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LA CALABRIA CITERIORE ASPETTI STORICI DELLE VERNACOLARI TIPOLOGIE(Zhëmëren time ju e patë shum thë vicher, nënghe e dishëtith afer Juvë Vale Vale e i bëth mëbhkatë)

Protetto: LA CALABRIA CITERIORE ASPETTI STORICI DELLE VERNACOLARI TIPOLOGIE(Zhëmëren time ju e patë shum thë vicher, nënghe e dishëtith afer Juvë Vale Vale e i bëth mëbhkatë)

Posted on 09 settembre 2023 by admin

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LA REGIONE STORICA E IL SOLIDO COSTRUITO VERNACOLARE ARBËR

LA REGIONE STORICA E IL SOLIDO COSTRUITO VERNACOLARE ARBËR

Posted on 05 settembre 2023 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Attualmente si riconoscono gli ambiti detti “Arbër” come bene culturale a carattere identitario, frutto della percezione linguistica della popolazione, assumendone per questo la funzione di bene non statico, ma dinamico e, nel tempo mutabile, sotto specie di espressione folcloristica o ricerca senza inizio e fine.

I radicali sviluppi economici, sociali, tecnologici e politici, avvenuti durante il ventesimo secolo, ne sono prova evidente, viste le continue violazioni identitarie, passate inosservate, sin anche al vaglio dei preposti, che leggono carte prive di confronto sul territorio, perché il dovere istituzionale, vuole gli addetti rigorosamente seduti in ufficio.

L’esigenza sfrenata di dover diffondere storia, con capitolazioni, atti notarili e matrimoni, ha fatto allestire irresponsabili, atti per poi attribuirli ai centri urbani detti minori e se questi fanno parte di quelli contemplati nella legge 482 del 99, “il dado è tratto”, ma purtroppo in questo caso, non esiste nessun ponte da attraversare, in quanto ancora neanche in allestimento.

Se a questo si aggiunge l’accelerato sviluppo tecnologico/scientifico, associato all’utilizzo di mezzi di comunicazione e trasporto di massa, tutto è mutato radicalmente il modo di vivere e lavorare, ricorrendo a materiali sperimentali, non più del luogo.

L’industrializzazione e l’agricoltura meccanizzata hanno modificati i luoghi agresti, terminando nell’abbandonare in molti casi, gli storici cunei agrari o della trasformazione, nonostante l’irripetibile eccellenza locale, un tempo filiera, non ripetibile in altri luoghi.

Eppure, comparativamente pochi tra i siti e i luoghi creati da eventi, sia tumultuosi, sia naturali e del genio locale, sono stati iscritti negli elenchi dei beni da tutelare, perché patrimonio culturale o luoghi della inimitabile “Dieta Mediterranea” o “Trittico Mediterraneo dell’alimentazione”.

Per questo, sono troppe le “Regioni Storiche dell’alimentazione Prima”, a rischio terminazione o già estinte, per ragioni politiche di radice globale, divenute nel contempo flebile memoria di una eccellenza che i locali ignorano o non hanno numeri e cose per riconoscerla.

Di contro si apprezza e si agevola senza alcuna regola, l’architettura moderna del secolo appena trascorso e, l’insieme di edifici, strutture e percorsi rotabili; tutto viene stravolto a favore di una cultura priva di solidità, ma esposta a una generale mancanza di consapevolezza o riconoscimento di luogo.

Tutto questo avviene perché, quanti dovrebbe assumere il ruolo di controllo, non conoscendo la storia del territorio di competenza, di punto, di luogo agreste e dei centri antichi di origine.

Troppo spesso gli ameni locali, sono sottoposti a processi di riqualificazione o modifiche inappropriate e, “perché abbandonati”, sono inseriti in processi di modernizzazione, che non hanno nulla a che vedere o fare con i valori distintivi per i quali furono allestiti ad uso comune e privato.

Qui in questo breve, si mira a difendere tutto ciò, in particolar modo, tutti gli elevati primi, e sin anche la toponomastica di memoria storica, realizzate e appellata dall’uomo e, siccome questi sono ambiti e cose minori, non si prevedono sanzioni, verso quanti ne violano i contenuti e il significato di elevati e strade, in quanto prive di paternità progettuale.

Questo purtroppo avviene perché non è stato codificati o ritenuto storicamente attendibile quello che si possiede, quindi fa parte della categoria dei non tutelabili, indifesi, o meglio posti alla disponibilità, della sovranità locale, che non conosce e ignora totalmente la storia di luogo, ritenuta favola di casa che non va oltre il perimetro del proprio focolare domestico.

E nonostante questi luoghi siano stati, colmi di storia prima e o momenti fondamentali delle vicende locali che contano ma senza nome, pur se estremi assoluti, nel rispondere a esigenze o bisogni distintivi della storia, in tutto, opere senza clamore, sono ritenute per questo violabili.

E’ in questo modo che si offende continuamente la memoria dei luoghi, ma più di ogni altra cosa, le conquiste della comunità ad opera di singoli che così facendo diventano storia dell’architettura anonima.

La stessa che non trova ristoro nel cuore e nella mente, dei comuni mortali vernacolari attività, per le quali se ti confronti con tema di tutela, si preferiscono luoghi di tragedia, opere d’un autore, monumenti, chiese, facciata di palazzi nobiliari, un campanile, un ponte, un rudere confermato, ma non quello che resta chiuso dell’intimità di costruttori anonimi locali, che per la loro indole prima, restano silenziosi e non lamentano alcun che.

Nessuno conosce misura, nessuno da conto, nessuno prende atto della violenza prodotta, nel mutare una parete, cambiarne i pigmenti, dismettere appellativi viari, apporre scalfiti dii memoria, o ritenere sia giusto rendere il centro antico momento di raffigurazioni e non di vita produttiva e conviviale, ma mera finzione filmo/figurativa.

I comun preposti, invece di prodigarsi nel difendere la propria identità di luogo, preferiscono i valori di mastodontici monumenti, appariscenti attività di pigmento e, non identità anonima locale senza nome, per questo si sentono delegati a vituperarli, violarli o coprirli di pena.

L’Architettura senza architetti, identificata come Vernacolare, mirava al semplice valore del costruito per bisogno, introducendo valori propri di uno specifico luogo, senza pedigree di architettura, ne violare la natura circostante.

Essa è così poco nota che non esiste neppure un nome specifico per identificarla o un’etichetta generica, ma possiamo chiamarla nel comune dialogare, Povera ( i Nëmurh), Spontanea (e drechjurë), rurale, indigena (llitirë), o genio locale (Mieshëter Arbër) a seconda dei casi di studio.

Naturalmente entra nello scopo di questo tema, fornire una storia coerente dell’architettura senza valore, e lungi dal sortire in tipologie o definizioni tipologiche sommarie.

Essa deve aiutare a liberarci dalla ristretta classificazione di architetture ufficiali e commerciali, che facilmente sono replicabili perché di paternità illuminata.

Gli studi forniti da numerosi e nobili autori, presi come solidi riferimenti, inquadrano con forza l’architettura senza autori, e oltre a ciò consentono di rielaborare il significato di alcuni termini, quali architettura “Spontanea” (e drechjurë), “Minore”(e Viker) e “Anonima”( e Guej), operazione utile a definire il contesto di riferimento specifico della ricerca.

Il lessico fornisce la precisazione di significato soprattutto per evitare di dare origine a fraintendimenti o ad usi impropri di termini apparentemente o foneticamente simili.

È necessario approfondire quei termini, i quali, nel tempo sono stati usati, con molteplici accezioni, per descrivere un fenomeno che spesso è stato ridotto al concetto di “spontaneo” (e drechjurë), quando la spontaneità mira a restituire supporto fondamentale alla vivibilità di questi luoghi, siano essi agresti che concentrati in forma di Katundë.

Nella storia, l’aggettivo Vernacolare, in questo specifico caso potremmo appellare “Architettura in Arbanon”, più volte usato per indicare un linguaggio non accademico, ma serie di opere povere,  esigenza di luogo, legate a contesti molto ristretti, costruiti con materiali del luogo e tecniche tradizionali, provate sulla pelle dei usufruitoti di famiglia allargata, sin a raggiungere l’equilibrio ricercato.

Il fatto che spesso si sia parlato di architettura spontanea, come sinonimo di architettura povera, è senz’altro un atteggiamento per delegittimare le opere non riconducibili ad un preciso progettista; ciò avviene sovente perché tali forme architettoniche sono frutto di esperienze stratificate nel tempo, legate ad esigenze prime che vengono svolte e risolte in modo collettivo, non riconducibili ad una corrente, ad una figura nota, ad un autore, in quanto esigenza abitativa locale o agreste, di un ben identificato momento storico, fuori dai circuiti della divulgazione.

L’aggettivo spontaneo, pertanto è attribuibile a ciò che non ha imposizioni definite da una scuola o una tendenza generale o ampia, ma esigenza di luogo, tessuto con materiali locali offerti dagli eventi della natura.

