quale rimaneggiato nella totalità dei suoi elementi murali verticali orizzontali e inclinati, conserva tratti di muratura che andrebbe indagato per poi predisporre le misure idonee per la loro ricollocazione.

Planimetricamente è stato stravolto l’intero impianto distributivo, reso unico ambiente con l’abside rialzata, si può supporre che per l’economia con cui fu approntato il progetto degli anni cinquanta del secolo scorso, sotto la lamia del pavimento si conservino ancora le fondamenta e gli innesti che componevano la distribuzione in terna del sacro volume.

Allo stato dei fatti e degli avvenimenti susseguitisi oggi restituiscono un quadro desolante e adir poco irrispettoso delle cose divine e del ricordo dei morti.

L’ingresso principale ha perso la sua prospettava dalla vecchia strada grande; la gradinata di penitenza è stata chiusa lasciando il posto a un pino che impedisce al sole di segnare il tempo delle sacre funzioni, il volume ha assunto forme e dimensioni di un deposito e quello che più duole lo storico luogo del riposo è diventato capo di ulivo, una miscellanea di eccessi che non trova ne spiegazioni e ne commenti per il poco valore che si è dato allo storico presidio.

Oggi rimane solo qualche foto, le descrizioni di memoria, descrivendo il quadro in forme e allocamento degli elevati della chiesa, l’antica forma e le linee generali del suo contorno.

Avviare un ‘indagine conoscitiva del luogo e produrre un progetto finalizzato al rispetto delle carte del restauro, deve essere l’impegno di tutte le figure istituzionali e non, del centro abitato, escludendo ogni sorta di maestro d’ascia che possa ulteriormente stravolgere ancor di più un emblema storico locale che appartiene non solo ai residenti del piccolo casale arbëreshë, ma è un tassello indelebile del patrimonio dell’umanità.

P.S.    –     La foto fa parte dell’archivio fotografico del prof. Elio Formosa

Commenti disabilitati su UNA STORIA AI MARGINI DEL CENTRO ANTICO (Ka Kisja Vieter)

IL GJITONICIDIO ARBËRESHË

Protetto: IL GJITONICIDIO ARBËRESHË

Posted on 21 febbraio 2021 by admin

Il contenuto è protetto da password. Per visualizzarlo inserisci di seguito la password:

Commenti disabilitati su Protetto: IL GJITONICIDIO ARBËRESHË

GJITONIA

GJITONIA

Posted on 15 febbraio 2021 by admin

CasaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Per giustificare il non essere uguale agli altri e poter entrare di diritto, nella lista della legge 482 del 1999, si è voluto dare un titolo a una delle minoranze storiche Italiane, assegnando per questo l’identificativo: Gjitonia Arbëreshë.

Da allora in avanti senza indagini mirate, in forma storica, linguistica, sociale, architettonica o urbanistica, fu allestito un volgare e improprio mercato di enunciati, tra i più gratuiti, incauti e incoerenti che la storia dei popoli Europei possa vantare.

Comunemente tradotta come vicinato, è stata perennemente associata a manufatti di falegnameria, architettura, urbanistica e ogni sorta di apparato senza spazio, senta tempo e senza uomini, che nel contempo conteneva, arbëreshë, in poche parole il tutto di un nulla.

Tra le più inopportune ricordiamo: Gjitonia una parte del paese; Gjitonia come il vicinato; Gjitonia il luogo del criscito; Gjitonia prima del parente; Gjitonia il trittico architettonico; Gjitonia il rione; Gjitonia il quartiere; Gjitonia le porte prospicienti una piazzetta o una strada oltre a un innumerevole quantità di temi di concetti copiati e riportati male, al fine di colpire l’immaginario collettivo, ancora senza pace.

Non ultimo quello di riportare il concetto di vicinato estrapolato per la vergogna sociale che avvolgeva i sassi di Matera, quando le genti di quei luoghi, vivevano ancora nelle caverne agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso.

In altre parole il teorema del vicinato mediterraneo, rielaborato in forma arbëreshë, da quanti della minoranza non sapevano di lingua, di consuetudini o possedere almeno rudimenti di storia moderna.

Che la gjitonia sia un applicativo sociale tra i più raffinati del mediterraneo è una cosa, cercare di associarla volgarmente ad aspetti di natura materiale o immateriale di altre popolazioni, è un errore che denota, il poco rispetto verso gli uomini e la storia della minoranza arbëreshë.

Quando per un arbëreshë la si nomina, gjitonia risveglia concetti antichi, la cui misura non ha una dimensione,  una metrica possibile, essa insinua le sue radici nel protocollo Kanuniano, che sino al 1936 non era ancora stato scritto e per questo solo chi era arbëreshë poteva conoscere.

In altre parole, i principi etici, prescrizioni legali presenti ancor prima dal medioevo nelle terre dei Balcani, la cui compilazione scritta è tradizionalmente attribuita a Lekë  Dukagjini; si tratta di precetti tradizionali divenuti i principi della vita sociale, una vera e propria legge civile.

