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KATUNDI IMË

KATUNDI IMË

Posted on 10 aprile 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ricercare attorno a un Katundë, vuol dire analizzare le diverse realtà ed indagare sulle figure formali dell’organismo urbano, le morfologie insediative, le diverse tipologie vernacolari e architettoniche, ma soprattutto gli spazi all’interno della trama costruita e prendere forma, senso e tempo, dei sistemi di socializzazione poste in essere nel corso dei secoli.

Infatti gli spazi pubblici di tutto il Mediterraneo costituiscono un patrimonio culturale di rilevanza strategica e, da sempre hanno costituito il fulcro della “centralità” e non la borgatara periferica ridda circolare in difesa.

Il simbolo di questi modelli è la centralità della croce avvolta da cerchi di iunctura familiare e, fin dall’antichità il punto centrale assume ruolo “cruciale” che unisce e fa incontro di ogni Katundë.

I luoghi simboli dell’incontro sono gli spazio pubblici, il luogo di relazione tra i cittadini e, l’uso pubblico diventa il primo governo di questi luoghi liberi.

Lo spazio di relazione è costituito da elementi urbani, territoriali e sociali, in relazione alla forma, la storia e la struttura del Katundë, con i suoi fondamentali quattro sheshi, dove le funzioni sociali e culturali, sono i recinti ideali in cui si allevano le nuove generazioni con le quali la civis, progredisce in ogni cosa insieme.

Gli spazi di relazione rappresentano Gjitonia, il modello ideale senza spazi di confino, per questo non è individuabile alla pari di Katundë.

Questi agglomerati urbani del bisogno, sono ancora oggi, scrigni ricchi di storie, ricordi, simboli, tuttavia negli ultimi anni sono avvolti da una miriade di nuove costruzioni che ne hanno cambiato il profilo e la forma e sin anche la misura delle strade.

I centri storici dei Katundë sono patrimonio dell’umanità, e dovevano essere considerati, “delicati organismi” da, estrapolare dai canali e le pressioni del turismo di libero accesso, rimanendo immensi nell’inutile traffico che senza tregua, stravolge le reali prospettive che non erano fatte per parcheggiare.

Difendere i centri antichi di questi agglomerati in forma di Katundë, non vuole dire imbalsamarli o impedirne ogni adattamento a nuovi stili di vita, perché in questo modo si darebbe agio a tematiche ancora più pericolose desertificandole e, trasformando ogni cosa in scenari nostalgici e comunque indebolendone il valore abitativo che diverrebbero al pari di un parco o banale osservatorio di un tempo senza vita.

Per questo valorizzare i modelli abitativo del mediterraneo, che non sono assolutamente paragonabili a borghi, bisogna saper coglierne la straordinaria capacità di assorbire e reinventare spazi di vita endogena, in conviviale integrazione esogeni.

Da sempre questi centri antichi collinari e montani del mediterraneo vivono di storia e architetture del bisogno importata da altri luoghi paralleli.

Sono proprio questi ad aver saputo metabolizzare e a volte addirittura riesportare presenze nuove, come non è accaduto nelle terre ad est del fiume Adriatico che non ha stoicamente abbracci naturali lungo le sue coste.

Per questo difendere e tutelare i centri antichi di radice Arbëreşë significa valorizzare l’identità di uno specifico luogo edificato, la propria natura storica del bisogno vernacolare, il tutto capace di assorbire e adattarsi alle culture e le popolazioni che nel corso dei secoli le hanno percorse, abitate e sostenute ampliandole a misura.

C’è la necessità di preservare il più possibile l’eterogeneità di attività e di usi che li ha sempre caratterizzati e, nelle analisi di valorizzazione del territorio e in generale in quelle per la riqualificazione, la riflessione sulla perdita di valore degli spazi di relazione storici a svolgere la loro funzione d’incontro, mentre i nuovi luoghi di relazione delle pratiche quotidiana, delle nuove generazioni devono essere ben distinte se proprio non si vogliono accogliere i sensi della Gjitonia, al femminile materno.

La questione degli spazi di relazione sembra un problema nodale nel processo di rigenerazione di questi ambiti, infatti pur essendo validissima e tornata in auge la sua radice di crescita e incontro, come elementi di aggregazione.

Un Katundë “si compone materialmente di due parti che si compenetrano strettamente: spazi liberi e spazi costruiti.

“Gli spazi liberi sono di due tipi: pubblici e privati.

I primi, comprendono le strade, le piazze, gli spazi di pascolo pubblico dell’epoca delle costrizioni di alba e tramonto. Gli altri sono e rappresentano gli spazi di ogni famiglia dove era si sosteneva l’orto botanico, in tutto la garmaccia di iunctura familiare.

Tuttavia secondo le epoche la superficie urbana è ripartita in modo molto differente e l’evoluzione alla crisi epocali si manifesta nell’intricato labirinto di questioni che si possono affrontare solo se si raccolgono gli aspetti geografici, storici, architettonici, artistici, urbanistici, economici, sociali o i risultati delle ricerche di discipline “contigue”.

Anche se non è mai facile tenere insieme una gran mole di dati e un grado di approfondimento accettabile nello studiare e tradurre la toponomastica storica costantemente e impietosa li presente in memoria.

Se a questo sommiamo i modelli sui quali ragionare e, tale difficoltà si accentua e sono quasi nulle le figure a cui fare riferimento per ricucire questi labirinti di storia legata a eventi di una radice antica che non trova editi per essere accolta. o criticata

Dopo un lungo periodo di stasi, si sono moltiplicati negli ultimi anni gli interventi destinati alla salvaguardia, al miglioramento e alla rivalutazione di questi spazi senza conoscerne radice uso e valore soprattutto al femminile dove ogni genere in crescita trovava la propria dimensione.

La ricerca che qui si prova a proporre ad ogni amministrazione, istituzione ed istituto, si muove su diversi piani, ciascuno dei quali necessario per giungere ad una attenta qualificazione delle modalità nuove di funzionamento che gli spazi di relazione dovrebbero avere, ma ad oggi nonostante i tanti segnali non si ha alcuna adesione.

La considerazione che lo studi organizzativi degli spazi di relazione ed in particolare quelli storici può essere considerato un passo obbligato per la comprensione moderna di un Katundë, per proiettarsi verso progetti consapevoli dei significati e delle identità locale.

La riflessione sulla valenza del concetto di spazio di relazione diventano elementi portanti della struttura della ricerca a supporto di tesi che potrebbero essere dannose per la memoria.

Ossia riconoscere come luogo di accoglienza, confronto e incontro, con luoghi di crisi e conflitto ma anche luogo delle opportunità che avviano processi di salvaguardia dell’identità attraverso interventi di riqualificazione urbana con esiti di natura culturale, economica e sociale.

La ricerca ad opera dell’Olivetaro è rivolta all’analisi dei meccanismi che hanno generato dato senso alla distribuzione degli spazi urbani, siano essi vichi, archi, vicoli ciechi, orti botanici o piazzette senza uscita per estrapolare le conoscenze e rendere noti i principi, secondo cui l’urbanistica, intrecciata con le culturali di luogo natio, compilano la tessitura raffinata indispensabile, agli interventi di

Rigenerazione, al fine di intercettare, identificare i necessari strumenti per la salvaguardia odierna degli spazi di relazione come essenze parallele di tutto il Mediterraneo.

Il progetto di studio difatti tende ad individuare, attraverso specifici aspetti, la trasformazione degli spazi di relazioni all’interno del rinnovamento mediterraneo in senso generale secondo il ruolo della storia, vista come memoria di un passato importante, specie in questa parentesi storica di confronto tra popoli in ansia e quanti vivono la modernità e.

E quindi la qualità urbana deve avere o derivare da modelli la cui radice e rappresentato dal fusto del passato e da poter germogliare nella primavera che viviamo i suoi frutti migliori.

Pe questo il ruolo della storia deve essere interpretato in funzione del sito, la cui conoscenza diviene fondamentale per interpretare il senso e la direzione che ha fatto il costituito di questi progetti del bisogno.

Abbiamo già visto che la ricerca affannosa che è solo modernizzazione porta in auge solo comuni viandanti, gli stessi che portano molte volte, ad adattare vecchie piazze, strade e vichi, immaginati che siano nate, per altri usi e per altri utenti veicolati, deformando così, l’identità che nel tempo aveva caratterizzato e solidarizzato quel luogo.

Allo stesso tempo vediamo interventi di recupero e riuso degli spazi di relazioni, trasformando così, luoghi strategici per la centralità, solo per impegnare risorse.

La salvaguardia, il recupero e la valorizzazione degli spazi diventa pertanto un elemento fondamentale della ricerca, come questione nodale nel processo di rigenerazione di un Katundë, rispetto alle tendenze globaliste che mirano ad altri concetti sociali, comunque senza radice di luogo.

Queste potrebbero essere la fonte di una possibile perdita del “ruolo storico del tessuto” sociale e culturale di questi ambiti, poiché azzerando i tratti di riconoscibilità tra luoghi e persone, si smarrisce anche la memoria.

Rimane un dato inconfutabile ovvero, subite le maggiori trasformazioni, appare difficile attivarsi per il processo verso una corretta valutazione dell’entità in lavorazione e, né un controllo della qualità urbana diventa più possibile da attivare, ed è così che il ripetersi di modelli esogeni alla cultura endogena locale trovano più agio.

Un’attenta politica di valorizzazione dell’esistente, o la giusta simbiosi con le tendenze eclettiche e spettacolari dell’architettura globalista può consentire alle identità, alle peculiarità, della storia di questi agglomerati composti di Sheshi, non solo di non essere soffocate o estinte, ma diventare fondamento di un’originale china, dello sviluppo che si nutra anche dell’ambizione di produrre e diffondere “nuovi scenari chi la politica amministrativa ritiene inesistenti”.