Questa caratteristica, in riferimento alla trattazione di un tema come l’architettura anonima, nella contemporaneità, comprende il non essere assoggettato o influenzato da un linguaggio particolare o da uno stile, anche se la spontaneità lega aree ben definite o esigenze, germoglio di ambiti collinari o di approdo mediterranei secondo i bisogni delle genti che si preparavano a risiedervi senza soluzione di tempo, cose ed eventi.

Con l’idea di architettura spontanea, dunque, non è l’architetto-artefice, ma piuttosto una sorta di razionalità collettiva che, rispettando le norme non scritte, per la gestione dello spazio, risolve diversamente il dato estetico, culturale, di utilità associata al territorio.

Tale condizione di spontaneità è associabile, nel caso dell’architettura, a forme e soluzioni di una architettura codificata con consapevolezza, e poste alla verifica delle stagioni e la natura di un ben identificato luogo.

Ritrovando i valori della ricerca di questo breve, anche negli studi condotti da Rudofsky, non è un caso, che le tipologie edilizie tradizionali di genio arbëreshë, sprezzate o del tutto ignorate dagli studiosi comuni, per questo rimaste testimonianza silenziosa, grazie alla spinta di questo maestro delle indagini del costruito minore, si aggiunge un valore assoluto e non indifferente.

Quanti considera ancora oggi le architetture minori degli Arbër poca cosa per l’indagine storica al fine d’individuare percorsi della “regione storica diffusa” e quelle delle terre parallele ad est del fiume Adriatico, commettono e portano avanti consistenti negligenze di studio e approfondimento identitario.

Infatti le architetture locali della regione storica, attingono le radici dall’esperienza umana, interesse di studio che va oltre quello tecnico ed estetico, inquanto tratta di un’architettura senza dogmi.

A tal proposito è il caso di approfondire le cose che caratterizzano dal punto di vista costruttivo e dell’ambiente naturale i cento Katundë di origine arbëreshë, del meridione d’Italia, relativamente al costruito riferito come primo, che va dal XIV secolo al XVIII con evidenti elementi distributivi, tipologici in continua aderenza con lo sviluppo del territorio, in convivenza fraterna tra gli uomini.

Noti come Katoj, Motticelle o Kallive, si legge facilmente la radice organizzativa di espressione monastica, visto e considerato che i gruppi familiari che componevano gli abitanti di ogni agglomerato, aveva un prete ortodosso e la sua famiglia come elemento di credenza trainante.

Confermato che tutta la popolazione si sosteneva con le attività agro silvo pastorali, in estate o nella buona stagione quando l’attesa dei risultati di semina, consentivano di avere tempo per le attività degli anonimi e infaticabili Arbër, questi genio e forza lavoro a innalzare gli abituri tipici, suggeriti dai preti locali, nelle distribuzioni interne, a impronta di quelli monastici vissuti durante la loro formazione, è così che ha inizio la delimitazione del cortile e la piantumazione dell’orto botanico.

Cattedratici e studiosi post legge 482/99 ostinatamente e senza ragione confermavano, “tutti che non è cosi”, ma quando nel 2013 la difesa di Cavallerizzo e le motivazioni depositate nei preposti uffici, crearono scompiglio nel campo del genio culturale scritto, in greco e latino ignoto.

Costringendo a disporsi negli angoli bui, quanti con le teorie catastali senza verifica locale, volevano fare opera senza conoscere la storia, ritenendo possibile innalzare un paese “Arbëreshë con le Gjitonia” e attorno alle attività di difesa per gli Arbër, fu deserto algerino a prevalere e nulla più.  

E quando oggi si confrontano i disegni per lo studio dei moduli abitativi dell’unità di Abitazione di Marsiglia, del noto Le Corbusier, si ritrovano elementi di spazio essenziali, sin anche delle finestrature e i sotto moduli di areazione naturale, con finalità pari, simili, equipollente o rivisitati dei moduli tipo, di Katoi, Motticelle e Kalive, ancora pronte a dire la loro, in campo dell’architettura vernacolare in terra Arbër.

Lo studio dell’architettura anche se anomia o vernacolare, segno indelebile di genio locale, se si ha formazione sufficiente, nulla sfugge al buon osservatore fornito con occhio in fronte e nella mente.

L’architettura ha date, tempi, luoghi e uomini, per ogni epoca, essa non lascia spazi a libere interpretazioni, come avviene con la favola onnipresente, che vuole la letteratura Arbër, elevarsi solo dopo il 1831.

A questo punto viene da chiedersi: prima della letteratura di terzo decennio, dell’ottocento, cosa facevano i minoritari di Calabria Citra, dormivano, si cullavano, pascolavano pascendo.

Voi che fate la coda in archivio e in biblioteca, ancora non avete trovato gli atti del palazzo arcivescovile di Santa Sofia datato 1595, dell’omonimo di San Benedetto Ullano, datato 1625 e, nulla del Collegio Corsini dal 1742 con le innumerevoli eccellenze vescovii le sue eccellenze  di cultura, scritta e orale, compilati prima di ogni altra figura, dal Baffi a partire dal 1765 a Salerno e magari, quando ritrovati addirittura copiati senza vergogna, per poi stamparli diffusamente a Napoli

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SHESHI: ARCA SOCIALE PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’AGRO ARBËR (Sheshi: insieme del costruito di case, supportici, strade, vicoli ciechi e orti)

SHESHI: ARCA SOCIALE PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’AGRO ARBËR (Sheshi: insieme del costruito di case, supportici, strade, vicoli ciechi e orti)

Posted on 01 settembre 2023 by admin

Chiesa CodraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il termine “paesaggio” vuole rappresentare, l’insieme delle forme e interazioni di un luogo tra tempo, natura, uomini e, nasce per rappresentare il risultato della convivenza dei protagonisti attivi, in continua evoluzione.

Da questa definizione scaturisce la necessità nel differenziare il paesaggio, secondo lo scorrere del tempo, gli episodi o eventi naturali a cui l’uomo cerca di ripristinare e dare conto o giudizio, quando queste diventano abbandonati, antropizzati e urbanizzati.

Ci si rende subito conto della complessità del passare del tempo determinatesi a favore della natura a discapito dell’uomo e viceversa, ed ancor di più del concetto ad esso associato, in quanto abbraccia la sfera fisica, percettiva, culturale e sensoriale della realtà, inducendo ad una lettura analitica/critica per leggere le sfumature.

A Firenze nell’ottobre del 2000, si è definita una definizione ufficiale congiunta secondo cui e, per evitare possibili parafrasi che esulano dai contenuti di questo contributo qui disponiamo quella ufficiale in lingua Inglese e quella tradotta in Italiano:

“Landscape” means an area, as perceived by people, whose character is the result of the action and interaction of natural and/or human factors.

Per “paesaggio” si intende un’area, come percepita dalle persone, il cui carattere è il risultato dell’azione e l’interazione di fattori naturali e/o umani.

Secondo il convenzionale enunciato, si individua come paesaggio il risultato di azioni conviviali tra fattori naturali e/o fattori umani.

In buona sostanza, tutto può essere paesaggio, purché espressione di una componente soggettiva da parte dell’osservatore e si riconosce come bene culturale a carattere identitario, frutto della  percezione di azioni locali su uno specifico territorio, di approdo, collina o montano.

Da questo punto di vista il paesaggio rappresenta un bene apparentemente statico, in continua e lenta evoluzione, in quanto determinato dal carattere percettivo della memoria, in quanto luogo dell’azione dell’uomo sul palco della natura.

L’attribuzione di un valore aggiunto o sottratto a favore del tempo, la natura o dell’uomo, dunque, non può prescindere dal riconoscere elementi che lo caratterizzano e lo differenziano nel tempo e appariscono sostanzialmente simili secondo la distanza dell’osservatore.

Ed è per questo che alla stessa tipologia, due momenti distinti del paesaggio risultano differenti allo sguardo dell’osservatore, individuando in essi alcuni elementi ora opera della natura e ora opera degli uomini.

Questi elementi possono essere di tipo naturale: un corso d’acqua, la nuova vegetazione, o di tipo antropico: un manufatto, in declivio modificati ad opera dell’uomo, o anche un percorso viario; talvolta proprio la presenza di elementi antropici favorisce l’identità culturale, valorizzando la naturale bellezza dei luoghi, che l’uomo rende neutra per i materiali locali che utilizza negli elevati che diventano quasi opera della natura.

La produzione agricola appartiene a quei fattori di trasformazione del paesaggio che, nei secoli ha modificato notevolmente il territorio, a seconda dell’intensità produttiva e delle esigenze a cui doveva far fronte, talvolta qualificando l’ambiente: solo per citare un esempio, basti pensare a terrazzamenti, briglie di contenimento dei deflussi naturali, grazie alle quali si sono potuti piantumare, a seconda le zone, pergolati, limoneti, uliveti o i coloratissimi orti stagionali delle più raffinate colture, praticate e tramandate di padre in figlio, rendendo più docile il profilo dei declivi e sviluppando una “struttura paesaggistica” che sostiene il delicato equilibrio idrogeologico dei versanti.