Si potrebbe definire, lavoro di sgrossamento intellettuale per il beneficio della comunità, tramandato soprattutto in forma orale, formando per questo la base della regola sociale, giuridica e commerciale, in quelle zone impervie dove a fatica penetravano i poteri statali o imposti da stranieri.

Da ciò si deduce che quando gli arbëreshë approdarono nelle terre del regno di Napoli, una volta intercettati i luoghi per la dimora, secondo disposizioni e agevolazioni regie, furono lasciati ad organizzare spazi e luoghi secondo le proprie consuetudini e adempimenti sociali.

Non vi è dubbio alcuno che l’elemento pulsante che si allargava e si restringeva ciclicamente era il gruppo familiare allargato secondo le disposizioni del Kanun.

La famiglia allargata, formata da padre, madre i figli, le proprie compagne/compagni e le rispettive proli, un gruppo che non minore di una dozzina di addetti tra maschi e femmine, ognuno dei quali e delle quali , erano affidati specifici ruoli.

Il gruppo nel tempo quando cresceva, sino a poco più di venti unità, si sdoppiava e creava un nuovo gruppo in prossimità .

Il modus operandi andò sempre più progredendo e integrandosi nelle attività sociali in continua evoluzione, specie seguendo i processi economici e sociali delle nuove epoche, da ciò il modello di famiglia allargata dovette cedere il passo al modello di famiglia urbana.

È proprio questa famiglia che dal XVII secolo diventa il modello sostenibile, vera e propria resilienza dei legami familiari allargati di un tempo.

Passaggio epocale da gruppo familiare coeso, si assiste allo sgretolasi in forma numerica dei componenti che non è più numeroso, come un tempo per rispondere la sostenibilità economica vissuta, ma si restringe e costruisce i propri spazi privati.

Quando la famiglia da gruppo allargato diventa gruppo sociale urbano non più isolato come ai tempi del Kanun, va alla ricerca dell’antico ceppo familiare e l’elemento che garantisca il riconoscimento di quegli antiche legami.

Notoriamente  intercettato nelle armonia condivise dei cinque sensi ed è qui che si avverte il senso di Gjitonia tatto, odori, sapori, suoni, e forme senza un confine circoscritto, condiviso,  come quando la famiglia allargata, aumentava per poi stringersi e riconfigurarsi in se stessi.

A tal proposito trova ragione l’enunciato: la Gjitonia dove vedo e dove sento; inteso come, il luogo della ricerca degli antiche legami familiari ai tempi della migrazione, a patto, che si avverta la sinfonia dei cinque sensi condivisi.

Commenti disabilitati su GJITONIA

SPERANDO CHE FINISCA L’INFERNO

SPERANDO CHE FINISCA L’INFERNO

Posted on 13 febbraio 2021 by admin

PIsa1NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando la tutela della diversità storica, culturale, civile e religiosa, palesemente mira all’apparire, coinvolgendo per questo testimonianze di secondo ordine è il segno che il diffuso interesse è complementare al singolo.

La metodica del gruppo ormai è palese in tutte le manifestazioni, per quanti conoscono e hanno consapevolezza dei ricorsi storici e di come vengono allestiti.

Alla luce di ciò ogni volta che si esprimono teoremi, concetti o divagazioni su cosa, siano gli elementi caratteristici e caratterizzanti i minoritari o i luoghi in forma di città aperte, si termina in ogni sorta di alchimia attribuita alla macro area d’interesse, utilizzando la solita metodica, che inizia, si svolge e termina, in un nulla di fatto.

Se poi si sostituisce l’inverno all’estate, generando, come di sovente avviene, uno stato che non esiste, si può affermare con estrema precisione che il vaso di pandora è pubblicamente aperto e il comunemente dilaga senza vergogna.

Ancora oggi dopo una lunga stagione di leggi, provvedimenti e atti, allestiti rispettivamente sotto la falsa bandiera della tutelare, del tangibile e dell’intangibile, si dispongono le più variegate purpignere (vurvinë), avendo cura che siano ben distanti dalle latitudini di interesse, anzi addirittura non mediterranee.

Poi se si cerca di approfondire quale sia la ricetta, si entra in un mondo di paradossali favole; percorso di ricerca, in cui lo scrivere del favellare è sempre anomalo.

La compilazione dei temi è a dir poco elementare, volendo essere magnanimi, si potrebbe dire da scuola media di primo grado, questi in specie trattano divagazioni che spaziano dal comune idioma, alla trattazione senza titolo, di elementi urbanistici, architettonici, sociali e materici per terminare, nel luogo senza identificativo.

