NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Quando si promuove, si scrive o si tutelano le cose degli Albanesi, si tende a mescolare anche la forma parlata arbëreshë considerandola come Arberia.
Il sostantivo storicamente indicherebbe il centro nord, escluso il sud dell’Albania, inglobando però la Regione storica diffusa Arbëreshë, dell’Italia meridionale, che è altra cosa e, potrebbero essere al più ambito, territoriale parallelo ma null’altro per la storia, la politica e il sociale evolutivo degli ultimi sei secoli.
Ambiti o confini culturali, utili a creare confusione o meglio, seminato fatuo nei giardini dei degli elevati preposti, i quali invece di fare il loro dovere, a modo di mulini, dove si valuta il grano per la sola farina prodotta, mentre la poca crusca una volta depositata in un sacco usato, viene messa da parte senza alcun rispetto per l’opera del ricavato prodotto.
Quest’ultima, invece di essere saggiamente utilizzata, come facevano i nostri avi, per il ciclo della vita e, le cose sane, viene disprezzata perché rude ricavato del candido genuino.
Fatuo e farina bianca sono gli ingredienti, che vogliono la parlata Arbër, vetusta e senza futuro, ritenendo che la crusca locale non sia indispensabile per la genuinità e la cura della memoria e lo spirito.
Tuttavia nonostante fatuo e farina hanno preso la via del vento e sognano tempeste, la crusca rimane vicino ai nativi arbëreshë, gli unici che tutelano e non smetto di sostenere valori antichissimi, del patrimonio identitari delle genti che furono Arbër e Arbën, senza mai stare lontano dal cuore.
Ritenere che la lingua Arbëreshë sia un esperimento, in fase di arricchimento Albanese, come si fa con le lingue moderne, è un grave disastro storico, non si trovano parole per definire questo errore, specie se si definisce tutto il panorama linguistico antico europeo, senza future e quindi seguire la via della crusca dopo il mulino.
Ho assistito in due occasioni distinte, in presenza a tali esternazioni e valutando il livello culturale di quanti, dovevano tutelare, proteggere, saggiare, circoscrive dalle inopportune azioni o forme letterarie, per il parlato del genio Arbëreshë, ritengo che esso sia confusa come semplice crusca, da imbibire con la troppa farina l’Albanese.
Se i predisposti presidi in senso generale, si sono occupati a scrivere, una lingua non scritta da millenni, forse avrebbero dovuto dedicare più tempo e attenzione ad indagare il parlato della stagione lunga dedicata al canto (la Primavera) e della stagione breve (l’Inverno) delle favole raccontate al caldo del camino.
Certamente oggi avremmo avuto più energia o certezze per il passaggio generazionale di questa antica forma parlata denominata Arbë/n.
Nel campo dell’architettura esistono due vie che un allievo può scegliere, quella dell’architettura moderna e del restauro, e ognuna di esse ha campi e luoghi precisi dove esprimerle, perché non si imita questo con la farina e la crusca del parlato Arbëreshë, nessuno oggi si sognerebbe di ammodernare il Colosseo o fare un albergo diffuso a Pompei, e mi fermo qui.
Dicono ed è vero che forme scritte comuni, che uniscano più di tre arbëreshë non esistono, tuttavia sfugge a tutti, i delegati comuni, che esisto le direttive sartoriali non scritte, compositi manuali di costumi, i quali se saputi interpretare in lingua originale, non sono altro, che manuali di consuetudini antiche, indispensabili ad unire il focolare di ogni casa, con l’altare di credenza locale.
In tutto, le cose del passato nascono perché segnano il tempo e, nessuno dico nessuno ha il potere di rimuovere le lancette di questo storico orologio locale.
Al giorno d’oggi la regione storica arbëreshë, vive una confusione di campanili locali senza precedenti, dove si contendono cose uomini e fatti, mai avvenuti, per promuovere puro fatuo, invece di calibrare farina e crusca, con dosi a favore della seconda, che porterebbe al valore assoluto della radice della nostra parlata originaria, in altre parole, lo scudo o meglio l’elmo islamico sormontata dal capretto, magari cancellando nomignoli e impropri soprannomi turcofono, come hanno fatti in Terra di Sofia.
L’arbëreshë lo possono difendere solo quanti si son pregiati del titolo di “Crusca Locale”, indicando nomi e cognomi dei docenti sino alla giovinezza, poi grazie alle scelte di studio arrivare a titoli di studio multi disciplinari nel campo dell’operosità fatta di sudore, mirati alla storia e all’architettura, perché, allievi che non hanno mai smesso di pensare in Arbëreshë.
Se a questo poi si aggiungono le capacità di fare strada nel mondo della cultura, pregiandosi di formazione irripetibile, collaborando con numerosi docenti in campo della storia, della Geologia, del Restauro l’Antropologia, della Scienza Esatta e della Tecnologia, senza allontanarsi dal campo del restauro e dell’indagine di luogo, con le note caratteristiche locali di radice vernacolare.
A questo punto per tutti i comuni addetti, è chiaro la paura dilaga e tutti temono il confronto pubblico, ritenendo più utile fare ballate cantando con il vestito da sposa indossato di fretta, con movenze islamiche, spiegare e illustrare le favole in lingua indigena, depositare eroi che guardano in ogni dove, meno che a casa propria e, con l’elmo dell’ironica appartenenza islamica, assegnare titoli impropri o conversare pubblicamente di fatti luoghi e cose senza averne formazione.
La storia degli Arbëreshë è un componimento unico e raro in tutti i suoi aspetti, siano essi idiomatici, del canto, delle favole, delle consuetudini a primavera e in inverno, espressioni che si possono cogliere nella credenza del costume, che unisce, univocamente, casa e credenza, tutto questo fatto sempre rimanendo il più possibile vicini al proprio cuore e a quanti ti hanno consegnato il protocollo mnemonico in eredità e ti sono sempre vicini per consigliarti.