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LA MENSA DI FERRANTE

LA MENSA DI FERRANTE

Posted on 12 novembre 2021 by admin

La mensa di FerranteNAPOLI (di Giovanni Panzera) – Il canonico napoletano Carlo Celano  nell’opera “Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per i signori forestieri”, pubblicata nel 1692, descrivendo Castel Capuano, destinato ai Tribunali del Regno, scrive: Nel cortile, presso la porta picciola vi si vede un leone di marmo, che sta sopra diverse fonticelle; e queste erano l’antiche misure del vino, dell’oglio, e d’altre cose simili, che si vendeano da bottegai.

Notizia è confermata da Giuseppe Sigismondo che nel libro Descrizione della Città di Napoli”, edito nel 1788, così narra: D.  Pietro  Toleto poi volendo unire  tutti i Tribunali, né trovando luogo più opportuno quanto il vecchio Castello di Capuana, se lo fe cedere dal Principe di Sulmona, con dargli altro Palazzo nella strada detta  della Incoronata verso il Castel Novo; con grandissima spesa lo ridusse comodo a tal’uopo,e nel 1550 vi trasportò i Tribunali, cioè la Gran Corte della Vicaria Civile, e Criminale, La Regia Camera della Summaria, quello della Regia Zecca dei pesi e misure, quello del Bajulo, ossia della Bagliva, ed il Sacro Regio Consiglio: dopo vi  fu unito anche il Tribunale del Commercio come diremo a suo luogo.

In un lato del Cortile vi si osserva un Leone di marmo sopra di un piedistallo anche di marmo, nel quale, e propriamente sotto al leone suddetto, si osservano le antiche misure di Napoli, cioè tomolo, mezzo tomolo, quadra, ecc., e vi si legge scolpito:

Ferdinandus Rex

In utilitatem Reipublice

Has mensuras per Magistros Rationales

Fieri mandavit.

Maggiori dettagli li fornisce Ferdinando Visconti, che nel testo del sistema metrico della Città di Napoli e della uniformità de’pesi e delle misure che meglio si conviene a’ reali dominj di qua dal faro, scrive: Non si conosce documento alcuno che stabilisca con precisione la grandezza de’ pesi e delle misure presentemente in uso nella città di Napoli; ma ci è noto che le dobbiamo agli Aragonesi, poiché nel cortile del Castello Capuano, ora Vicaria, esiste un gran masso parallelepipedo di marmo, ove sono incise ed incavate le varie misure che dovevano servire da archetipi in tutto il regno. Le misure incavate sono ormai così guaste che nulla si può trarne sulla vera e precisa loro capacità; e le misure lineari non più vi si scorgono perché logore affatto, rimanendovi soltanto qualche indizio di esse e delle di loro denominazioni.  Quelle  misure  furono  in  tal modo determinate e conservate come originali campioni, ed autenticate con una iscrizione in parte or logora ma che abbiamo tratta da una memoria sulla uniformità de’ pesi e delle misure diretta nel 1787 a Ferdinando I di gloriosa memoria dal chiarissimo Melchiorre Delfico.

L’iscrizione è la seguente;

FERDINANDUS . REX . IN . UTILITAT

EM . REI . P . HAS. MENSURAS . PER . MAGIST

ROS . RATIONALES . FIERI . MANDAVIT.

È questi Ferdinando I d’Aragona che successe ad Alfonso I il magnanimo, e che regnò dal 1458 al 1495.

Sul marmo suaccennato vi erano scolpiti gli stemmi aragonesi, che appena vi si distinguono presentemente.

Ma nel 1856 nel cortile di Castel Capuano si ritrova il solo leone poggiato a terra. Giovanni Battista Chiarini, infatti, nel ripubblicare l’opera del canonico Carlo Celano con aggiunte de’ più notabili miglioramenti posteriori fino al presente estratti dalla storia de’ monumenti e dalle memorie di eruditi scrittori napolitani, nel descrivere dettagliatamente Castel Capuano, così afferma: Nel fondo del cortile al lato d’oriente vedevasi un basamento di marmo con alcuni piccoli vasi, ai quali sovastava il geroglifico  simulacro  d’un  leone,  indicante  esser provvedimento di Re Aragonese, perché in realtà il nome del primo Ferrante tuttavia si legge in questi sensi:

FERDINANDUS . REX

IN . UTILITATEM . REIPUBLICAE

HAS. MENSURAS . PER . MAGISTRATOS . RATIONALES

FIERI . MANDAVIT.

Or è d’uopo sapere, che questo allegorico simbolo esprimeva il potere della Polizia Municipale sull’economica distribuzione delle nostre misure del vino, dell’olio e di altri liquidi ed aridi, che da’ bottegai al popolo si vendevano.

È tradizione che tali fossero le antiche nostre misure, quali erano quei recipienti incavati a piè del leone.

Per buona sorte nella distruzione dei nostri patrii monumenti, questo marmo fu salvato; che se vediamo tuttora a terra dimenticato il leone (di ben ordinario scalpello) il cippo trovasi custodito nel R. Museo Borbonico, dove fu trasportato nei primi mesi dell’anno 1849.

Savio divisamento fu questo ove si consideri, che se il passo geometrico di ferro fu, come dicemmo, incastrato in una delle colonne del Duomo acciò inviolabilmente custodito vi rimanesse; e se le misure in discorso furono collo stesso fine collocate nella corte del Palagio di Ma nel 1856 nel cortile di Castel Capuano si ritrova il solo leone poggiato a terra.

Giovanni Battista Chiarini, infatti, nel ripubblicare l’opera del canonico Carlo Celano con aggiunte de’ più  notabili  miglioramenti  posteriori  fino  al  presente estratti dalla storia de’ monumenti e dalle memorie di eruditi scrittori napolitani, nel descrivere dettagliatamente Castel Capuano, così afferma: Nel fondo del cortile al lato d’oriente vedevasi un basamento di marmo con alcuni piccoli vasi, ai quali sovastava il geroglifico  simulacro  d’un  leone,  indicante  esser provvedimento di Re Aragonese, perché in realtà il nome del primo Ferrante tuttavia si legge in questi sensi:

FERDINANDUS . REX

IN . UTILITATEM . REIPUBLICAE

HAS. MENSURAS . PER . MAGISTRATOS  . RATIONALES

FIERI . MANDAVIT.

Poiché non sono riuscito a trovare immagini o disegni, mi son messo in giro alla ricerca dei tre pezzi: il leone, il passo geometrico di ferro e la mensa ponderale.  

In verità ho rinunciato ben presto al leone perché essendo di ben ordinario scalpello potrebbe  essere  finito  ovunque  ovvero  in  nessun luogo e, considerando che la città di Napoli, tra luoghi pubblici e murature o giardini privati, è ricca di leoni, in mancanza di qualsiasi indizio, sarebbe più arduo che cercare un ago in un pagliaio.

Il passo geometrico di ferro (passus ferrus) l’ho visto. Si trova incastrato nell’ultima colonnna destra della navata sinistra del Duomo. D’altro canto lo stesso Carlo Celano, nell’opera già richiamata, descrivendo la Cattedrale, scrive: Ed in  una  colonna  scannellata di bianco marmo, che sostiene il primo arco dalla parte del Coro, vi si conserva il passo geometrico Napolitano in ferro: in modo, che negli antichi istromenti, quando si vedeva qualche Territorio da misurasi, si diceva: Ad passum Sanctæ Ecclesiæ Neapolitanæ.

Prima di procedere alla ricerca della mensa ponderale, un parallelepipedo di marmo piuttosto pesante, mi son fermato a considerare qualche data.

L’apparato fu realizzato durante il regno di Ferdinando (o Ferrante) I d’Aragona, che divenne re di Napoli nel 1458 alla morte del padre Alfonso I.

