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UN ARBËREŞË NON È UN GIULLARE CHE DANZA CANTA E VESTE IN ALBANESE

Posted on 20 luglio 2025 by admin

OlivetanoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Chi piange non raccoglie mai le sue lacrime, perché le lascia cadere senza neanche contarle, come fanno gli alberi d’autunno con le proprie foglie.

Le lacrime scivolano lungo le guance, come perle mute in dolore e, brillando solo per chi non vede, mentre il lacrimante tiene una mano per stringere il cuore, e con l’altra frena il respiro o cerca un appiglio dello scenario nebbioso.

Gocce di sale amaro di un’anima nuda, che scendono libere, non per essere raccolte, ma per raccontare ciò che le parole non osano dire.

Questa è simile alla metafora del fabbro che opera nell’ombra e costruisce il palco, dove l’attore primo, sotto i riflettori, fa la storia e il fabbro nell’ombra, batte ferro rovente tra silenzi e sudore che plasmano il tempo con le mani colme di ferite e, non si ode nessuno applaudire per tanta operosità.

E mentre sul palcoscenico sale l’attore, che non ha forgiato nulla, ma solo indossato l’armatura costruita da altri e, pur se brilla sotto luci che non ha acceso, recita un copione scritto con l’inchiostro dei lagrimosi sacrifici altrui.

Queste sono metafore che mirano a palesare lo stato, in cui versa il patrimonio degli Arbëreshë, lo stesso che non può e non deve esaurirsi nella esclusiva tutela della inopportuna vestizione Albanistica del parlato.

Sebbene l’idioma costituisca un elemento fondante dell’identità di un popolo, limitarne il rilancio solo ed esclusivamente all’aspetto che contempla il mero parlato, significa ridurre una civiltà complessa e stratificata a un solo codice espressivo.

La filologia è veicolo, ma ciò che trasporta la memoria collettiva, sono i simboli, le pratiche sociali, i codici etici, che hanno bisogno di essere altrettanto custoditi, vissuti e rinnovati a misura.

Titolarsi di forme generiche o accademiche dirsi voglia, per poi fare un mestiere complesso, non fa che innalzare gli errori del passato, ripeterli e rendere tutto l’insieme al pari di un palco pericolante, forgiato dai generici o praticanti attori.

Infatti le lacrime di un pianto non sono mai una ma tante, come qui di seguito si darà agio a tutte le altre lacrime Arbëreşë, dimenticate o non ritenute valide perché seconde alla prima.

È notoriamente diffuso che il genere umano, in ogni tempo e latitudine, ha bisogno di molti espedienti per sopravvivere, resistere, durare e completare il suo impegno di integrazione e convivenza con la natura e il tempo.

Tra queste si potrebbero contare le lacrime: dell’arte, dei riti, del lavoro, della terra, dell’architettura, il modo di alimentarsi, le vestizioni, la narrazione e, poi l’insieme di supporto, formano gli attori di palcoscenico, che in diverse regioni italiane con la narrazione lacrimosa seminano da secoli il patrimonio storico arbëreşë.

E così facendo innalzano germoglio o microcosmo culturale, in cui la lingua è solo uno dei tanti fili lacrimosi che intrecciano il tessuto dell’identità.

Di questi un ruolo centrale spetta al rito bizantino, ancora oggi presente nelle comunità arbereshe e, le sue forme liturgiche e simboliche, che non sono solo mera professione di fede, ma storia che mantiene viva una visione del mondo, una sensibilità spirituale radicata nell’Oriente cristiano.

Proteggere questi riti, formarne nuovi officianti, farli comprendere alle giovani generazioni, è parte essenziale dell’essere minoranza arbëreşë.

Poi sono i costumi tradizionali che non sono semplici ornamenti di pigmento in piega, ma codice complesso di appartenenza, genere, status sociale, legame con la comunità, che delineano quel percorso viario che unisce il fuoco domestico della casa, con l’altare quando si illumina di sole nella chiesa.

La postura, i gesti rituali, le danze, raccontano storie, tramandano valori e rafforzano i legami tra questi due emblemi civili e religioso ovvero casa e chiesa.

Riscoprire questi elementi, attraverso momenti condivisi e ragionati, permette di valorizzare il corpo come veicolo di continuità culturale dei generi che rendono viva questa realtà.

Una popolazione per resistere alle varie epoche deve maturare il concetto di accoglienza attorno a una a un fuoco domestico, e qui entrano in gioco le arti di cose prodotte a memoria dal parallelo, conservato difeso in un vero e proprio archivio di memoria.

Non solo perché porta con sé le tracce di una migrazione secolare, ma anche perché rappresenta il legame affettivo tra le generazioni e luoghi paralleli tutti sostenuti dallo stesso sole e la identica luna.

Valorizzare il patrimonio in senso generale degli arbëreşë significa documentare, raccontare, insegnare, recuperare, comprendere i rituali legati al passato, per essere lasciati intatti alle nuove generazioni, specie a quanti si apprettano a partire per conoscere e confrontarsi con nuovi orizzonti, per confrontarsi e migliorare il patrimonio ricevuto.

Prima che ciò avvenga essi devono conoscere il lavoro manuale, la produzione tessile, l’artigianato ligneo, le tecniche agricole locali e tutto ciò appartiene a un sapere che rischia l’oblio.

Sono questi gli elementi che danno concretezza all’identità e, incentivare il ritorno, dopo essersi formai in buoni artigiani, apre prospettive culturali non solo per preservare la cultura, ma anche per dare dignità economica a chi la vive.