Oggi si fa un gran parlare dei temi di accoglienza, fratellanza, integrazione o non discriminare i generi, in pubblica piazza o sul palco per apparire, poi nel chiuso delle istituzioni, si lavora alacremente per trovare gli elementi che dividono, annotando cosa rende diversi gli uni dagli altri, sia essa una minoranza storica o maggioranza territoriale, terminando nell’intercettare addirittura cosa rende ogni individuo diverso dall’altro che gli sta accanto, con la frase:  noi  diciamo così.

Si parla senza consapevolezza della diversità culturale di macro area in ogni centro abitato, pubblicando addirittura adempimenti editoriali di parlata locale, con la nota di espressione d’area, in altre parole si va alla ricerca di cosa divide e non di cosa unisce.

Sarebbe più utile rilevare cosa caratterizza o cosa accomuna tutti i centonove agglomerati urbani della regione storica, specie le aree dove trovano espressione identica il costruito, sia dal punto di vista delle architetture e sia della disposizione urbanistica.

Non si è mai discusso di quali siano stati o sono gli elementi idiomatici che accomunano la regione storica e poi magari solo in seguito a consolidamento avvenuto, accennare le intimità che caratterizzano le varie discendenze attraverso le innumerevoli parlate.

Si esprimono pareri paradossali, che a tutt’oggi non danno ragione al fenomeno sociale, detta Gjitonia, associata comunemente a Quartiere, Rione, o parti distinte del centro, in senso generale, senza distinguere la parte antica da quella storica, tutti comunemente per poi terminare, nel concetto di vicinato; componimento estrapolato da ricerche risalenti al 1954 per altri temi minoritari.

Si esprimono teoremi sulla Valja ritenendola forma di ballo di macro area, senza riflettere sul dato che si tratta solo ed esclusivamente di un canto tra generi senza musica.

Così come non si ha consapevolezza dei Riti di Pasqua, l’inizio dell’estate, l’appuntamento storico del genere umano che lascia l’inverno alle spalle e da inizio alle attività produttive.

Un rito antichissimo importato dalle terre dell’Epiro, il modo antico di suggellare l’integrazione la convivenza tra modi di essere non uguali, unendo in leale convivenza minoranze e maggioritari, al ricordo dei defunti, che in quelle terre trovano perenne dimora, Vlamia.

Questa fa parte di quella manifestazione che ogni paese da luogo e che storicamente era appellata “Verà”: momento solenne dove i minori in costume e con il viso mascherato, accoglievano gli indigeni prima di recarsi in fraterno rispetto, verso i luoghi di sepoltura; e come segno di accoglienza, ironizzavano con canti in lingua diversa facendo apparire il ballo come manifestazione di giubilo, celando lo scherno.

Su questa rotta di adempimenti inopportuni, continuare per grandi e piccoli errori, senza mai terminare nel restituire valore alle cose, al più presto chi di dovere si assuma la responsabilità del tutto perso e nulla  tutelato.

Se si continua ad abbellire la propria meta, senza intuire che quando gli edifici collassano, trascino tutto ciò che lo compone senza preservare nulla.

Commenti disabilitati su SPERANDO CHE FINISCA L’INFERNO

LA CHIESA DI SANTA SOFIA

LA CHIESA DI SANTA SOFIA

Posted on 11 febbraio 2021 by admin

Elio FormosaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Dal VII secolo, il territorio dell’odierna Italia, aveva terminato di essere un continuo territoriale di pertinenza geopolitica romana; e il confine a sud divenne il corso dei fiumi Crati e Savuto, dalle coste del Tirreno di Amantea sino a quella Joniche dalla Sibaritide (4).

Per la difesa trovarono dimora numerosi distaccamenti di soldati: Longobardi nel versante nord, a sud i Bizantini, in specie lungo la strada di costa che da Rossano conduceva verso Bisignano e Cosenza.

I soldati preposti al controllo in sicurezza, si disponevano lungo il camminamento Rossano Cosenza, risalendo i greti degli affluenti storici del Crati, da sud.

Questi per difendersi anche dagli avversari naturali invisibili,  giunsero in quei promontorio altimetrici, che nel caso di Santa Sofia, divide la depressione dove scorre il torrente Galatrella e il vallone del Duca.

Lungo lo storico camminamento, iniziarono a costruire i presidi abitativo e  religiosi monocellulari, per questo il camminamento da Rossano a Cosenza fu interessato dal fenomeno d’insediamento; prova ne è altri il costruito nei pressi della via “Caminora” a Sant’Adriano, anch’esso di credenza bizantina, orientata verso la Grande Madre Chiesa di Costantinopoli.

Tra le diocesi di Cosenza, Rossano e della Calabria in maniera diffusa; non si commette errore, nel citare la Chiesa di Bisignano, di S. Sofia e altre in Acri, Luzzi, Rose, San Demetrio e San Cosmo.

Ciò è confermato oltre che dalla credenza ancora viva, in queste località, anche dal commercio tra i Greci di Costantinopoli, e la diocesi di Bisignano, le cui testimonianze oltre che nelle chiese, si collocano nell’abbondanza dei prestiti idiomatici ancora in uso nella macro area.