Pochi cenni biografici dicono che era l’unico figlio maschio di Alfonso I il magnanimo, ma, ahimé!, illegittimo; il padre non si perse d’animo: lo legittimò e lo fece dichiarare erede al trono, ottenendo anche l’assenso di ben due papi, Eugenio IV e Niccolò V.

Non c’è da meravigliarsi: erano i tempi.  

Lo stesso Ferrante ebbe due mogli, otto figli (sei dalla prima e due dalla seconda) e un numero imprecisato di figli illegittimi

Per metà era napoletano, perché la madre, Gueraldona Carlino, era di origini partenopee.

Regnò per 36 anni fino alla morte nel 1494.

Riprendo la ricerca della mensa e mi reco al Museo Archeologico, dove Giovan Battista Chiarini afferma che è stata trasportata nei primi mesi dell’anno 1849.

Non c’è. Che fine ha fatto? Nessuno lo sa dire.

Io sì. L’ho trovata, poco distante da dove doveva essere: è sistemata dinanzi all’ingresso dell’Istituto Paolo Colosimo per ipovedenti, che prospetta sulla facciata settentrionale del Museo Archeologico, ma a una quota nettamente superiore.

Chi l’ha fatta trasportare in quel luogo e perché e quando? È all’aperto, senza alcuna protezione e appare in condizioni più precarie di quelle descritte dal Chiarini (maltrattato dal tempo e quasi distrutto).

Sul piano superiore sono scavate otto semisfere di diverse dimensioni, delle quali alcune, quelle destinate ai liquidi, hanno un foro di scolo sulla faccia   laterale più piccola

Su una delle due facce laterali più grandi sono riportate a rilievo due anfore biansate per la misura del vino e dell’olio.

Sulla faccia opposta vi sono tre stemmi: in quello centrale si riconoscono le armi degli Aragonesi.

Sopra gli stemmi vi è la scritta su tre righi già letta nei libri degli storici, dei quali solo il Visconti riporta correttamente anche gli accapo, ma che confessa di non essere riuscito a leggerla bensì di averla riportata da una memoria del 1787 di Melchiorre Delfico.

Dall’iscrizione, però, è stato scalpellato il nome del re (FERDINANDUS  REX), a mo’ di damnatio memoriae.

Troppe incognite circondano ancora questo pezzo di marmo, che gli studiosi sono certamente in grado di derimere.

L’importante è averla individuata, onde procedere al più presto al suo ripristino, essendo una testimonianza unica di un periodo storico fondamentale per lo sviluppo della città di Napoli e della sua società.

La sua sede naturale è il cortile di Castel Capuano

 

 

 

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11-11-1799: ANCORA NON CAMBIA L’ANIMA DEL igNOTO TRADITORE

11-11-1799: ANCORA NON CAMBIA L’ANIMA DEL igNOTO TRADITORE

Posted on 10 novembre 2021 by admin

01 - RaccontiNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Aver dato se stessi per ideali di un nuovo pensiero civile e culturale, incassando il titolo di una strada, una lapide e un busto a memoria dai suoi gjitoni, denotano quanta gloria, dopo oltre due secoli, sia inghisata nella figura e il ricordo di Pasquale Baffi, l’uomo più colto, sapiente, gentile e garbato della discendenza Arbéreshè.

Poco o nulla si conosce di eventuali atteggiamenti in forma di protesta di stati generali, i luoghi di pensiero minoritari cui apparteneva o gli eventuali titoli prodotti dagli anni sessanta del secolo scorso dai concittadini ormai tutti scolarizzati.

Dopo la battaglia di Vigliena del 28 giugno del 1799 e il conseguente ordine di arresto, disposto dal vertice dalle autorità; eseguito la fine di luglio definitivamente, è iniziato  un estenuante calvario, protratto per altri tre mesi, durante i quali, ha germogliato il protocollo del più vile tradimento, dopo quello dei trenta tre danari.

Solo per una ricompensa,  di poche decine di ducati, oggi poco più di sessanta euro; il valore della viltà, per quanti, sedevano sui bordi del “lavinaio”,  a dirigere.

Lo stesso luogo  tra i più insani del mediterraneo arbëreshë, lì, dove le cose false , riportate per nome e per conto di figure altre, amalorano ogni cosa, appartenenti alla memoria e al buon senso arbëreshë.

Lo stato di malafede e senza alcun principio morale o religioso, valorizza l’ambasciatore di pene, accolto da quanti le notizie non le sottopongono neanche al ragionevole dubbio, loco di virtù  assente, nonostante doveva essere  spazio di coesione sociale.

Seguirono nel corso di questo stato di cose, un numero imprecisato d’illusioni, offese, umiliazioni, cattiverie, disposte, da vili figure, sin anche nei confronti della moglie e i figli dell’illustre uomo di pensiero libero.

Il conseguente trasferimento, quel Novembre del 1799, quando, il generale della suprema corte condanna l’illustre e libero pensatore “per colpe riportate da generi vilmente allevati”.

Definendo eseguirsi la sentenza lunedì, undici corrente novembre, si diede luogo a quanto stabilito dagli organi preposti, conducendo l’illustre e libero pensatore, nella struttura, davanti il Palazzo di supplizio senza fine.

L’ordine, in oltre, precisava che si doveva predisporre le truppe per accompagnare al pubblico patibolo, disponendo, preventivamente pattuglie per le vie e le piazze del borgo, onde evitare ogni genere di contatto o adesione in favore della colta figura .

Così dopo la falsa apparizione di gjitoni e germani, il giorno 11 novembre, verso l’ora “diciassettesima e mezzo”, in otto coppie vestite a festa escono, dalle porte dei palazzi, regine del fuoco povero; e verso l’ora “diciottesima” di quel dì, mentre la madre dell’ignoranza  gioiva e ballava divertita, come i turchi con le resta del Castriota portavano per le terre in trionfo al grido; “ abbiamo fatto fuori, un altro”.

Da quel momento in poi, liberi da ogni genere di figura, si vestono da attori protagonisti; il valere della corona va avanti, certa che alcun antagonista si schiera in difesa del libero pensatore.

Le date e le tappe che ricordano quella storia che denota il cattivo gusto dalla corte reale, originaria dove i generi hanno solo “in dote la casa”, si articolarono così come segue:

– giugno segna la svolta; inizio di un’epoca buia;

– agosto il tempo del tradimento e della china senza fondo;

– settembre il tempo per violare il patto di unione;

– ottobre viene sprecato per sciupare le tracce del costruito storico;

– novembre la fine del riscatto: il ritorno a essere come un tempo casale;

La storia si ripete imperterrita il 13 giugno, sino l’11 novembre; un Pasquale Baffi è sempre, basta ripetere, fatti e gesta; germogli che non smettono di compromettere il grano buono; la falce del “potere” protagonista, fa da giudice e testimone, in favore del fatuo, nel mentre il buon grano è lasciato lontano dalla filiera della mietitura, sperando non germogli più.

Pur consapevoli che le madri vestite di raso, conoscono quali sono i germogli del grano che lievita e fa crescere il pane buono e pur se poco non manca mai, giacche, sufficiente a  garantire domani migliori, in certezze e cose garbatamente tramandate.

Per finire e aprire un nuovo stato di fatto, è opportuno precisare che Pasquale Baffi rappresenta il più alto emblema culturale e di pensiero della minoranza storica arbëreshë, noto  “non”  ad aver scritto discorsi, trattati in tema sociale, perché, quanti idoneamente formati, ogni volta che sentono o leggono i temi citati, quale farina buona di altri favellanti, sanno che il sacco di grano buono, da cui è stato prodotto, appartiene all’illustre e libero pensatore Sofiota.

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LE COSE ARBÈRESHÉ CHE MI COMPLETANO. (Shiurbisetë arbèreshé cë më varrògnènë)

LE COSE ARBÈRESHÉ CHE MI COMPLETANO. (Shiurbisetë arbèreshé cë më varrògnènë)

Posted on 07 novembre 2021 by admin

Colombo

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – È solito leggere trattazioni riferite alla Regione storica Arbëreshë, comunemente appellata Arberia; argomenti estratti da carte archiviate, interpretate da ignari senza titolo o formazione, famosi alla ribalta storica come referenti di luogo, epoca e uomini senza tempo.

