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LE COSE CULTURALI PREROGATIVA AI TEMPI DI LLALË COSTA B., POI VENNE IL NULLA

LE COSE CULTURALI PREROGATIVA AI TEMPI DI LLALË COSTA B., POI VENNE IL NULLA

Posted on 20 agosto 2021 by admin

COsta

Nell’era moderna, per “Bene o Cose del Patrimonio Culturale” s’intende cosa e quanto contribuisce per tracciare la storia di una ben identificata macro area.

Il patrimonio, per questo, abbraccia un vastissimo numero di elementi definiti e indefiniti, ragion per la quale i legislatori per evitare di omettere ogni bene, li identifica come:

“cose del patrimonio storico culturale”

Di esse sono parte inscindibile:

  • i Beni d’interesse archeologico, mobili o immobili, testimonianza irripetibile, di un territorio;
  • i Beni d’interesse storico e artistico, mobili o immobili aventi relazioni con la storia culturale;
  • i Beni di natura ambientale come i paesaggi, naturali o trasformati dall’uomo e le strutture insediateve (urbane e non) valori di civiltà, espressione del genius loci;
  • i Beni “librari” quali manoscritti, carte geografiche, incisioni, produzioni letterarie etc.

Un ventaglio di cose che sfugge alla sensibilità condotta dai comunemente, i quali per scarsa formazione e rispetto delle cose del pesato, le identifica come superfetazioni o elementi vetusti, di poco conto, dei quali si ritiene più comodo farne a meno, sostituendoli o rifinendoli con inopportuni apparati.

Questo succede per strade, piazze luoghi ameni, edifici privati, pubblici e di culto; è proprio di quest’ultima categoria che si vuole menzionare un aneddoto, che per molti a suo tempo sembrò una reazione inopportuna, ma con il seno del tempo, oggi dobbiamo rendere merito all’intuito dell’anziano tutore delle cose e della storia arbëreshë di Santa Sofia.

Era la fine degli anni quaranta del secolo scorso e la chiesa matrice dedicata a Sant’Atanasio, allocata nell’omonima piazza dedicata al piccolo, veniva segnata con apparati caratteristici della chiesa latina.

Il progetto voluto dall’allora Parroco G: Capparelli, mirava a sostituire la cadente copertura a due falde contrapposte, con una più moderna a forma di carena rovesciata in cemento armato.

L’esperimento strutturale, adottato e collaudato dai tecnici vaticani, i veri progettisti, rispondeva a questa esigenza diffusa, nell’aquilano, in mote chiese di quella regione.

Il progetto mirava a calettare all’interno del perimetro murario antico, un telaio strutturale di pilastri, travi perimetrali e soletta verticale di irrigidimento, per sorreggere volta e campanile.

Per l’epoca il progetto si riteneva all’avanguardia e migliorava la fruibilità in sicurezza del sacro volume Sofiota, ad opera di manovalanze locali e maestranze indigene.

Quando l’opera era al termine e le risorse risultate, grazie alle donazioni dei fedeli, soverchianti, indusse l’entusiasmo del prete locale a sostituire anche la storica porta dell’ingresso principale a due battenti, in legno massello, rifinita da un particolare bugnato.

Opera di un falegname, che per sfuggire al carcere certo nel 700, trovo riparo in chiesa e per ricambiare la popolazione per  garantito il rifugio, si adopero a realizzare tutte le opere di falegnameria di cui la chiesa mancava, dai tempi dai sua edificazione.

Nel cantiere di fine quaranta del secolo scorso, ormai al termine dei lavori della copertura, si aprì una discussione tra contrari e favorevoli, i di più per sradicare l’antico varco di legno, per uno più moderno, lucido, nuovo e duraturo.

La sera quando il cantiere chiuse, uno degli operai, nel transitare davanti alla casa di llalë Kosta (Zio Costa), essendo lui uno degli attenti finanziatori locali, domandò, all’operaio, come si procedeva e se le cose andavano bene, nell’avere come risposta, la novità di voler sostituire la storica porta principale, per una più bella, lasciò a dir poco perplesso il vecchi saggio.

All’indomani di buon ora, il saggio Sofiota, si fece trovare  davanti alla chiesa e quando, prete, geometra e i referenti mastri del cantiere furono tutti presenti, pretese che gli si rendesse conto di cosa li avesse spinti a quella malevola manomissione.

Segui un vivace confronto verbale, dal quale emersero tante cose buone per conservare e tutelare lo stato del sacro varco, rispetto alle irresponsabili motivazioni per dimetterlo e con il ricavato riscaldare il focolare di qualche capomastro, ragion per la quale, llalë Costa Baffa, ebbe ragione su tutti.

Nel mentre, si allontanava l’anziano tutore di cose antiche, non fece a meno di brandire il suo bastone esclamando: è fatto dello stesso legno della porta e se qualche addetto, ha dubbi sulla solidità di questa essenza, si faccia avanti e in ogni momento sarò pronto a dimostrare la durezza di questa essenza, dandolo in testa, a quanti mettono in dubbi la solidità di quel varco lavorato.

Sono trascorsi quasi otto decenni da quel dì, la porta maggiore della chiesa di Sant’Atanasio, continua ad aprirsi e chiudersi segnando tempo ed epoche, nessuna delle mattonelle del suo raggio d’azione ha scalfitture alcune, dando ragione alla previsione del vecchi saggio Sofiota.

 

P.S. il racconto è gentilmente staro reso noto da Benito Guido, che come llalë Costa interviene ogni volta che si manomettono le cose del nostro paese, purtroppo non ha il bastone, allora accade che i comunemente prevalgono sulla saggezza e la durevolezza della storica essenza.

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IL COSTUME, DELLA MEDIA VALLE CRATI UN PONTE CHE UNISCE LA CASA E  LA CHIESA ARBËRESHË

IL COSTUME, DELLA MEDIA VALLE CRATI UN PONTE CHE UNISCE LA CASA E LA CHIESA ARBËRESHË

Posted on 19 luglio 2021 by admin

Senza titolo-1NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Dopo anni di costruttive interpretazioni comparando e letto le cose che compongono il costume, arbëreshë della media valle Crati (lato preSila), con scritti del bizantini, Alessandrini, si continua a predisporre manifestazioni, orfane dei più minimali principi di vestizione, quali il senso di civile coabitazione urbana, connessa ai valori religiosi della comunità arbëreshë, in tutto il ponte ideale che unisce cosa di casa e credenze di chiesa.

Gli archi e le linee che uniscono, credenze religiose e attività della consuetudine arbëreshë,  riferire del costume tipico la vestizione, l’uso e il portamento, diventa complicato e non di facile attuazione.

Predisporre come come iniziare a indossarlo, serve a terminare con agli elementi utilizzati, sia si tratti, di giovane ragazza, sposa promessa,  la settimana a seguire il matrimonio, e nel resto della vita prima in sposa e poi madre, il vestito giornaliero e terminare con l’allestimento per visite o accoglienza, non sono temi che possono essere trattati senza adeguata formazione .

Le vestizioni, comunemente confuse e di sovente tessute tra di loro, fanno emergere lacune a dir poco paradossali, il cui traguardo conduce irreparabilmente a rendere poco credibili le vesti. 