Tornando alla Chiesa elevata in Santa Sofia Terra, essa caratterizza il toponimo locale dalla sua edificazione, riportando a riferimenti religiosi della capitale Costantinopoli e dal IX secolo in avanti, il luogo da Casale Terra di Bisignano assunse l’appellativo di “Santa Sofia Casale di Bisignano”.

I suoi abitanti professarono quindi il rito bizantino dalla fondazione e la chiesa compare in un documento censuale, tra i possedimenti, citato come “tenimentum ecclesiae Sanctae Sophiae.” (2)

Nota, come Chiesa Vecchia di Santa Sofia d’Epiro (Kisja Vieter in arbëreshë; essa, si sviluppa su pianta rettangolare con l’area dell’altare a una quota rialzata rispetto la navata; i lati corti: a est l’abside e il coro; a ovest l’ingresso principale, (la porta degli uomini) e a sud la piccola porta definita l’accesso alle donne.

Gli apparati murari realizzati con pietre di fiume alettati su malta di calce sabbia torrentizia e argilla, la stessa che ordinava anche il continuo murario come intonaco.

Il tetto composto nella parte strutturale da rudimentali capriate, sosteneva la travatura secondaria di collegamento su cui era depositata la lamia di copertura (3).

Se la campana è rimasta la stessa, diversamente lo è per il campanile e la consistenza della fabbrica che ha mutato nel corso dei secoli la forma, disposizione e l’allocamento del campanile; in origine si elevava con un corpo addossato alla parete nord, all’esterno e nella linea che divide altare con la navata.

Il fronte opposto, a ovest più sicuro per quanto attiene all’aspetto geologico, a seguito di numerosi eventi tellurici, consentì, di aggiungere al volume uno novo; senza ricostruire la parete crollata per la qualità del paramento murario, furono realizzati archi e colonne per consentire il continuo murario e l’accesso alla nuova navata al resto della chiesa; innalzando alla testa di questa sul fronte ovest il nuovo campanile  (Foto 01).

L’ingresso principale, immette direttamente nella navata (5-6), mentre quella laterale conteneva rispettivamente, il fonte battesimale, la porta delle donne e gli altari dedicati alla Santa Madre e alla Madonna del Carmine; sul fronte nord della navata erano allocate piccole nicchie per altre devozioni, la cui consistenza e caratteristiche di rifinitura sono andate perse nel corso dei continui lavori di manomissione.

L’’interno, si presentava scarsamente illuminato, a tal proposito va rilevato che la finestra, sopra l’ingresso, quando illuminava la navata, segnava il termine della divina liturgia, cosi come quella alla testa dell’absidale indicava l’inizio.

Superato il varco di accesso, a mano destra era il fonte battesimale, l’elemento lapideo, scampato a diversi crolli, in fine fortemente danneggiato è stato utilizzato come materiale di spoglio.

Dal settembre (1471 la chiesa diventa il luogo di approdo anche degli esuli Arbanon, (oggi Arbëreshë) proveniente dalle terre sparse dell’Epiro secondo le divisioni dell’impero con capitale Costantinopoli (1). 

Questi rispettosi dei principi religiosi, si insediarono nelle prossimità della chiesa realizzando i tipici rioni in consistenza di capanne, secondo il protocollo d’insediamento importato dalla terre citate; e furono proprio gli arbëreshë da quel tempo ad integrare al malandato presidio religioso, quanto citato sopra.

Da ciò si deduce che la Chiesa dagli inizi del XV e sino alla meta del XVII secolo, ospitò anche il patrono Sant’Atanasio l’Alessandrino (7).

Giunti gli Arbëreshë nel Casale, sotto la guida dell’effige Alessandrina, trovato l’antico manufatto, intitolato alla Grande Madre di Costantinopoli, considerarono come un segno divino l’emblema religioso,  ritenendo il luogo como la terra promessa.

La chiesa nel passato era anche nota per il suo ipogeo, dove la popolazione trovava sepoltura nella chiesa, mentre nel terreno posto nel lato nord, trovavano cristiana sepoltura, forestieri, persone uccise,  suicida, adulteri,  ladri e pagani, tutto ciò sino nell’Agosto del 1726, quando alla, ecclesiae Sanctae Sophiae, venne sostituita da uno più moderno intitolato a S. Atanasio, al centro del paese.

La chiesa dalla metà del XVIII secolo, fu lasciata al suo lento e inesorabile destino, ormai fuori dal centro urbano, usata solo nel periodo di settembre, poco più di quindici giorni l’anno, per i festeggiamenti della Madre Santa.

In oltre, dal 1839, impedita la funzione di storico ipogeo, per disposizioni regie, che venne allestito, proprio in quel pianoro dove i soldati Bizantini giunsero nel IX secolo.