Non si trova trattazione che abbia esposizione semplice in forma d’inizio, uno svolgimento e conclusione, frutto di studio e quindi assunzione di responsabilità degli argomenti trattati, perché vi è sempre la forma espositiva per conto e per nome di altri.

Tutto è trattato per sentito dire o per atti e capitoli, il più delle volte indicatori di altre cose, altri avvenimenti e altrui fatti, i quali pur se importanti, non servono quale supporto ai discorsi intrapresi e divulgati sulla storica minoranza.

La favola più assurda è comunemente riferita nel corso da secoli,  dipingono  gli esuli con le braccia stese verso il cielo, inneggiando una favela ignota(????????).

Mai immagine più  banale e senza senso è stata riferita per conto degli arbëreshë, nonostante altre figure della storia quali Cristoforo Colombo, eseguisse lo stesso rituale  nell’approdare, alla fine dei viaggi; stessa postura, se proprio vogliamo analizzare l’immagine di luogo, di fatti, di uomini e credenze, quella favella ignota, rivolta verso il cielo era  sempre una semplice preghiera.

Partendo dal presupposto che s’inneggia al cielo, per ringraziare nostro Signore, specie chi viaggiava per mare era un rituale normale; così come gli arbëreshë  accompagnati  da  preti ortodossi;  come riferimento di credenza, come ben noto,  ragion per cui, non dovrebbe essere tanto ignota la favella, negli approdi della Sibaritide luogo di Antica Grecità.

Se a questo aggiungiamo l’enunciato caratteristico e caratterizzante la minoranza Arbëreshë nell’identificarli per esigenza della legge 482, ovvero, “la Gjitonia”, identificato come  mero “Vicinato Alloctono”.

Chi ha prodotto un inopportuno postulato avrebbe almeno dovuto essere un  parlante e rappresentante la consuetudine della minoranza, non un intervistatore accompagnato da giovani inesperti.

Se poi volessimo approfondire uomini, fatti della storia, le cose materiali e immateriali definiti dal genius loci, finiremmo in una palude da cui non si emerge aggrappandosi alla sola ancora dell’articolo sei della costituzione.

Specie chi va per mari non ha solo bisogno di un’ancora a “6”pollici, ma ci vogliono le “3”caravelle e  orizzontamento e testa le “9”cose indispensabili.

Oggi quello che più attrae sono il numero imprecisato di migrazioni, le quali per la variabile d’inizio, svolgimento fine e ritorno a casa, sembrano più caratteristica di un cambio sequenziale di velocità, ovvero: I° – II° – III° – IV°- V° – VI° – VII° e VIII° oltre Retro marcia  per tornare alle origini.

Le migrazioni nel fiume Adriatico, sin dove intercetta il mare Ionio, sono una costante che non ha tempo, sminuirle in maniera numerica, offende quanti studiano per realizzare le diplomatiche di coerenza storica, con formazione e titoli, il cui fine è la conoscenza e non il miraggio del palcoscenico dei media.

Se poi dobbiamo dare un senso storico alla venuta degli Arbanon, definiti Arbëreshë dalla storia, diventa fondamentale porre l’accento su ogni trattato della storia di quest’antico popolo, che per alcuni ha vissuto in forma di eroi, cavalieri e figure senza macchia.

Gli Arbëreshë, non sono figli illegittimi dell’antica Grecia, anzi, magari è il contrario; tuttavia, notoriamente si fa riferimento all’eroe Giorgio Castriota, non certo residente o appartenente al meridione d’Albania,  terra suddivisa storicamente in numerosi, governarati.

Come può essere possibile che le genti di una regione  scenario di scontri violenti e cruenti, vede sono la parte meridionale emigrare, mentre le altre, del centro, del settentrione,  oriente e occidente, imperterriti attendono  il terminare delle ostilità candidamente.

Il terzo millennio è iniziato, la tecnologia grazie alla connessione diffusa raggiunge ogni dove, per chi ha voglia, nel tempo di un’estate Arbëreshë, può acquisire dati, con lo scopo di tracciare  tempo e genti, provenienti dalle sponde inospitali a est dell’Adriatico.

Quando la parabola dell’impero romano con capitale Costantinopoli ha iniziato la china, questa contrapposizione di forze ha determinato due fronti, i quali trovarono il fulcro di frizione nelle terre oltre adriatico, e da questo momento, si sono formate onde di risacca latente di esuli.

Prima come soldati mercenari, poi in assetto di contadini, artigiani, cavallerizzi e uditori, in tutto come forza certificata, avente tutte la caratteristica della partecipazione del gruppo familiare di appartenenza tutto, come erano organizzati gli stradiotti a i tempi del Romano Impero.

Se di migrazione si deve parlare, essa è una sola; essa ha luogo dal 1769 al 1502, tempo in cui la moglie, dell’eroe Giorgio Castriota, Donica Comneno Arianiti, si stabili a Napoli, in forza del patto dell’ordine del drago, al fine di tutelarla sia dal punto di vista fisico e sia economico l’emblema  regina e la prole di quanti capitolavano in battaglia.

Se ancora oggi si continua ad indicare in forma sequenziale, sin anche la fine dell’impero romano con le navi del Doria, con qualche sparuto gruppo di arbanon e  nel settecento la forza della Real Macedone voluta da Carlo III° e il segno di una storia che si vuole imporre, ma priva di forma e notizia migratoria.

In conformità a questi espedienti, se escludiamo la visita di Giorgio Castriota nel meridione, la vicenda di accoglienza della Moglie Donica Arianiti Comneno, il disegno di una svolta storica, definibile come arretramento di fronte di quelle frizioni storiche che da adesso in poi vaporizzano nel breve tempo, il resto sono vicende riferibili ad altri temi, che non fanno storia.

Sono episodi comuni senza ne luogo e ne tempo; essi lasciano il tempo che trovano, cosa ben diversa sono gli atti posti in essere, le disposizioni e i luoghi di allocamento, prima in forma estrattiva o dei materiali deperibili (periodo breve del nomadismo) e poi in forma additiva e dei materiali inalterabili, epoca della residenza (periodo lungo della residenza storica).

Se a questo associamo i quartieri storici che legano tutti gli oltre cento paesi di origine Arbanon e il modello sociale dei cinque sensi, muoversi all’interno dei centri antichi Arbéreshè è molto semplice e facilmente navigabili.

Tutto poi è consolidato dalla lettura del vestito da sposa femminile della macro area citeriore Ionica, un libro di temi consuetudinari realizzato in forma di vestizione, esso contiene tutti gli intervalli di continuità storica della minoranza, conservati in tutti i punti di unione fatti con filo e ago.

Queste  cose, sommate, all’eredità in forma di costume, consuetudini e appuntamenti dell’estate e dell’inverno Arbëreshë (Moti i Madë e Moti i Viker)  completano la formazione culturale di ogni buon addetto che studia la conservazione delle tracce storiche, con il fine di offrire  solidità alla lettura, alla traduzione poi resa disegno, progetto di ogni elemento finito, che vede protagonisti gli Arbëreshë (Shiurbisetë arbèreshé cë më varrògnènë)

Per concludere le figure che oggi servono sono lo storico e il progettista, esponenti inscindibili secondo il teorema, per il quale: 

  • lo storico che camminare all’indietro; con lo sguardo rivolto  al passato; di fianco il presente; spalle al futuro.
  • il progettista  procede in avanti; futuro di fronte, il presente a fianco e la storia alle sue spalle.
  • Vale Vale, sino alle albe che seguono i tramonti che verranno.