La costruzione di opere e manufatti in contesti naturali, all’origine era realizzato per sortire al minor impatto percettivo rispetto al contesto ambientale in cui si trova, grazie all’utilizzo di materiali li reperibili, come pietre arenarie o argille.

La motivazione a tale attenzione, la si ritrova principalmente dal fatto che quanti sceglievano la collina alle rive di approdo, volevano rimanere anonimi e non facilmente intercettabili da quanti proveniva dal mare con principi bellicosi, non certo di convivenza.

Ragion per la quale le forme costruttive tradizionali, erano incastonate nel contesto, ma soprattutto nell’impiego di materiali e pigmenti che già appartengono ai caratteri di quei luoghi.

Partendo da questo assunto infatti, ne è dimostrazione la ricerca condotta dallo scrivente con protagoniste le genti che elevarono gli oltre cento Katundë di radice Arbër, Arbanon e Kalabanon, della penisola del sud Italia e in forma esclusivamente documentale del sud della penisola balcanica e della aree a sud della Spagna e del Portogallo, con riferimento alla regione dell’Exstremadura.

Una vera e propria casistica eterogenea di architetture rurali, un ventaglio di elevati censiti, individuando caratteri architettonici essenziali, distintivi e ricorrenti, la cui tipologia si ripete su tutto il territorio indipendentemente dalla collocazione o dalla provincia di riferimento, tanto da permettere di classificare i sistemi edilizi in classi omogenee, individuando carattere ordine strutturale, dimensionale, organizzativo-distributivo, funzionale ed aggregativo.

Le espressioni dell’abitare raccolgono i suggerimenti offerti dalle potenzialità del luogo e del tempo, fino a materializzare nel paesaggio soluzioni iterate naturalmente, a ragione d’uso, le funzioni, conferma di validità.

Analizzare, i cunei agrari attraverso briglie, per la mitigazione dei reflui naturali, o per la tenuta di vie per raggiungere in sicurezza i pianori di semina, con particolare attenzione all’edificato di raccolta, accumulo e lavorazione dei prodotti agro-silvicoli-pastorali, sono il processo più articolato da analizzare, dato che punteggiano il paesaggio, attraverso cui discernere le trasformazioni indotte dalla società contadina, del volto di  paesaggio, da naturale a interattivo tra tipo edilizio, in tutto un luogo vissuto dagli uomini.

La corrispondenza tra “oggetti dell’abitare” e “tipi di supporto dei cunei agrari” avviene convalidando tipologie posteriori, ovvero le esperienze negative da migliorare e non più proporre come soluzioni formali con connotazioni nitide, precise, quasi elementari nella struttura, in tutto la misura dell’evoluzione del paesaggio guadagna attraverso l’abitare.

La classificazione di tali sistemi in elevato, di sostegno agreste e abitativo evidenzia non solo la ripetizione della tecnica costruttiva come tradizionalmente tramandata, ma anche e soprattutto la ripresa di quei cromatismi che appartengono all’ambiente naturale in cui vengono costruiti. E sono fondamentali per non essere intercettati, perché scelta di vita.

Lo stesso avviene nei centri abitati dove gli sheshi sono organizzati secondo disposizioni dipendenti degli originari gruppi familiari allargati, sono questi a determinarne il percorso articolato e definirne gli spazio dediti agli orti botanici, indispensabili di ogni gruppo.

Abitazioni sempre contornato dal verde naturale o comunque da elementi arborei che ne caratterizzano il clima e l’abitabilità.

Agglomerati realizzati all’interno o comunque contornati dalla vegetazione caratteristica di schermatura, indispensabile nelle colline mediterranee a creare il giusto filtro visivo per chi da lontano osserva e vorrebbe distinguere uomini, natura e tempo. 

Per questo le soluzioni costruttive appartengono a un linguaggio, che con lo scontrarsi con gli eventi naturali sempre più vicini, così tanto, da rispondere nuove esigenze sanitarie, rispetto alla scelta del materiale protagonista, che ritorna ad appartenere al luogo con una dimensione nuova, in cui la maggiore caratteristica deriva dalla pietra naturale, legata all’esteriorità per render il sistema naturale e possibile.

Nel meridione italiano, i materiali impiegati nella costruzione sono gli stessi che si ritrovano in situ, lì reperiti o perché costituenti il suolo, o perché trascinati da corsi d’acqua o rotolati fino alla pianura quando i sistemi di deflusso non erano ancora mitigati.

Sino a quanto i pigmenti naturali, amalgamano l’ambiante e natura, grazie anche all’ausilio di malta di allettamento delle pietre, si producono quinte naturali senza ombre e lo scenario rimane incontaminato da ombre o riflessi fuori misura.

Le attività di ricostruzione a seguito dei sismi ad iniziare da XVI secolo sono il segno emblematico delle ricostruzioni post sismi in quanto l’originario manufatto in elevato realizzato solo di calce arena e pietre con elementi di spogliatura del continuo murario con l’adottare  parti delle lamie di copertura realizzate in coppi e contro coppi sbriciolati o non più utili all’originario scopo a causa di sismi, ma sempre utili per fare volume o dare continuità solida al costruito in elevato.

Cosi come anche l’utilizzo dei mattono che formano piedritti e archi di vani porta e finestre sino ad allora realizzati con pietre e arco trave in legno su cui adagiare il continuo murario in pietra.    

Il contesto naturale mimetizza il manufatto all’interno del suo paesaggio, riprendendone le sfumature e i toni di tutte le cose che uomo e natura avvicinano le une con le altre.

Nel caso delle pietre di cava, l’imponenza dei blocchi di pietra o dei conci in tufo, fanno contrasto con il verde della campagna ma, a ben vedere, si lega al paesaggio, perché assumo il ruolo di delimitare ingressi e finestrature e in casi di edifici più emblematico assume re il carattere distintivo essenziale di queste architetture, così poco artificiose, ed alimenta valori formali che trascendono quelli funzionali e ne strutturano la percezione in pietre di riferimento angolare alla base dell’edificio.

Questi temi così disposti hanno per secoli reso lo scenario naturale come se fosse privo della presenza dell’uomo, che dopo il terremoto del 1783 ha dato la regia o meglio prevalenza estrema, al bisogno dell’uomo, il quale prima ha esagerato con le sue necessità e, poi abbandonate le cose alla disponibilità del tempo e della natura.

Oggi siamo giunti al termine, nessuno sa come dialogare o intrecciare cose buone per disporre il giusto equilibrio tra tempo natura e uomini, mentre non avendo misura e ragione per dialogare sono incolpati sole, vento e luna, sin anche la pioggia che un tempo era tanto attesa o per meglio dire fondamentale.

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PLAN

DALLA “SCUOLA” DI PALAZZO GRAVINA GERMOGLIANO LE NOZIONI PRIME DEL MIO NATIO KATUNDË (rrgheth i motith cë shëcii haret cë chemj soth phër mendh i menatveth)

Posted on 08 agosto 2023 by admin

PLAN

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Sancito che la storia non è “un discorso nuovo” come dicono alcuni, ma unico percorso, generalmente realizzato da saggi e, non deve prevalere il principio o spunti del libero diffondere, specie se per opera di quanti, fuggendo dalle nebbie, le miserie e, le turbolenze delle loro confusi natali di origine, esternano sotto forma di favoletta la storia e, ignari sin anche di quanto largamente diffuso della Olivetara Scuola.

A tal fine e per questo, si ritiene necessario editare inserti periodici, come questo in lettura e, suggervi come era uso fare Vincenzo Torelli, il genio editore, di conservarli gli editi periodici, così a fine anno tutte le famiglie consapevoli dello stato delle nostre cose avranno un volumetto dove sono ben annotate la consuetudine, il costume, la religione, l’idioma.

Il fine vuole offrire gratuitamente e senza spesa o rincaro anche al più svagato abitante locale, quando, ispirato a deliziarsi può conoscere la parte più intima del suo luogo natio, acquisendo notizie, comodamente e senza patire, nel dover fare file in archivio o nelle biblioteche di stato, disdegnando le favole o le graffitate locali.

Lo scopo qui perseguito, mira ad informare con dovizia di tempo, cose, uomini e se vi fossero dubbi emersi a riguardo dal presente lavoro, sia giudice e giuria il pubblico imparziale, che alla lettura dei fogli raccolti gratuitamente, leggerà ogni cosa.

Il luogo oggetto di questo breve edito, è uno dei numerosi, fortilizi verso l’entro terra citeriore dello Jonio, nati per garantire la difesa con indigeni locali e alimentare le necessità della “fannullona Sibari” dalla seconda metà dell’8° sec. a.C., identificato e facente parte dei territori di Bisignano con l’appellativo primo, di “Castello”, cui comprendeva anche il loco denominato Terra, il tutto dopo la dismissione della diocesi di Thurio.