In fine, il 23 Febbraio del 1957 avviata la procedura di recupero, visto il suo precario stato strutturale, fu unificando tutta la superficie interna sotto una impropria carena rovesciata cementizia (5-6)

Alla luce di ciò nella chiesa di Santa Sofia, da oltre un millennio è celebrata la divina liturgia di S. Giovanni Crisostomo in greco.

Prima dai soldati Bizantini per difendere il confine storico, poi dagli Arbëreshë a seguito della caduta di Costantinopoli, un percorso identitario che senza soluzione di continuità utilizza la stessa chiesa e lo stesso rito greco.

Per dare merito di ciò, dal 17 al 20 settembre 2019, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, con la Sua storica visita nella Diocesi di Lungro, ha voluto premiare l’amore degli Arbëreshë verso la Madre Chiesa di Costantinopoli.

Commenti disabilitati su LA CHIESA DI SANTA SOFIA

LA NON TUTELA DEL COSTRUITO STORICO ARBËRESHË; ORA È  EMIGRATA IN ALBANIA

LA NON TUTELA DEL COSTRUITO STORICO ARBËRESHË; ORA È EMIGRATA IN ALBANIA

Posted on 02 febbraio 2021 by admin

143506608_10222969880608993_518664806994492522_oNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – In Italia, precisamente all’interno delle sedici macro aree che formano la regione storica arbëreshë, i temi comunemente valorizzati, quale caratteristica e caratterizzante questa, sono stati gli aspetti idiomatici, metrici, consuetudinari, religiosi tralasciando sistematicamente le dinamiche scaturite dal genius loci.

La metodica così condotta hanno lasciato campo libero per la valorizzazione e la tutela degli elementi costruiti clericali, pubblici, privati, escludendo solo pochi esempi del patrimonio storico ancora intatti.

Ragioni per le quali nulla è stato predisposto dalle istituzioni tutte, per la tutela del costruito  e degli spazi ad essi pertinenti.

Una leggerezza il cui inizio ha avuto luogo dagli anni sessanta del secolo scorso e senza soluzione di continuità, ancora oggi mette a repentaglio, con la stessa inadeguatezza, il costruito, senza mai palesare ombra di dubbio sulla metodologia adottata.

Chiese, Palazzi Religiosi e Civili, Case di ogni strato sociale, Strade, Piazze, Fontane, in tutto, il genius loci, espressione dell’identità è irreparabilmente violato, per coprire incoscientemente lo scorrere del tempo, ritenuto, a loro  dire, vergogna.

Vige ormai da troppo tempo la regola dell’abbellimento, non prevedendo  rispetto verso il valore storco di quelle caparbie murature, a cui è stata affidato l’inopportuno carico di strutture moderne con nuove pretese di equilibrio strutturale.

Il risultato sta steso al sole delle piazze oltre all’ombra di vicoli e strade, quinte modificate piani di calpestio resi veicolabili che hanno restituito prospettive disarmoniche e cromatismi a dir poco esasperati, mentre sotto questa patina di abbellimento le caparbie mura sofferenti attendono l’eventuale verifica dei valori statici ignorati.

L’atteggiamento a dir poco irresponsabile, senza la guida di una regia responsabile ha prodotto un danno inestimabile i cui effetti li vedremo negli anni a venire sperando sempre che non accada.

In conformità a numerosi sopraluoghi e presa visione documentale, di un numero rilevante di progetti depositati o conservati nelle case comunali, emerge che nella maggioranza dei casi il libero arbitrio ha fatto da padrone e non solo al dato puramente dell’espressione architettonica, preferita e prodotta secondo il gusto dei proprietari committenti.

Ciò che più terrorizza covare dietro la quinta dello strato di malta dell’intonaco esterno e di quello pittorico, sono le scelte strutturali in senso di solai, piattabande, chiusura e apertura di nuovi varchi oltre ai noti solai di copertura, che tutti assieme producono un carico non alla portata di quelle antiche murature che pur se fortemente caparbie erano di spogliatura e calce malamente idratata.

Un pacchetto di esperimenti architettonici e strutturali che non trova luogo in nessun dove,  cui vanno aggiunti quanti sono intervenuti solo sostituendo infissi balaustre e ogni tipo di coronamento scenico delle quinte, che pur se marginali, comunque producono danno e violentano le prospettive di quei luoghi ameni che non torneranno più a ripetere gli echi antichi di un tempo.

Il 26 novembre 2019 alle 3:54, con epicentro a circa 12 km da Mamurras, un evento sismico di magnitudo 6,5  ha colpito l’Albania e dopo una prima fase emergenziale, per dare sostegno alle persone colpite, si è passati alla conta dei danni, avendo particolare attenzione verso il restauro e il recupero funzionale i degli elementi storici caratteristici Albanesi che anche se in maniera puramente ideale appartengono anche agli Arbëreshë.

