La manifestazione folcloristica atta alla valorizzazione della comunità albanofona, fu pianificata e di seguito realizzata a partire dal 10 maggio 1959, otto giorni dopo la festa del 2 Maggio in onore a Sant’Atanasio il Grande, (l’ottava di Sant’Atanasio).
I padri fondatori a cui va rivolto il nostro affettuoso ricordo, sono stati: il segretario comunale A. Bugliari, l’allora parroco rev. Giovanni Capparelli ed il tesoriere comunale T.C. Miracco; sapienti cultori delle tradizioni arbërëshe, seppero imprimere alla manifestazione una doppia valenza, quella di ricercare, valorizzare e promuovere le tradizioni arbërëshe, renderle note a tutti e far rientrare la comunità albanofona nei circuiti turistici a quei tempi in ascesa.
L’entusiasmo di tramandare le tradizioni e riuscire a farle travasare alle nuove generazioni era tale che loro stessi fungevano da ricercatori, coreografi e autori, le danze, le cantate venivano rifinite a tal punto che all’interno dell’etnia albanofona erano facilmente riconducibili alla comunità Sofiota.
Ore di sapienti prove eseguite sul terrazzo della canonica, a quei tempi non avvolta dalla orrenda copertura, ove canti, danze e movenze di vita quotidiana venivano eseguite sino a raggiungere la perfezione, mettendo in particolare evidenza la parlata e il bellissimo costume femminile Sofiota.
Il ricordo va alle innumerevoli manifestazione nel corso delle quali i gruppi folkloristici si riconoscevano dalle cantate e dai costumi caratteristici femminili, era facile sentire nelle conversazioni del folto pubblico che riempiva piazza Sant’Atanasio, la frase: ndrì!!………. kà jàn këtà!,…………….. sàt këndònjëgn kështù jàn Shimitròt!!,
Altro elemento focalizzante la manifestazione rappresentava la partecipazione di eminenti personaggi, politici, militari e religiosi che con la loro partecipazione rendevano completa sotto ogni aspetto la manifestazione.
Le edizioni dell’ottava di Sant’Atanasio sono state sempre espressione del tempo e degli eventi che hanno accompagnato l’Italia tra gli anni sessanta agli anni novanta, ma nella prima metà di questo ultimo decennio la ricerca delle vecchie tradizioni e di ciò che aveva caratterizzato l’infanzia delle generazioni nate nel ventennio precedente divennero motivo di culto e di arte da valorizzare.
Si rindossarono, senza garbo, gli antichi costumi arbërëshe, si rielaborarono vecchie e famose melodie ritenendole, a torto, non più adeguate ed autoctone.
Nuovi canti, nuove danze, nuove rivisitazioni, che sono un cumulo di manipolazioni che non ci appartengono e che vengono erroneamente attribuite alla nostra tradizione.
Adeguandosi meccanicamente a quel processo che ideologicamente tutti cercano di combattere, ma i fatti ogni giorno li smentiscono e li avvolgono in quel calderone irreale, che si identifica nella cosiddetta Globalizzazione.
Allora potrebbe succedere che, canti, balli e musica di più gruppi folkloristici contengano le stesse melodie e sonorità, appiattendo così il valore delle manifestazioni, può accade che un gruppo proveniente dalla madre patria Albania porti le stesse sonorità e le stesse cadenze musicali di un paese arbërëshe, si potrebbe pensare che le sonorità siano state conservate per più di 500 anni, ma purtroppo non è così, la realtà è molto più banale.
Gjaku i Shprishur s’u Harrua una frase che quando veniva stesa a quinta del palco, oggi potrebbe accadere che non viene più esposta, suscitava orgoglio di appartenere ad un etnia di così antica discendenza, quel brandello di stoffa color porpora, cucito con tanta passione da Suor Melania e le sue consorelle, scandiva come un raffinato orologio il tempo, ricordandoci che il meraviglioso mondo d’arberia viveva ancora.
Il Bugliari, il Capparelli ed il Miracco, armati di sola passione e poche possibilità logistiche seppero dare vita alla manifestazione per la quale si identificano valori comuni.
Non c’è una generazione, nata all’interno del cinquantennio appena trascorso, che non sappia intonare alla parlata Sofiota, moj e bukura moree, copille moj copille, doit ishia…, rè flamuri ecc.,ecc.; cantate che sarebbero state perse o rievocate chissà come, se non ci fossero state preservate da quelle le tre pietre miliari, rilanciandole a modo e dare logica continuità alla espressione canora arbërëshe.
Tutte le cose hanno un inizio uno svolgimento ed una fine, anche questa a quanto pare volge al suo destino, non aggiungo naturale destino alla frase, perche così non è; se la manifestazione non viene preparata con adeguata professionalità e al suo interno non vengono riversate nuove esperienze fornite dai tanti esperti del settore, i quali irragionevolmente e poco sapientemente vengono messi da parte da ignoti personaggi, i quali al rilancio della propria comunità preferiscono l’oblio.
Nella Cinquantesima edizione della Primavera Italo-Albanese non si è riusciti a produrre “l’edizione dorata“ atta a segnare il traguardo raggiunto, sarebbe stato assurdo pensare ad una mostra rievocativa, o complicato parlare di questo evento in una serie di dibattiti, o addirittura la pubblicazione di un volume rievocativo, ove attraverso immagini e pochi testi si potesse rileggere le varie edizioni ed i personaggi che si sono alternati sino ad oggi.
Però commetto un errore, dimenticavo che non esistono foto, non esistono documenti, non esistono fratelli, nessuno possiede nulla e niente, consapevoli che il poco di ognuno potrebbe fare la storia di tutti e la ricchezza mirata di pochi eletti, ne consegue che i progetti sopra citati sarebbero stati un’impresa quasi impossibile da realizzare.
Disfare è stato sempre molto semplice, i terremoti, i tradimenti, si dissipano in un battito di ciglia, distruggono intere vite di sacrifici e buoni intenti, basta un attimo e tutto finisce; quel poco che rimane diventa il brandello su cui ricostruire la propria identità, Bugliari, Capparelli e Miracco hanno saputo costruire un ideale ove riconoscersi, sta a noi dargli continuità coinvolgendo sani e capaci protagonisti.