Il Katundë come terra di Sofia, fu identificato dopo l’innalzato religioso Bizantino e quelli civili del IX secolo d.C. lungo la via di costa, che da Rosano conduceva a Cosenza e, nei pressi del torrente Galatrella, da soldati Bizantini preposti al controllo del confine lungo il corso del Crati, che li contrapponeva a i longobardi e poi abitato dal XI secolo d.C. dai monachi della grancia cistercense, perché luogo sicura da cui trarre benefici, dalle floride terre a garanzia del cuneo agraria in sicurezza, posto a breve distanza dalle sedi di Luzzi e di San Marco.

Bisogna attendere il XIV secolo per veder gli esuli Arbanon, a cercare misura nuova per insediarsi, presumibilmente il pomeriggio del 7 settembre del 1471, questi giunti nel loco oggi nota come “Sheshi Ka Arvomi”, prima accesero un grande fuoco e poi si sedettero attorno per decidere chi si sarebbero fraternamente così organizzati: un gruppo si posiziono in località pedalati e zone limitrofe e l’altro rimase insediando in quei pressi dove esisteva la chiesa e un vecchio insediamento abitativo denominato ancora oggi “Ka rin rellëth”; il tutto appellato Terra di Sofia.

Il Katundë, così articolato, non ha mai avuto la connotazione di Borgo o di luogo in difesa murato e, dopo le vicende precedenti dal IX sino Al XV secolo, è stato organizzato dagli Arbanon secondo disposizioni di strategica convivenza.

Allo scopo furono realizzati qui in Terra di Sofia, come in tutti gli altri siti di radice Arbanon, quattro punti strategici di comune convivenza, e qui in particolar modo si articolarono ancor di più, con l’unione dei due gruppi divisi inizialmente e unitisi nel 1535, in un continuo edilizio nell’arco naturale che va dal luogo degli eroi sino fianco est del Torrente del Duca e alla connotazione originaria così suddivisa e composta:

  • il rione o meglio lo sheshi che si sviluppa a ridosso della chiesa: Ka Kishia;
  • l’originario sito costruito dagli indigeni; Ka rin Relljiet o Moticelljet;
  • il rione dove si allocano i gruppi familiari allargati Arbanon Sheshi;
  • il promontorio di avvistamento dove si esercitavano e si organizzano i difensori preposti: Bregù;

Prima con attività estrattive di residenza e poi sempre più energicamente con lo scorrere dei decenni, a un fitto tessuto di vichi, fondaci, vanelle, botteghe e case, un «labirinto», senza edifici pubblici o monastici in quella parte di territorio noto come, rione di approdo.

Il Katundë dopo il 1535 divenne ancora più ricco quando tutti gli Arbanon si unirono per dare vita al tessuto odierno, apparentemente caotico, ma per la posizione e le modalità di sviluppo teneva conto della difesa non in forma muraria, giacché affidava allo stesso sistema edilizio di ispirazione orientale/bizantina, risultato delle influenze note agli esuli perché tipiche dall’Oriente dal Mediterraneo più estremo.

All’interno della maglia edilizia e viaria dell’Iunctura Arbanon, i vicoli ciechi, segnano, la privatizzazione di un ben identificato contesto di famiglie, legate da vincoli di parentela, anche con i residenti in contiguità abitativa.

I fondaci, diversamente, erano per questo comparti abitativo/commerciali espressione di attività generata direttamente dal luogo, ove era uso attivarsi in compiti di apparente confusione, senza riposo sino al compimento dell’impegno giornaliero assunto.

Nelle attività di sviluppo degli Sheshi, sorgono case con orti, giardini, in tutto, spiazzi terrazzati, anche in forma di orto botanico, riproducendo in miniatura tipologie rurale, generalmente affiancati o disposti nei pressi elevati di riferimento civili e religiosi.

Correva il 1595, quando fu eretto il convitto estivo del vescovo do Bisignano, quasi sempre seguito da un folto gruppo di seminaristi, noto in paese come palazzo Arcivescovile, nel Katundë inizia una nuova svolta culturale ed economica.

La residenza Vescovile nasce perché, luogo sicuro e climaticamente favorevole al vivere in solitaria preghiera, specie in quell’epoca che vedeva minati gli equilibri sanitari e, un luogo isolato con una buona esposizione climatica dava modo per sentirsi più a lungo e in vita alle cose della chiesa romana.

Con il peggiorare delle vicende naturali e indotte, quali, carestie, terremoti e pestilenze, l’abitato si isola dalle vie di transito e confronto, subendo un decadimento demografico ed economico a dir poco notevole, il non confronto produttivo tra famiglie.

Le oscure vicende subiscono un rilancio intorno alla metà del XVII secolo, quando terminata la paura da pandemia, in Terra di Sofia e negli ambiti di pertinenza, dove comunque la malaria non aveva mai attecchito in maniera devastante-

Tuttavia, lo scenario che si presentava, non lasciava presagire uno stato economico fiorente, specie nelle attività agresti, in abbandono per non dire allo stato terminale.

Bisogna attendere la seconda metà del XVII secolo quando le autorità preposte, al fine di risollevare l’economia, distribuivano seminativi, per riavviare la filiera produttiva agro, silvo e pastorale, e i loro derivati, ormai senza domani e non certo per “rotazione triennale”.

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Ato

“MEDITERRANEO – BACINO D’ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE “ “La Regione Storico/Ambientale Arbër” (per la tutela delle radici di Ieri, le certezze di Oggi, per la sostenibilità dei Domani)

Posted on 03 agosto 2023 by admin

AtoNAPOLI /di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Alla luce delle attività in “Carmina Convivalia”, ad opera dalle istituzioni preposte, ad Est e ad Ovest del fiume Adriatico sino allo Jonio, con il fine di valorizzare e promuovere, le cose tangibili ed intangibili dei luoghi attraversati, bonificati, per essere vissuti in Arbër.

Si ritiene urgente proporre, a tal proposito onde peggiorare le cose, un supporto storico, scientifico, linguistico, consuetudinari, toponomastico, architettonico, agrario, sartoriale, architettonico, urbanistico, dei trascorsi più rappresentativi, con figure di eccellenza albanofona, illustrando cosa sia realtà e cosa leggenda, in ruolo fondamentale e determinante, di questo popolo.

Sono ormai troppe le epoche secondo le quali ha valore di eccellenza Arbër solo chi si è adoperato a scrive inseguendo gli innumerevoli ed inadatti alfabetari, come indicato da Norman Douglas, il quale con ironia si prendeva gioco degli scriba, che usavano l’inchiostro versato da altri.

Questi imprestatori d’inchiostro, allora come oggi, invece di valorizzare il genio primo, di: Editorialisti, Giuristi, Ingegneri, Politici, Bibliotecari, Ricercatori, Eroi di accoglienza sociale/culturale e ogni sorta, di figura che per la sua formazione culturale ha dato alla nazione ospitante luce, riverberatasi in tutto il vecchio continente, si ostinano allora come oggi a copiare greco.

È arrivato o meglio giunto il temine, di iniziare, per dare valore e merito, a quanti in ogni intervallo storico, hanno dato forza trainate al mondo Arbër e non solo, per questo, rimanere ancorati a vetusti stereotipi, vuoti di senso, oltretutto, immaginando, che parlare in lingua altra, fa la differenza con il mondo indigeno è una favola che non interessa ormai più a nessuno, specie alla nascente cultura Albanese.

Allo stato delle cose, per dare un contributo, fondamentale e aprire nuovi orizzonti dei trascorsi storici, degli oltre cento paesi della Regione Storico/Ambientale Arbër, sparsa in sette regioni, raggruppata in ventuno macro aree omogenee, onde evitare ideologiche, inopportune e infondate attività di tutela, apriamo nuovi stati di fatto, perché è tempo di mettere in luce i veri accadimenti della storia di questo popolo.

La minoranza, per questo non va considerata come giullaresco esperimento di figure che ballano cantano e suonano vestite strane e null’altro; giacche essa rappresenta uno scrigno dorato molto vasto e capiente, fatto di un codice identitario composto da promesse mantenute, intelligenza, garbo, valori sociali, valori religiosi e più di ogni altra cosa genio, quello indispensabile a produrre cose buone, con il poco offerto dalla natura.

Tutto questo non lo si può raccontare con il dare vita a un Katundë, con inopportuni, protocolli identitari, che iniziano e finiscono nell’atto di raffigurare episodi di vita indigena, sporcando intonaci, porte e gemellandole con le intime prospettive o rievocando guerre cruenti il giorno di una Pasqua irreale.

Come se la storia degli Arbër, non avesse eccellenze e regole identitarie di nobili principi e, se ignari preposti, non possiedono misura metodi di conoscenza, vanno redarguiti e informati, perché da troppo tempo avanzano “vale vale” equivocando sui trascorsi di accoglienza e integrazione e, se continuano ad avanzare imperterriti e ostinati a contare il numero delle migrazioni come se fossero la domenica dopo il sabato, non è certo un bel vedere.