 

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GJITONIA: IL LUOGO DEI CINQUE SENSI (Gjitonia: ku shogh e ku gjiegjgnë)

GJITONIA: IL LUOGO DEI CINQUE SENSI (Gjitonia: ku shogh e ku gjiegjgnë)

Posted on 30 ottobre 2021 by admin

SCACCIAMO LA VOLPE ARBËRESHË3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – “Gjitonia” modello consuetudinario e sociale della minoranza Arbéreshè, rappresenta per essi, il luogo dei cinque sensi, una barriera immateriale, priva di porte, elevati o fossati; essa vive grazie al patto di mutuo soccorso in favore dell’idioma, le consuetudini e le credenze, tutte da tutelare.

Simulazione di parentado, stringe rapporti di collaborazione materiale e immateriale, nella continua ricerca di un remoto legame di sangue, risalente ai tempi della famiglia allargata Kanuniana (si dice Gijtoni è come un Parente).

Essa rappresenta il fuoco domestico condiviso, il cui calore vuole unire idealmente,  propagandosi attraverso l’uscio di casa, poi lungo gli incroci e i vicoli sino a giungere nei palcoscenici di confronto, scontro per terminare nel mutuo soccorso dell’operatività agro silvo pastorali.

Un percorso ideale che riverbera patto, lungo e confini indefiniti dei “Rioni”, dove ripete più volte, allargandosi e restringendosi come un cuore che pulsa, colmando e svuotando valori gesta e attività mai stipulate in forma scritta preventiva, in quanto promessa .

Gjitonia non è mero vicinato indigeno, è la radice di una cultura antica, come un fiume che trasporta senza consumare le cose nel tempo.

Riconoscerla  non è semplice, in quanto, bisogna viverla avendo padronanza di tutti gli ingredienti basilari, essa non non ha tempo, ma segna le attività attuate nel confronto con altri simili, il tutto, se opportunamente predisposte è  avvertito e vissuto anche nei tempi  brevi del turismo di massa, specie quando è fatto con criterio raffinatezza e garbo storico in accoglienza.

Gjitonia non sono le strade, le porte prospicienti la cosa pubblica, le piazze o le strade, giacché è l’insieme ambiente naturale, costruito e uomo a rendere possibile questo fenomeno così denominato in Arbéreshè.

Oggi, all’interno dei Katundë di minoranza storica, si potrebbe vivere identicamente, questa favola sociale, nonostante la globalità e la modernizzazione, che si dice che l’abbiano spenta o addirittura terminata.

Vero è che non è la dimensione del luogo, o le forme delle porte, le pieghe urbanistiche o le epoche a fare Gjitonia, in quanto, essa rappresenta la via maestra per la convivenza sostenibile, tra generi e culture dissimili.

Lo “Sheshi” del futuro ha cambiato le dimensioni, accorciato le distanze con i media sempre più presenti;  tuttavia il fenomeno sociale non è mutato, ha bisogno solo di essere applicato secondo le antiche metodiche, ovvero, l’uso del patto di mutuo soccorso, che  in tutte le latitudini si concretizza e diventa “ Integrazione”.

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FLUSSI DI MEMORIA COME PROLOGO (tratto da”Poesia e Memoria Popolare a Santa Sofia d’Epiro” di Elio Miracco)

FLUSSI DI MEMORIA COME PROLOGO (tratto da”Poesia e Memoria Popolare a Santa Sofia d’Epiro” di Elio Miracco)

Posted on 29 ottobre 2021 by admin

Poesie e memorie popolariSANTA SOFIA D’EPIRO (di Elio Miracco) – La cultura analfabeta si conserva, si trasmette e si tramanda con l’oralità e con la memoria, ma scomparsa la civiltà contadina tutto è affidato alla scrittura o consegnato ai computer, così il suono della campana è ovunque identico, anzi è regolato elettronicamente senza il contributo creativo del campanaro che componeva e ripresentava le proprie note a festa o a lutto.

Centro di formazione della famiglia non è più la vatra – il focolare -, e nello stesso tempo sono scomparse le piccole botteghe artigiane, dove si elaboravano e si fissavano nella mente versi e racconti da consegnare alle nuove generazioni.

Lo spazio lasciato vuoto è stato occupato da bar e ristoranti, luoghi d’incontro dei giovani che restano lontani da chi tramanda e vivono in una specie di autoesclusione generazionale, in un recinto di incomunicabilità con gli anziani, spesso con se stessi. Si è creata una bolla mnemonica, una “amnesia” che strozza lo scorrere del passato nel presente e la conseguente innovazione.

Questa non vuole essere nostalgia del tempo nel quale una bottiglia d’olio costava quanto l’equivalente di un giorno di lavoro nei campi, né commoven­te pietas per un mondo scomparso, ma testimonianza di stagioni estranee a chi è nato e cresciuto con la televisione, in una società preindustriale, se così si può chiamare in queste terre, economicamente povere, il repentino dis­solversi della cultura contadina.

Quindi l’assenza di una memoria anche sen­sitiva che non percepisce più il profumo del pane che si diffondeva nelle gji­tonie – vicinato -, che non vede le nonne, incanutite prima del tempo, o le mamme sedute, a primavera, sul sedile, sjeti, o sul gradino della porta di ca­sa davanti allo sheshi-spiazzo -, filare la bianca conocchia o sferruzzare ru­vide calze di lana e pesanti maglie interne per l’inverno; che non ode il sordo calpestio sul selciato degli zoccoli dell’asino rientrare, al tramonto, dalla campagna e fermarsi per dissetarsi te fìshkialari-all’abbeveratoio sopra – o posht-sotto -, o il tric trac del telaio che durante il giorno rompeva gli intri­ganti silenzi, e gli strilli festosi dei bambini confusi con lo starnazzare dellegalline che razzolavano alla ricerca di cibo, o il fabbro che batteva ritmica­mente il ferro incandescente da forgiare; una memoria per quanti non vivo­no più l’alternarsi delle stagioni con i suoi riti, i suoi frutti e le feste che ac­compagnavano semine, raccolte dei prodotti della natura e vendemmie, per quanti hanno perduto il sacrale gesto di baciare il pane quando un boccone cadeva a terra, per chi ha dimenticato che alla vigilia dell’Epifania si porgeva l’orecchio nel tentativo di ascoltare gli animali che parlavano.

Vuole essere soprattutto un rinnovare il ricordo, almeno nei nomi, dei tanti anonimi verseggiatori che con i loro vjershè- versi – per amori con­quistati o perduti, per la gioia che diffondevano con i canti negli sposalizi e per la quotidianità elevata a poesia, allietavano la comunità che viveva di queste piccole cose.

Ancora oggi si conserva qualche soprannome, Grofi i Terezines (Ceramella Gennaro), oppure il solo nome o cognome ad es. Xha- kineti (Baffa Gioachino), Miniti (Bugliari Armenio Angelo), Karuzi (Caruso Paolo), Kurti o Ciciandoni (Curti Francesco), Skorci (Scorza Vincenzo), que­st’ultimo felice traduttore di poesie apprese nella scuola elementare.

Le loro voci o musicalità, vuxhet, distinguevano un verseggiatore dall’altro, tra le più conosciute continuano ad essere rievocate vuxha e Xhakinetite vuxha e Minititche nelle serenate, caso unico, cantava insieme alla moglie.

Ma la più celebre e nota aria del pipiceli1 ha perduto la sua paternità.

Musicalmente proponeva toni alti e bassi, dridhet vuxha – la voce vibra -, termine che ri­manda al tessuto particolare della coha- gonna -, in seta e cotone. Si pensa che abbia preso nome da un vjersh dedicato a una ragazza che indossava quel tipo di coha, poi riferito, per espansione semantica, all’uomo kush èsht kipipigeìsaììtatur- chi è questo giovane saltatore – con il significato di “bel giovane intraprendente”.