In questi ultimi tempi sono numerose le illustrazioni di luoghi e di architetture storiche che sono poste in mostra perché devono essere restaurate o rese funzionali, tuttavia ciò che lascia perplessi è il volersi mettere in mostra, attraverso le notorietà dell’architettura spettacolo, che se può andare bene nelle aree petrolifere o ed esse pertinenti, non lo possono essere per la “Nostra Albania Storica”.

Comprese quelle realizzate dagli anni venti, che pur se contestabili per ovvi motivi, rappresentano uno dei momenti di rinascita della storia moderna Albanese; queste comunemente sono affiancate a soluzioni di quanti si ostinano realizzare boschi verticali o diavolerie alternative, che non sono proprio proprio affini a i temi dell’ambiente naturale, ricerca perenne di questo popolo.

Agli Arbëreshë, come gli Albanesi, con la natura conservano un patto storico mai violato; l’elemento naturale per gli Arbëri, Kalabanon Arbanon e Arbëreshë, è stato sempre fondamentale, vero è che pur lasciando le loro terre natie, si fermavano, dove esistevano gli equilibri paralleli della terra di origine.

Sula base di ciò quando bisogna, per necessità Strutturale/Architettonica a seguito di un sisma o vetustà, intervenire in un dato elemento costruito, specie se appartiene alla storia è indispensabile adoperarsi prima di ogni altra cosa a formare un gruppo di lavoro Albanese e Arbëreshë, gli osservatori d’ufficio, affinché tua sia svolga in conformità alle consuetudini storiche.

Oggi in Albania non si sente parlare di gruppi di lavoro multi disciplinari, comitati tecnico scientifici Albanesi/Arbëreshë, ma di sovente attraverso i social si appare in bella mostra con interventi già terminati dai quali emergono palesemente errori di valutazione a prima vista estetico, ma poi dietro le quinte quanti patimenti strutturali vivono?

Sa l’Albania sino a poco tempo addietro per le sue scelte politiche, sociali e di confronto con gli altri stati confinanti è paragonabile a un prezioso “ scrigno conservato in soffitta”, cerchiamo di non versare il contenuto  oggi che ci si appresta ad aprirli e leggere con sapienza il valore del messaggio che devono riverberare.

In altre parole l’Albania ha vissuto un lungo “Inverno”, ( Moti i vicher) è tempo che si approfitti dell’Estate, (Moti i madë) che tra poco più di un mese avrà inizio,  e secondo le antiche teorie dei saggi del passato, il tempo della semina, dei raccolti e dell’incameramento dei beni materiali ed immateriali, gli stessi a rendere gli Arbanon, uno dei popoli più caparbi del Mediterraneo.

Ogni Torre, Castello, Kastrum, Strada, Piazza o Vico, in Albania è rimasto intatto da secoli, per questo rappresentano l’eredita affidata dagli Arbëreshë agli Albanesi, se oggi i ministeri preposti o ogni sorta di istituzione che si occupa della tutela, specie se si ritiene di dover intervenire in termini architettonici o strutturali, le preposte autorità hanno il dovere di rivolgersi alla Regione storica Arbëreshë e chiedere collaborazione.

Notoriamente le terre Albanesi e quelle della Regione Storica hanno un legame ombelicale solido, specie per quanto riguarda gli aspetti linguistici e consuetudinari, se oggi i “Fratelli Albanesi” prendono consapevolezza di ciò daranno senso al patrimonio Architettonico di quelle terre.

I fratelli Albanesi hanno il dovere di chiedere agli Arbëreshë per essere adeguatamente informati, onde evitare di produrre adempimenti architettonici non consoni alle ideologie o alle linee guida.

Le stesse che poi trovano forma nell’edificato storico secondo le direttive del noto condottiero Scanderbeg e del suo popolo, specie se in Albania dove tutti sbandierano i suoi teoremi, ma poi alla luce dei fatti e a ben vedere, li potrebbero sin anche calpestare.

Commenti disabilitati su LA NON TUTELA DEL COSTRUITO STORICO ARBËRESHË; ORA È EMIGRATA IN ALBANIA

IL SUONO, GLI ODORI, LA CONSISTENZA DELLA PASTA E IL SUGO FATTO IN CASA

IL SUONO, GLI ODORI, LA CONSISTENZA DELLA PASTA E IL SUGO FATTO IN CASA

Posted on 31 gennaio 2021 by admin

cera un voltaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La domenica, sino a quando ho abitato con i miei genitori, di sovente mi svegliavo piacevolmente con i ritmati tonfi che provocava l’impasto di (miell) farina, (ujë) acqua, (kripë) sale, (valë) olio e ( thë verdat e vesë) rossi d’uovo, lavorato a mano da mia madre, sopra l’apposito spianatoio, (Kiangùni).