Alla luce di tutto ciò, si rende disponibile produrre e rendere merito con documenti e protocolli identitari per quanto ancora ignorato dai dispensatori di piazza, in tutto, contribuire alla stesura di Tesi di Laurea, excursus storici dei Katundë e dl loro stanziamento, le disposizioni tipiche in pubblico confronto con quanti ambiscono e vogliono allargare l’unitiva conoscenza formativa, di tutela e resilienza, di tutto il sistema storico Arbanon compresa la Napoli Capitale,

Alla luce di ciò i temi di progetto, seguiranno il seguente Piano, rispettando cose, fatti, terre, presidi uomini e credenze;

  • Introduzione;
  • Premessa:
  • Regione Politica, Storica e Ambientale;
  • La via Egnazia;
  • Scanderbeg; la strategica diaspora;
  • I vocaboli che uniscono gli antichi Arbër;
  • Ambiti in Arbër;
  • I Capitoli e gli Onciari
  • Canto testo di memoria l’eredità identificativa dei generi;
  • Chiesa, Promontorio, Sheshi e l’antico;
  • I luoghi dell’unità e del confronto sociale;
  • Vallja: patto della buona integrazione;
  • Napoli il Calendario;
  • Confronti di credenze, i processi dell’integrazione;
  • Il fuoco la casa, il cortile e l’orto botanico;
  • Rifugi estrattivi, Tuguri additivi i Katoj
  • Kaliva e Balljva, la Misura della Casa e del palazzo;
  • Il Costume, il matrimonio e la regina del fuoco;
  • Il centro Antico della Napoli purpignera dei centri antichi Arbano;
  • Nei pressi di Santa Chiara la pena di Donica Arianiti Comneno;
  • L’Orientale di Napoli prima Università per gli Arbanon;
  • Napoli Tra Centro Antico e Centro Storico;
  • La fila delle eccellenze Arbanon: epoca e contributo;
  • Conclusioni e attività per il buon esito del progetto;

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LE PRIME “SCUOLE” CITTERIORI IN TERRA DI SOFIA (i pari bank scoliè u lljè te Dheratë i Sofisë)

LE PRIME “SCUOLE” CITTERIORI IN TERRA DI SOFIA (i pari bank scoliè u lljè te Dheratë i Sofisë)

Posted on 25 luglio 2023 by admin

arcNAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – La verità che va subito svelata è il concetto Università in origine appellata “Scuola”, che nel corso dei secoli e dalla sua origine ha assunto una organizzazione gerarchica secondo cui non si riferisce di “Scuola” ma “Scuole”.

Infatti un maestro abbastanza bravo che aveva un seguito di allievi, inclini ad avere particolari attitudini a, seguire, studiare e conoscere, le vie del sapere, erano accolti a casa del maestro; cosi ha inizio la radice, dell’università sino ai giorni nostri, per quanti le frequentano con lo spirito antico di conoscenza. 

Nel caso in questione, di terra di Sofia, si può ipotizzare che il gruppo di studio locale era diretta da un prelato o più prelati a casa propria, dove svolgevano questa attività, anche fuori i canali prettamente clericali.

Per datare inizio all’avvenuto continuo, senza soluzione di continuità alla formazione di quanti vivevano questo luogo, si può ipotizza che tutto avvenne, dopo la costruzione del Palazzo Arcivescovile, il palazzo delegato alla residenza estiva degli allievi monastici del vescovato di Bisignano; siamo alla fine del XVI secolo esattamente il 1595.

Qui i rampolli delle famiglie che riuscirono a formare un proprio figlio, facendolo rientrare nei gruppi o “capannelli universitari privati” le stesse che in questi anfratti, senza soluzione di continuità, elevano figure in ogni epoca.

Le stesse che oggi rimangono come pietre miliari di una scuola all’interno della comunità albanofona, ancora senza pari, in numero e di elevata cultura e conoscenza della storia.

Nel corso dei secoli a seguire le case dei Bugliari, Baffi/a, Feriolo, Miracco, Becci di sopra e dei Pizzi, divennero veri e propri poli universitari, dove i figli delle famiglie, pieni di volontà di apprendere, ebbero modo di formarsi e divenire esempio irripetibile per tutta la Regione storica diffusa degli Arbëreshë.

Non a caso, furono proprio questi, una volta inseritisi nella società di pensiero, a far brillare i “presidi universitari locali in terra di Sofia” alla luce dei fatti e, avendo modo di concertare l’allargamento il numero degli allievi del Collegio Corsini, trasferendolo in sant’Adriano, luogo ideale citeriore, per liberali prospettive sociali, caratterizzando la formazione in libero pensiero e difesa della propria radice identitaria, sociale, civile e religiosa.

Tuttavia dopo un medio periodo di lume, ha iniziato una china senza tempo e nonostante alcuni esempi siano sfuggiti alla deriva culturale verso il basso, il luogo di terra di Sofia, conserva tutti gli ingredienti e le cose per diventare cosa fu nel passato e, quanta spinta ha dato all’unita d’Italia e di tutte le sue cose più buone.

Purtroppo da ventotto febbraio del 1986, vige un comando una legge o meglio un gruppo di lavoro sotterraneo, ambiguo e senza scrupoli, che predilige far frequentare i “Presidi universitari locali in Terra di Sofia”, cercando a sottrarre braccia ai cunei agrari, scacciando dagli ambiti del centro antico quanti hanno cuore, mente e vedute larghe, per valorizzarla in senso assoluto.

Il risultato è steso, continuamente e senza ritegno, al sole “the kopshëti pà gardë” svelando il sudore in sangue, del genio, apponendo, elementi utili a distrarre,  le prospettive di ascolto e visone, verso altrui segni distintivi di luogo, ormai ripetuto affanno operare dei peggiori; tuttavia il luogo ameno, rimane e vanta d’essere nato e per lungo tempo, luogo di prima scuola universitaria Arbër in terra citeriore.

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L’ULTIMO COMPONIMENTO DI ARTE LOCALE RISALE AGLI ANNI SESSANTA IN OPERA DEL PJGÌONË (kur mjeshtrat shërbejin tek rrugat e vacabunërath me ciombata zhëin murath e Kishës)

L’ULTIMO COMPONIMENTO DI ARTE LOCALE RISALE AGLI ANNI SESSANTA IN OPERA DEL PJGÌONË (kur mjeshtrat shërbejin tek rrugat e vacabunërath me ciombata zhëin murath e Kishës)

Posted on 17 luglio 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Le eccellenze nate in Terra di Sofia, storicamente, non hanno mai avuto il giusto riconoscimento in ogni dove, siano stati esempio per le generazioni a venire, specie in quella terra dove videro per la prima volta luce, per avere innestati i raffinati sentimenti vicino al cuore e alla mente.

E chiunque abbia guidato la comunità, in ogni aspetto civile e religioso, li ha sempre ignorati, preferendo quanti vivevano ai margini e del loro sapere perché niente e nessuno avrebbe potuto trarre, spunto per migliorarsi o rendere merito alla comunità di genio citeriore.

Questo è un dato di fatto che alcuna figura, con un minimo di senso ed educazione culturale, dovrebbe proferire parola o difforme parola, alla luce delle tappe storiche qui brevemente annotate.

Se oggi servisse definire i termini delle eccellenze, o l’evoluzione del costruito storico del violato centro antico in Terra di Sofia, non si commette errore nell’affermare che le maestranze, in campo edile, analizzando il costruito storico, non erano o non sono mai state locali, anche se le scelte specie dal XX secolo, erano una prerogativa, ben distintiva dei muratori che non erano altro che contadini in ferie.

Questa prerogativa ha da sempre caratterizzato le cose del costruito, con gusto e giusta causa storica, delle Terre di Sofia, a ben vedere e osservando con titoli i palazzi nobiliari costruiti dalla fine del decennio Francese.

Tutti seguono una impeccabile progettualità nei tratti e nei significati dell’architettura dell’epoca e, in questi anfratti tardarono di alcuni secoli prima di apparire, grazie all’economia in ascesa.

Vero è che il centro antico prende forma e sino a qualche decennio addietro, poteva essere facilmente letto e interpretato sin anche di comunemente, oggi per opera di un esperto locale e basta.

Tuttavia la necessità risorte degli anni sessanta del secolo scorso hanno penalizzato numerosi edifici del centro antico, per la quantità di risorge che arrivavano dal duro lavoro degli emigrati economici di quell’epoca e, mancando ingegneri architetti e manovalanze specializzate, seguirono numerose imprese allestite per rispondere al mercato, ma non certo a quello che faceva testo nella Carta di Venezia, che in queste latitudini resta ancora ignota.

Per dare una misura di cosa tratta, è la stessa che in questi giorni si ode nei telegiornali, degli ignari che segano le loro iniziali nel Colosseo o nei monumenti storici Italiani, scalfendo le minimali superfici.