Da quando si è affermata la società alfabetizzata, i nuovi modelli di vita o i nuovi bisogni, influenzati dalla “modernità” televisiva, respingono o rifiu­tano la circolazione, all’interno della comunità, di questi canti così come la scuola dell’obbligo, giustamente elevata a tredici anni, ha generato modelli culturali diversi e omologanti. II mondo contadino si è spento non in seguito a un’agonia ma improvvisamente, dissoltosi, dopo cinque secoli, nella civiltà industriale della emigrazione che ha spezzato la trama sociale del paese, la­cerandone il tessuto.

Una sdrucita tela antica i cui spazi vuoti non possono la stessa moderna urbanizzazione, dagli anni Ottanta, con la costruzione di ville isolate e “falansteri” condominiali, sproporzionati alle case di uno o due piani di un tempo, ha contribuito alle ferite spaziali e il paese arbèresh, katundi, è diventato una struttura a brandelli del nuovo assetto urbano e sociale, determinando la scomparsa della gjitonia.

L’identità, elaborazione di secoli di contatti con le comunità romanze, si era mantenuta anche per il processo di conservazione, per quello che Saussu­re chiamava spirito di campanile o etnocentrismo.

Ma spesso ‘”altro” è stato talmente interiorizzato in un inconscio crogiolo da diventare elemento ar­bèresh.

Un ibridismo identitario vivo ed elaborato per gli incontri con altre culture che hanno contribuito ad arricchirne le caratteristiche.

Nel frattempo gli Arbéreshè, perduta la vitalità linguistica, tentano il re­cupero culturale cercando di porre degli argini con una tutela che fol-clorizza e alimenta elementi ormai diventati artificiali.

Le stesse manife­stazioni folcloristiche, alle quali basta aggiungere arbèresh, “week-end ar­bèresh”, diventano una ricostruzione di balli e canti in costume tradizionale, con protagonisti i bambini che si esibiscono e i genitori che vivono tenera­mente questi momenti alla presenza di distratti spettatori locali.

Mentre qualche turista lèti- italiano – alla ricerca e riscoperta di un mondo esotico, percepisce una realtà vivente e non uno spettacolo dal palcoscenico che ri­propone scene simulate, quindi una realtà artefatta.

E purtroppo da artifi­ciosità in artificiosità si è giunti alle superficiali pubblicazioni finanziate da enti comunali nelle quali si legge di “rosa balcanico” per il colore, forse uno dei pochi in commercio a Santa Sofìa, di una casa dipinta con questa tinta nella anni Cinquanta, di “postura di guerriero balcanico” per un pastore ac­covacciato, o addirittura di piante urbane che richiamano la geometria dell’accampamento militare romano.

E ancora di elementi architettonici balca­nici, ignorando che solamente a più di un secolo dal loro arrivo in Italia gli Arbéreshè ebbero il permesso di costruire con “calce e arena”, dopo esser vissuti in capanne che a volte incendiavano per non pagare il “focatico”.

Ormai il villaggio è diventato un villaggio globale e a Santa Sofia si vive con internet, con le televisioni satellitari, si va in crociera, si fa turismo nei posti alla moda e si frequentano scuole e università. Sono il segno del pro­gresso che inesorabilmente incomincia ad espellere quanto non è più fun­zionale nella società estesasi oltre la frontiera invisibile, che un tempo cir­coscriveva la comunità.

 

 

https://www.google.it/books/edition/Poesia_e_memoria_popolare_a_Santa_Sofia/J35cAwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&dq=le+vallje+danza+tipica+albanese&pg=PA20&printsec=frontcover

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MANZANERA (Manxana e zézë)

MANZANERA (Manxana e zézë)

Posted on 19 ottobre 2021 by admin

20210106_155311NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – I fenomeni di persecuzione indirizzati verso ambiti, gruppi, minoranze religiose e culturali sono opportunamente arginati, con idonei strumenti, contenuti nel diritto internazionale; a garanzia di ogni forma con caratteristiche storiche minoritarie.

Quando si parla di tutela o valore dei centri minori di origine Arbëreshë, si entra a pieno titolo nel tema citato, rivolto al senso conservato nel perimetro del centro antico minore; sono proprio questi ad attende le necessarie misure, atte a contenere la marea di liberi operanti culturali, armati di mantici inenarrabili.

Notoriamente le minoranze storiche siano citate nell’articolo, sei, della Costituzione Italiana il cui enunciato precisa che: La Repubblica tutela con corrette norme le minoranze linguistiche. … Questo sintetico articolo s’ispira a un efficace principio di rispetto della lingua parlata da una comunità e precisa senza ombra di dubbi alcuno la presenza in Italia di minoranze linguistiche, ossia gruppi che non parlano l’italiano come prima lingua.

Il prodotto legislativo del 1999 n° 482, avrebbe dovuto consentire di adottare misure sostenibili rivolti ad ambiti, gruppi, minoranze religiose e culturali, attraverso il diritto internazionale, secondo cui ogni insieme riconosciuto quale forma storico minoritaria, poteva attingere risorse per sostenere la propria forza minore.

A ben vedere, visti i risultati cui si è approdati dopo oltre un ventennio di applicazione della legge 482/99 è opportuno rivedere l’insieme del dispositivo aggiungendo e rifinendo comma, al fine di aprire nuove prospettive di tutela attingendo nelle pieghe degli articoli 3 e 9 della Costituzione Italiana.

L’articolo tre della Costituzione esorta non solo di attivarsi per l’uguaglianza dei cittadini, ma come riferito nella seconda parte, della legge, sottolinea: il compito della Repubblica a Rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Chiara espressione non è adottata all’interno di alcune minoranze storiche, che nonostante allarghino la propria deriva culturale, nulla viene fatto per rimuovere o correggere le attività poste in essere, a scapito di quanti si adoperano per arginare lo stato delle cose .

Se a questo suggerimento costituzionale, non contemplato nei comma della 482 del 99, aggiungiamo cosa propone l’articolo nove della costituzione italiana, nel suo enunciato introduttivo si allargano enormemente le misure dell’orizzonte,in contenuti ambientali e di cose, come qui di seguito enunciato: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Le direttive nascono e sono state specificate, nella legge n. 352, del 1997; avente come oggetto la promozione e il sostegno di progetti finalizzati al restauro e alla valorizzazione dei beni culturali.

Il decreto lgs. n. 42/2004, in fine definisce senza ombra di dubbio alcuno, il codice per i Beni Culturali e Paesaggistici e per la prima volta si giunge a dare una definizione di bene culturale, infatti, l’articolo 2, sancisce che: Il patrimonio culturale è costituito dai “beni culturali e dai beni paesaggistici”.

  • Sono beni culturali “le cose” immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, il cui interesse è rivolto ai valori artistici, storici, archeologici, etnoantropologico, archivistici e bibliografici e le altre cose individuate dalla legge o in base a questa, come testimonianze aventi valore di civiltà.
  • Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge.
  • I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione, della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela.

Va rilevato che le misure non identificano beni specifici, ne fanno una graduatoria del bene, giacché, oltre al paesaggio, la tutela mira ai beni individuati come “cose materiali ed immateriali”, lasciando agli esperti il valore decisionale; sulla base di questa breve introduzione nascono spontanei i seguenti interrogativi:

  • Perche nel 2004 in piena espunzione delle attività di tutela della minoranza non è stata posta la giusta attenzione e rendere la 482/99 più incline alle esigenze che erano poste in essere con le tante attività il cui risultato lasciavano il tempo che trovavano, senza migliorare nulla della regione storica?
  • Perché si e terminati, nel ritenere che solo l’aspetto idiomatico, andava preservato, immaginando la minoranza storica un fenomeno di voci altre sfuggito alla terra di origine e per questo andava riportato nell’ovile Albanese?
  • Quale attenzione è stata rivolta alle attività d’innalzamento dei centri antichi tipizzando il modello o meglio la cellula abitativa di base estrattiva e in evoluzione additiva?
  • Come si sono svolte le ricerche per la definizione della Gijtona che è finita per essere identificata come esempio copiato dal compagno di banco indigeno?
  • Quale attenzione è stata rivolta ai percorsi bizantini,nel meridione Italiano, poi diventati dal XV secolo la stella cometa, per mantenere la rotta nel percorso di insediamento?
  • Quale valore si è dato alle eccellenze in campo sociale, culturale, della scienza esatta o come liberi pensatori di un mondo nuovo che ancora attende il suo momento di attuazione?