Il senso di questa ricerca porta ad identificare un percorso di salvaguardia, in tutto, un processo posto in essere dalle civiltà meno note del passato qui in Italia, a casa nostra, e nel meridione disprezzato; un’operazione intesa a ricostruire i valori della città che si sono sgretolati nel tempo, memorie passate o memorie più recenti che ancora vivono nei ricordi locali.

Ciò che cambia è l’immagine della Gjitonia, che si trasforma e svela il suo potenziale storico, estetico e sociale di uguaglianza, di cui oggi si va alla disperata ricerca.

La finalità che in questo breve si vorrebbe perseguire, è racchiusa nelle linee progettuali, le quali impongono per prassi, una precisa consapevolezza dell’idea a cui si vuole tendere, la stessa che ha come passaggio obbligato la comprensione dell’identità arbëreşë,

Questa è operazione, non facile perché presuppone una conoscenza profonda dei suoi valori e dei suoi luoghi, spesso nascosta tra le pieghe dei tessuti e degli strati, avvolte velati appositamente per quanti vivono la città o altri ambiti di borgata o bavara, dirsi voglia residenza condivisa.

Risulta essenziale che il progetto, o forse meglio il processo di modernizzazione, vada ad investigare gli aspetti in merito alla forma, alla memoria e alla cultura collettiva per cogliere l’essenza dei luoghi e le dinamiche che li governano.

Quindi l’obiettivo della ricerca e del progetto è stato finalizzato allo studio e l’analisi dei processi di recupero e ri-qualificazione degli spazi di relazione per comprendere la conoscenza di questo patrimonio culturale e delle modalità con cui non è stato più gestito, per garantirne la salvaguardia e la continuità in solita valorizzazione.

Il risultato a sortito tuttavia è sortito nonostante l’estrema complessità per l’osservazione, la ricerca, l’intuizione indispensabili a comprendere il migliore approccio, il metodo e la procedura.

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UN VOTO A SANT’ATANASIO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIO Janarj i bërj vutë shën thanasitë

UN VOTO A SANT’ATANASIO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIO Janarj i bërj vutë shën thanasitë

Posted on 05 aprile 2025 by admin

Sergente

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gennaro raccontava spesso, ai suoi familiari riuniti, nelle gelide serate d’inverno, quando ad illuminare era il fuoco di quel camino antico di casa, che guardava la piega della via detta “lljëmë llëtirjtë”.

Era qui che al calar del sole, lui riuniva i suoi figli, per raccontare il patire, lungo la via del ritorno a seguito del disarmo dell’esercito Italiano, finite le ostilità il settembre 1943, della seconda guerra mondiale.

Egli raccontava che, dopo aver parcheggiare il camion officina, nel cortile della caserma a Riva di Trento, gli venne ordinato di recarsi nella camerata, ritirare il tascapane, gli effetti personali e, poi un ufficiale preposto gli fece consegnare il percussore del fucile in dotazione, la baionetta e, in fine di tornare a casa, perché i servigi verso la patria erano terminati.

All’inizio grandi grida di gioia con i commilitoni e, subito dopo si rese conto che casa sua distava oltre mille chilometri e, dalla parte opposta della penisola Italina.

E non nella comoda direzione Est-Ovest; ma secondo quella più impervia e colma di pericoli, Nord-Sud, che pur se abituato a percorrere distanza da giovane con il suo gregge quella era una distanza inimmaginabile e doveva svolgersi senza lamenti o belati di genere alcuno.

In tutto, un percorso intriso di pericoli, in quanto, andare controcorrente alle truppe tedesche che ripiegavano devastando ogni cosa e imprigionando ogni figura che non avesse effigi germaniche, in altre parole sarebbe stata tratta non semplice da percorrere.

Infatti in quella verde vallata dove erano terminati i doveri di soldato e servitore della patria, rimaneva un solo ed unico alleato: il pensiero Sant’Atanasio il Grande Patrono e di Adelina la sua amata moglie; fu per questo che fece voto di rientrare in paese entro e non oltre il due di maggio, per onorare il santo e abbracciare moglie e figlia.

Stava sbocciando dopo un lungo inverno, quel voto antico di tornare a casa e festeggiare con la sua amata il mito protettore; un fine antico sempre perseguito ma mai, in questa esagerata misura, con le uniche forze, fisiche, mentali sostenute dalla credenza bizantina.

Gennaro raccontava che dopo aver salutato i commilitoni, e presa la via solitaria, onde evitare di apparire come gruppi antagonisti alle eventuali truppe tedesche in pericolosa ritirata, ogni commilitone prese la via di casa propria rimanendo comunque a debita distanza.

Sapeva di non dover seguire strade carrabili, porti e ferrovie, in quanto, la campagna, i boschi e i corsi fluviali erano gli unici alleati, di cui fidarsi e, quante chine e quante discese, dovette percorrere seguendo torrenti e campi senza semina, sempre vigile ed attento dovette attraversare con occhi e orecchie allertate.

Si cibava di cose naturali, assieme alle poche cose, che ogni tanto, gli donava contadini che cercavano di rigenerare, gli scenari di semina dismessi dalla guerra che avevano voluto altri e lui si portava in spalla quel peso di dovere.

Pastori, contadini, mugnai e manovali che svolgevano attività, nel vederlo come figlio che tornava a casa, dividevano volentieri con lui le poche cose del pranzo e, lui per ricambiare, avevo solo il racconto della sua storia e la meta a cui ambiva.

Nell’esporre il suo entusiasmo per il ritorno, non ricordava a quanti aveva detto di essere un Sofiota e quali ideali lo sostenevano; poi giungeva il momento di riprendere l’orizzonte ancora soleggiato e in solitaria meta.

Giunto in Campania era ancora incredulo e quanti incontrava, dicevano che forse non avrebbe mai potuto portare a termine l’audace impegno, perché era stanco e forse non sarebbe giunto il due di maggio.

Cosa lo spingesse ad andare avanti era la memoria di quel sagrato, quella chiesa e la famiglia, che aveva promesso di sostenere dal 9 ottobre del 1937 e, i visi fiduciosi di quanti incontrava, come in una gara podistica facevano il tifo per lui, non avendo altro da offrirgli, se non le poche cose per cibarsi.

Tuttavia, la sua rimaneva, una gara contro un invasore che contro corrente, avrebbe potuto portarlo con se in un loco più distante e concentralo a termine.

Tutte le persone che incrociava ritenevano che la distanza fosse eccessiva e trovare un passaggio era pericoloso, in quanto avrebbe potuto mettere fine al suo voto, quindi, ogni volta gambe in spalla fino che la luce del sole lo accompagnava.

Lungo la strada immaginava di risalire dalla chiesa vecchia, via Castriota e arrivare in piazza Sant’Attanasio, nel momento in cui le campane a festa annunciavano l’uscita del Santo; poi gli amici, i parenti come lo avrebbero accolto, chissà se nella processione ci sarebbero state la moglie Adelina con in braccio la figlia Francesca o come promesso, era in casa ad attendere il suo ritorno.

Questo e tanti altri erano i pensieri che lo accompagnavano, e intanto chilometro dopo chilometro la meta era sempre più vicina.

Era iniziata la terza decade di aprile e iniziate già le novene, quando si trovò ad affrontare la piana del Sele e, se le forze lo avessero sostenuto così come, nelle settimane passate, l’impresa sarebbe stata possibile.

Intanto continuava a cibarsi di ogni cosa che la primavera offriva, la meta diventava sempre più prossima e sempre più familiari, erano gli scenari naturali.

Intanto continuava ad evitare centri abitati, così come fece da diversi mesi, preferendo le gole e boschi impervi e deserti, riposando in grotte e anfratti naturali.

Preferiva seguire percorsi impervi per evitare di incontrare le retroguardie tedesche o le avanguardie parigiane e comunque senza mai fidarsi di alcuna divisa o gruppi armati.

E finalmente l’ultima settimana di aprile, vedendo valicando gli scenari del dolce dorme e intravede il luccichio del suo paese natio dove lo attendevano le cose di credenza materiali e non, le stesse mire di memoria che lo avevano sostenuto.

Solo adesso ebbe modo di concedersi una pausa di riposo per presentarsi degnamente da soldato al raggiungimento dei suoi cari e dei suoi paesani.

Attraversato il Crati vicino il cimitero di Tarsia e raggiunti, i luoghi della giovinezza, dove portava le pecore a pascolare, la china che avevo percorso tante volte la conosceva bene e, lo fece sentire a casa, conoscevo ogni zolla e ogni anfratto di quegli ameni luoghi, per mesi immaginati.

Quell’anno il due del mese di maggio cadeva di martedì e quando, Adelina si senti Chiamare da suo zio Giuseppe, mentre iniziavano i primi rintocchi delle campane a festa, nulla di più intonato e desiderato per lei il sentire le parole che gli diceva: Adollì, ezë ndë quishë, se u mbioshë Janari!

 P.S. Gli attori primi di questa storia di devozione antica, sono: Gennaro Pizzi padre, Adelina Basile madre e il Santo che sostenne e diede agio agli avvenimenti di questa casa senza termine: Atanasio.

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L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË  (Stolljthë i ghratve mishjtë Arbëreşë)

L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË (Stolljthë i ghratve mishjtë Arbëreşë)

Posted on 01 aprile 2025 by admin

 

Bimbo4NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile)

LA STORIA DEL COSTUME E LA REGINA DEL FUOCO

Premessa

Questo discorso, vuole svelare e, dare significato o senso definitivo al prodotto di vestizione femminile arbëreşë relativo allo storico protocollo del matrimonio.