E’ per questo che senza soluzione di continuità, smarriscono ogni valore in forma di senso o motivo per il quale sono state realizzate dai maestri sarti, alla fine del XVIII secolo, sotto la vigile guida dei saggi lettori, greci bizantini.

Nello svolgimento degli avvenimenti moderni, bisogna stare attenti, quando s’indossano le vesti, in quanto esse richiedono una conoscenza di base, qui di seguito sintetizzata: definire la distanza dal suolo del gallone che non deve salire oltre la pinta delle scarpe; l’aderenza che deve rispettare, avvolgere senza farle apparire le forme anatomiche e mascherare di forma leggibile; gli elementi di rifinitura utilizzati, siano essi veli dorati o di porpora, ori, collane, orecchini o fasce in stoffa, più o meno, colorata hanno un tempo un luogo e una misura per essere esposte.

Del costume esistono diverse trattazioni, unirle tutte e renderle coerenti non è impresa facile, specie se poi a cimentarsi in questo complicato protocollo, sono giovani leve, che non conoscono nulla e non sanno neanche i rudimenti del protocollo; in alcuni casi, nel passato, è stata sfiorata la decenza, a tal proposito  non andate oltre, invitando per questo, figure di ogni ordine e grado, di riflettere, studiare per poi confrontarsi prima di apparire,  come generi fuori da ogni regola di senso.

Il costume arbëreshë della media valle del Crati, (lato presilano) è un trattato consuetudinario, religioso, linguistico, metrico, tramandato oralmente, quanti hanno avuto la fortuna di crescere a fianco o abbarbicati tra queste vesti materne, possono riconoscere il senso del protocollo e ogni piccola diplomatica di riferimento.

Cercare di sovvertire le regole o elevarsi a tutori, valorizzatori o rifinitori di questo protocollo, solo perché di fresca laurea o perché si è in grado di usare una macchina da cucire, al suono di strumenti anomali, fanno male alla regione storica arbëreshë e alla storia di  vestizione.

Quando s’indossa un costume della tradizione arbëreshë, della media valle del Crati, (lato presilano), serve essere lucidi, portatori sani di una tradizione, la cui radice affonda in tradizioni greco bizantine antichissime e non posso essere lasciati alla misura e i tagli dei comunemente che non avendo consapevolezza le cercano altrove e nell’attesa di trovare il bandolo della matassa, inventano.

La parte bassa del gallone pieghettato della zoga, deve mantenersi regolare su un piano orizzontale ideale, le pieghe terminare in vita, senza lasciare ombra, per intercettare o ipotizzare le parti anatomiche femminili, sia dei fianchi che dei glutei.

Il merletto debitamente inamidato, deve aderire alla giacca, quest’ultima a sua volta deve mantenersi aderente alle spalle ai fianchi e lungo la mezzeria dei seni per svoltare attorno alla base del collo.

Questi e molti altri, sono i minimali adempimenti che ogni indossatrice dovrebbe rispettare prima di esporsi in pubblica festività.

Senza dimenticare che il velo dorato ha un significato, diverso da quello porporato e ogni accessoriò di conseguenza completa il senso della vestizione.

Per questo non vanno intesi esclusivamente come mero arricchimento di bellezza o esibizione per carpire consensi, ma messaggio unico e indivisibile di una tradizione antica, che non deve e non può essere assolutamente smarrita per colpa dei noti comunemente.

Certamente non è in questo breve, che si può esporre quanto di sacro e profano è racchiuso in ogni elemento o atto che si compie prima e dopo la vestizione, ma avere un minimo di regola, serve almeno a non lasciare che il tempo intorbidisca ogni cosa.

Come accaduto per le architetture e dell’urbanistica o rimasto ben poco della credenza di Gjitonia, scambiata per quartiere, rione o vicinato, ragion per la quale, il costume sotto l’aspetto materiale è un componimento ancora intatto, difendiamo e divulghiamo, l’immateriale di memoria e il suo valore identitario.

Ritenere che esiste un costume moderno motivando la sua radice nella “llivera”, non è corretto dato che nessuna sposa andava vestita il giorno delle nozze come accadeva nell’aia, quando si separava il grano dalle impurità delle spighe.

Nessuna sposa andava in chiesa a maritarsi, portando il nastro nero apposto al collo, perché quello era un espediente, di gravidanza, che si utilizzava, almeno due settimane dopo, la sera delle nozze.

Questi e tanti altre regole di vestizione, complementari e fondamentali; o si conoscono compiutamente o si lasciano divulgare da quanti né anno consapevolezza, sia del significato storico, sia di quello civile e sia religioso, altrimenti si peccato e si dissipa la consuetudine di radice, se non addirittura si sfocia negli acquitrini del volgare che infanga e sommerge ogni cosa.

Altra cosa fondamentale, da non sottovalutare, è lasciare al libero arbitrio, di giovani operatori, stilisti o disegnatori, o generi diversi, la riproposizione moderna del tema costume, giacché, per il  valore storico è opera complessa, tutto si può fare ed è lecito applicarsi liberamente in questa disciplina, ma almeno cerchiamo di non farlo nelle manifestazioni di tutela e prima di tracciare linee o spalmare colori, si faccia ricerca storica, così ogni figura avrà consapevolezza di cosa inizia a violare con matita e senza alcuna misura di sorta.

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COME RIPETERE L' ESTATE TURBATA

COME RIPETERE L’ ESTATE TURBATA

Posted on 13 luglio 2021 by admin

Firma1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Avere vicino chi fa finta di stenderti la mano, senza coerenza, perché abituato a saltare da un pensiero a un desiderio, senza pace, porta la mente a un evento antico proposto con le stesse cadenze di agosto; ritrarre la mano onde evitare legami, è il minimo dovuto verso quanti si apprestano ad esporsi in altare.

Poi se tutto termina proprio li dove il vile avvenimento ebbe luogo è il segno che essersi allontanato da quei luogo, è stato un gesto saggio e distingue “uno”, rispetto i tanti parenti di quella vergognosa pagina di storia.

Cercare un posto lontano, è il gesto più coerente da attuare, per elevarsi rispetto a questi eterni pendolari della cultura religiosa e di consuetudine civile scambiata per llitirë.

Regione storica di artificiosi paradisi, palloni che non volano e nel silenzio, ovunque vanno scuotono le anime e producono rovine peggio di come il Vesuvio fece in Pompei.

Palloni gonfiati silenziosi, mossi da sibillini rumori orizzontali, colmi da insoddisfazioni perenni a cui si sommano personali turbamenti e vestizioni  di genere senza garbo e senso.

Fuggire dal mondo prodotto da questi esseri colmi di falsa boria, abbarbicati ai valori dell’ignoranza, per questo pura finzione disperata, è il gesto più nobile che possono fare le persone normali e di buon senso, che di agosto prendono le distanze.

Come in un gioco perverso, sono gli stessi comunemente che subiscono il fascino del profano scambiato per sacro, spargendosi, sin anche la testa di cenere per diventar poeti e confonde il tragico dal genuino della barbarie più cruda.

Sono gli stessi che imperterriti, senza mai avere consapevolezza dei loro gesti e teoremi divulgati, valgono meno di una posa di avanspettacolo, parabola di gesti mai attuati dalla storia; tutti accolgono di buon grado, tanto alla fine si prepara la tavola imbandita, dove si moltiplicano pani e ogni sorta di manicaretto vegetariano, animale e idoneo comunque per spartire.

