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QUANDO LA COMPETENZA È DEL DIAVOLO Il diavolo vive e vi osserva dove un tempo si separavano i prodotti della grancia!

QUANDO LA COMPETENZA È DEL DIAVOLO Il diavolo vive e vi osserva dove un tempo si separavano i prodotti della grancia!

Posted on 03 luglio 2020 by admin

inferno gelatoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Con i principi che guidarono la Rivoluzione del 1799, i Borbone e l’Europa intera, comprese che eliminare fisicamente gli antagonisti, liberi pensatori, non era più sufficiente, bisognava deviare le nuove idee e piegarle per il proprio tornaconto.

Oggi se analizziamo con dovizia di particolari, quella metodica di eliminazione fisica e ideologica, essa viene applicata senza alcuna mutazione, nella regione storica, in particolare in quel luogo, dove senza soluzione di continuità trova applicazione dal 11 novembre del 1799, se si esclude la parentesi di progetto sino all’agosto del 1806.

Se l’eliminazione fisica non è più praticabile per ovvi motivi, quella morale in senso di razzia letterale, scippo di concetti, plagio di idee verso quanti vivono l’esilio culturale (volontario di memoria) è una prassi che non smette di terminare.

La vile abitudine di appropriarsi delle altrui ricerche dipende dalla vicinanza e dall’interesse che si vuole derubare e si manifesta nelle figure di: Fratelli, Parenti, Gjitoni e persino in “Garzoni di Bottega” che dopo che hanno rubato gli attrezzi del maestro,  si illudono di essere ciò che non saranno mai.

A queste indicibili figure a due facce, (non per unire come simboleggia e vuole, l’aquila a due teste civile e di credenza divina, ma per dividere), va tutto il più intimo disprezzo per l’egida attività cittadina.

L’atteggiamento denota la deriva culturale diffusa fatta di frammenti di cose, “moto rotatorio perpetuo”, in cui ad essere protagonista è il cane il di cui unico scopo, non è la tutelare della casa del padrone, ma ostinatamente perde tempo nell’intento di accalappiare con i denti la coda.

A tutti questi, “amici”, è bene ricordare che la genuinità culturale, frutto di sudore mentale, è un codice; per questo di un solo proprietario.

Enunciare e portare avanti discorsi altrui è peccato, specie se il frutto ottenuto ha richiesto grandi sacrifici economici, fisici, prodotti oltretutto in contro corrente rispetto le masse, libere di pascolare nei campi fatui.

Comunemente  si racconta in alcuni ambienti,  che la migliore arma sia il perdono, sarà pure vero è il alcuni casi l’ipotesi potrebbe essere comprensibile, tuttavia le “pratiche di viltà, perpetrate nel tempo e alle spalle dei Grandi”, stanno sul tavolo del Diavolo, allora il metro di condanna, diventa un problema molto caldo nel breve termine e freddo nell’attesa del lungo termine.

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GLI ABBARBICATI DEL TERMINATIVO “OLOGO”

GLI ABBARBICATI DEL TERMINATIVO “OLOGO”

Posted on 29 giugno 2020 by admin

Gallo ologoNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – I primi giorni di gennaio del 1954 iniziarono le trasmissioni della televisione italiana e con esse anche la programmazione per gli adulti in forma di giornale, didattica e intrattenimento, oltre per i ragazzi con serie di telefilm e cartoni animati.

I programmi erano intrisi da una forte connotazione educativa e informativa, la televisione si prodigava a diffondere notizie di politica cronaca, l’importanza delle norme igieniche e di vaccinazione, oltre a intrattenimento a fini istruttivi.

Un cubo magico attraverso il quale si prendeva atto di cosa avveniva in tutto il mondo, stare davanti ad ascoltare e vedere era un rito, un appuntamento irrinunciabile, di cui hanno goduto divertendosi e traendo spunti di vita, generazioni intere.

Tuttavia e ciò nonostante, le cose utili e belle non durano molto e finiscono per appiattirsi o diventare trasparenti; così lo è stato in tutti i sensi anche per la televisione: prima cubo, poi parallelepipedo, oggi piatto rettangolare a modo di quadro e nessuno di noi in fondo lo gradisce.

Se la luce emanata dal tubo catodico si poteva sopportare, perché tenue e surreale, le migliaia di piccoli quadratini che si mescolano costantemente e restituiscono immagini moderne, sono insopportabili oltre misura.

Oggi la televisione è diventata il luogo  di spunti anomali, per attrarre l’attenzione e gli sguardi di un ideale ed invisibile platea, fatta di numeri e supposizioni statistiche.

Il protagonismo è l’elemento predominante,  anzi direi proprio povertà teatrale, senza cultura.

Esso ha due radici: una di carattere apparentemente formata a seguito di titoli e l’altra senza ne arte e ne parte; quest’ultima la più pericolosa,  per darsi una parvenza culturale usa il terminativo “ologo” come ad esempio: espert-ologo, tuttologo, pens-ologo, saggi-ologo, borg-ologo, music-ologo, architt-ologo, ecc., ecc., ecc.

Si enunciano comunemente borghi da recuperare e rivitalizzare, un appellativo importato e imposto dai longobardi che nelle terre germaniche ne facevano un grande uso per vicende legate a conquiste a fini distruttivi e nella penisola dell’odierna Italia, adopera gli appellativi di altra radice linguistica.

Per quanto riguarda la categoria dei non formati, e mi riferisco quella del noto, terminativo “ologo” i più facinorosi, non avendo alcuna formazione generale, si associano al terminativo citato, non avendo la ben che minima idea di  sheshi, di sistemi viari che ti abbracciano prima e poi ti liberano sul piano, perché riconoscono la tua genuinità.

