NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando la tutela della diversità storica, culturale, civile e religiosa, palesemente mira all’apparire, coinvolgendo per questo testimonianze di secondo ordine è il segno che il diffuso interesse è complementare al singolo.
La metodica del gruppo ormai è palese in tutte le manifestazioni, per quanti conoscono e hanno consapevolezza dei ricorsi storici e di come vengono allestiti.
Alla luce di ciò ogni volta che si esprimono teoremi, concetti o divagazioni su cosa, siano gli elementi caratteristici e caratterizzanti i minoritari o i luoghi in forma di città aperte, si termina in ogni sorta di alchimia attribuita alla macro area d’interesse, utilizzando la solita metodica, che inizia, si svolge e termina, in un nulla di fatto.
Se poi si sostituisce l’inverno all’estate, generando, come di sovente avviene, uno stato che non esiste, si può affermare con estrema precisione che il vaso di pandora è pubblicamente aperto e il comunemente dilaga senza vergogna.
Ancora oggi dopo una lunga stagione di leggi, provvedimenti e atti, allestiti rispettivamente sotto la falsa bandiera della tutelare, del tangibile e dell’intangibile, si dispongono le più variegate purpignere (vurvinë), avendo cura che siano ben distanti dalle latitudini di interesse, anzi addirittura non mediterranee.
Poi se si cerca di approfondire quale sia la ricetta, si entra in un mondo di paradossali favole; percorso di ricerca, in cui lo scrivere del favellare è sempre anomalo.
La compilazione dei temi è a dir poco elementare, volendo essere magnanimi, si potrebbe dire da scuola media di primo grado, questi in specie trattano divagazioni che spaziano dal comune idioma, alla trattazione senza titolo, di elementi urbanistici, architettonici, sociali e materici per terminare, nel luogo senza identificativo.
Oggi si fa un gran parlare dei temi di accoglienza, fratellanza, integrazione o non discriminare i generi, in pubblica piazza o sul palco per apparire, poi nel chiuso delle istituzioni, si lavora alacremente per trovare gli elementi che dividono, annotando cosa rende diversi gli uni dagli altri, sia essa una minoranza storica o maggioranza territoriale, terminando nell’intercettare addirittura cosa rende ogni individuo diverso dall’altro che gli sta accanto, con la frase: noi diciamo così.
Si parla senza consapevolezza della diversità culturale di macro area in ogni centro abitato, pubblicando addirittura adempimenti editoriali di parlata locale, con la nota di espressione d’area, in altre parole si va alla ricerca di cosa divide e non di cosa unisce.
Sarebbe più utile rilevare cosa caratterizza o cosa accomuna tutti i centonove agglomerati urbani della regione storica, specie le aree dove trovano espressione identica il costruito, sia dal punto di vista delle architetture e sia della disposizione urbanistica.
Non si è mai discusso di quali siano stati o sono gli elementi idiomatici che accomunano la regione storica e poi magari solo in seguito a consolidamento avvenuto, accennare le intimità che caratterizzano le varie discendenze attraverso le innumerevoli parlate.
Si esprimono pareri paradossali, che a tutt’oggi non danno ragione al fenomeno sociale, detta Gjitonia, associata comunemente a Quartiere, Rione, o parti distinte del centro, in senso generale, senza distinguere la parte antica da quella storica, tutti comunemente per poi terminare, nel concetto di vicinato; componimento estrapolato da ricerche risalenti al 1954 per altri temi minoritari.
Si esprimono teoremi sulla Valja ritenendola forma di ballo di macro area, senza riflettere sul dato che si tratta solo ed esclusivamente di un canto tra generi senza musica.
Così come non si ha consapevolezza dei Riti di Pasqua, l’inizio dell’estate, l’appuntamento storico del genere umano che lascia l’inverno alle spalle e da inizio alle attività produttive.
Un rito antichissimo importato dalle terre dell’Epiro, il modo antico di suggellare l’integrazione la convivenza tra modi di essere non uguali, unendo in leale convivenza minoranze e maggioritari, al ricordo dei defunti, che in quelle terre trovano perenne dimora, Vlamia.
Questa fa parte di quella manifestazione che ogni paese da luogo e che storicamente era appellata “Verà”: momento solenne dove i minori in costume e con il viso mascherato, accoglievano gli indigeni prima di recarsi in fraterno rispetto, verso i luoghi di sepoltura; e come segno di accoglienza, ironizzavano con canti in lingua diversa facendo apparire il ballo come manifestazione di giubilo, celando lo scherno.
Su questa rotta di adempimenti inopportuni, continuare per grandi e piccoli errori, senza mai terminare nel restituire valore alle cose, al più presto chi di dovere si assuma la responsabilità del tutto perso e nulla tutelato.
Se si continua ad abbellire la propria meta, senza intuire che quando gli edifici collassano, trascino tutto ciò che lo compone senza preservare nulla.