Questi accenni e molti altri ancora sono le domande cui gli stati generali, non hanno saputo rispodere, ne hanno definito forme preliminari di progetti multidisciplinari.

Tutte le mancanze sono poi emerse, quando la pandemia, ha imposto conferenze non in presenza e tutta l’inesattezza delle cose è venuta a galla con tutti gli abbarbicamenti connessi.

Una e non certo è la meno importante è la definizione dell’insieme minoritario, ritenuto a torto, “eccellenza di nomadismo perenne”, nonostante sia estrapolato diffusamente nelle capitolazioni, con le case di pietra e arena, segno evidente di popolazioni stanziali.

La minoranza non è fatta di episodi d’incontro, tra due o più persone operose ad accendere un fuoco per iniziano a parlare in voce altra, poi magari se piove vanno via a e lasciano i carboni ad ardere e bruciano l’ambiente circostante.

La minoranza storica contiene un patrimonio identitari fatto di cose materiali e immateriali, essa si ferma per costruire e solo dopo accende il fuoco della casa, identificata come la prima cosa da proteggere e mai lasciata al suo destino, perché culla di un mondo antico.

La minoranza storica non inquina, lasciando imprudentemente fuochi accesi per discutere di cose futili, essa rispetta la natura con cui dialoga, al fine  di garantirsi le risorse e la continuità storica di un identificato luogo parallelo alla terra di provenienza; tutto questo non si può sintetizzare nel tempo che bruciano sarmenti o si fa un discorso inutile, fatto in voce altra; in altre parole la minoranza stoica non è un fuoco di paglia acceso da comuni viandanti.

Come si possa parlare di minoranza, senza avere consapevolezza del labirinto costruito, denominato sheshi, “il rione” sovrapposizione di tempo e ingegno; cose prodotte dalla minoranza, per segnare indelebilmente la presenza, nella più stretta collaborazione con la natura; l’ambiente parallelo individuato oltre il fiume Adriatico accanto ai segni bizantini.

Per terminare si vuole rilevare che l’appellativo “Regione storica diffusa Arbëreshë; il modello più longevo di integrazione mediterranea”, ha ricevuto i complimenti Presidenziali, a cui si è aggiunto l’intero gruppo della sua segreteria, nel novembre del 2018.

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UNA DIPLOMATICA PER DEFINIRE I FATTI, LE COSE E Il TRASCORSO DI UNA FIGURA

UNA DIPLOMATICA PER DEFINIRE I FATTI, LE COSE E Il TRASCORSO DI UNA FIGURA

Posted on 10 ottobre 2021 by admin

Muro

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La diplomatica è la scienza che ha per oggetto lo studio critico del documento storico, al fine di determinare il valore come testimonianza esatta.

Essa è una disciplina nata nella seconda metà del secolo XVII, con oggetto di studio i concetti, le tecniche e le procedure per giudicare la genuinità di un documento, tramandato secondo i canali dell’ufficialità.

Inizialmente era intesa come scienza ausiliaria della storia, tuttavia, nel corso del XIX e XX secolo è diventata aiuto indispensabile per la ricerca storica.

La diplomatica, trova la sua origine con i primi studi filologici, compiuti dagli umanisti, il fondatore fu Francesco Petrarca, nel 1361 dimostrò la falsità dei pretesi privilegi concessi agli Asburgo d’Austria da Cesare e da Nerone, su richiesta dell’imperatore Carlo IV.

Un secolo più tardi, il romano Lorenzo Valla, nel 1440, pose l’accento sulla falsità della donazione che l’imperatore romano Costantino fece a papa Silvestro I, noto come “Discorso sulla donazione di Costantino”, falsamente creduta autentica e da allora in poi ebbe inizio una vera e propria verifica delle cose e gli uomini della storia.

La premessa pone l’accento su cosa è divulgato  in forma di un “Discorso”, specie se il teorema tratta di quanti vissero i territori paralleli prima ad est e poi anche ad ovest del “Fiume Adriatico”.

Queste popolazioni, note alla storia non per atti trasmessi e compilati da scriba, ma solo per la forma orale, quando iniziarono a definire forme  grammaticali, una volta compilate e poste a riposo, non smisero più di lievitare sotto i flussi dei venti nuovi.

E’ per questo che lo studio della storia, i fatti, le cose e gli uomini di questo popolo, non devono  essere affidati alle trascrizioni ereditate dalle lievitazioni di un criscito ignoto, in quanto urgono gruppi di lavoro pluri disciplinari, in grado di comprendere avvenimenti, date, luoghi, per  tessere le tele della storia,  secondo l’idioma dei lasciti ereditati.

Lo studioso attento conosce e si confronta sistematicamente con altri suoi della stessa radice linguistica, si adopera a tracciare linee di progetto preventive, intercettando cose e fatti reali, terminando poi in seguito, La ricerca, con la verifica generale con le memorie storiche pure.

Se un “Discorso” è fatto per le genti che non usano modelli di scrittura, oltretutto mai condivisa, non può esimersi dal nominare eccellenze, fatti, argomenti e atteggiamenti, secondo un filo logico che ha un inizio, uno svolgimento e una fine, che poi non è altro che la radice fatta di consuetudini antiche, che solo i designati conoscono.

Solo in questo modo non si dispongono ombre o  seminano dubbio sulla genuinità del prodotto editoriale divulgato.

Il processo del “Discorso” riceve il riconoscimento condiviso, solo se la farina contenuta viene dal sacco di quanti sanno conoscono e anno vissuto un determinato ambiente, glia ltri che si muovono nel fatuo del sentito dire, come ad esempio, il pensiero  del  libero pensatore del 1799, divulgato da voce altra con trascrizioni sottratte finisce di proiettare ombre magre.

In altre parole riferiamo degli editi allocati, in Via San Sebastiano, che non furono distrutti, diversamente da quanto posseduto in Via Sant’Agostino degli Scalzi, dove, nell’agosto del 1799 tutto fu dato alle fiamme, ad esclusione delle 33 monete, di ricompensa per il contadino in affitto.

La conferma del furto viene, esclusivamente, dalle competenze letterarie, infatti solo un eccellente della lingua Greca, capace di leggere e tradurre tutte le  forme dialettali elleniche, poteva fermarsi nella trattazione, davanti al baratro senza urgenza di tuffarsi nelle incertezze dello scrivere il parlato antico, limitandosi per questo alla mera comparazione di confronto e origine, senza illudersi si poter volare perché si trovava alto.

Uno studioso ed esperto di lingue antiche, se non azzarda a scrivere, una parlata antica dall’alto del suo sapere, un motivo lo doveva avere.

Egli non lo fa perché intuisce il “valore del codice familiare da non divulgare, ma proteggere”,  diversamente dai gesti inconsulti, dei comunemente, i quali, non avendo altri palcoscenici, agitano le braccia e le mani illudendosi di poter volare.

Quanti hanno avuto il privilegio di crescere secondo regole antiche dettate oralmente per tutelare la propria radice da contaminazioni altre, rende vulnerabile ogni cosa quando il codice termina nelle mani di figure senza testa,  specie per quanti, e sono tanti, non  conoscono il valore di quelle parole e il danno che vanno a compiere.

Giocare con la vita e la morale degli altri è facile, ancora peggio non avere scrupoli nel perpetrarli ad oltranza sino alla morte.