Così facendo conquistano il palcoscenico pieno di luci sublimi, inconsapevolezza, di un nulla prodotto, se la meta di poter  spartire le cose ingorde, di vite mediocri, meschine e non certo di estrazione nobile.

Essi vivono sotto vuoto e in perenne stato d’assedio, combattono nemici spietati, generati nella perfidia figlia dell’ignoranza, dalla noia e dai legittimi derivati della loro mente.

Hanno voglia di salire sempre più in alto, per urlare e mostrare i falsi battiti del cuore e la perversa mentalità, il cui fine mira esclusivamente al vergognoso luogo di provenienza dove primeggia, l’ignoranza allo stato puro.

Chi vuole salvarsi da questa cattiva perfidia deve, per forza emigrare, salire più in alto che può, con il suo irripetibile bagaglio di cultura; solo così la parabola del corvo e dell’aquila ha modo di attuarsi, quando si raggiungono i confini dei comuni volatili, è allora che finalmente il corvo cade e nell’impattare a terra, mostra i limiti e vergogne di nudità, millantate per illibate.

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DUE LINGUISTI E UN GIURISTA NON POTEVANO FARE UN PROGETTO DURATURO DI TUTELA

DUE LINGUISTI E UN GIURISTA NON POTEVANO FARE UN PROGETTO DURATURO DI TUTELA

Posted on 06 luglio 2021 by admin

PARLATE PARLANTI COMMEDIE EINAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando sentiamo parlare di tutela delle minoranze storiche e come fecero gli incaricati del governo all’alba degli anni settanta del secolo scorso, riferiamo dell’art.6 della Costituzione italiana, tralasciando il dato che una minoranza non è solamente un esperimento idiomatico, rispetto al maggiore o maggioritario.

Tutto ebbe inizio agli inizi degli anni Settanta, quando il Parlamento, per attuare la tutela delle minoranze, nominò un “comitato di tre saggi” cui delegò il riconoscimento delle comunità costituenti minoranze linguistiche motivandone l’inclusione.

I designati furono Tullio De Mauro, Giovan Battista Pellegrini e Alessandro Pizzorusso, i primi due accademici linguistici e giurilinguista il terzo; essi in una relazione depositata nell’archivio del Parlamento, individuarono tredici minoranze, corrispondenti alle dodici, riconosciute con l’aggiunta dei Sinti e Rom.

Il 20 novembre 1991 la Camera dei Deputati approvò, per la prima volta, la legge n. 612 ( in 18 articoli) per la tutela delle minoranze linguistiche.

La proposta di legge n. 612 non fu approvata perché fu sciolto il Parlamento prima della sua approvazione anche al Senato.

E nel dicembre 1999, il governo D’Alema (1998-2000), la legge ebbe le idonee approvazioni per inserisrsi nei canali di attuazione.

Ad oggi se analizziamo, senza allontanarci troppo dai primi articoli della costituzione e nello specifico gli art. 3 e il 9, si evince un senso di manchevolezza fondamentale al significato di minoranza, verso aspetti materiali che l’articolo sei della costituzione, non contempla per realizzare una larga visuale di accoglienza della continuità detta minore.

Infatti, se nell’art. 3 cita: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; l’ art. 9: la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Si evince l’ampiezza del tema indispensabile per tutelare compiutamente la minoranza, alla luce dello stato di fatto, relegare tutto nell’art.6, si omette di considerare aspetti materiali, in senso di luogo caratteristico e caratterizzante la minoranza.

Questo spiega anche i risultati, in essere, da quando la legge ha dato avvio alla tutela, privando il percorso di attuazione dagli aspetti del costruito storico e del paesaggio naturale dove i minoritari trovarono dimora.

Se le minoranze storiche contemplate nel provvedimento, non hanno brillato in valorizzazione, si deve proprio a questa mancanza, specie nel caso degli arbëreshë, erroneamente citati come Albanesi che sono altra cosa, storicamente privi di forma scritta, quindi sarebbe stato fondamentale affiancare al genio locale a danze parlate e suoni senza radice.

Questo dato, per gli Arbëreshë in particolare, è stata una mancanza fondamentale, giacché,  ad essere tutelati sono stati aspetti immateriali non riferibili a nessuna forma materiale, preferendo addirittura adottasse esperimenti “indigeni” quando è stato il tempo di citarli.

Alla luce di questi e di altri innumerevoli stati di fatto, mai ritenuti indispensabili, nelle manifestazioni che avrebbero dovuto solidarizzare la minoranza, si è ostinatamente seguita la china idiomatica, al punto tale che i riferimenti storici in figure intellettive si ritengono siano solo quanti si sono cimentati a scrivere una forma linguistica nota per la diffusione orale.

La china così intrapresa restituire uno scenario senza precedenti, al punto tale che si ignorano eccellenze dell’editoria, della scienza esatta, della giurisprudenza e delle lettere classiche solo per citarne alcune.

Preferendo oltre agli scrittori impropri e improbabili, manifestazioni, in cui l’unico elemento in mostra sono le qualità musicali, le attività danzanti e l’espressione sintetica di un costume che si identifica come tipico e in mille sfaccettature dissimili.

Ogni manifestazione non ha mai posto in evidenza aspetti materiali come il costruito storico, nonostante una lingua con la sola metrica canora dovesse avere un luogo circoscritto o naturale, dove poterla riverberare senza inflessioni anomale.

Non è stata posta attenzione verso i modelli abitativi, prima estrattivi e poi additivi, ritenendoli simili a quelli indigeni, cosi come il modello di mutuo soccorso, confuso, con quello mediterraneo che ha tutt’altra radice.

Gli errori sono molteplici e perpetrati sempre dalle stesse figure, le stesse che immaginavano e ritengono ancora possibile che ogni atto commesso o prodotto negli ambiti del costruito potesse essere un prestito indigeno mal realizzato.

Certamente questa è una leggerezza storica senza precedenti e se oggi si ritiene che la legge  di tutela non sia stata efficace, lo si deve al fatto che abbia mirato solo alla salvaguardia da via monotematica.

Non ritenere che gli ambiti attraversati, bonificati e costruiti dal genio arbëreshë non fosse da considerare fondamentali, è un errore senza precedenti.

Una ben identificata minoranza si tutela identificando il territorio dove essa vive e se non è circoscritto come nel caso degli arbëreshë, si identifica come regione storica diffusa.

Essa va studiata identificata e caratterizzare con elementi finiti, gli stessi che nel meridione italiano identificano bel 109 centri antichi, ventuno macro aree, in  sette regioni del meridione italiano.

Davanti a un dato di fatto cosi esteso, seguendo le vicende storiche che rendono la regione storica la più solida in senso integrativo nel mediterraneo, pretende disciplinari di tema, capaci di rendere chiaro ogni aspetto, in senso tangibile ed in tangibile.

Oggi è terminato il tempo di pensare, pretendere e ordinare, che gli alberese sono un esperimento linguistico o esclusiva di una ventilata favella diversa.

Un paese arbëreshë nasce perché è il risultato di un pensiero antico, ideato dal genio arbanon locale, comprenderne il valore non è un esperimento di quanti non possiedono titoli; e ad essi che si raccomanda almeno di vivere con semplicità la conservazione di un paese arbëreshë, cercando di non trasformarlo continuamente in un cantiere a cielo aperto, dove ogni cosa è consentita, compreso cancellare strade della storia locale con adempimenti comuni, solo perché non si è in grado di progettare e capire dove si mettono le mani, quando si tratta dei solchi della storia.