Sino ad oggi hanno tenuto banco le fiabe, le leggende, le storie tramandate oralmente, immaginando che la lingua è veicolo per i contenuti emotivi.

Si è ritenuto fondamentale che attraverso le storie che si costruisce l’orgoglio, si rinsalda l’appartenenza, si affrontano le paure del cambiamento, ma purtroppo oggi in questa società globalizzata non è più così. Raccontare oggi cosa a scuola, in un libro, in un film, è un atto di resa e non serve per affrontare il futuro.

Oggi quella che si deve preservare e saper leggere è la struttura urbana dei centri antichi, perché è in essi che germogliano il frutto di una logica che ha poco a che fare con la speculazione edilizia moderna e molto con la coesione sociale, difesa e adattamento al territorio, che poi diventa la sacralità funzionale della vita quotidiana.

Sebbene ogni Katundë abbia le identiche specificità o tratti comuni che uniscono tutti assieme i centri storici delle culture di radice agro-pastorale, come quella arbëreşë, nessuno forma e sostiene le generazioni che partono per formarsi avendo come bagaglio il sussurrare delle memorie storiche locali.

Ogni centro antico ha un cuore simbolico e funzionale, che nasce secondo i canoni della iunctura fatta di chiesa, piazza e vichi che diventano le sorgenti naturali dove far dissetare le nuove generazioni.

Questi elementi non sono solo spazi pubblici, ma punti di riferimento identitario che se opportunamente analizzati, possono essere intesi e ascoltati come il battito del fabbro e non come lacrime che non vede nessuno perché silenziose.

I Katundë non si sono sviluppati con la logica Cartesiana o di Mileto, infatti vie e i vicoli si snodano come vene che partono dal cuore e raggiungono gli arti, adattandosi al luogo e alle necessità dell’uomo.

Le case sono incastonate come partorite da questa terra, un’architettura che parla di comunità, vicinanza e protezione reciproca come fa una madre con il nascituro che si sente a in famiglia.

Le strade strette non sono un limite, ma un modo per difendersi dal vento che come il passante che corre qui deve passare lento, per diventa anche esso di famiglia.

Nel sistema urbano antico di un Katundë, la soglia tra casa e strada non ha dogana, cosi come il gradino, si controlla dalla piccola panca in muratura lì di fianco allestita, sotto la finestrella di controllo gemellata, dove tutto diventa luogo dell’orizzonte familiare.

La vita, qui in questi vichi irregolari, si svolge all’aperto sotto gli occhi dei vicini e, tutto diventa dimensione di uno spazio urbano condiviso, più sicuro di ogni dove e, il controllo sociale, la solidarietà si esercitano senza stonature conviviali.

Un altro elemento che accomuna i centri antichi dei Katundë, è la libera interazione tra il centro abitato e la campagna lavorata, il simbolo delle città aperte e non chiuse, a modo di recinto borgataro.

La casa non è mai troppo distante dall’orto, dalla stalla, dalle fontane e, i confini tra l’urbano e il rurale sono permeabili senza limiti innalzati.

Questo rapporto diretto con la terra, si riflette anche nella presenza di magazzini, cantine, forni comuni, mulini, frantoi e, fontane di accoglienza, il tutto diventa spazio produttivo che unisce la pertinenza urbana e l’agro, senza murazioni o limiti fisici divisori.

Le abitazioni storiche dell’agro, si sviluppate in altezza, su due o tre livelli, con funzioni distribuite verticalmente: al piano terra la stalla o il magazzino, al primo piano la cucina e la zona giorno, sopra le camere, e poi una lamia di copertura, che ha uno spazio di accumulo per mitigare meglio il clima all’interno dell’elevato in forma di fortilizio, dove le attività primarie sono produttive, di spogliatura secondo i ritmi del continuo giornaliero di sole.

I centri antichi, per via della loro compattezza edilizia, sono esempi straordinari di resilienza climatica, si difendono dal freddo invernale, grazie alla prossimità tra edifici, e si proteggono dal caldo estivo con strettoie ombreggiate e muri spessi, che si trasforma in un sistema urbano sostenibile che non viene mai abbandonato.

Molti centri antichi sono orientati secondo logiche sacre o astronomiche, la chiesa spesso guarda a est, e tutte le tappe di preghiere sono ad essa rivolte, le strade seguono le curve del sole, la casa tiene conto dei venti dominanti, nulla è casuale, ma sapienza che ha guidato la costruzione dello spazio.

Capire i sistemi urbani dei centri antichi in forma di Katundë, significa anche interrogarsi su come conservarli e viverli oggi quegli storici e ripetitivi sette rioni.

E difendere questi spazi non vuol dire musealizzarli, ma dare loro nuova funzione senza snaturarne l’identità, così come quella di tanti paesi, villaggi, frazioni, contrade, dove ancora molto rimane incontaminato e steso al sole per essere interpretalo adeguato rispetto.

Il tutto per essere tramandato in termini di sostenibilità, socialità, bellezza e resilienza, alle nuove generazioni, che in questa stagione sono pronte a partire e, se consapevoli del tesoro che qui in casa li attende, potranno formarsi seguendo la memoria dei luoghi natii.

E quando un giorno saranno richiamati potranno valorizzarli, iniziando dalla conoscenza profonda delle logiche millenarie, le stesse che hanno saputo creare spazi adatti e utili per l’essere umano, nella sua vita operosa.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-07-19

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