Bisogna attende il sorgere del sole ad est, precisamente a Serra di Zhòtë, per vedere un imprenditore edile, il quale con forza d’animo, fatta di umiltà e buoni propositi inizia ad edificare con senso e meglio, le cose nuove di questo antico luogo.

Una mente di eccellenza imprenditoriale in periodo è l’insostituibile E. Azzinnari ,che per il suo spiccato spirito di onestà, organizzava nei minimi dettagli i suoi diffusi cantieri in Terra di Sofia, disponendo specifiche professionalità nei settori strutturali, edili, impiantistici e delle rifiniture, dovendosi a suo giudizio, porre in essere, senza lacuna di sorta.

L’Azzionnaro, per questo si dedicò a progetti di interesse sociale e privato seguendo i suoi elevati e raramente qualche esempio persone a lui vicine.

Le cose private, per questo, terminarono nelle disponibilità di numerosi addetti, che incisero pesantemente nella consistenza di Solai, Architravi, opere Fondali e Coperture, per il fine di superfetare e volumizzare.

In seguito definite le misure delle nove case private, ebbe inizio la stagione del veicolare ogni anfratto ameno, storico o memoria locale, smantellando, sedili, porte, piani inclinati e ogni sorta di caratteristica che rendeva la terra di Sofia un Katundë Arbër parallela, proprio per le sue eccellenze di luogo.

L’ennesima trasformazione venne cosi allestita e, il Katundë, abbagliò sin anche il monte Mula, con i colori pompeiani e di chissà quale altra radice indigena, immaginata gratuitamente, nel mentre all’interno del centro antico uhda. dera e rrugat, per opera dei rinnovati amministrati, privati, pubblici e clericali, vide stendersi il centro storico, fuori dalla misura e le memorie locali, da allora silenziose, umiliate e lasciate inlacrime.

Negli anni sessanta e settanta i solai, i muri, le coperture e le fondazioni; negli anni ottanta e novanta, porte finestre; e dal duemila senza soluzione di continuità sono mira dei veicolatori seriali e come se non bastasse si continua imperterriti a seguire la regola del non rispetto dell’insieme comune.

Le stese che pur apparendo al pubblico inattaccabili nella intimità costruttiva, si utilizza violarne le patine esterne, come fa l’acqua quanto deve sfondare o bucare i duri lapilli.

Notoriamente tutti conosciamo la prassi che inizia goccia a goccia e cadere sugli strati lapidei, il tempo nel frattempo fa da testimone, fino a vedere passare l’acqua, senza frontiera, dall’altra parte, in tutto, piccoli strati di muro violato, per entrare in casa d’altri e fare il padrone non invitato.

Ma questa è un’altra storia, il cui approfondimento, ha bisogno di verifiche, come dicevamo prima il tempo, per questo, aspettiamo, per scardinare goccia a goccia i Scoroni che ballano, suonano e cantano in pubblica piazza senza merito.

Per concludere sottolineare un dato storico senza precedenti, non è male, don Carlo chiese a chi affidare il realizzare la recinzione del suo palazzo; gli fu risposto, anche se dovesse costare il doppio Pjgionitë, ormai sta chiudendo, almeno rimane un pezzo del lavorare il ferro, in terra di Sofia e cosi fece.

P.S. In memoria di Han van Meegeren: il falsario del XX secolo

P:S: corse in piazza con il bastone in mano e disse: chi di voi tocca la porta o il quadro dell’altare, deve discutere con il muso del mio bastone… poi voltò le spalle e torno nella sua seggiola a immaginare la recinzione da farsi.

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I PIONIERI ARBËR DELLA LINGUA, DEL GENIO, LA LEGGE E DELL’EDITORIA

Posted on 02 giugno 2023 by admin

9_original_file_I0NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Esiste una via che unisce la saggezza linguistica, la scrittura, la diffusione, il genio e la saggezza di applicare leggi, secondo il genio Arbër, purtroppo ancora oggi ignota a quanti lo avrebbero dovuto sapere, largamente divulgare e sostenere.

Esistono quattro colonne, o meglio Figure, vere e proprie istituzioni della storia Arbër, che non sarà mai possibile superare, nonostante la pubblicità multimediale dei comunemente, semini piccole cose dei campanili senza ne corde e né campane.

Esiste un tempo per copiare, non fare i compiti, bighellonare, cantare in tutto marinare la scuola, poi viene giugno e il maestro saggio tira le somme e, nonostante le raccomandazioni dei potenti, promuove quattro, il resto è rimandato a settembre e i rimanenti tre sono bocciati e devono ripetere tutto.

Esiste la strada che unisce le quattro colonne e, quanti non studiano non conoscono neanche o hanno la ben che minima consapevolezza del valore di univoco che si dà alla storia; essa parte dalle colline della Sila, segue la via Erculea, intercetta la Traiana in “Aequum Tuticum” e per le trionfali arche della Traiana poi da Benevento segue l’Appia Antica, per finalmente vede il sole della cultura a Napoli.

La strada unisce senza soluzione di continuità, gli studi e il genio primo di Pasquale Baffi il Linguista; Luigi Giura il Genio di Scienza Esatta; Rosario Giura il Procuratore e, Vincenzo Torelli il genio della cultura di Massa.

Questi sono il genio della cultura del mondo Arbër, tutto il resto è contorno, associati di comodo, o “riverberatori seriali di comodo domestico”, che non avranno mai le carte in regola, per essere promossi a giugno.

Queste quattro colonne che sostengono i valori fondamentali della regione storica diffusa degli Arbër, saranno qui analizzati brevemente, tanto basta lo stesso per rendere merito al loro genio, mai da nessuno analizzato con dovizia di particolari o breve serenità di saggezza.

In questa diplomatica rivelatrice della storia, non si parlerà di cavalieri, elmi, spade, gabelle o alfabetari, ma della storica consuetudine caratteristica del genio di uomini semplici, che con il loro sapere hanno unito genti e difeso la storia, da protagonisti silenziosi del mondo Arbër.

Per questo il tema si svolgerà con il rispetto dei tempi dei luoghi e delle cose divulgate secondo l’esigenza e svelare senza protagonismo come hanno avuto luogo le cose materiali ed immateriali della sostenibilità del buon nome degli Arbër.

Quattro sono le figure, a cui poi come si fa con il miele versato, si avventano formiche, zanzare e ogni sorta di invertebrato a caccia perché affamato o senza gloria.

In definitiva esso sono, rispettivamente per nascita: Pasquale Baffi Linguista; Luigi Giura Genio di Scienza; Rosario Giura Procuratore e, Vincenzo Torelli istituto della cultura di Massa, sono loro che dal fiume della Calabria Citeriore e dal Vulcano Vulture, resero servigi di radice culturale e sociale impareggiabili dal 1775 e per oltre un secolo.

E da questi quattro elementi forti, poi prendono spunto e si dirama, il pensiero e le gesta di altre figure, alcune buone come i maestri e purtroppo, anche tre note stonate degeneri o replicanti seriali, ma noi qui parleremo solo delle colonne.

-Prima Colonna: Pasquale Baffi

Chi dei ricercatori moderno, ha studiato le gesta del Baffi, con dovizia di particolari, comprende subito che il solco dritto e indeformabile, nonostante numerosi contadini moderni, cercano di storcerlo, sono la prima icona dello studio e la comparazione della lingua Arbër, anche sulla scorta dei suggerimenti, forse mai letti da nessuno, degli studi del professore M. Gigante, uno dei più importanti papirologi italiani del dopoguerra e, in senso lato, studioso delle antichità classiche e bizantine.

Conferma resta la prima comparazione delle parole più comuni utilizzate dagli Arbër scritta con lettere greche, risale al 1775-76-77 stampata all’estereo senza errori, diversamente da come decenni dopo per tutelarsi si trascrive a premessa, perché a Napoli a quei tempi nessuna Stamperia era fornita di quei caratteri, diversamente dalle stamperie del nord Europa più evolute.

Resta un dato inconfutabile, comunque, anche conservato, nella biblioteca nazionale nel fascicolo Baffi, dove sono trascritte a mano comparazioni Arbër, co le lingue indo europee, al fine di estrapolare la radice di numerose parole.

Da ciò è bene ricordare a quanti asseriscono che il Baffi non è da ritenere eccellenza, ma eroe, perché non ha scritto nulla, per la divulgazione della lingua scritta Arbër, ritenendo che i pionieri sono giovani leve che nel 1775-76-77, non erano ancora né seme e né stelline, sbaglia quindi chi costruisce campanili da cui sparge veli di polvere e fatuo.

Il primi e unico pensatore colto, che aveva titoli formazione, garbo educazione, in tutto forza culturale per non esporsi come comunemente avviene ad errori scritti, è stato il Baffi e, se nel 1831, qualche avventore immaginava che a Napoli nessuno avrebbe riconosciuto il copiato o il riportato di altri, ha fatto una penosa figura, quando quei racconti, sottoposti alla verifica di Michele Baffi, figlio di Pasquale, esperto in Diplomatiche, è stata solo la sua educazione nel tacere sugli gli scritti, in silenzioso dispiacere, riconoscendo il maltolto paterno.