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COME PROTEGGERE LA REGIONE STORICA ARBËRESHË DAI COMUNEMENTE

COME PROTEGGERE LA REGIONE STORICA ARBËRESHË DAI COMUNEMENTE

Posted on 11 giugno 2021 by admin

PieronNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Per produrre un itinerario coerente tra passato, presente e futuro. di una identificata regione storica, sottoposta a riqualificazione per esigenze, di rilancio del territorio, che vive le incontrollate manomissioni per cause indotte o naturali; occorre predisporre una capillare indagine locale per le fondamenta, in campo storico, antropologico, sociale, geologico e le arti poste in essere dagli indigeni locali.

Ciò va svolto in ordine di procedure rispettose dei disciplinari del progetto architettonico, avendo chiari i trascorsi storici, sociali antropologici geologici oltre le discipline indispensabili per una buona indagine.

Tutto questo al fine di fornire senso dell’eventuale rinnovamento, specie si dovesse incorrere nelle estreme emergenze della ricollocazione, cui è indispensabile tracciare la direttrice unidirezionale locale, che unisce passato, presente e futuro.

La ricerca in questi casi specifici, non vuol dire che per altri casi, vale il libero arbitrio, tralasciando gli strumenti idonei a garantire il giusto equilibrio ambientale e storico locale, noto come, il genius loci; il patto secondo il quale lega inscindibilmente, uomo e territorio.

Allo scopo diventa fondamentale la cooperazione tra figure professionali “Memorie di quel Territorio” quali: Antropologo, Architetti, Agronomi, Economisti, Geografi, Geologi, Giuristi, Psichiatra, Paesaggisti,  Sociologi,  Urbanisti,  Amministratori, Associazioni e Memorie locali.

A oggi si è intrapresa una deriva trasversale all’antico senso dei piccoli centri urbani o dei centri storici delle città, una trasformazione nel rapporto tra natura e spazio antropico, il che ha prodotto una frammentazione delle funzioni all’interno dei centri antichi suddividendo il ruolo, che apparteneva i luoghi privati, le attività minori, gli spazi pubblici e i luoghi per l’incontro tra generazioni.

Si è smarrito il senso di “Medina” con  tutte le funzioni sociali, economiche, di mutuo soccorso, attraverso i cui si attivava l’armonia dei cinque sensi.

Si è terminato nello sconvolgere il significato dei luoghi, dove le barriere non sono state mai fisiche ma sistema fisico dell’insieme al suo interno e per questo identità che ti conosce perché parte che completa ila vita del costruito.

Oggi si preferisce, o meglio viene imposta in nome di un’economia globale, che distingue nettamente il fruitore e la “Mediana” smarrendo il confine antico, isola le persone dalle altre attività sociali e fa che l’interesse siano metriche che non vanno oltre il momento che viviamo fuori dalla nostra identità, luoghi fugaci che propongono la socializzazione di momenti figurati a favore dei pochi che non hanno alcuna consapevolezza di luogo, storia e uomini.

Esiste una fascia mediterranea che va dalla Grecia/Albania, l’Italia meridionale, la Francia e la Spagna in cui s’identifica un modello sub familiare denominato Vicinato, che per le genti di estrazione balcanica, ancora più radicata, è l’antico laboratorio di ricerca dell’antico gruppo, familiare allargato, denominato Lijia o Gjitonia per quanti si trasferirono come profughi nel meridione italiano.

Fenomeno identitario a tutela della propria radice identitaria, gruppo locale in armonia con il territorio, caratteristica del genius loci che si misura con un ben identificato ambito del centro antico.

A oggi nulla si fa per divulgare o adoperarsi per il riconoscimento ed eventualmente proporre, un modello antico di fare economia e caratterizzare il territorio in cui si attivavano i cinque sensi, non per distinguersi ma solo per proporre un modo antico di vivere e cooperare con le persone che ti stanno a fianco.

A tal fine è opportuno adoperarsi per finalizzare quanto segue:

  1. alimentare, favorire, suscitare politiche ed azioni sociali per fermare l’inquinamento dovute ad un utilizzo  incontrollato  e  massivo  di  risorse  ambientali  non  rinnovabili  e scaturenti  dalla  applicazione  di  domini  economici  e  industriali  di  modelli economici pervasivi;
  2. sostenere attivamente  la  sicurezza  strutturale  urbana  e  territoriale,  con  esperti opportunamente  formati;
  3. sviluppare  azioni  collettive  di informazione, di organizzazione e sostegno alla Protezione  Civile e per la prevenzione dei rischi naturali, collaborando altresì alla creazione di strutture di prevenzione territoriale in collaborazione con istituzioni e programmi di sviluppo formativo,  scientifico  e  di  gestione  dell’emergenza  a  scala  nazionale  ed internazionale;
  4. originare processi culturali determinati e di immaginario collettivo, sul rapporto uomo–natura e sulla adozione di economie urbane non invasive sulla determinazione delle trasformazioni dell’ambiente  naturale  e  antropico  e  dell’urbanistica  come metodo per sostenere il riequilibrio ambientale;
  5. sollecitare la società per ridefinire ed inquadrare la decisione pubblica istituzionale della trasformazione  antropica e di rinaturalizzazione del territorio, con procedimenti di  pronunciamento  collettivo;  progetti  partecipati,  di coerenza con la produzione e assoggettare l’iniziativa privata alle generali scelte pubbliche in materia di ambiente e territorio;
  6. promuovere iniziative di class action e porsi come parte civile in processi giudiziari sia penali   che   di   giustizia   amministrativa,   che   vedono   l’insorgere   e l’identificazione di reati contro l’ambiente, la sua fruizione e il godimento di esso da parte dei Cittadini, che si vedono deturpato l’ambiente naturale o gli scenari della memoria;
  7. suscitare il più vivo interesse e promuovere azioni per la tutela, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali, dell’ambiente naturale e antropico, del paesaggio urbano, rurale, dell’ambiente montano, con particolare dell’ambiente naturale in generale, del patrimonio  monumentale,  dei  centri  antichi,  dell’architettura storica e storici moderni o contemporanea, dell’urbanistica risolutrice dell’abitare, del vivere e del produrre in equilibrio con l’ambiente e per la qualità della vita;
  8. promuovere la diffusione e l’informazione sulla tecnologia migliorativa dell’uso dello spazio urbano e territoriale, caldeggiando tipologie definibili “smart” ed evitando nel contempo gregarismi comportamentali di dipendenza da soggetti e/o organismi economici privati attualmente dominanti;
  9. promuovere la ricerca e l’utilità sociale, favorendo l’elaborazione, la diffusione della cultura del disegno eco-industriale, per la creazione di prodotti utili e di facilitazione relazionale;
  10. stimolare la promulgazione e l’applicazione di Leggi per la tutela del territorio e promuovere l’intervento per l’accrescimento dei poteri pubblici, allo scopo di evitare manomissioni al patrimonio storico, artistico ed ambientale, nonché assicurarne il loro corretto uso e l’adeguata fruizione;
  11. stimolare l’adeguamento della legislazione  vigente  al  principio  fondamentale dell’art.9 della Costituzione, alle convenzioni internazionali in materia di tutela dei patrimoni naturali e storico-artistici ed in particolare  alle  direttive della Unione Europea;
  12. contrastare ogni forma di abusivismo edilizio e di proposte legislative relative a condoni e politiche di riassetto panificatori che prevedono iniziative e piani di conclamata nuova cementificazione e impermeabilizzazione del suolo;
  13. sollecitare se opportuno,  anche  mediante  agevolazioni  fiscali  e  creditizie,  la manutenzione dei beni culturali ed ambientali e il loro pubblico godimento;
  14. sollecitare anche attraverso agevolazioni fiscali le donazioni allo Stato di raccolte o beni di valore storico, artistico e naturale al fine di una migliore valorizzazione;
  15. promuovere l’acquisizione da parte dell’Associazione  di  edifici  o  proprietà  in genere, di valore storico-artistico, eventualmente anche la gestione secondo le esigenze del pubblico interesse;
  16. promuovere la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e naturale del Paese mediante iniziative di educazione specifica nelle Scuole e nelle strutture culturali locali, con formazione permanente ed aggiornamento professionale degli operatori, nelle attività di formazione ed educazione in istituzioni locali e sociali;
  17. promuovere idonee forme di partecipazione e aggregazione dei Cittadini e dei giovani per la tutela e valorizzazione dei beni culturali, del paesaggio, del territorio, svolgere e promuovere iniziative editoriali relative alle attività e agli scopi dell’Associazione, con permanente comunicazione  sociale diretta ed indiretta, finalizzata e lasciare memoria storca a quanti partecipano alla vita del luogo;
  18. promuovere la formazione culturale dei Soci anche mediante viaggi, visite, corsi e campi di studio per la memoria locale e quella comparata di macroaree simili;
  19. promuovere la costituzione o partecipare a federazioni di associazioni con fini anche soltanto analoghi, nonché costituire consorzi e comitati con associazioni o affiliazioni o gemellaggi, conservando la propria autonomia ed in generale, svolgere qualsiasi altra azione che possa rendersi utile, secondo i principi sopra espressi;
  20. organizzare e promuovere interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia e al miglioramento  delle  condizioni  di  equilibrio  dell’ambiente,  dell’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, compreso la promozione di azioni di pianificazione   scientifica,   progettuale,    di   gestione   delle   attività   per l’efficientamento energetico, dell’innalzamento tecnologico generale dei servizi e della raccolta e riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi, nonché la strutturazione  a  tal  fine,  di  politiche  per  incrementare  i  requisiti  tecnici  e urbanistici al fine del miglioramento del patrimonio edilizio;
  21. dare impulso e promuovere interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e successive modificazioni e integrazioni. Contribuire e operare per la diffusione in seno  alla  Società  dei  temi  del  riequilibrio  ambientale,  della formazione   di   esperti   in   tali   discipline,   dei   temi   divulgati   e   propri dell’Associazione  e  della  formazione  generale  di  Cittadini  sui  temi  sopra elencati;
  22. candidarsi alla gestione dei beni e patrimoni civici pubblici, alla progettazione tecnica, ambientale,   urbanistica   delle   trasformazioni   per   il   riequilibrio ambientale, geologico, agrario, paesaggistico ed ecologico del  territorio, alla creazione di luoghi per la divulgazione, conoscenza e per  l’acquisizione di nuove esperienze per la riscoperta dell’ambiente e del territorio;
  23. candidarsi a programmi di ricerca scientifica e operativa sia a scala nazionale che internazionale, nonché a  programmi  di  cooperazione  internazionale,  di cooperazione decentrata, in collaborazione con il Ministero degli Esteri e altri Ministeri   preposti   allo   Sviluppo   Economico.  Ovvero per sviluppare la collaborazione urbanistica e di  pianificazione ambientale, gestionale economica ed ecologica in programmi generali o locali, anche in collaborazione e programmazione congiunta tra paesi. Nonché sviluppare e partecipare a programmi ordinari e complessi dell’Unione Europea, di Paesi al di fuori dell’Unione Europea, di Federazioni o sistemi di federazione tra Paesi e partecipare altre sì a programmi e progetti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, e delle sue Organizzazioni di Settore e pure ad  iniziative  di soggetti privati in linea con  gli obiettivi dell’Associazione.

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DA ATTORI PROTAGONISTI A TURISTI DI PASSAGGIO

DA ATTORI PROTAGONISTI A TURISTI DI PASSAGGIO

Posted on 06 giugno 2021 by admin

GJITONIA

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Per realtà degenerata, mediocre o senza storia, s’intende l’atto di imporre percezioni sensoriali, attraverso informazioni che degenerano la prospettiva del vivere natio, specie nel baricentro dal costruito storico,  quando a valorizzare  l’uomo e la natura, sono immagini senza storia.

Le cose della radice umana, manipolate di sovente dai comunemente, propongono atti pittorici, lì, dove l’uomo non è più attore delle sue cose e del suo vivere quotidiano, ma un semplice spettatore passivo o in veste di turista che passa e va.

Unica risorsa ancora viva, disponibile al genio locale, rimane la ribellione dei cinque sensi, che imperterriti non si adattano a queste espressioni del vissuto figurato, oltretutto pensato da altrui menti, sicuramente successo in stupore e divertimento per i viandanti; ma colpo al cuore per quanti sentono, vedono, odorano, assaporano, parlano senza riverberi tipici del focolare materno.

Un tempo era l’uomo che faceva il ciabattino, il fabbro, il maniscalco e ogni sorta di mestiere con i passanti locali spettatori.

Quando da piccolo si aveva “ghë nge” letteralmente tradotto “una voglia” ancor più nota dall’arbëreshë volgare come “gnë n’guli” erano le nostre madri  a soddisfarle con prodigiosi manicaretti la nostra esigenza di irrequietudine e non certo ci affidavano alle trovate, delle altrui genti o  ignoti passanti.

Un tempo erano i bambini che riempivano piazze e anfratti con la libertà dei loro giochi.

Un tempo erano le nostre madri e le nostre sorelle a riunirsi negli anfratti storici, contro vento e riempire quei luoghi ameni, annotando e intrecciando la storia locale durante i pomeriggi assolati.

Un tempo era la comunità a fare festa per identificarsi in valori della propria religione.

Una volta eravamo noi i protagonisti della nostra vita, dentro le scene del quotidiano vivere in comune.

Un tempo erano le nostre madri, che risparmiavano in tutto, compresa l’acqua sporca, riversata “Kasanë” ambiti naturali dove, le correnti ascensionali, assorbivano i maleodoranti miasmi e la terra rigenerava i reflui per produrre eccellenza.

Un tempo le nostre madri si riunivano per tessere e consolidare rapporti parentali, predisponendo strategie di mutuo soccorso.

Un tempo erano le nostre madri a vivere serene, perché i luoghi dei gioco dell’adolescenza erano sicuri e sotto l’occhio vigile degli adulti che divertiti assistevano.

Un tempo le nostre madri si vestivano a festa per fare atti coerenti, garbatamente vestite e senza eccedere negli atteggiamenti di confronto.