Espressione consuetudinaria di memoria e augurio in forma d’arte o manuale sartoriale, realizzato seguendo l’antico disciplinare, contemplato in ogni particolare che fa vestizione o costume nuziale femminile, prima durante, dopo l’evento di promessa coniugale, sino alla solitaria convivenza generata di certezza o incertezza della continuità coniugale.

Il tema pone ed evidenzi, in oltre, il valore associato al matrimonio, in espressione di sistema famiglia, sotto gli auspici e le consuetudini beneauguranti di credenza diffusa Greco Bizantina, su radice di promessa data Kanuniana.

Sono numerosi i teoreti o teorete che hanno diffusamente sparlato di questo manufatto identitari, ma tutti o tutte nel farlo hanno più mirato ad illuminare se stessi, che il costume di macro area di cui trattavano senza alcun fondamento storico.

Tuttavia prima di dare inizio alla trattazione di questo discorso in merito, la macro area presilana e il trittico di paesi noti per le saline.

Prima di iniziare questo discorso è doveroso ringraziare: Adelina e Lucia da Terra di Sofia, Caterina e Carmela da Frascineto, Anna Maria da Vaccarizzo, Gabriella da San Benedetto Ullano, Fortuna da Lungro, Anna Rita da Falconara, che assieme a Paola di Firmo, hanno espresso in forma di genere femminili, i valori sostenuti nell’atto della vestizione e, di quanto qui esposto, perché rilevato nell’atto dalla vestizione perché atto di genere.

Va in oltre sottolineato che il numero delle figure, cui era stato posto il breve dialogo per l’analisi, doveva essere più consistente, per esprimere sensazioni e pareri direttamente da chi indossa e ripete quegli attimi di antica consuetudine con rispetto e senza travalicare il termine .

Tuttavia c’è stato un numero di addette/i, che ha ritenuto più idoneo seguire la “via fatua”, per la definizione della ricerca in forma sensoriale; per questo continuano a vivere, di sentito dire, in forma di favole o di quanto si presentano al cospetto pubblico con la storica vestizione, per caso, per moda o per apparire in forma folcloristica e offendere la morale femminile pubblicamente di questo storico, ricco e rigido protocollo di vestizione.

Questi ultimi, in specie, continuando imperterriti, ogni volta che indossano le vesti, a vivere orfani dei principi fondamentali dell’identità arbëreşë, entro i termini dettati da teoreti/e malevoli/e di comuni messaggi, e coloro che le espongono, invece di unire separano e offendono la memoria del popolo che si riconosce con rispetto nella Regione Storica Diffusa e Sostenuta, attraverso scenari privi di valori attinenti la storia delle consuetudine di promesse date in Arbëreşë.

Introduzione

Di sovente si racconta e s’illustrano i costumi arbëreşë, elencando le parti che lo compongono, secondo il mero apparire, attraverso enunciazioni locali, ben distanti dal loro reale significato, consuetudinario e, non rispettando il il protocollo identitario generazionale secondo cui la madre parla, gesticola e veste la figli che ascolta, segue ogni cosa e apprende.

Il più delle volte infatti, la consegna non avviene direttamente come la storia vuole, ma per sentito dire, terminando la consegna storica ereditaria, nell’esprimere pareri gratuiti di vestizione, coronando il tutto di errori a dir poco paradossali e, addirittura amalgamando arte sartoriale, con attività non proprio di radice di tessitura, non certo per l’onore o il rispetto del genere femminile che termina di apparire senza decoro dove si passeggia sulla retta via di scesa indecorosa.

Un’altra metodica che ormai è diventata regola per il turista distratto della breve sosta, consiste nel proporre il tema della vestizione nuziale, per divagare con tesi di laurea o esperimenti editoriali, in cui docenti o esperti/e di, non appartenenti al protocollo di “madre che parla e figlia che ascolta”, quindi senza alcun titolo, finiscono per approvare, invece di correggere, quanto portato come vessillo folcloristico il valore più solido e intimo del genere femminile degli Arbëreşë.

Questi inopportuni atteggiamenti di vestizione, producono un duplice danno: il primo proprio da quanti dovrebbe sostenere il prezioso modello, arbëreshë, purtroppo, certificando come istituti o plessi pur non avendo alcuna capacita culturale, titolo o conoscenza di radice, in questo campo, ma solo la notorietà del plesso dove non score certamente la consuetudine di radice Arbëreşë; il secondo ancor più pericoloso è che si lasciano in eredita alle nuove generazioni componimenti scrittografici, come vangelo originale, traducendo tutto in una perdita della tradizione più intima della minoranza, il più delle volte espresso in parlato di lingua moderna Albanistica.

In tutto formano componimenti che poi non sono altro che riversamento malevolo di concetti senza alcuna attinenza del protocollo consuetudinario arbëreşë, oltremodo facendo grande sfoggio, nel citare il senso di appartenenza, senza avere alcuna consapevolezza del significato dell’oggetto esposto in misura, di mezza festa o mezzo lutto o mezza sposa, compromettendo il valore depositandolo in forma liberamente pagana o volgare invece di depositarla nella culla della religione sostenuta, che a questo punto non è più tradizione.

Questo è il motivo che ha determinato la deriva, senza precedenti, mina vagante del significato della vestizione in giovane donna, sposa, regina della casa, vedova, e vedova incerta; le cui vesti, pur se accumunate in presidi preposti da quando le istituzioni, ancora non in grado di fare editoria hanno ritenuto utile tutelare e promuovere, immaginando che esporle in forma di statici manichini queste vesti, serva a diffondere con coerenza antica i temi del disciplinare o della ricerca condivisa dalle nostre madri arbëreşë, le quali nel contempo si rivoltano in pena lì dove vivono il loro termine.

Tutto ciò ha condotto quanti si elevano ad emblemi esonerati dai cinque sensi, ad assumere per arroganza di passaggio generazionale, privi dei fondamenti di olfatto, tatto, visione, ascolto che non fa lungimiranza, di gusto e orecchio del governo Ghratvemëşianë .

  E Qui si ferma la prima parte

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ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

Posted on 21 marzo 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – A Napoli, in quella via dove si ricorda il grande maestro che compose la famosa canzone “anima e core”, si sente la melodia di un battito antico, eseguita dal maestro della scuola napoletana degli incisori.

Tutto si svolge su di un tavolo speciale, con tanti fori per la giusta ammorsatura, dove il maestro con un martello di legno e, mille attrezzi per scalfire il legno, sfida il tempo e batte i ritmi dell’atre più antica dell’uomo e, lascia stupiti gli uomini, più di quanto faccia oggi l’intelligenza artificiale che aiuta le conquiste moderne dei generi umani.

Qui dove Napoli venne scelta come una delle capitali delle fratrie più antiche del vecchio continente e, dove si dice vi sia il tesoro più ricco ancora non ritrovato, il maestro Antonio, continua solitario a incidere secondo la scuola della più antica arte, che rendere case, chiese, corti e palazzi nobiliari degne di questo appellato nome.

Un lucido e geniale ottantenne, con la sua manualità, rende unico ogni ramo fusto o radice stagionata, di essenza naturale adeguatamente modellata poi dal suo fare.

In tutto un antico patto che la natura stipulo con l’uomo, al fine di rendere le cose naturali indistruttibili e non solo utili per riscaldare e fare cenere per lavare storia.

E mentre il centro antico di Napoli è invasa da gitanti, turisti della breve sosta e scolaresche alla riscoperta dei fatui sapori di pizza, spaghetti, dolciumi e manicaretti presepiali, qui in solitaria armonia, i batti di un martello in legno e le scalfitture concesse dei mille scalpelli sagomati, Antonio compone arredi di una raffinatezza unica e irripetibile, prima disegnando, poi incidendo e in fine liberano la forza e il senso di un’arte antica mediterranea, senza eguali.

Una attività che il saggio padre Giuseppe, vedendo crescere Antonio, lo indirizzo a seguire i vecchi maestri dell’epoca, oltre un mezzo secolo addietro e, lui credendo in questa via prospettatagli dal padre, da giovinetto, frequentava la scuola di mattino e i pomeriggi, la bottega del suo maestro, il quale a quel tempo riconobbe il lui, il futuro maestro che presto di affermò.

Napoli, notoriamente venne segnata e riconosciuta nel corso della storia, per i palazzi. i vicoli e le strade sempre affollate, il tutto sviluppava, rioni quartieri e sobborghi, che la storia ricorda per le su arti ed eccellenza, in campo della stampa, dell’oreficeria, della tessitura e di tutte le arti che fanno eccellenza in questo abbraccio costruito.

La Calata Capodichino è nota storicamente per tante numerose vicende, tra le quali l’arte della manualità dell’incidere a realizzare manufatti in legno ricercatissimi.

Ed è qui nello sviluppo di questa china storica, precisamente il un vicolo cieco, senza uscita che ricorda “Anema e Core”, il maestro Antonio segna e scolpisce essenze di legno senza mai smettere di suonare con i suoi mille attrezzi che creano componimenti, che solo l’intelligenza dell’uomo può sprigionare e rendere visibili.

Un vicolo cieco, è una strada da dove non si può sfuggire, essa è un percorso antico che per la complessità delle cose della storia di Napoli fu necessario realizzare.

Antonio questa strada l’ha scelta da adolescente indirizzata dal padre e, da allora la segue senza mai ripensare di tornare indietro, perché l’arte di eccellenza napoletana, una volta che le fai in fondo alla strada, dove questa piega e illude il distratto passante, ma chi la segue e la conosce sa già che non ha bisogni di altre vie di sfogo, in quanto il podio dell’eccellenza non la trovano quanti vagano incerti e, senza meta.