Quando si raggiungeva, con il continuo rivoltare e stendere, la consistenza desiderata, si copriva il panetto, lievemente d’orato, con un canovaccio per lasciarlo riposare; a questo punto, mia madre, si recava in cucina a preparare il sugo, insaporito rigorosamente di carne d’agnello (shëtiërë).

Prima (valë)l’olio, poi (gudur)uno spicchio d’aglio intero sbucciato, (gnë fjetë dhafnie) una foglia di alloro; a questo punto iniziava a tagliare la carne, che avrebbe di li a poco rosolato, mescolando il tutto lentamente a fuoco lento ,assieme ai sapori naturali già elencati.

Quando la superficie della carne creava una lieve patina di crosta, era il segno che avrebbe incamerato gli aromi interni,  quello era il segno di aggiungere le quantità di passata di pomodoro, conserva di casa, che con la lieve cottura avrebbero insaporito il tutto.

I segreti per l’idoneo matrimonio, tra carne e sugo, grazie ai testimoni vegetali a questo punto, erano tre: il fuoco lento, coprire la pentola lasciando uno spiraglio per dissipare con misura i vapori e chicca finale, non aggiungere mai acqua.

A quel punto la casa diventava il paradiso di odori, il segno olfattivo della festa che inebria ogni angolo appena il sugo in iniziava lentamente a borbottare, nel chiuso della pentola.

La lentezza della cottura consente di tornare in sala da pranzo a dare forma alla pasta, procedendo nel toglieva il canovaccio sopra il prezioso impasto e dopo un’ulteriore stesa e ripiegatura  con la spatola (shëtërë) si inizia a realizzare piccoli frammenti di impasto: prima a forma rettangolare e poi cilindrici allungati.

A questo punto le piccole porzioni, si lavoravano con (hekuri) il ferretto, così come segue: si spargeva con maestria sul piano di lavoro farina e con manualità antica s’inizia ad arrotolare i cilindri d’impasto arrotolati al ferretto sul piano di lavoro; questo per non consentire che la pasta aderisca a esso, è lievemente curvo, tale che nella rotazione che consentire al fillilë di prendere la sua forma tipica, si sfili facilmente.

Cosi per un numero di azioni ripetute senza mai perdere il ritmo, prima sullo spianatoio lasciati a prendere la forma, poi si depositano in file ordinate, disponendoli sulla parte libera del tavolo su di una tovaglia opportunamente infarinata.

Terminata l’operazione, si copre tutta la disposizione delle file di pasta con il canovaccio e si ricontrollava la pentola del sugo, che nel lento borbottio raggiunto la consistenza ideale, ristretta e mai con chiazze acquose.

Per impiattare, si mette la pentola con acqua sul fuoco e appena raggiunta il punto di ebollizione s’immergono i fillilë facendoli bollire per pochi minuti e quando l’esperienza ritiene che siano cotti al punto giusto, si scolano per bene disponendoli nel piatto di portata.

La preparazione del piatto a questo punto può iniziare, insaporendo il tutto con il sugo ristretto, un pezzo di carne di coronamento ricoprendo tutta la superficie con una nevicata di pecorino locale, non prima di aver deposto una foglia di basilico di adorno.

Il sugo si preferisce farlo ristretto al punto giusto, perché la pasta essendo fatta in casa, è avvolta da acqua di cottura che si insinua all’interno incavato e rilascia nel momento dell’impiotamento, questi liquidi fondamentali andranno ad amalgamandosi con il sugo di superficie, insaporendo magicamente il tutto con il formaggio a la carne.

Guai a preparare il sugo per i fillilë, molto liquidi, perché poi si finisce di fare una annacquata diffusa, quello che comunemente succede in quei piatti di quanti/e dicono di saper fare e non sanno.

Fare la pasta in casa  secondo la cucina arbëreshë è un atto antico,  tramandato da madre in figlia, per questo non è certo nelle disponibilità di quanti hanno fatto altro in gioventù, gli/le stessi/e che oggi pur di apparire dicono di saper fare, ma questa è un’altra storia solo per fotografie di una pietanza annacquata, che fa sorridere quanti sanno e capiscono che il fare le cose arbëreshë è un’altra cosa.

Commenti disabilitati su IL SUONO, GLI ODORI, LA CONSISTENZA DELLA PASTA E IL SUGO FATTO IN CASA

TRE PECCATI INCONSAPEVOLMENTE DIFESI DELLA NOSTRA STORIA: BORGHI ARBËRESHË, ARBËRIA E SCANDERBEG

TRE PECCATI INCONSAPEVOLMENTE DIFESI DELLA NOSTRA STORIA: BORGHI ARBËRESHË, ARBËRIA E SCANDERBEG

Posted on 24 gennaio 2021 by admin

AVENDO AVUTO UN INVITO AD ASCOLTARE PER INTERVENIRE, VI INVIO QUANTONAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Il patrimonio culturale arbëreshë, notoriamente tramandato attraverso la forma orale e la consuetudini d’ambito, dagli anni settanta del secolo scorso è stato scosso dalle nuove generazioni che hanno intrapreso, a loro dire, la via dei discorsi nuovi.