Una volta le nostre madri ci abituavano ad affrontare la vita, rispettando gli altrui generi, mai ritenuti in alcun modo mira di scherno o usati per dominarli o sottometterli, in quanto, ritenuti nostri pari con abilità uniche (a tal proposito si possono fornire prove e avvenimenti).

Un tempo le mostre madri, quando stanche restavano davanti all’uscio di casa, il luogo di spogliatura dei prodotti del trittico mediterraneo, attendevano il premio della loro abnegazione in forma di  ritorno dei propri cari dalla campagna, non per finta ma per vita vissuta.

Un tempo la vita del paese era fatto di noi tutti, sia si trattasse del centro storico, sia delle frazioni o di ogni Kota/Rashë di terreno lavorato.

Quelli erano i tempo in cui le uniche onde  del mare nostro, erano  prodotte dallo scorrere lento del Galatrella; carezze simili alle materne, e  ti crescevano c senza pericoli, perché fatte di lievi abbracci di docili  acque.

Oggi la realtà degenerata, mediocre o senza storia, mira a rubare il futuro, impone scenari per le nostre cose e dalle vie quotidiane, trasformandoci in spettatori senza forza e cosa più grave siamo scippati sin anche dall’attivare i nostri cinque sensi.

Il genere umano è strano, anzi potrebbe dirsi degenere o perverso, in quanto, invece di rendere la vita partecipata nei centri minori, si preferisce illustrarla secondo le metriche di giullari senza futuro, che producono abusi edilizi perché modificando sin anche il senso certificato delle cortine edilizie.

Tuttavia, per quanti non hanno  letto un libro, non hanno partecipato al vivere civile delle piccole comunità, è bene far sapere che lo scorrere del tempo non è dettato dalle onde del mare in burrasca o da voci altre; gli ambiti dei piccoli centri antichi, le prospettive le disegnano, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, quanti vivono e attivano i cinque sensi, coerentemente da oltre sei secoli di vita condivisa tra generi e ambiente naturale in crescita. 

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PER QUESTO DELOCARONO IL COLLEGIO CORSINI (1792)

PER QUESTO DELOCARONO IL COLLEGIO CORSINI (1792)

Posted on 25 maggio 2021 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – La minoranza che vive gli ambiti culinari del meridione dell’Italia, nota come arbëreshë, comunemente è posta alla ribalta quale fenomeno immateriale linguistico, senza alcun flebile atto di forma materiale se si escludono le eccezioni sartoriali oltre le attività di rito greco, alessandrino.

Non si fa menzione del genius loci e  del costruito, né della metrica canora quale sorgente fondamentale dell’atto idiomatico, pur non avendo storicamente alcuna forma scritta.

Da questi brevi accenni e inconfutabile, il dato che la confusione vegeta e si auto rigenera sovrana; giacche pochissimi sono in grado di intraprendere una rotta coerente, in grado di fornire elementi utili e senso al passato, al presente in solida coerenza per un futuro sostenibile.

Ritenere che la minoranza storica si tale, perché, parla diverso, sminuisce e traduce secoli di storia in un fenomeno da baraccone che si esibisce senza traccia.

Per questo è il caso di invitare quanti si occupa della trattazione degli ambiti della regione storica, di avere adeguata professionalità e particolare dedizione, nel trattare gli argomenti senza errori, rispettando la scaletta qui di seguito riportata:

  • Realizzare un vocabolario Italiano Arbëreshë, che riporta il corpo umano e gli elementi prossimi a consentire la sua sostenibilità.
  • Indagare il modello urbanistico diffuso, tipico delle città aperte, sulla base dei quattro rioni fondativi che uniscono gli oltre 110 centri antichi, di simili origini, allocati nel meridione italiano.
  • Estrapolare il tipo abitativo, che ha risposto e contiene il riverbero e le necessità storiche degli arbëreshë.
  • Produrre il postulato unitario per il modello sociale noto come Gjitonia.
  • Tracciare le alternanze religiose, poste in essere nel corso dei secoli, oltre tutte le inquietudini imposte, per giungere alla quiete della credenza.

Non è più tempo di vagare, alla ricerca di vicende storiche, protocolli o eventi sociali, negli archivi; è il tempo di studiare i luoghi, attraversati, bonificati, per essere vissuti e valorizzati secondo il modello kanuniano arbëreshë.

Smettere di andare a Barcellona, Madrid, Vienna ,Venezia e ogni altro capitale europea o americana per cercare atti di ambiti costruiti arbëreshë, la storia si cerca scavando con pala e piccone, li dove è stata resa sterile per inadempienze culturali di tutela.

Chi sa fare ricerca, la faccia a casa propria prima di tutto, non in casa di altri, tanto più lontano si va a cercare e meno si sa della propria radice.

Il costume arbëreshë, quello originario della macro area della media valle del Crati, è stato scritto secondo il lume del Collegio Corsini, prima e appena trasferito nel 1794, per comprenderlo serve solo sfogliarlo, leggerlo e riportarlo con garbo, perché non è trascritto in nessun loco, il vestito stesso è il trattato.

Quest’ultimo punto non perché meno importante, è stato elencato per ultimo, proprio perché argomento di questo breve secondo l’itinerario qui di seguito riportato..

Quando il collegio Corsini fu istituito, aveva quale fine la formazione del clero per accompagnare nel corso della vita terrena gli arbëreshë, avendo come fine le attività in senso prettamente culturale.

Tuttavia trascorsi circa due ventenni, chi sedeva a capo dell’istituzione, si rese conto che quanto predisposto in origine era grossolano e non avrebbe condotta verso i risultati attesi di completa identificazione sociale e religiosa.

Infatti, serviva formare anche fuori dal perimetro religioso, attività secondo canoni identitari che potessero trovare conferma, nelle attività clericali.

Quale migliore momento di unione tra chiesa e ambiti laici potevano essere inglobati, se non nell’atto dell’unione matrimoniale e il suo protocollo, prima, durante e dopo l’avvenuto rito.

Il matrimonio più di ogni altra cosa rendeva solida la chiesa e lo scorrere del tempo nelle attività sociali, il costume a questo punto doveva essere il trattato religioso e civile, in cui tutti, senza distinzioni di sorta, dovevano riconoscersi e rendersi partecipi al vivere comune.

Attività consuetudinarie emblemi identificativi, colori, momenti di unione e ogni sorta di struttura in forma di arte sartoriale, racchiudevano la credenza dei generi, nel vivere civile e nel momento di riconoscimento religioso.

Il Collegio Corsini dal 1792 diventa un emblema non solo religioso ma un’identità locale attraverso cui riconoscersi e identificarsi in colori gesta e simbolismi, che finalmente univano gli arbëreshë sotto la stessa luce, divina e solare.

In conformità a queste considerazioni storiche, è palese la ricostruzione che è stata fatta del costume arbëreshë, i cui emblemi le virtù della donna, la trama per diventare donna, la figura maschile primaria, ovvero il padre primo guardiano delle diplomatiche della purezza, lo sposo marito e le diplomatiche della inviolabilità, il confine tra generare ed allevare, la ramificazione della fonte, la chioma regina, tutti avvolti e segnati da trame dorate, temi sartoriali bene auguranti di un fuoco familiare che non si deve spegnere mai.

Sono tutti elementi che quanti si dovessero trovare al cospetto della sposa  arbëreshë, sono di facile lettura, ed è inutile ipotizzare che le risposte di questo manufatto, unico nel suo genere, possano esse trascritte nel documento notarile prodotto nelle aule del Corsini, depositato a Barcellona, quando magri a gestire quei territori era Parigi Capitale.