L’invito di questo breve, è rivolto a scuole, turisti e viaggiatori distratti della breve sosta: venite a Napoli; ma non per soddisfare solo il senso del palato o dell’incultura turistica presepiale, ma per ascoltare vedere, odorare, assaporare e toccare, componimenti di incisione unici e irripetibile, mentre nascono e vedono la luce. 

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REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

Posted on 04 marzo 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia delle migrazioni Arbëreşë è molto articolata, complessa o variegata e, i tipi possono essere classificati in base ad avvenimenti storici, sociali e di confronto, svoltisi o avuto luogo nello scorrere di numerosi secoli.

In tutto, un componimento latente di flussi costanti, con picchi cadenzati di marce soldatesche; abbandono di terre natie per bisogno di migliorarsi; o di quanti, preferirono abbandonare ogni cosa materiale, per cercare terre parallele e tutelare consuetudini, identità linguistica e religiosa, questa ultima categoria di migranti, sono i più titolati per essere ricordati e ricevere merito per la caparbietà palesata.

A tutte queste fasce migratorie, poi vanno aggiunte le conseguenti attività di sovrapposizione dei propri nuclei familiari o richiamate o facenti parte del flusso posto in essere nel corso degli anni.

Non esistono gruppi di un sol genere, che nelle rive dell’adriatico sbarcarono per trovare vita nuova o agio, infatti sin anche quanti portati a Napoli da re Carlo III per essere la sua guardia personale, la gloriosa Real Macedone, furono seguiti dai propri familiari che vennero allocati nelle marche e, liberi di essere raggiunti dai valorosi e famosi stradioti.

A tal proposito va sottolineato un dato, che nessun gruppo era fatto di un esclusivo genere, ma tutte o erano famiglie in cammino o in attesa di riunirsi, con il proprio genitrice.

E se in qualche macro area, i tempi e le scelte di integrazione hanno intaccato la propria identità e, smarrito la retta via nel mantenere le proprie consuetudini, non si possono nascondere dietro le affilate lame delle spade degli stradioti, per camuffare le nudità femminili, palesate nel presentarsi innanzi le effigi o i giorni della memoria Arbëreşë.

Da ciò si può dedurre che le migrazioni, sono fenomeni complessi, spesso originati da una combinazione di fattori e, numerarli secondo le epoche in cui hanno avuto efficacia, non da merito e distingue l’operato eseguito per dovere, per necessità o per ideali identitari da non smarrire e, chi lo fa numerando solamente, si copre di vergogna tipica “lljtirë” indigena.

Incentrando il discorso nello specifico di queste pieghe avute luogo tra le sponde del fiume Adriatico sino allo Jonio e, di queste le più remote, furono innescate a causa di guerre o conflitti e, i soldati mobilitati dovettero recarsi, in luoghi lontani e, terminata la missione, per diffidenza dei duchi mandatari, furono allocati oltre il faro e ancor di più, per non insediare, con lo scorrere del tempo quelle terre conquistate.

Un altro atto significativo che ha innescato le migrazioni era la ricerca di migliori opportunità economiche è quindi rendersi utili in specifici territori abbandonati al fine di renderli produttivi, partecipando e dando agio alle poche e inadatte braccia  locali.

Le persone si spostano da aree con economie deboli o opportunità di lavoro scarse, verso regioni o paesi con prospettive più promettenti.

Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si guarda alla migrazione per lavoro o per migliorare le proprie condizioni di vita.

A questi evidenti e incontrovertibili avvenimenti, si aggiungono le migrazioni della diaspora, ovvero: “dispersione di individui in precedenza riuniti in un gruppo” guidate programmate e disegnate secondo arche o ideali di libertà, giustizia e uguaglianza.

In tutto quanti sfuggono ai regimi oppressivi, cercando asilo in paesi dove possono vivere secondo i propri valori, senza essere scambiati per invasori, masse soldatesche o fugaci economici, diversamente da quanti mirano alla sola ricerca della tranquillità che la democrazia di un ben identificato luogo parallelo offre, essendo una terra dove si garantisce il germoglio della certezza di libertà politica, sociale o religiosa.

Queste in maniera poco attenta e molto spesso inopportuna, sono assoggettate al popolo che oggi sostiene la Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.

Infatti essi sono assoggettati e distribuiti secondo un numero inopportuno di migrazioni, nonostante si disposero nel corso dei secoli, in eventi che dal tempo dei romani ad oriente, poi i veneziani, senza dimenticare, San Marino, Jesi e Recanati.

Tuttavia le migrazioni che istituirono le macroaree della Regione Storica si disposero nelle sette regioni del meridione italiano, dando luogo a cento dieci Katundë, con capitale Napoli.

Un insieme storico diffuso ancora oggi solidamente identificabile grazie all’idioma, che tramanda consuetudini della antica terra madre, oltre la credenza e i patti di iunctura familiare allargata, più nota come Gjitonia o governo delle donne, l’ambito dove i cinque sensi degli Arbëreşë, ebbero il loro germogli dal 1469 al 1502.

Questi sono la parte degli esuli, delle migrazioni su citate e, rappresentano l’insieme migratorio che intercettati gli ambiti paralleli della terra di origine, innestarono le radici e la credenza da preservare, tutelare e tramandare perché minacciate in terra balcana da campanili non più bizantini.

Altre realtà migratori sono sempre pervenute dalle regioni ad est del fiume Adriatico, ma con esigenze diverse, che rispondevano a cadenze soldatesche, o di imperi in terminazione, comunque di altra radice o di episodi migratori latenti che non hanno nulla a che vedere con le arche arbëreşë, della parentesi su citata con anno di inizio e termine di approdo.

I profughi che oggi tutelano l’antico idioma Arbëreşë, da non confondere con l’Albanese moderno, sono una risorsa storica inarrivabile e, solo immaginare che una lingua antica dei Balcani, la cui radice è tra le più antiche del vecchio continente ad Est, vive nel meridione italiano così tanto ad Ovest ancora intatta, dopo oltre sei secoli, non è un caso fortuito.

Constatare che l’idioma ancora si tramandato oralmente senza attività scrittografiche, se non l’uso del canto; apre uno scenario a misura di quanta caparbietà è allocata nei sensi, di questo popolo che non smette mai di stupire i visitatori che qui trovano sonorità e parlato antico.

Parlare di migrazioni dai Balcani numerandole e datandole potrebbe essere interpretato come una riduzione del fenomeno a semplici cifre, che rischia di non rendere giustizia alla complessità e alla varietà di esperienze individuali e collettive legate alla migrazione.

Le migrazioni sono fenomeni sociali, culturali e politici profondi, che non possono essere spiegati solo in termini numerici e, a tal fine diventa opportuno considerare le cause storiche, le condizioni socio-economiche, le politich, le esperienze personali degli emigrati e le dinamiche di accoglienza nei paesi ospitanti.

Tuttavia, se il contesto in cui si discute riguarda dati statistici o un’analisi quantitativa, allora può essere utile includere numeri per comprendere l’entità del fenomeno, ma sempre con una narrazione che tenga conto del lato umano e sociale in essere emergenza.

In sintesi, parlare solo in termini numerici delle migrazioni dai Balcani non è “normale” nel senso di una visione completa e rispettosa del fenomeno, ma può essere parte di un’analisi statistica, sempre accompagnata da un’attenzione agli aspetti qualitativi.

Chi migra per tutelare la propria lingua, le proprie consuetudini e credenze rientra tra i gruppi di genere o persone che preferisce mantenere i propri “motivi culturali” o “motivi identitari”.

In questo caso, la migrazione non è motivata solo da ragioni economiche o politiche, ma dal desiderio di preservare un patrimonio culturale e spirituale che potrebbe essere minacciato nel contesto di origine.

I termini su citati definiscono la tipologia di migrazione e indicano un fenomeno in cui le persone cercano di mantenere intatti i propri valori, tradizioni, lingua e credenze, magari in risposta a un ambiente che non li favorisce o li minaccia.

In tutto il fenomeno potrebbe essere inteso come “esodo culturale” specie quanto interessa o fa riferimento a gruppi della stessa radice identitaria che migrano in massa, al fine di proteggere la propria identità collettiva.

Se gli arbëreşë hanno salvato una consuetudine linguistica antica, chi salverà l’arbëreşë e tutta la sua storia da chi si ostina a riversare aceto che non diverrà mai buono vino?

Anche qui senza fare confusione come accade nella legge 482/99 serve un terzo articolo in questa legge e, sino a quando non si provvederà a seguire “la regola della tabellina del tre”, la stessa che ogni asinello a scuola dopo i precedenti 3 e 6 terminava la prima decina con il trittico del sancito dall’’art. 9 della attuale Costituzione che tra i principi fondamentali recita quanto segue:

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca tecnica e scientifica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della popolo tutto.”

A tutto questo comunque e dovunque nel 2022 è stato aggiunto il riferimento alla tutela dell’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, disciplinando i modi e le forme di tutela di cose materiali ed immateriali.

Tale articolo deve considerarsi la vera “testa di capitolo della legge a tutela delle minoranze in specie quella Arbëreşë”, la scintilla, deve allestire e preparare il principio di tutela in senso generale senza avere il banale bisogno di rendere banale, dipingere o alfabetizzare la consuetudine linguistica sostenuta dal canto, più solida e integrata, del vecchio continente mediterraneo.

 

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                         Napoli 2025-03-04

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I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO  (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

Posted on 02 marzo 2025 by admin

Pecore

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono valori, che i comuni viandanti locali, non potranno mai fare propri e, questi per cavalcare le onde del protagonismo locale usano i battiti del cuore, che in quegli ambiti pulsano perché furono di quanti partirono per apprendere il mestiere del confronto.