Per terminare la parentesi della colonna linguistica non vi è alcun dubbio, sul dato che il primo, il solo e il più elevato comparatore della lingua Arbër scritta, resta senza ombra di dubbio, Pasquale Baffi e, se a qualche istituto, istituzione, associazione o scriba dell’ultima ora, non ha ancora chiaro il concetto; Venga in Biblioteca a Napoli, non come turista per allungare la coda, ma essere almeno attento “studiatore” che legge,  in italiano, le cose sagge del Baffi.

– Seconda Colonna: Luigi Giura

Se un comune pensatore avesse misura della grandiosità di questo Arbër, smetterebbe di pronunziare il nome di fuggitivi seriali, guerrafondai da quattro danari e ogni genere di polverosa figura senza definizione svelata.

Una considerazione anzi due, valgano per tutte;

  • La prima per sottolineare il dato che se oggi si elevano ponti su catenarie in tutto il mondo, compreso l’atteso ponte dello stretto di Messina, lo si deve all’intuito e l’innovazione tecnologica frutto delle ricerche dell’Ingegnere/Architetto Arbër di Maschito, Luigi Giura che il 10 Maggio del 1831, inaugurò con successo la stagione dei ponti sospesi su catenarie.
  • La seconda operazione assume storicamente un valore ineguagliabile in quanto dove per secoli I grandi ingegneri romani non riuscivano ad avere ragione della bonifica del lago carsico del Fucino; è qui che il suo ingegno superò ogni tipo di aspettativa, in quanto il suo progetto, posto in essere dopo la sua morte resiste al logorio del tempo e rende quella valle produttiva, senza più soluzione di continuità.

Se questo è poco e vale meno di chi prova a scrivere alfabetari da tempo, offre la misura o le mire storiche di istituti e istituzioni preposte a valorizzare le cose della Regione storica diffusa degli Arbër.

– Terza Colonna: Rosario Giura

Personaggio con una grande e instancabile rispetto delle leggi e il valore che attribuiva alla vita delle persone, fu lui che nel corso delle vicende che caratterizzarono la storia del regno nel 1848 a ribellarsi al volere del re, opponendosi con forza, quando a capo della procura Napoletana si oppose, alle preferenze del regnate, che desiderava, chiunque e senza misura di azione condannato a morte, se facente parte di quegli eventi contro la corona; condannato preferì l’esilio e dopo la sua morte a Marsiglia, la provincia di Potenza, traslò la sua salma, che riposa sepolto nel termine marmoreo vicino al fratello Luigi, nel cimitero monumentale di Napoli in Poggioreale.

– Quarta Colonna: Vincenzo Torelli-

Editore, critico musicale e tra i più innovativi dell’ottocento, sulla cui falsa riga si è allineata tutta l’editoria moderna, resta un’icona fondamentale delle eccellenze Arbër, qui riportate non perché secondo o a nessuno dei su citati, ma solo per ordine di nascita.

Fu il primo ad analizzare la differenza che corre tra le popolazioni come gli Arbër  che affidano la loro metrica di memoria al canto di genere, noto come Valje.

Tra i suoi editi era famoso un giornaletto, dove i personaggi che si sfidavano nelle articolate avventure, era il canto e la musica.

Famose restano le vivaci discussioni in un famoso locale partenopeo dove nascevano confronti a favore di uno o dell’altro personaggio e, lui conoscitore profondo della storia Albanofona faceva trionfare sempre il Canto e mai la Musica.

È lui l’editore di Omnibus e l’Albanese d’Italia, come di tante altre pubblicazioni che nel corso della sua vita passò alle stampe; è il Torelli l’ideatore degli inserti popolari, dei suoi giornali, convinto che a fine anno ogni famiglia avrebbe posseduto un libro, dove le giovani leve, pure se povere avrebbero avuto occasione di illuminare il sapere.

Torelli nella sua struttura diffusa in tutto il territorio della Napoli capitale, aveva la sua sede nei pressi della chiesa di San Giovanni Maggiore, dove campeggiava la scritta e per chi non la notava, era lui a dare il ben venuto a, ogni Arbër, che li si recava a confrontarsi o a editare, con il saluto; ”Jaku i shërishiur su harrua”.

Per terminare, va sottolineato il dato che numerose sono le eccellenze Arbër che vanno ricordate e, qui non è il caso di citare per non dilungarsi e diventare noiosi, diversamente, dai tre “moschettieri della vergogna” che resteranno sempre noti come: il rissoso guerrafondaio, il copiatore seriale e il traditore per danaro.

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I PORTICATI IN TERRA DI SOFIA (Deretë Thë Valljtë)

I PORTICATI IN TERRA DI SOFIA (Deretë Thë Valljtë)

Posted on 07 maggio 2023 by admin

CatturaNapoli AdrianoNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – L’abitato del casale Terra di Sofia, specie la parte antica e, antecedente al secolo XVIII, si articolava lungo vie, incrociate da vichi e spazi circoscritti, da cui si accedeva anche da porticati generalmente Arcuati a tutto sesto, con orizzontamento in legno nello sviluppo lineare.

Il sistema consentiva di accedere al tessuto urbano dove ruderi, fondaci, botteghe e case, disegnavano un labirinto, privo di edificati di rappresentanza, complessi monastici, se non la chiesa matrice.

Un insieme costruito di rudimentali elevati o componimento caotico di chiara ispirazione orientale/bizantina, influenza trasportata nel cuore e nella mente, di quanti giungevano dall’Oriente Mediterraneo, per unirsi, previo confrontarsi, con gli indigeni in sofferenza.

All’interno della maglia edilizia della Iunctura così organizzata, i vicoli ciechi, anticipavano, la ‘privatizzazione’ o ‘semi privatizzazione’ di un ben identificato contesto di famiglie, legate da vincoli di parentela allargata, e per questo in contiguità; i fondaci relativi di primo insediamento, per tanto, erano comparti abitativi con Giardino e Orto Botanico annesso.

I porticati rappresentano la misura o meglio il metro di afflusso e deflusso di un a ben identificata porzione dell’abitato gli sheshi, oggi noti come Rione di pertinenza, la cui radice si può identificare nella toponomastica consuetudinaria o ancora se presente e non violata, in quella di primo approdo della legge 1188/1927.

I porticati ancora presenti o meglio che resistono alle innovazioni di recupero, non secondo la scuola del restauro, restituiscono ancora oggi un piano strategico secondo il quale, chi veniva e volesse confrontarsi con i residenti, non aveva un accesso all’interno del centro antico, sormontando cavalli o animali da soma, ma procedere al seguito o o anticipando il transito del quadrupede.

Sono tre che delimitano il rione di “Ka Rìnë Relletë”; quattro, il Rione Spizj; due sono quelli che delimitano l’antico Trapeso; e tutti allestiti lungo il confine del centro antico di radice bizantina.

Tutti i supportici, uniscono i primi livelli di abitazioni in sicurezza dagli estranei in osservazione, essi sono realizzati tra abitazioni nobiliari o comunque famiglie e casati, legati da patti o vincoli di parentela, per gestire in sicurezza abitazioni e nel contempo, circoscrivere vanelle di pertinenza, corti, giardini, orti botanici comuni o privati, in tutto, spazi di scambio e confronto, denominate in Arbër “Vallj”.

Sicuramente l’abitato in Terra di Sofia, aveva altri supportici, ma le vicende storiche del costruito, sottoposto alle prove degli eventi tellurici, che non hanno mai smesso di mettere alla prova il genio degli elevati, lasciano presupporre, un antico costruito storico, con altri passaggi di inchino a completare la parte esposta a sud e sud-ovest.

Fare un resoconto del sistema urbanistico dell’epoca e una impresa non semplice ma con le dovute cautele, magari confrontando altri impiantì urbani limitrofi o di macro area, si potrebbero estrapolare misure parallele, se non simili e, definire teoremi, storicamente provati, da affidare come memoria delle generazioni a venire per componimenti più complessi.

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GIACULATORIA PER LA TUTELA DELLE COSE E LE MENTI DEI GENERI ARBËR

GIACULATORIA PER LA TUTELA DELLE COSE E LE MENTI DEI GENERI ARBËR

Posted on 02 aprile 2023 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Questa giaculatoria storica nasce per le figure meno utili per la ricostruzione degli eventi solidi della Regione storica diffusa degli Arbër.

Essa rappresenta una preghiera povera indirizzata al popolo dei comuni, per questo fatta di contenuti semplici, tale che, possa essere fondamenta, anche di quanti credono di avere titoli e mai distaccatosi dell’età prescolare, gli analfabeti o illetterati diffusi, in altre parole, da ogni abitante che vive e non sa di essere parte della minoranza storica, più longeva e solida del vecchio continente.