Questa è stata l’epoca che ha prodotto la “nuova alba culturale” dove i pittori pur di vedere al loro seguito, generi che sognano bagliori di luce, ne fanno di tutti i colori, escluso, quelli più opportuni o a tema pittorico.

Le manifestazioni di pigmentazione, così attuate, sono drammaticamente penose e variopinte senza alcun senso per il proseguimento del protocollo identitario; per questo, urgono misure preventive atte ad arginare le soverchianti  folgori.

Ormai viviamo una stagione di confusione totale, basti solo porre l’accento sulle innumerevoli manifestazioni prive di senso e di garbo, generalmente aperte al grido di Borghi Arbëreshë, Arbëria e Scanderbeg e tanta altre diavolerie che è vergogna citare, perché si usa vestirsi a mo variopinto con cui disegnare a terra  ruote, cerchi e ridde, immaginando di stupire gli spettatori che allibiti si danno a gambe.

Tutte manifestazioni che lasciano il tempo che trovano e non interessano a nessuno, se non i comuni praticanti, che nel vedersi abbagliati dai riflettori della ribalta, pensano di aver fatto festa, senza rendersi conto di  bruciare quanto non gli appartiene.

A tal proposito e senza dubbio alcuno, dei tre componimenti: Borghi Arbëreshë, Arbëria e Scanderbeg, è bene rilevare, che nessuno di essi trova allocazione nella storia, neanche in forma di ombra, per la popolazione minoritaria che oggi vive la REGIONE STORICA DIFFUSA ARBËRESHË.

Questa deve ricevere rispetto da tutti, sin anche, chi travestito da pifferaio, saltimbanco e ogni genere d’inadatto alchimista, crede di poter disporre a suo piacimento del patrimonio che non ci appartiene, perché ricevuto per consegnarlo alle nuove generazioni, per questo più rimane puro e intatto dalla sua origine storica e più ha durevolezza nei secoli.

Nello specifico iniziamo a porre l’accento, con forza e senza sorta di dubbio alcuno, che la denominazione “Borgo” non ha alcuna attinenza storica, urbanistica, architettonica, sociale, economica culturale, sia di tempo, sia di luogo, sia di uomini;  i paesi arbëreshë sono Katundë, il parente stretto di Castrum, Paese, Casale e rappresentano storicamente l’inizio dei processi urbanistici delle città aperte, oggi metropolitane.

A proposito del concetto di Arberia, per com’è inteso, vorrebbe essere uno stato, con i suoi abitanti, un proprio governo, una propria autonomia, con proprie leggi e comunque si giri e si osservi il concetto, nulla del genere esiste, in quanto gli arbëreshë sono una minoranza storica italiana, verso la quale lo stato offre tutte le tutele di rispetto dovuto a quanti hanno saputo integrarsi e proteggere il territorio con lo stesso senso degli indigeni, gli stessi che li accolsero sei secoli or sono.

Relativamente all’appellativo con cui viene soprannominato Giorgio Castriota di Giovanni, (volgarmente denominato Scanderbeg) bisogna stare molto attenti nell’utilizzare o il nome o l’alias.

Perché l’eroe con intelligente astuzia, per evitare che il suo popolo e le terre di quest’ultimo fossero cancellate dal ricordo degli uomini, realizzo uno degli stratagemmi che la storia ancora stenta a comprendere e valorizzare.

Egli per questo resosi conto che non aveva possibilità di prevalere sui cani turchi, operò la strategia seguente, grazie al patto di mutuo soccorso che il padre Giovanni aveva con Il re di Napoli, Vlad I, i Principi dell’allora Epiro nova e Vecchia, trovando il modo di lasciare un messaggio indelebile, irriconoscibile ai turchi, e unisse quanti vivevano le terre oggi denominate Albania e nel frattempo, salvare lingua consuetudini, metrica e religione nelle terre del meridione allora regno di Napoli.

Alla luce di ciò, quando si fa uso del suo nome, bisogna guardarsi attorno per comprendere cosa pronunziare, per questo se state in terra d’Albania gridate con forza, ai quattro venti, l’appellativo “Skanderbeg”, lo slogan nato per unire e risvegliare antichi legami in senso di confini territoriali.

Tuttavia se vi dovreste trovare, per caso, negli sheshi o ambiti della regione storica, il luogo dove la lingua, le consuetudini, la religione, fa vibrare i cinque sensi Arbëreshë, per non cadere nel banale è d’obbligo usare solo ed esclusivamente Giorgio Castriota il valoroso figlio di Giovanni; null’altro.

Commenti disabilitati su TRE PECCATI INCONSAPEVOLMENTE DIFESI DELLA NOSTRA STORIA: BORGHI ARBËRESHË, ARBËRIA E SCANDERBEG

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!