La premessa vuole sottolineare o meglio ricordare ad alcuni “lagrimosi culturali” che i temi e le memorie locali rimangono impresse nella mente di quanti partono per migliorarsi e, non di quanti fanno restanza per essere mantenuti dal tesoro culturale di quanti vanno alla ricerca di certezze di confronto.

Il teorema è un’espressione poetica o filosofica, che fa riferimento al principio, che vorrebbe, fare memoria, cambiamento e di continuità storica di un luogo specifico.

Non si tratta di un vero e proprio componimento matematico, ma esso viene inteso come principio indispensabile a rendere chiaro il quadro dello stato delle cose.

Che sottolinea una situazione di un luogo e ricordi o meglio esperienza di radice per chi parte, di contro chi rimane e, fa “restanza”, tende a dimenticare e rendere vivide o violacee quelle esperienze di anomalia locale scambiate per sviluppo.

Certamente quanti rimangono e fanno “restanza oltremodo statica”, non hanno consapevolezza della vita che continua per migliorarsi e, il loro contributo non deve terminare con il cambiamento ad ogni costo senza mantenere alcun legame con il passato.

In contesti più emotivi o letterari, non possono essere racchiusi nella mera idea del cambiamento a tutti i costi, creando così disconnessioni nelle relazioni locali, facendo sì che chi se ne va, abbia ricordi più vivi, solidi e indispensabili, mentre chi resta si adatta a nuove realtà, spesso lasciando andare ciò che è stata radice, ammesso che ne abbiano avuta una.

Chi si vanta di restare o tornare appena assolto un compito in classe con lode, potrebbe essere intesa come paura, di affrontare le opportunità che la vita ti offre fuori dal recinto di casa.

E se chi parte, riflettere solidità priva di dubbi e attaccamento al luogo natio; dall’altra viene intesa come povertà economica o incapacità di quanti partono per confrontarsi con nuovi processi per affinare il proprio germoglio culturale fatto di frutti buoni e genuini.

In questo caso, chi resta potrebbe essere visto come una persona che sceglie di non affrontare le difficoltà e mantenere un legame, magari per senso di irresponsabilità, anche se poi, forte dei suoi luoghi casalinghi in amministrazione, imita gesta altrui, fatte per quei luoghi, che per i restanti restano il bosco della paura.

D’altra parte, è facile vantarsi o atteggiarsi senza confronto, e tentare di enfatizzare una qualità che non si ritiene necessaria come la memoria di ieri, perché ignota.

Spesso, la scelta di rimanere o tornare dipende da fattori più complessi, come il contesto emotivo, le circostanze pratiche o le proprie aspirazioni, molto limitate o circoscritte in ambiti di piccola ristretta.

Se qualcuno si vanta di questo, potrebbe essere interpretato come un modo per cercare di dimostrare qualcosa agli altri, come se fosse una “vittoria da celebrare”, ma che se in cuor loro, sanno che a segnare i ritmi della storia sono quanti partiti per promessa data, conservando nel proprio cuore e nella propria memoria le gesta intatte della storia locale.

In generale, la chiave sta nel riconoscere che ogni scelta ha il suo valore, e non c’è una risposta universale su cosa sia giusto o sbagliato.

Ma il vantarsi o aoto elevarsi, perché in casa propria, potrebbe dare l’impressione di non avere chiare tutte le sfumature della situazione, riducendo ogni cosa in mere affermazioni o canti di superiorità armonizzati.

A volte, la scelta di restare non è una forma di resilienza meritevole, infatti sono proprio queste figure che incantate dai paesaggi dove sono transitati furtivamente pensano di riversare ogni cosa nei luoghi di origine, che a questo punto diventano un mercanteggiare diffuso, dove esporre cose che indigeni di ogni luogo portano per vendere e far violare la memoria che inizia e disfarsi per essere velata.

La distinzione tra chi resta e rinnova un luogo e chi parte per arricchirsi di conoscenza solleva un dilemma che ha una ampia applicazione, in quanto entrambi i percorsi generano impatti radicali e, su piani diversi.

Chi resta e si esalta nel rinnovare dimenticando le sue radici, che lo fanno apparire come agente di cambiamento diretto senza fornire solide certezze connesse con le cose del passato.

Infatti, rimanendo in un luogo, questa persona ha la possibilità di influenzare concretamente l’ambiente in cui vive, portando innovazioni, idee fresche o anche piccole trasformazioni quotidiane che migliorano la qualità della vita e contribuiscono a una crescita collettiva. In un certo senso, questo tipo di persona “radica” il cambiamento, costruendo qualcosa che può durare nel tempo.

Chi parte, invece, va a cercare un arricchimento interiore, un ampliamento delle proprie competenze e della propria visione del mondo.

La conoscenza che si acquisisce, sommata alle esperienze vissute sviluppano la conoscenza e il confronto con la memoria e, quando si ritorna, avendo un largo e più giusto valore agli ameni luoghi natii.

Chi parte quindi, se consapevole ha il potenziale di trasformare se stesso e, di conseguenza, potrebbe essere in grado di portare un cambiamento più innovativo e versatile, a quei luoghi che vivono all’ombra dei restanti.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciamo nel nostro contesto specifico, facendo crescere ciò che è realtà locale vissuta, nei tempi della crescita personale, la stessa che consente e permette poi di portare un contributo più idoneo ottimale e radicato.

Tutto comunque dipende dal definire “valore” e “miglioramento” e se da un lato, chi resta in un luogo e si esalta ad essere o diventare un punto di riferimento, un leader o qualcuno che contribuisce in modo duraturo alla comunità.

La sua capacità di resistere e crescere può essere vista come una forma di forza e resilienza, il cui risultato è sempre compromesso dal ripetersi ed apparire come emblema o difensore di quel identificato ambito.

Dall’altro lato, chi parte e si migliora potrebbe proporre nuove esperienze delle prospettive del passato che sono rimaste immutate e, adattarsi per arricchire il tempo dei domani.

Spesso il cambiamento e l’evoluzione vengono viste come simboli di crescita, se poi sono parte di un ampio progetto di forza al luogo, che non ha termine di assolvere al ruolo di necessità, offrendo opportunità alle prospettive di miglioramento di competenze diffuse con attori i generi di quel luogo.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciano quanti partono, facendo crescere le opportunità, di chi resta sperando in un raggio di sole che illumini il luogo in senso generale, non il palco trasversale dove si esibisce chi resta in solitario apparire demenziale.

In definitiva e per concludere, quello che più conta per la valorizzazione e la resilienza, di un ben identificato luogo, deve avere come protocollo i valori consuetudinari di Gjitonia, lugo di cinque sensi dove crescere secondo le antiche consuetudini fondamentali del governo delle donne.

Quello che non forniva solo misure di confronto alle generazioni in crescita, ma sentimenti di rispetto e confronto con tutti i generi, onde evitare di rimanere isolati e diventare un prete senza devoti, che non fa il bene comune per diffonde la consuetudine antica del popolo Arbëreşë, immaginando che ogni Katundë, sia recinto dove allevare belati unitari diretti sulle terre paludose dell’hişkj e non dal un saggio massaro che sa quando dove, come e di cosa farle cibare.

Atanasio Arch. Pizzi              

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IL SOLCO D’ARATO PRIMA DELLA SEMINA (surku thë punuàrtë parë satë mbielëmj)

IL SOLCO D’ARATO PRIMA DELLA SEMINA (surku thë punuàrtë parë satë mbielëmj)

Posted on 22 febbraio 2025 by admin

ciliegio

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia della popolazione arbëreşë, non è fatta dei riflessi della luna negli occhi di una madre, quando allatta i suoi figli, specie se seduta sotto l’ombra che fano le foglie di un albero di noce; ma raggi di sole al mattino, che indicano la via maestra ad un popolo in crescita solidale, in quelle “Terre lagrimose, colme di pia genti Arbëreşë”.

Questo teorema fa la differenza tra la luna il sole e, in tutto il circoscritto del genio del male e il santificare del bene, nel corso del tempo per dare agio alla minoranza, di purificarsi e diventare il gioiello più solido e prezioso dell’integrazione mediterranea.

Nel racconto generale che gli eletti dispongono o stendono a gocciolare di notte e di giorno, senza cautela di raccontare sotto l’ombra di quelle pianta si viene poi allattati dal primo giorno di vita e, di quelli futuri a venire.

Tuttavia la differenza la fanno le cupe e tondeggianti noci, l’affilato mandorlo, a cui si contrappongono il sorridente ciliegio e il verde ulivo.

Una sostanziale differenza che ha come protagonista il colore in primo piano, in specie di quelle piante che non hanno, bisogno di una corazza per presentarsi a primavera innanzi alla luna, ma quando le illumina e il sole svelano la vera natura.

Un po’ come fanno gli isolani d’archivi e di biblioteca per seguire le tracce della storia mirano a sottrarre la scena di quanti vivono d’ascolto e confronto e, in specie minano le conquiste di memoria storica locale.

Quando si semina il grano in quelle piane che nella consuetudine linguistica locale degli arbëreşë, appellate, corredo steso al sole (arethë i shëtruatë ndë dialjtë), si preferivano le terre migliori, nel mentre gli ulivi azotavano quell’oro di coltura, con le foglie sempre verdi.

Un teorema antico, che poi la consuetudine degli arbëreşë, riversava nelle nuove generazioni che crescevano nei stenopoi e i plateiai della iunctura familiare sotto la luce e le ombre del sole che accarezzava Gjitonitë.

Pericolosi diventano quanti si sentono interi, ma poi culturalmente sono solo una metà di quello che serve, in tutto la negazione del vero che viene riferito agli altri condannati all’ascolto della libera e gratuita interpretazione che si espongono sotto il nocivo e liberale arbitrio.