Il costume arbëreshë della macro area della media valle del Crati, non è un componimento sartoriale nato solo ed esclusivamente da consuetudini sociali e religiose.

Esso rappresenta è un componimento ragionato tra i più sopraffini del mediterraneo, è un tema, anzi una diplomatica storica di radici antiche senza eguali,.

Quanti hanno capacità di osservarli perché conoscono la storia, riescono brillantemente apprezzarne il valore, gli altri, i comunemente, alla vista di una tale opera senza eguali, sanno solo umiliarla indossandola male o consumarne i confini senza alcuna cognizione, perché non sanno cosa dicono e non hanno null’altro da fare.

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DALLE CITTÀ, SI TORNA A RESPIRARE CON LA FILIERA CORTA DEI CENTRI RURALI DIFFUSI

DALLE CITTÀ, SI TORNA A RESPIRARE CON LA FILIERA CORTA DEI CENTRI RURALI DIFFUSI

Posted on 23 maggio 2021 by admin

19517

NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – La fuga dalle Metropoli, consigliata da quanti, le allestirono, con quartieri e rioni senza identità, palesa in che misura si conosce la storia, visto che  sommariamente suggeriscono di correre verso il buio medioevale dei “Borghi”.

Quanti attraverso i media riferiscono di allontanarsi dal purgatorio metropolitano, indicando quale alternativa ideale l’inferno medioevale,  denota quale impegno in fase formativa hanno seguito in campo storico e sociale, al punto tale da ignorare l’esistenza dei paradisi abitativi minori, dove ha trovato loco ideale, il trittico mediterraneo.

L’incauto, suggerimento evidenzia la non padronanza storica e lessicale di quanti si riconoscono nella categoria degli ” archi crusconi” notoriamente irrispettosi dell’Accademia Sopraffina.

Nasce così la parabola antropologica senza ne storia e ne radice, ideata per contrastare il senso della storia e la cultura locale, ben prima della Pandemia, iniziasse a evidenziare la deriva. 

Se le stesse figure, ancora oggi, sono in prima linea a dispensare consigli secondo i quali, è opportuno corre  verso i luoghi meno adatti alle esigenze del “nostro prossimo futuro”,  indicando soluzioni in muri classisti e fossati invalicabili per gli uomini normali, non è certo un bel consiglio.

Gli “archi crusconi stellati” dopo aver allestito boschi verticali, al nord, foresta d’acciaio che generano d’ombra, al sud, boschi multi piano e ogni sorta di alchimia mediterranea, oggi allestiscono senza titolo il progettano preliminare, per il futuro; e alla luce di ciò, non sarà certamente roseo, se prodotto sulle ceneri dei borghi del medio evo.

Oggi bisogna concentrarsi e leggere le nuove forme sociali all’interno dei piccoli centri antichi, non come  gruppo di nostalgici compagnoni, con il cuore sagomato sull’estate del 1967, epoca che doveva cambiare tutto, facendo solo ed esclusivamente il contrario del corrente vissuto.

La deriva di ciò ha inizia quando nel tempo dell’industrializzazione, furono costruiti gruppi di residenze, rioni/quartieri in prossimità degli insediamenti industriali, in forte ascesa, con una solida ragione esclusivamente economica.

In seguito, per la crescita sociale, si ritenne continuare con lo stesso accatastamento di individui, avendo cattiveria sufficiente, per sottrarre la fonte industriale e raggiungere l’ironico traguardo privando i rioni sin anche dei minimali sistemi di collegamento, innescando così la ribellione del malaffare organizzato, la cui risposta sociale al questo fenomeno si concretizzò nel costruire i carceri di prossimità sub urbani.

Trovandosi, adesso, ad abbandonare le città, quale peggiore modello indicare, se non quello ancor più buio e dismesso, proprio  perché non in grado di rispondere alle strette necessarie medioevali, noti oggi in appellativo di ” Borgo”.

Il frettoloso percorso concettuale a ritroso, immaginato senza respiro, non lascia spazio alla ragione e alla storia, perché dalla fine del secolo scorso, è andata ad affermarsi la cultura diffusa, in forma  più turistica che paesaggistica sostenibile, dove si è mescolata ogni cosa per meglio operare disinvoltamente.

L’evidente risultato porta a essere comunemente abbagliati dalle stradine storte e massiccia di pietra, il profferlo a stringere vichi, il rudere archeo-religioso, in tutto, elementi sminuiti del valore e le sofferenze sociali, considerando ogni cosa come alternativa benevola, al martoriato respiro cittadino.

Appena è stata negata la libertà di fare viaggi esotici, anzi direi ultra-turistici, ci rendiamo conto da dove siamo venuti e ci inginocchiamo al nostro patrimonio genetico-architettonico, promettendo di tornare alle abitudini, di cibi,  regole e tempi di una realtà che non abbiamo mai studiato se non per sentito dire, pur avendole avute da sempre alla nostra portata.

Il modello alternativo tanto diffuso noto come “Libertà di espressione e pensiero” ci ha fatto precipitare, in una Metropoli diffusa, che solo oggi, nel costatare il danno prodotto, ci fa correre indietro sperando di recuperare il danno prodotto.

Sicuramente la priorità delle cose, le arcaiche privazioni, la fatica per mangiare, il disagio quotidiano e le consuetudini che sopravvivono, li dove la campagna ancora riverbera suoi, valori, attività e cose antiche, non posso essere certamente ricordate da quanti non sanno perché “arche di crusca”  e sanno comunemente solo di borghi.

Sono proprio loro a non rendersi conto, che abbiamo vissuto, abitato e prodotto, economia, per millenni in luoghi senza frontiere e prospicienti la campagna, ambiti minori che diedero la radice alla città, la quale divenuta arroganza credeva di poter essere migliore e sostituirsi a ogni cosa.

Solo oggi diventa ipotesi esistenziale da utilizzare, quale prospettiva, in grado di offrire spazi e luoghi alle nuove energie, idee, forme sociali e aggregative, che prima di essere violate, andavano riproposte, rese note  con parsimonia, garbo e nel pieno rispetto della storica consuetudine.

Sono gli archiRè e quanti hanno visibilità in prima linea che si pone l’invito ad essere rispettosi della storia, prestare attenzione a quanto   dicono e propongono, specie quando,alternativa alle città metropolitane è il comunemente Borgo.

Scappare dalle città metropolitane dove la storia moderna ha raggiunto il suo apice di sostenibilità, per raggiungere i borghi che segnarono il confine tra vita e natura è come scappare dall’olio moderno della padella e cadere nella brace del fuoco camino.

La soluzione: sta nel mezzo e si chiama “paesi diffusi”, luoghi senza murazioni e ne fossati, in quando centri minori costruiti secondo le disponibilità della natura, quando facilita l’opera dell’uomo, il genio locale, questa è la vera rinascita a cui gli uomini e le espressioni dell’architettura, nota la storia, dovrebbero indicare.

È terminata l’era della “brigata degli archi crusconi” non è più il tempo di sintetizzare ogni cosa, tralasciano epoche, espressione artistiche, in forma di urbanistica e architettura per le esigenze degli uomini che rispettavano luogo ambiente, natura e società.