L’arroganza di predisporre trame per esse intoccabili nell’uso  della falce, termina quando rimani solo e ancora non si è consapevoli del maltolto, specie, quando gli altri voltano le spalle, perché parenti fidati e l’attrezzo che ancor prima di coagulare il sangue del primo tradimento,  si muove per attingere altro  sangue fresco, è il segno dell’onnipotenza ciana .

Non dimentichiamo il martello che dal 1811 è utilizzato per demolire fisicamente i presidi della cultura, gli stesi trasferiti per meglio formare nuove generazioni secondo l’antico consuetudinario, di lingua forme di confronto e religione.

L’onnipotente dopo essere stato protagonista negativo negli avvenimenti del 99, ombra occulta di grano insanguinato, coperto dal re, seminando terrore e morte nel natio; veste la toga della legalità, illudendo nel contempo i locali di profitti immobiliari; nessun progetto ha fatto l’uomo più blasfemo nell’uso degli attrezzi da lavoro più noti della storia, un uso che non trova eguali nel corso della storia.

Falce è martello sono gli emblemi dell’operosità e della fratellanza degli uomini, usarli per distruggere e tradire è fuori da ogni regola del genere umano, se si esclude l’inferno dantesco.

Certamente i sospetto non fanno una prova, nessuno troverà mai un atto nell’archivio di stato civile o militare, certificante tanta viltà e cattiveria, restano i fatti e le trascrizioni della storia che non lascia dubbi, anzi sono segnate dal sangue che non coagulerà mai.

L’arma del delitto e un rasoio ideale ad arco che nessuno troverà in alcun luogo, il fabbro modellatore è il Diavolo, il solo titolato a utilizzare le fiamme dell’inferno per forgiare trame di sofferenza diffusa.

Esso è un attrezzò immateriale ben affilato, si chiama la viltà, nessuno li troverà mai, il sangue versato in Piazza Mercato e quello sul grano che non germoglia più, nelle vicinanze de lavinaio, resta e come diceva un noto editore: il sangue sparso non va dimenticato (gjàku i shprishur su hàrrùa).

Non è concepibile attribuire studi millantati nei salotti culturali di Europa, “la questione meridionale”, a quanti non erano in grado di distinguere i palazzi del potere, dalle zone mercatali, dalle cristiane o le bizantine Chiese.

Se nel, 1785-86-87, in Svezia questi studi venivano largamente divulgati e apprezzati dai grandi di quel tempo, come fanno ad essere eccellenza altrui, nel corso del decennio francese?

Tanto meno si possono fare discorsi sulle dinamiche di valorizzazione del meridione, quando non si possiede ancora alcuna conoscenza del territorio e degli atti di Cassa Sacra riportati in Greco Antico, materia e piattaforma per un solo protagonista dal 1783 sino al 1799.

Poi se a questi dati di carattere formativo di tempo e di luogo, aggiungiamo il dato che ogni volta che si sono accesi i riflettori sulla stessa figura, un suo fattore o domestica ha avuto riconosciuto un compenso dalle istituzioni preposte, qualche abbaglio inizia a illuminare la via dei tre indizi, che fanno la prova.

Si può concludere che le eccellenze sono tante e potevano essere giustamente innalzate, sotto  il punto vista della legalità, della cultura, della scienza esatta; valga per citazione un solo esempio, a cui si potrebbero aggiungere altri novemila novecento novantanove: dove i Tecnici della Roma Imperiale in tutto il suo splendore si fermarono e lasciare il passo alla natura, un architetto osò superarli, ciò nonostante nell’inconsapevolezza generale si preferisce promuovere cose persone e arte prive di senso garbo e rispetto.

Tutto questo normalmente conduce nel campo del fatuo dovela confusione è garante, sin anche per le gesta del Beato Angelo di Acri, attribuite a di San Francesco di Paola; il segno evidente che la notte è ancora lunga buia e tempestosa.

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GIACULATORIA INNALZATA! ( per gli Arbëreshë ghe vieshëe e shëluer)

GIACULATORIA INNALZATA! ( per gli Arbëreshë ghe vieshëe e shëluer)

Posted on 19 settembre 2021 by admin

Miracco ii

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La chiamano l’Athena della cultura minoritaria e qui, come accadeva nell’antica Grecia, fattori di genere, abilità fisiche, condizioni economiche, qualità culturali rendevano concreto “l’esposizione”, ampiamente accettata e contemplata per secoli.

Oggi accade che le figure più in vista, sono scelte secondo una strana  “giaculatoria” innalzando  valori di culturali, frutto di studi altrui, come si faceva tra scolaretti quando si copiava il compito del compagno di banco, per poi nel cortile, a missione compiuta gridare:

NE HO FATTO FUORI UN ALTRO!

La premessa serve a individuare lo stato di fatto del luogo dell’inadeguatezza storica, ove senza soluzione di continuità, si carpiscono i concetti e le scoperte culturali di quanti sono cresciuti e formati a Napoli, come  successo nel decennio francese e invece di elevarli per rendergli merito, si buttano a terra volgarmente come una Vieshë buttata li per disonorare .

Sono sempre i comunemente a dominare la scena, con falsità, tenendo ben stretto a denti stretti, il filo che lega bugie su bugie,  una trama labile e perversa; essa da un momento collasserà, per il troppo carico di bugie, falsità e tradimenti;  nessuna intercessione celeste si produrrà per sostenere, quel luogo di pena infernale, castello di carta in salsa di favola e tradimenti.

Se un paese è appellato, capitale di cultura, similmente alla capitale della Grecia antica, le eccellenze che vi nacquero, andrebbero sostenute e poste in prima fila, non abbandonate per poi avvicinarle con lo scopo di creare canali di favore ed esporre i maltolti culturali agli ignari di turno, perché miseri formati, i quali per incompetenza storica preferiscono atto poco nobili, il cui risvolto  termina con il lascito del tempo che trovano.

Una carovana di saltimbanchi dei corridoi degli archivi pronti ad allargare la deriva; la cui meta si finalizza nell’atto di fare scena irreale, pesci da circo fuori d’acqua,  si agitano sventolano le pinne a modo di fazzoletti al vento, aooariscono muti senza nenia, un elevato inutile che subito dopo precipita a jàcere.

Se il luogo della “giaculatoria” è inteso come porto sicuro, per gli instancabili pescatori di storia, questi dovrebbero essere protetti, non perennemente buttati a mare e come se non bastasse, nel momento del massimo confronto culture, preferirli alla povertà di contenuti, alla ricchezza culturale ereditata.

Da quando l’uomo è diventato civile, a trionfare non è stato la “giaculatoria” del buttare, perché la forza del contro canto innalzato con sentimento e credenza è più pregante e vince perché sostenuta cose con senso e radice:

VERGOGNA! VERGOGNA! VERGOGNA!

( Turpë! Turpë! Turpë!)

Si potrebbe ipotizzare che fare errori è umano, ma quando la deriva della non cultura, persiste da oltre un millennio, si potrebbe ipotizzare che  luogo, l’aria, il vento, il sole o l’acqua che sono malevoli, ma una buona dose di colpa senza ombra di dubbio spetta al genere umano che risiede.

Chi vi soggiorna è una comunità abbandonata a se stessa, nonostante abbia avuto innumerevoli possibilità per emergere non è stata mai in grado di attingere cose buone, preferendo  sempre il faceto e volgere lo sguardo dove tira il vento e la sabbia fine imperterrita da fastidio alla vista e con la sua consistenza appiattisce la prospettiva culturale.