Imparare a sognare quando non si è più bambini perché la speranza di essere eccellenza, si allontana dalle tue aspirazioni culturali, non ti dà rispetto in te stesso, specie quando ti specchi e, ti vedi sempre più nudo e senza alcuna veste di nobiltà sociale, che ti possa confortare per quello che hai dato e non puoi più ordinare.

Chi segue le linee parallele dell’arato deve saper espandere, la giusta dose di seme, altrimenti i covoni non saranno solo di spighe di grano ma anche di inutile fatuo, che serve solo a degenerare quel terreno che sostenere il tuo essere e la casa del bisogno.

Il fatuo nel seminato storico degli arbëreşë è sempre stato presente, ma la saggezza dei nostri avi ha fatto sì che non invadesse più di tanto, il seminato estirpandolo prima che diventasse spiga e fare danno, purtroppo le generazioni che hanno dimenticato questo atto di tradizione, hanno lasciato libero agio a quelle piante infestanti come se fossero genere buono e genuino.

Oggi purtroppo ci ritroviamo con campi di fatuo, dove non riusciamo più ad individuare il genuino, che la storia separa la crusca dalla farina.

Il senso di questa frase vuole dimostrare che il libero racconto democratico, dove tutti sono liberi di esprimere opinioni e un processo naturale che l’uomo espone come giusta causa.

Ma non tiene conto del dato che oltre la linea della porta di casa propria, le cose devono essere e rispettare la storia di tutti gli uomini, le cose che fanno Katundë e valorizzano il senso della regione storica diffusa, sostenuta in arbëreşë.

Ovvero dove termina il solco del seminato di ognuno di noi e, iniziano le terre che appartengono agli altri, per questo vanno rispettate senza essere contaminate da tutte quelle genti che li transitano per dare agio al cuneo di sostentamento, economico e civile, non fatto dalle foglie del nocivo arboreo, ma del verde candido dell’ulivo mediterraneo.

Tuttavia la professione più nobile e diffusa è quella del cantare seguendo la musica o invadere le professionalità  di quanti vogliono emulare e cercano senza risultato, le antiche direttive degli Olivetani napoletani, quelle che si diffusero dal convento lungo il crinale che porta a capodimonte, quando non era ancora reggia.

La Repubblica, nonostante l’articolo nove, promuova lo sviluppo della cultura, tutela il paesaggio, il patrimonio storico, artistic l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni.

Tuttavia i liberi pensatori, sotto la bandiera del dualismo politico, compiono senza respiro ogni genere di gemellaggio e miscelano la tutela su citata, che si decompone e diventa polvere al vento.

Ed è questo che bisogna concentrarsi a saper avvicinare le menti e i principi senza intrecciarli o renderli tessitura impropria. Va in oltre sottolineato che le istituzioni tutte di ogni ordine e grado sono all’oscuro o meglio adombrati dalle foglie del noce e si finisce nel rendere sin anche pagana il ricordo del termine di tutta la regione storica un tempo sostenuta dalla credenza  arbereshe, che in questa giornata promuoveva le cose buone della natura esclusi tutti i ricavati di sangue o di estrazione animale; buona ricorrenza a tutti quelli che sanno e tutelano memoria che non è per quanti, davanti a una fetta di salame o un bafa di genere aquatico sotto olio, dimentica il dovere del rispetto dei morti e, ingurgitano tutto, in memori di un nulla che si prospetta davanti a queste blasfemie senza radice.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                NAPOLI 2025-02-22

 

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PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

Posted on 15 febbraio 2025 by admin

132201199-l-agricoltore-usa-il-chiodo-e-il-martello-sul-nuovo-ferro-di-cavallo-forgiato-sullo-zoccolo-del

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un giorno vi dirò, che ho lasciato il luogo della mia radice, per trovare risposte e prospettive che mancavano al progetto di riqualificazione dei luoghi della mia crescita e, di tutti quelli simili o equipollenti.

Forse riderete di me, perché non sono istituto, ma una promessa data, quando il sole tramontava e la luna si prestava a sorgere, andava finalizzata per diventare “Istituzione Storica” del parlato, della consuetudine e del cantato, che ancora oggi ai musicanti inquieti rimane costellazione ignota.

E per poter oggi indicare la strada fatta in adempimenti di: ricerca preliminare, pianificazione definitiva, poi di esecuzione e, solo dopo il termine di questi atti preparatori di analisi, predisporre il cantierabile  per recuperare ogni cosa.

Voi tutti oltre a non credermi, non mi crederete e, né mi consentite di esporre tutto da oltre due decenni, i risultati ottenuti e negatimi anche pubblicamente, ma credetemi è costato tanto sacrificio di sudore lagrimoso, come fa il vento quanto una madre allarga le braccia per tenere stretto il suo nascituro, crescere leale e orgoglioso di essere protetto da quel vento buono.

Oggi è il giorno che vi dirò, che ho voluto bene più di me a questi luoghi lagrimosi, ancora sani, non per chi ci vive, ma perché sono stati costruiti bene e, colmi di sentimenti antichi, similmente a come fa un padre con un figlio, quando lo accompagna a migliorarsi nelle cose pratiche della vitta, anche se un padre non deve mai piangere e né mai smettere di credere in quello che fa per il bene degli altri e continuare a vivere per sostenere e soddisfare del suo operato.

Tutto il progetto nasce per garantire, salvaguardare ogni manufatto o area da recuperare, per questo, ogni scelta è stata fatta secondo un protocollo rigido supportato da adempimenti di attività che non sono mere o semplici arche illustrative.

Infatti i protocolli richiedono esperienze multi disciplinari alte, con il fine di raggiungere il risultato desiderato entro i limiti di tempo, risorse e finalizzate a sostenere dopo averli ritrovati, tutti i segni identificativi senza incutere velature di qualsivoglia inventiva, al fine di perseguire il risultato finale, che deve restare memoria di lugo, uomini e tempo, ma non quello importato oggi dalle terre dell’antico impero ancora in caldera vulcanica, oltre quel fiume di lava denominato Adriatico.

Ogni fase, per questo, assume un ruolo ben preciso e finalizzato a non produrre danni o finire nel campo del fatuo o inutile intervento.

La prima fase serve ad identificare il luogo o l’edificato valore storico cercando, l’originario impianto del bisogno otre a definirne le aggiunte di miglioramento sia strutturale che storico, che perseguono, il fine del migliore risultato di risorsa per il bene del luogo in tutto l’esperienza necessaria a, stabilire chi è responsabile delle prime valutazioni di eventuali rischi, che ne compromettano senso di luogo, storia e necessità dell’uomo.

Nella seconda fase vengono dettagliati i valori astorici architettonici da seguire, le scadenze, il budget, oltre le risorse indispensabili da porre in essere al fine più idoneo o perseguibili.

Questa è la fase in cui vengono prese le decisioni più importanti a riguardo al progetto, pianificare e prevedere eventuali problemi disponendo strategie e tecnologie per mettere in atto quanto predisposto per la gestione e utilizzo delle attività senza smarrire l’originario fine di tutelare forme, luogo, cose e storia in esso contenuti per, mantenere vive le prospettive, del valore pittorico/architettonico in tutto il segno forte che genera quel luogo di memoria e arte che non dovrà mai essere smarrita.

Il terzo ambito del progetto mira a rendere possibile quanto stabilito e, rendere l’operato in svolgimento sempre sotto il rigido controllo del progettista e del gruppo di lavoro preposto al progetto, che deve svolgere attività e controllo sempre presente per gestire le risorse lavorative e gli strumenti idonei per la più giusta applicazione e svolgimento vengono secondo le maestranze di compiti.

Questi sono anche momenti cruciali per monitorare l’avanzamento dell’opera e fare eventuali aggiustamenti in corso d’opera che non potevano essere previsti e contemplati al chiuso delle aule di studio che sono sempre e rimangono teoria di esperienza.

La Quarta fase mira alla realizzazione vera e propria del progetto e, tutto dipende dalla direzione dei lavori e dalla manualità di tutti i componenti del cantiere maestranze e manovalanza al completo, avendo il progettista responsabile conoscenza di ogni attività che qui in questo circoscritto viene posta in esse, sia dal primo atto della eliminazione di tutte le superfetazioni sino al primo getto di lavorazione.

Avendo cura di eseguire sopraluoghi dove si valutano le lavorazioni in atto compreso le modalità di esecuzione di ogni facente parte la piramide dei lavoranti.

La revisione finale, deve solo raccogliere i risultati di valore e rispetto rivolte a tutto il sistema e dei suoi elevati, orizzontamenti, sia in piano che inclinati, il tutto rigorosamente archiviato e documentato in ogni genere di lavorazione eseguita, con fotogrammi specifici e generali di adempimento lavorativo.

Nella fase esecutiva cantierabile, si raggiunge la meta di riflettere su cosa è andato bene e cosa potrebbe essere migliorato per sostenere il valore identitario del manufatto senza metterne in dubbio il suo valore.

Affermare e annotare quanto detto, nasce dall’aver avuto esperienza collaborativa diretta, in progetti di rilievo e recupero funzionale eseguiti con successo e, menzione in tutto il meridione italiano, in specie archivi, biblioteche, musei, cattedrali e conventi, oltre residenze reali e non, acquisendo e maturando, così, una esperienza di valori pratici innescati in gioventù da chi ha avuto genitori attenti, in campo impiantistico e di meccanica manuale, finalizzato all’artigianato generale, poi preservato e consolidato con passione irripetibile nei tempi della formazione scolastica; e quanti hanno avuto modo di avere questi esemplari di gioielli di lume, al loro fianco nel percorso formativo di titolo, questo giunto in un secondo momento e, per questo di sovente  tutti, si interrogavano e gli chiedevano: come mai non sei ancora laureato? E l’ira dei domandatori, era sempre ripetitiva e, si elevava riecheggiante negli studi e, nei cantieri creando non poco imbarazzo verso gli astanti: alla risposta preconfezionata in difesa: si, è vero, non sono un professionista titolato, ma conosco tutti i mestieri questo mi rende perla del semplice titolo cartaceo.