Nel terzo millennio una vite, un ulivo e una distesa di cereali sono la garanzia sostenibile lasciata in eredità dai nostri nonni i quali, bonificarono, la campagna grazie ai piccoli centri minori delle colline del meridione, gli stessi che oggi vorremmo abitare da post-cittadini, perennemente interconnessi, e mediatici, pronti a calpestare ogni cosa come di sovente fanno “gli archi crusconi”.

Un progetto di insediamento urbanistico che è anche una sorta di programma di ri-educazione etica ed estetica, non è impossibile da realizzare; tuttavia deve partire dai centri antichi di origine arbëreshë che ancora resistono nelle colline del meridione italiano e possono essere utilizzati come radice benevola.

Il post- Paese, Frazione, Poggio, Casale, Castro, Motta, Villaggi, Vico, Contrada, Shesho o Katundë non sarà più quello che è stato per secoli, perché i componenti la gjitonia, quelli che si confrontavano secondo le regole dei dei cinque sensi, i cui confini arrivavano sin dove la vista e la voce, adesso dovranno essere supportati delle innovazioni digitali, avendo ben chiaro sempre il tema primario dei loro confini identificativi.

L’urbanistica delle grandi e piccole dimensioni, deve fare i conti con una nuova sequenza di flessibilità che riguardano tutte le attività umane, sia nel luogo abitato e sia nel luogo produttivo, filiera corta sostenibile e rispettosa dei tempi e le peculiarità di un ben identificato territorio.

Possiamo immaginare che gli insediamenti originari possano dar luogo a forme dialettiche innovative oggi impensabili, e parti di città tornino ad essere centro antico, riverberando nella costellazione disseminata sul territorio circostante diventino,” poli sostenibili di un programma diffuso”.

Il fine deve mirare ad attinge dal modello originario attraverso cultura locale, sulle forme più ambite di ricettività ambientale e soprattutto la celebrazione costante del sistema agro-alimentare detto trittico mediterraneo.

Solo se saremo in grado di attuare il duplice sistema progettuale: ambientale e urbanistico, potremmo ambire a valorizzare tutto il territorio collinare, creando il più imponente piano di investimento della storia di questo paese, con la conseguente eliminazione di una consistente fascia di disoccupazione (giovanile e senile), ma per questo ci vorrebbe un’istituzione come è avvenuto ogni volta che nel nostro paese si sono mosse le persone capaci, non quelli che valgono uno, ma che sanno come fare almeno il doppio.

Naturalmente questo è un sogno che non tiene conto delle complessità politiche e culturali di un paese frantumato e confuso ma, come è avvenuto per gli arbëreshë dal XV, i quali senza risorse e con la sola forza delle braccia e della mente, hanno costruito un modello sociale che ancora è vivo e pochi conoscono, luoghi socialmente sostenibili, capaci di superare senza problemi, sin anche i travagli dell’integrazioni diventando per questo i più solidi centri antichi del mediterraneo.

Un modello da cui partire per ricomporre il vocabolario dei piccoli centri antichi, della campagna, e del loro coesistere all’interno di un diverso sistema antropocentrico e ambientale, senza gerarchie e conflittualità da riversare e dare sollievo alle città.

Una nuova “geografia prima di tutto sociale, più economica e urbanistica, espressione di valori”, capaci di tutelare la qualità dei territori, la vera eredità di ogni buon cittadino dei tempi passati odierni e futuri.

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LA FAVILLA MADRE, NELL’ALTARE DELLA KALIVA ARBËRESHË

LA FAVILLA MADRE, NELL’ALTARE DELLA KALIVA ARBËRESHË

Posted on 19 maggio 2021 by admin

Annetta1NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Il monte Olimpo con le sue figure più rappresentative ha ispirato storicamente le vicende e le consuetudini degli arbëreshë nel corso della storia sin anche gli aspetti più reconditi della tipica consuetudine.

Prima di attingere e presentare come mitico personaggio Giorgio Castriota, raffigurato nelle gesta e gli emblemi di difesa, è opportuno delineare cosa abbia caratterizzato la definizione, durante lo scorrere del XVIII secolo, degli elementi caratteristici e caratterizzanti il costume della pre-Sila, in media valle del Crati.

In questo breve si vuole rilevare cosa rappresenta, il panno in porpora(Panj), che la signora Annina F. da Santa Sofia, (in figura), porta avvolto sul braccio sinistro, storico messaggio di consuetudine per ogni moglie e madre, regina del fuoco domestico.

Premesso che il costume della media valle del Crati rappresenta la radice, in forma di arte sartoriale, o meglio, atti di credenza civile è religiosa, arbëreshë; è un identificativo completo della sposa, moglie e madre, rispettivamente arco di tempo a seguito del quale  all’interno del perimetro costruito, dove vive la famiglia, diverrà  il luogo dove la donna, sposa e poi madre assumerà il ruolo di regina del focolare .

Lei come, Hestia, la prima figlia di Cronos e Rhea, per non sottrarre il trono al fratello minore Zeus, assume il ruolo, in tutte le dimore degli uomini, identificandosi, dea del focolare domestico acceso.

Per questo essa è la dea della casa, degli affetti e dell’ospitalità, perché nel centro della casa, trova luogo il focolare, il suo storico altare.

È qui che ricevere ogni bene, assumendo il ruolo di forza trainante della casa, sacro diventa così il focolare, amministrato senza soluzione di continuità; qui trovano asilo i supplici, qui si sacrifica la sposa, essa non è onorata solo al centro delle singole case, ma contemporaneamente nel focolare comune che le comunità accendono quando si riuniscono in pubblica piazza.

Solo attraverso il fuoco possono costituirsi e fiorire nuove famiglie, esso rimane indistinto nel mondo figurativo perché rappresenta la fiamma in continuo mutamento.

Il fuoco è il fulcro, centro, di ogni casa, nell’antichità quando una parte dei suoi figli partiva per insediarsi in nuove terre parallele, si affidava una favilla di fuoco, da poetare nella mano sinistra, al fine di accendere nuovi focolai e potersi ritrovare a casa attorno a quel luogo, che grazie a una favilla della madre casa continuava legittimamente a progredire.

La sposa arbëreshë quando diventa moglie porta sempre il suo panno color porpora nel suo braccio sinistro, specie nei giorni di festa, quando deve ricordare alla sua famiglia che anche quando e festa, che il fuoco della sua casa e sempre vivo.

Il costume arbëreshë della pre-Sila, in media valle del Crati è uno elemento caratterizzante che non trova eguali in nessuna macro area della regione storica.

Spetta alla posa, poi moglie e in seguito madre, ogni volta che indossa quelle vesti, inviare messaggi di continuità storica, spetta alle nuove generazioni comprenderne il valore e il senso di quei messaggi.

Sono questi che una volta fatti propri, in lingua madre nell’atto della vestizione, è opportuno saperli esporre in forma di vestizione e messaggi, con modestia, garbo e buon senso, come dicevano le nostre madri;  magari rimanendo in silenzio, per consentire alla “favilla madre” di illuminare ogni cosa, esposta agli osservatori incuriositi.

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L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË  (Stolithë i Nusesh Arbëreshë)

Protetto: L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË (Stolithë i Nusesh Arbëreshë)

Posted on 13 maggio 2021 by admin

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