L’esigenza nasce a seguito degli appuntamenti culturali svoltisi in assenza, nel corso del tempo che hanno visto arrivare, vivere e terminare la pandemia 19.

Questa, invece di essere utilizzata come monito e riflettere sulle innumerevoli pene culturali degli ultimi due decenni, è stata una parentesi delle pagine più pietose e irriverenti che la storia ricordi, con finalità di tutela delle cose materiali ed immateriali della regione storica diffusa, tra le più devastanti.

Iniziando a riflettere immaginando che la minoranza fosse viva per l’esclusiva eredità parlata; qualche figura a dir poco, formata, ha furbescamente ritenuto, potersi inventare storia, alfabetari e cavalieri senza cavallo a sostegno di Don Chisciotte in perenne discussione, qui non con i mulini a vento, qui trasferitosi a per colloquiare con l’architettura, l’urbanistica e addirittura le solide case, che come tutti sanno non parlano perché sono episodi unici della storia.

Sopportare che figure deboli della storia, saltino la fila e si dispongano in mostra, più dei geni è storicamente comprovato, per questo lasciano sempre il tempo che trovano, tanto gli ultimi saranno sempre in ombra, mentre i primi brillano per luce propria anche se lo spazio per loro è in fondo alla piazza gremita che comunque ascolta e apprende nozioni.

Quello che oggi è diventata indecenza sono le attività di tutela indecenti, dei fatti culturali e le attività di valorizzazione degli elevati storici, continuamente violentati perché, muri inermi, senza braccia, gambe e piedi per scalciare o “sucuzzare”, verso quanti le impropriamente colora con irriverenza, le cose e gli elevati d vivere per portarli in auge.

Nonostante la storia di questi edificati che hanno dato i natali ad eccellenze del mondo della cultura, della scienza esatta, delle lettere, della politica e la conservazione e tutela delle cose che oggi ci indicano con luce la nostra radice, si preferisce deturpare, spruzzando per ribellione ogni sorta di componimento in colore senza la ben che minima vergogna.

Tutto questo nella più demenziale inconsapevolezza degli atti commessi contro i saggi, i quali, stanchi e abbandonati dalla plebe, che evita pure di rimborsare trenta tre danari e fare opera gratuita di rimedio del violato senza riguardo.

Affinché questa elevazione di giaculatoria smuova le coscienze di tutti è bene precisare di cosa parliamo:

Il salto di quota che caratterizza le colline della regione storica e ogni Katundë, dalla zona bassa a quella più alta individuato sia classificato o rientri in un unico tema così come segue; individuato un elevato di credenza, si articola nei suoi pressi un pennino, identificabile quale pettine di nascenti di elevati abitativi che disegnano vichi, rampe, supportici, case e spazi o slarghi, utilizzati per realizzare elevati; il pennino mira a definire quattro rioni che strategicamente legano tutti gli oltre cento paesi riedificati dal 1479 al 1563 secondo lo stesso impianto di cui è composta la capitale, in epoca ducale dalle stesse genti provenienti dal mediterraneo del sud est.

I pennini restituiscono «strette vie a gomito, gradinate, in parte coperte da portici o supportici con volta con copertura piana e sin anche voltata, per superare il dislivello, cis’ come avviene nella città ducale partenopea che darà qualche secolo dopo la metrica per fare Katundë.

È dunque caratterizza questo fitto tessuto di vichi, fondaci, vanelle, botteghe e case, un «labirinto di vicoli», senza edifici pubblici di rappresentanza né grandi complessi religiosi di rilievo, in altre parole un apparente carattere caotico di chiara ispirazione orientale, bizantina o islamica, dovuto alle influenze dirette di giungevano dall’Oriente.

All’interno della maglia edilizia della Iunctura (legame) ducale, i vicoli ciechi diventano occasione, ideale per ‘privatizzare’ o ‘semi privatizzazione’ in un contesto di famiglie legate da vincoli di parentela. residenti in contiguità; i fondaci,

invece, sono comparti abitativo-commerciali che derivano direttamente dalla tipologia di luogo di apparente confusione, ma dove elemento ha compiti e ruoli ben identificati, perché proprietà intrinseca di ogni facente parte di quel luogo.

Specie lungo i pennini sorgono case con orti, giardini e spiazzi terrazzati che riproducono una tipologia rurale e persino tuguri scavati nelle pareti tufacee o di estrazione più morbida secondo una tipologia rupestre molto diffusa, come sappiamo, in tutta l’area di espansione dei paesi collinari.

Questa qui esposta è una breve trattazione di quello che poi divengono i veri presidi per la valorizzazione di un antico consuetudinario tra i più solidi del bacino mediterraneo.

VincenzoTorelliUn sistema abitativo che oggi è la radice di numerosi centri antichi del meridione italiano, lo stesso posto nelle disposizioni di numerose amministrazioni e il più delle colte non ne comprendono o non sanno misurarne il valore.

Vero è un dato inconfutabile, il quale statisticamente non promette nulla di buono specie dalla emanazione della legge 482/99 che invece di attivarsi verso il costruito e le attività di Genio locale posto in essere mena a voler sottolineare il modo in cui si deve scrivere una lingua; e siccome questa è antica la si vuole santificare sgrammaticando con caratteri latini e greci, immaginando che solo questi nel globo terreno erano gli unici alfabetari.

Le consuetudini e le attività proto industriali e la definizione dei cunei agrari per il sostentamento e quelli della trasformazione, erano definiti pensati ed organizzati in questi luoghi di raccolta e accoglienza delle genti Arbanon.

Vere e proprie culle della tradizione, sono esse a riverberare le cose della storia, recarsi ancora oggi in questi luoghi, che vivono senza tempo, se educati ad ascoltare, accogliere e fare proprie quale fosse l’operosità in lamenti della fatica del passato, si potrebbe partire e parlare con la lingua giusta il racconto delle cose Arbër.

Noi siamo la generazione allevata dalle nostre madri, le nonne e le vicine di casa che per abituarti ad ascoltare ti dicevano; figlio benedetto siediti qui e ascolta (Nga e ulu këtu, paçurat); atto che nella stagione lunga (l’estate) aveva luogo di fianco la porta e seduti nel sedile di controllo e in inverno (la stagione breve) davanti al camino, raccontando gesta e avvenimenti dolci e sin anche cruenti per in passaggio generazionale del parlato Arbër.

fratelliLa trattazione dei sostantivi che trattano del corpo umano e gli elementi naturali primi, per il sostentamento della specie, in tutto, lo storico protocollo divulgato ai quattro venti, ancora oggi ignorato dai preposti, nonostante i fratelli Grimm lo abbiano diffuso e urlato ai quattro venti.

Per concludere questo breve, si vuole aggiungere un dato fondamentale, monito per quanti fanno e cercano di scrivere una delle storiche forme di vita basate su base di confronto orale.

Codice di appartenenza compreso solo dal più grande, l’unica, eccellenza in campo di analisi e comparazione linguistica scritta che l’Europa e il globo intere riconosce agli Arbër: Pasquale Baffi il dolce e fantastico lettore e scrittore di Greco e Latino, l’eccellenza più alta, che compreso il valore dell’idioma Arbër, la sua radice comparata con quanti per la via Egnazia transitassero per raggiungere la gloria dell’anima; lui il Baffi non ha segnato mai un punto, una virgola o una parentesi, pur avendo titoli ed argomenti elevati per farlo, in Arbër.

Vita Mons Giuseppe BugliariSe egli non ha preso penna e scagliato calamai a chi ragliava, ha compreso il valore per non esporre il patrimonio identitario al libero e indemoniato ballo tondo che si sarebbe spezzato, come è stato, irreparabilmente.

Vero è che promuovere vicende di comunemente per eccellenza, senza avere consapevolezza di chi siano stati e cosa abbiano fatto: il prelato Bugliaro Giuseppe, Pasquale Baffi, Mons. Francesco Bugliari, Mons. Domenico Bellusci, Vincenzo Torelli, Luigi Giura, Pasquale Scura, Mons. Giuseppe Bugliari, Terenzio Tocci, Giorgio Ferriolo, Giuseppe Albanese e tanti altri, che nei casi più banali hanno dato lustro agli Arbër nel mondo per i loro lumi, oltre a mettere in gioco il loro fisico per ideali comuni; è una grave mancanza di rispetto delle cose che fanno grande la Regione storica diffusa degli Arbër.

photo_2023-04-02_13-36-02Se nei giorni scorsi un Artista Albanese, ha riunito alla Piazza Mercato di Napoli più persone di quante si è abituate a vedere nelle manifestazioni di lettura o scrittura degli ultimi decenni, un numero di partecipanti che mancava dal 10 maggio del 1831, sempre realizzato da un Arbër lungo il corso del Volturno, è il segno evidente che gli Albanesi come gli Arber uniscono più genti con eventi di radice, da quanti si ostinano a imporre alfabetari.

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