Poi il titolo, giustamente e meritatamente arrivato, ma quello che è cambiato è solo il sostantivo di avvio di una richiesta lavorativa ad opera dei peggiori artigiani, e che ancora oggi crea panico e preoccupazione a un professionista direttore dei lavori, con le rassicuranti parole, che cito per allertare i professionisti tutti, specie quanti non praticano cantieri ma solo cattedre: ci penso io, so come e cosa fare (Muu bighù iù, sacciù cùmë ajè fa!) questo, se non lo sapete è l’inizio di una tragedia irrecuperabile del cantiere dove vi trovate e mi raccomando non sostate al centro di solai o volte pericolanti.

Specie voi che siete docenti e non praticanti di un cantiere.

Tuttavia sento progetti di “gemellaggio e di recupero di piccoli centri” eseguiti o diretti da chi frequenta cattedre frastagliate o allestisce consiglieri infanti, che si credono eccellenza giacche eletti culturali.

Le stesse figure di genere ignoto alle quali se proponi cose con finalità storiche, invece di ascoltarti, preferiscono deliziare il palato e aspettando di saggiare manicaretti dolci, mel mentre il pensiero è rivolto a sognare cose che non esistono e nessuno è in grado di reggere o supportare, nel continuo dissipare risorse o insaccare falsità di loco.

Ma questa è un’altra storia di pena che a breve avrà un inizio, svolgimento e fine ignota, dato che a proporla sono i soliti cavernicoli di cattedre in elevato o ferro di asino piano con due appigli laterali inutili, in quanto a reggere

e rinforzare sono i chiodi piegati saggiamente inseriti nello zoccolo duro dal maniscalco saggio.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-02-15

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IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

Posted on 09 febbraio 2025 by admin

PenelopeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Pe quanti conoscono la storia e affiancano processi sociali e crescita dei generi, avvicinare questi momenti di vita diventa, somma per allestire processi in grado di rendite alto il valore dei luoghi vissuti, specie se per continuare a conversare e, non perdere il patto stipulato con testimoni, il sole e la luna, al fine di fare Casa, Famiglia e Gjitonia.

Gli studiosi del Mezzogiorno hanno molte volte orientato la loro attività di ricerca, secondo percorsi, tesi ad aprire i confini della storiografia e, raccogliere tracce che confermino la presenza di uomini e donne, li abbandonati secondo autonomie sociali al fine di affrontare e rispondere in forma di mera soluzione, matematica.

Idee, mentalità e immagini letterarie, diventano così i simbolismi di solidità, che porta ad altri interessi, anche se, in linea generale possiamo definire antropologici, dove tutto si materializza in ambiti di studio, da attraversare, ma purtroppo come è successo nel passato, avendo come compagni lettori o traduttori locali, sconosciuti, e quasi sempre non sono lucidi osservatori, ma ignari viandanti che non hanno arte o memoria di nulla.

Tuttavia vi sono stati grandi intellettuali, come Giuseppe Maria Galanti, con cui alcuni fortunati sono riusciti a dialogare per ricevere una visione generale dei modelli sociali qui in analisi e studio.

Penso, fra gli altri, a Giuseppe Galasso e le indicazioni verbalmente espresse in vari incontri, all’Istituto Italiano di studi filosofici a Napoli e, la caparbia lena di suoi discepoli, hanno reso possibile il germoglio del postulato a titolo. E rendere gli Arbëreşë attori fuori dalla portata di banali e negazionisti antropologi, che credevano “Gjitonia” fosse e un mero prodotto post industriale di mero vicinato.

Ovvero, la trasformazione avvenuta dopo la grande espansione dell’industria pesante e della produzione di massa che ha caratterizzato il XIX e gran parte del XX secolo, che comunque sono fuori dal nostro intervallo di Studio.

A tal fine e per analizzare il processo sociale sostenuto dal governo delle donne è utile iniziare con il citare le vicende storiche più antiche,

Dove emerge la figura di Penelope tessitrice, che in casa, mentre Ulisse attraversa tutti i mari e le terre del mediterraneo, lei fedele tesseva e disfaceva il sudatorio che dove servire per avvolgere il padre.

Penelope (“anatra”) per essere scampata da giovinette dall’essere annegata, anche se per alcuni il nome è connesso all’evento della tela (dal greco- pēné), in quanto protagonista principale dell’infinita tessitura casalinga.

Infatti, attese per ben due decenni il ritorno di Ulisse, partito per la guerra di Troia e dato per disperso, crescendo da sola il piccolo Telemaco evitando perennemente con garbo il dover scegliere uno tra nobili pretendenti e, grazie al famoso stratagemma: che di giorno tesseva e, la notte lo disfaceva, per essere fedele alla promessa di famiglia.

Mantenendo, a debita distanza con l’ironica promessa che avrebbe scelto il futuro compagno al termine del lavoro.

Alla fine, Ulisse tornò, uccise i provocatori della moglie e si ricongiunse con essa; tuttavia questi brevi accenni, danno la misura di un ambito, anche se meno regale, e simile alle tempistiche giornaliere, che ogni moglie arbëreşë, ha vissuto e trascorso, nelle innumerevoli Gjitonie, che caratterizzarono in antichità i Katundë.

Dalla mattina prima che il sole sorgesse, sino alla sera prima del tramonto del sole, il marito partiva per i campi e rincasare dalle sue imprese quotidiane, mentre le donne rivestivano il ruolo di tessitrici preparando corredi ed elementi tessili con i telai tessendo seta e filamenti naturali nuovi e disfacendo quelli più danneggiati, e nel contempo allevavano i propri figli e sin anche quelli altrui, al fine di consentire che ogni famiglia avesse opportunità di domani migliori, secondo il patto sociale.

Donne protagoniste in prima linea, che sfidavano avversità di genere e, davano agio a ogni figura che qui cresceva, in tutto, ambiti non circoscritti e senza confini, se non quelli del rispetto e di cinque sensi, che qui si vivevano e si respiravano ad oltranza, per le nuove generazioni.

Gjitonia era anche una tessitura solida di iunctura familiare o insieme costruito fatto da Kallive, Vicoli, Orti Botanici, Vally, Suppostici, e Vicoli Ciechi, che costituivano percorrenza lenta regolata dalla articolata e difficile percorrenza, colme di accessi delle piccole case del bisogno.

Il vicolo non conduce a spazi liberi se non Vally o negli orti botanici di pertinenza, in tutto “percorsi angusti”, articolati con scale apparentemente disorganizzato, perché mai facile o veloce percorrenza.

Strade che mirano a rallentare il comune viandante, per essere meglio osservati, prima di accedere in aree di sosta.

Sono gli stessi valori urbanistico che caratterizzano dal punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio orientate in direzione nord-sud, generando l’interazione sociale paritaria gestito dalle donne.

Gjitonia mantiene viva la continuità sociale e il confronto in ogni forma o sfaccettatura, diretta o indiretta, perché composta da spazi privati e pubblici in condizioni dove sono regolate sin anche la temperatura, l’umidità o altre caratteristiche di tessitura che proteggono l’onore delle donne, fatto di: Vichi, Case Archi, Strade chiuse e Orti Botanici.

Il sistema così articolato divenne nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat preciso, fatto di “tessitrici specialiste” di un ambiente intimo, ristretto e fortemente diretto e disposto al confronto, dal noto governo delle donne.

Furono molte le figure nobili o meglio femminili che qui transitarono del Gran Tour, infatti qui non transitavano gli uomini ma le donne e furono tante che dopo aver vistato Roma, Napoli, Pompei ed Ercolano erano attratte da questa apparizione al femminile dei piccoli centri antichi ancora vitali e sostenuti dalle donne, quando visitavano il meridione, apprezzando i manicaretti, le pietanze e i prodotti alcolici fatti con i derivati del territorio locale, gli stessi che poi divennero, dieta mediterranea per tutto il continente antico.

Si realizzava in questa parentesi storica un confronto epocale dove donne nobili e alto locate di tutta Europa si recavano in questi luoghi per capire costumi colori e avere misura di un modo assai dissimile con cui crescevano le rampolle d’Europa colme di agio e ricchezza.

La Gjitoni dal punto di vista delle agiatezze era un luogo molto essenziale, ma il senso del rispetto e il valore dei cinque sensi, qui sicuramente era molto più alto, altrimenti perché queste grandi donne della storia che miravano alla parità dei generi, partivano, da Londra, Parigi, Barcellona e altre capitali d’Europa per ascoltare e vivere atti e sensazioni, possibili solo in questi luoghi, riecheggianti di cinque sensi.

Quanto adesso trattato e accennato, è una piega di storia conviviale mai da nessuno approfondita, ma da oggi in poi, “intellettuali”, “antropologi” e ogni “sorta di lettore libero”, avranno da sudare non poco nello scartabellare, leggere e comporre, dopo aver avuto piena consapevolezza del significato e il valore di Gjitonia, che non è stato mai Mero Vicinato Indigeno, ma luogo della tessitura delle donne Arbëreşë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            Napoli 2025-02-09

Commenti disabilitati su IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO  INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

Posted on 28 gennaio 2025 by admin

ARberia

Dal diciotto di gennai del 1977 la distanza che ha visto espandere la “Radicanza di cuore tra Terra di Sofia e Napoli”, mantenendo solide pulsazioni di luogo nel confino a 228 chilometro, pari a 141 miglia, esponendosi nel tempo sino a 230 chilometri paria a144 miglia, nel circoscritto della città di Napoli.