  • Se oggi il luogo è noto sin anche per viltà  germana, non ha consapevolezza del perché il re preferì reclutare a meta settecento, un prete locale,  eccellenza di fedeltà cristiana e sociale a cui affidare la credenza e le anime di quanti componevano l’esercito noto come Real Macedone;
  • Se nel vasto Regno di Napoli nel 1798, in questo luogo, nessuno ha avuto il coraggio di innalzare l’albero della pace, nonostante un suo figli era ministro di quel governo, che doveva essere unico e indivisibile;
  • Anzi va aggiunto che quando quel governo terminò la sua breve parabola e il figlio“esposto, fini per essere cattivamente afforcato”, preferirono ignorare l’accaduto, rievocandolo addirittura solo un secolo dopo la disfatta, rimanendo nel contempo a vivere come topi nelle proprie dimore estrattive;
  • Se per cinque giorni, pochi anni dopo lo scorrere di quel secolo, ignorarono il Vescovo, per essere terminato rimanendo tutti fermi vigili e nascosti, dopo essere stato spogliato di ogni bene, in quelle cinque vergognose giornate che non terminano mai;
  • Se non si ha memoria del prete, che per la sua morale religiosa e civile fu nominato Vescovo di rito Bizantino nel tempo in cui il sole traccia un giorno, perché serviva elencare cosa fosse ancora indenne dell’istituzione fiore all’occhiello del bizantinismo meridionale e deciderne le sorti;
  • Se non si ha consapevolezza di segnare, marcare o circoscrivere dove è avvenuto il primo delitto istituzionale del meridione in età moderna;
  • Se ancora oggi non si ha alcuna consapevolezza di cosa rappresenti e denoti la vestizione tipica femminile arbëreshë, giornaliera, di festa e di matrimonio, unico componimento artistico non scritto, perché consuetudine ereditata oralmente;
  • Se non si ha consapevolezza delle cose da preservare per evitare questo stato di cose che non avrà mai fine cosa si puù mettere in campo di costruttivo senza aver preso provvedimenti relativamente a tutto ciò?

Tutte queste citazioni assieme a tante altre che rimarranno ignote, per la troppa fiducia i verso proponimenti di seggiola jàcere; allo scopo servirebbe cambiare totalmente registro e aprire la scena  a quanti la ricerca sono in grado di confrontarla con il territorio, essi sono gli unici capaci a farlo perché hanno seguito percorsi accademici e curriculum specifici, quelli indispensabili a leggere forme di progetto storico di natura e uomo.

Per terminare e rendere merito a un “figlio alto” che pochi conoscono ma molto ha fatto, , si vorrebbe rilevare il valore di questa figura locale del secolo scorso; egli dopo aver costruito il focolare  per la madre Carmela, si sedeva con lei  e annotava ogni cosa per confrontarla con i lucidi anziani che lui spesso si recava a trovare.

Il fine di questo antico modo di tutelare era quello di comprendere in maniera razionale, come realizzare i solchi dove depositare i semi della cultura identitaria locale, nel giardino, dell’INA Casa,  e pochi anni dopo la sua dipartita quei germogli sono diventati,  quello di cui disponiamo oggi  e senza misura disperdiamo; lui si chiamava “T. Miracco”.

Di lui non c’è via, non c’è luogo, non è stata predisposta la ben che minimale manifestazione, evento o nota in suo ricordo, nonostante oggi, la consuetudine locale vive  delle sue regole, nella festa padronale e a tante altre manifestazioni durano per  l’impegno profuso quando si applicare alle cose arbëreshë.

La sua opera, avremo modo di approfondirla, con più particolari, in quanto era una vera forza naturale e trainante della consuetudine arbëreshë; va accennato che segnò la nascita e il proseguo della Banda Musicale, del Gruppo Folcloristico, le regole che seguivano prima, durante e dopo il matrimonio, i festeggiamenti religiosi locali, la pronunzia, senza mai tralasciare ogni piccola ricorrenza, indispensabile allo svolgersi delle stagioni arbëreshë.

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RICORDATO PER VOLERE DI LUIGI DE MAGISTRIS IL PORTO SICURO DI DONICA ARIANITI COMNENO LA MOGLIE DI GIORGIO CASTRIOTA

RICORDATO PER VOLERE DI LUIGI DE MAGISTRIS IL PORTO SICURO DI DONICA ARIANITI COMNENO LA MOGLIE DI GIORGIO CASTRIOTA

Posted on 16 settembre 2021 by admin

LAPIDE DI VIA SANTA CHIARANAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel discutere dei tanti luoghi della storia arbëreshë qui a Napoli, non molti mesi addietro, ebbi modo di affinare un episodio fondamentale, grazie alla guida attenta dallo studioso ing. Giovanni Panzera, relativi agli eventi, secondo i principi dell’ordine del drago, che videro accolta  a Napoli la moglie dell’eroe nazionale Albanese Giorgio Castriota, “comunemente appellato Scanderbeg”.

Alla luce dei fatti, risulta che dal 1468 al 1502 la regina dimorò a Napoli e dall’agosto del 1469, presso S. Chiara, per chiudersi nel più riservato dolore di regina e madre afflitta dedicando, il suo tempo alla preghiere, sino a quando la Regina Giovanna di Trastámara (anche Giovanna III) gli affidò il ruolo di madre di corte.

Tornando ai giorni nostri, questa storia di accoglienza, non avrebbe avuto la giusta misura di lustro, se non ci fosse stata la mia ventennale collaborazione con il collega e Consigliere Comunale di Napoli, architetto Gaetano Troncone, il quale si è subito prodigato a farmi incontrare il sindaco Luigi De Magistris, quest’ultimo, nell’immediatezza del nostro incontro, ben accolse la proposta di allocare una lapide in memoria, di quanto gli veniva esposto con dettagli e particolari inediti, specie quando veniva sottolineato, il dato secondo il quale la nobile mogli dell’eroe Albanese, a Napoli, trovo il porto mediterraneo sicuro, dove poter vivere ricordando e onorando l’eroe Albanese deceduto, in quanto di una principessa si stava trattando.

Questo incontro avvenne nel mese di febbraio nella sede comunale di Palazzo San Giacomo di questo anno, a seguito mi affrettai a disegnare il manufatto marmoreo da apporre.

Nel contempo, coinvolsi il Sindaco, il Vicesindaco e studiosi locali di Greci, l’unico Katundë Arbëreshë, dove ancora si parla l’antica lingua e si vive secondo regole consuetudinarie antichissime.

L’amministrazione Comunale di Greci ha subito predisposto misure per ricambiare, in forma di rispetto, l’accoglienza che i partenopei rivolsero alla nobile donna, l’atto si concretizza nel donare il manufatto in marmo per ricordare il luogo della memoria del condottiero scomparso, con una duplice dicitura in italiano e in Arbëreshë.

Il sindaco De Magisteri ha preso a cuore la storia di Scanderbeg e della moglie Donica Arianiti Comneno e nel breve temine ha riunito la commissione toponomastica, la quale letto e trovato conferme, ha approvato l’apposizione della manufatto marmoreo, nei pressi del Monastero di Santa Chiara, lungo l’omonima via, dove a breve avrà modo di essere allocata il marmoreo di ricordo.

Una nota di merito va al Consigliere Comunale Gaetano Troncone, per aver innescato tutto ciò, ma un plauso inestimabile, che tutta la Regione storica Arbëreshë e l’Albania deve riconoscere, va al Sindaco Luigi De Magistris, il quale pur dovendo amministrare una città che conta milioni di abitanti, e le relative problematiche a cui va rivolto tanto impegno, ha espresso interesse particolare al momento storico, svoltosi nei pressi del complesso di Santa Chiara; diversamente da tanti altri amministratori minori, i quali avendo meno impegni, sprecano e cancellano la memoria delle cose arbëreshë, preferendo esclusivamente attività  senza radice, che terminano inesorabilmente, nel lasciare il tempo che trovano.

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LE CASE, LE CHIESE, IL BOSCO, IL CIELO, LA METRICA, LA STORIA E LE ARTI ARBËRESHË

Protetto: LE CASE, LE CHIESE, IL BOSCO, IL CIELO, LA METRICA, LA STORIA E LE ARTI ARBËRESHË

Posted on 13 settembre 2021 by admin

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