Da quel giorno senza mai smettere di studiare e fare memoria di tutelare, nel prodigarsi per diventare portatore sano di fatti della storia avuto luogo in Terra di Sofia equiparati, in seguito ai cento e più centri antichi di simili origini e diventata la missione della Radicanza senza soluzione di continuità.

Il luogo emblematico dove tutto ebbe inizio, è il Giardino che un tempo fu Orto Botanico dei Bugliari di sotto, quando Vescovo era il figlio di Anna Maria Pizzi.

A Napoli cosi ogni cosa lasciata nella Radicanza in Terra di Sofia, divenne misura e studio in: Sedil Capuano, poi dopo il terremoto del 1980, in Via Leopardi e, dopo il termine di febbrai del 1985 lungo la Via del Sole e della Luna, per poi approdare nella storica Salita della Sapienza, li dive era il noto giardino botanico civile, dell’antica Capo Napoli; e in fine oggi, accanto alla fratria un tempo frequentata da Pasquale Baffi.

Tornare oggi nel luogo natio, si dovrebbero allestire, per lungo tempo, fuochi di candelora per fare cenere di tutti gli editi, favole e ogni sorta di compilazione, esclusi il “Discorso degli Arbëreşë del 1776 di Baffi e le vicende che rinforzarono i valori Arbëreşë con i fratelli Giura e il Torelli”.

Tutto il resto andrebbe distrutto e , reso cenere, cosi come i riversi allestiti e riverberati, dalle pecore al pascolo, nel promontorio tra il Surdo e il Settimo dagli anni settanta del secolo scorso, da un pastore senza titolo.

Allo scopo, non bisogna distrarsi e perdere misura, degli errori e le malefatte nel corso dei trascorsi del Corsini, quando era in Sant’Adriano, a iniziare dalla pena inflitta al primo Vescovo Francesco, alle lacrime del secondo Bugliari, che lo dismise per pena infinita.

Una delle prime azioni posta in essere una volta a Napoli è stato di reperire tutti gli atti che del centro di Sofia che risultavano essere conservati nell’archivio di Napoli e, poi nel corso dell’esperienza universitaria, confrontare e lette con l’ausilio di docenti eccelsi, ed ecco che carte, fotografate e amaramente pagate divennero la guida, o meglio la cometa da seguire.

Nel corso del 1983, la ormai certezza del titolo accademico, quasi acquisito, diede spazio alla volontà di tornare nel luogo natio e fare famiglia, ma le istituzioni tutte, pubbliche clericali e germaniche, dirsi voglia, fecero tanto male di termine il 28 febbraio del 1985, che nell’aprile dello stesso anno, rifiorì la volontà di “Radicanza senza più termine”.

Inizia adesso un solido percorso di formazione nel loco di Napoli noto come la Salita della Sapienza, e non a caso, dopo numerose esperienze lavorative con istituti, istituzioni e docenti che hanno preteso che dovessi ritenermi un loro pari con titolo.

La Radicanza nel frattempo aveva germogliato e dato frutti molto genuini, con misura Solanizzata e, quel titolo accademico che sino ad allora era stato lasciato nel cassetto, perché ritenevo non più utile da conseguire, risveglio la promessa data che non poteva avere patto chiuso.

Ma i continui spasmi di quanti non immaginavano senza titolo “l’Olivetaro Arbëreşë”, fecero tanto per far ritornare sui suoi passi e, sostenere quell’esame mancante, nella primavera del 1984, per conseguire il titolo di laurea, il giorno prima dei suoi primi cinque decenni di memoria storica, studio compilativo e, di analisi inarrivabile per ogni pascolante o pascolatore, nel promontorio che circoscritto dal Surdo e dal Settimo.

Se sino al giorno del titolo di laurea, la Calabria, la Campania, l’Abruzzo il Molise e la Puglia erano stati luoghi di rilievo, ricerca e progetto, dopo la data, del venti di ottobre del 2004, la Radicanza ebbe a dare frutti a dismisura, a  Potenza, Roma Firenze, Valentia e in numerose Università d’Europa dove l’esperienza applicata alla valorizzazione della Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, trovò nuovi solchi dove germogliare frutti sino ad alloro sconosciuti o comunemente trattati.

Nascono così le Inchieste di Servizio e Formazione per gli Adulti, questi ultimi rimasti attaccati ancora alle antiche derive culturali poste in essere da non formati senza alcuna preparazione dell’ascolto e del parlare Arbëreşë scambiato per Albanese moderno.

Sono da ciò indagati centri i antichi e come essi si siano sviluppati, quali sono gli adeguati sostantivi per identificarli e quale percorso storico vernacolare abbiano seguito per restituirci gli storici odierni.

È stata identificata la valenza storica di che unisce Casa, Gjitonie e Cunei della produzione della trasformazione, Agro Silvicola e Pastorale, mai posta in analisi sino agli studi posti in essere dall’Olivetaro Arbëreşë, se non per fenomeni marginali che non potevano suggerire la leva del sostentamento.

Sono stati descritti i costumi e il valore sociale di tutti i costumi delle Oltre venti macro aree che compongono la Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë.

Lo studio poi è stato interamente riversato nelle vicende delocativa del 2009, ottenendo attenzione da alte istituzioni e politici oltre della reggenza del sistema che si occupa della prevenzione, gestione a situazioni di emergenza.

Questa ultima in particolare dal 2014, a fine delle udienze si è astenuta dal proporre ancora modelli di ricostruzione per quanti subiscono calamità o sono colpiti da eventi sismici.

Va in oltre sottolineato che si aggiungono a tutto questo, studi mirati di numerose macro aree che sino ad oggi non conoscevano il senso della Iunctura urbana, fatta di elementi ripetitivi, costruiti e sociali, che solo chi ha studiato al fianco di eccellenze della storia, della geologia, della psichiatria e valorizzazione del territorio in quanto ambiente naturale, dell’antropologia saggia, senza dimenticare i grandi maestri dell’architettura, dell’urbanistica, della storia e del buon vicinato giovanile, che hanno saputo seminare bene.

Il rilievo, ricerca e progetto di edifici storici tutelati da rendere funzionali, ha fatto sì che la formazione venisse a consolidarsi al punto tale che sin anche la presa visione dell’analisi grano metrica, di murature o elevati crollati e spogliati delle intonacature, comparati in loco con eventi tellurici della storia, comparati al vernacolare del bisogno, diano certezza storica, di temo luogo e uomini.

Gli studi condotti a Napoli nel loco denominato Salita della Sapienza con la perfetta pronunzia dei vocaboli fondamentali, di una Lingua che non ha poesie o forme scritto grafiche, come definita dai fratelli Grimm.

In tutto una lingua che fonda il suo essenziale e ristretto uso orale, secondo una grammatica di pronunzia fondamentale, che non vanno oltre la definizione del corpo umano dei due generi e, gli elementi naturali ad esso prossimi o stellari, gli stessi che contribuiscono al suo progredire e rigenerarsi.

In tutto una Lingua razionale, che per essere tramandata, fa uso della canzone e delle movenze del corpo, al fine di fissare memoria da tramandare.

La lingua Arbëreşë non conosce la scrittura, non conosce libri né lavagne o terreno verticale dove disegnare o tracciare alfabeti.

Nessuno di noi ha preso fratria con questa lingua, studiando, leggendo o traducendo vocaboli in arbëreşë, a cui è affiancata una parola italiana, questa lingua prima diventa pensiero e poi diventa pronunzia e, mai succederà in alcun luogo che un pensiero italiano possa essere pronunziato in Arbëreşë, in quanto non avrebbe né senso e né valore.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Sino a quando gli organi decisionali dirsi voglia, si orienteranno nel non accogliere l’Olivetaro Arbëreşë o figura in grado di rispondere sulla secolare tradizione, indispensabile a dare resilienza a, “un Katundë o Contrada”, si continuerà a riverberare ricerca storica, con le numerose figure mitiche degli scribi e, siccome gli arbëreshë, sono una minoranza radicata nella sola forma orale a voi la conclusione del tema in analisi.

È indubbio che si possano innescare, scelte progettuali inadeguate, come ad esempio, scambiare la Gjitonia, con il vicinato o addirittura con un Quartiere, e ancor peggio un Katundë rinascimentale per un Borgo medioevale

A tal Fine è spontaneo chiedersi a questo punto, se si esegue prima il rilievo e l’indagine storica dello stato dei luoghi e dei moduli abitativi, ovvero gli Sheshi denominati, Kishia, Bregu Kaliva, e dell’insieme toponomastico ereditato oralmente dei sistemi aggregativi sia articolate e di quello più recenti lineari.

Così anche per i sistemi viari, riportati con patire storico  circolare riferito in forma e costume d’inferno Dantesco.

Questi esempi, assieme ad altri secondari, per questo non meno rilevanti, confermano quanto sia sottovalutato il modello arbëreshë.

Tuttavia un’analisi conoscitiva e di confronto di quanto messo a dimora in località Katun o Kontrada specifica, indicherebbe che studi mirati sino ad oggi, alcun istituto ha condotto escludendo l’Olivetaro Arbëreşë in ambiti mediterranei, scambiando le dinamiche urbanistiche e architettoniche arbëreshë, stravolgendone completamente lo scenario delle volumetrie rinascimentali e dei tempi che seguirono.

È bene rilevare che un paese minoritario non è soltanto affare meramente politico, ma è anche affare volto al patrimonio immateriale radicato nell’idioma degli arbëreshë che non sono mai stati il vero obiettivo da salvaguardia nelle discipline dei dieci comandamenti; Architettonica, Urbanistica, Antropologica, Geologica, Psichiatrica, Storca, Idiomatica, Sociale, Religiosa e della solida Consuetudine, rimaste tutte e sempre ignote.

 

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