Tutti siamo consapevoli che che ogni mattina il sole sorge, più difficile è parlare di case, il luogo dove si è nati, cresciuti e vissuto gioie,  patimenti della propria esistenza, “la  casa mia” non il luogo di altrui genti, giacché quella piccola, grande o misera dimora, è il punto fermo da cui si dirama la nostra vita; sarà sempre nostra, i ricordi, partono da quell’antica cellula e arrivano senza soste direttamente nel  cuore, senza mai rimanere incustoditi nelle spiagge di miti e leggende altrui.

Un paese è fatto di tempo, natura, storia, pietre, patimenti, sheshi e uomini; i più capaci li sentono, li vedono perché li conoscono e sanno raccontare; gli altri, si adoperano per salire sul palcoscenico  del comunemente “ologo”.

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L’OLIO D’OLIVA PREFERITO ALLA SETA SECONDO LE POLITICHE DELXVIII SEOLO

L’OLIO D’OLIVA PREFERITO ALLA SETA SECONDO LE POLITICHE DELXVIII SEOLO

Posted on 26 giugno 2020 by admin

IL corpo umanoNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi Basile) – Nel settecento il sud dell’Italia e in particolare la Calabria viveva un momento storico non dissimile da quello attuale, genericamente diffuso in tutta la nazione italiana.

La Calabria, nel settecento, era considerata il sud depresso, del Regno di Napoli, rivedendo scientemente gli aspetti, sociali ed economici odierni, si può sintetizzare nel presente come l’Italia intera, è verso l’Europa unita del nord.

Le difficoltà del mercato e il progressivo indebitamento, per opera del fisco, nel settecento, rese i poli produttivi economiche labili, e fino a quando fu più possibile sostenerli, nonostante non mancarono riformatori, i quali constatato la crisi della seta di Calabria, l’eccellenza di quel tempo, non ebbero sufficiente istinto imprenditoriale per  introdurre tecnologie in grado di rinnovare l’antica filiera seticola e della filatura in generale.

Nonostante, la Calabria dal Trecento, era stata la patria del telaio senza mai scendere dal piedistallo, rimase abbarbicata a metodiche di lavorazione non in grado di confrontarsi con i nuovi mercati in crescita da altre latitudini già dal XV secolo.

Anche quando la domanda continuava imperterrita a scendere, perché pretendeva standard più accessibili, come ciò che era prodotto fuori dalla Calabria, i regnati partenopei, immaginavano che l’attesa avrebbe fato la differenza e quanto prima avrebbero partecipato da protagonisti alle richieste del nuovo mercato.

La crisi strutturale specie della seta calabrese divenne irreversibile,giacché, dalle misure intraprese dai grandi proprietari di gelseti, che seguivano una progressiva riconversione più remunerativa verso la granicoltura e soprattutto nell’olivicoltura, mentre i possessori di piccoli giardini con gelsi proseguirono la produzione asettica che non poteva rispondere adeguatamente alla richiesta di un mercato in piena espansione, sia in qualità che in quantità.

Valga di esempio il caso di un grande produttore di seta, il quale, investì  per acquistare  un considerevole numero di unità fondiarie nel basso Ionio da destinare a gelseto, questi visto trascorsi anni senza l’intervento dello stato, che in qualche modo incentivasse il settore, preferì predisporre le colture a fini cerealicoli estensivi e dell’olivo.

Quando finalmente l’investitore calabrese aveva ormai terminato il processo conversione, il governo centrale  spedì macchinari per la produzione di seta, mettendole a disposizione gratuita  degli industriali del luogo, ma purtroppo nessuno ne volle trarre profitto, perché ormai il processo seguiva la via dell’olio.

Ormai, l’antichissima produzione della seta di Calabria era scomparsa per sempre, dismesse le grandi estensioni di gelseti elemento fondamentale della filiera, il governo centrale era rimasto immobile senza operare attività economiche ce ne potessero cambiare la tendenza, che certamente non sarebbe avvenuta nel breve periodo.

La riconversione fu imponente e soprattutto a favore dei saponifici francesi e delle industrie meccaniche inglesi, dove la richiesta preferiva l’olio di bassa qualità calabrese.

Le esigenze di riconversione, andarono notevolmente in questa direzione, i gelseti erano dappertutto abbattuti con l’accetta, l’impianto di oliveti non conosceva sosta e ciò avveniva nelle aree più produttive della Calabria.

L’impianto olivicolo fu avviato, senza grandi investimenti, per cui mancarono, da subito la raccolta razionale delle olive dall’albe­ro, differenziandoli con quelle raccolte a terra, oltre mancava o era completamente assente l’indispensabile sistematica potatura, queste, tutte attività che avrebbero preteso abbondanza di manodopera, allungamento dei tempi di produzione e capitali più cospicui da investire nella nuova attività.

I proprietari del tempo, non fecero altro che sostituire il gelso, e impiantare l’oliveto dovunque era possibile.

La conseguenza fu l’enorme accrescimento della produzione globale dell’olio nella Calabria, destinata a superare spesso, l’antica produzione puglie­se, con uno smercio che favoriva le attività di taluni porti tirrenici, i quali non erano mai stati al centro di tale vivacità.

Tuttavia va rilevato che la qualità dell’olio calabrese non riuscì a diventare pari alla quantità di produzione, nonostante fosse diventato un vero fiume che andava a sostenere, la produttività, dei saponi francesi e per ironia della sorte come lubrificante delle macchine dell’industria inglese, proprio in campo tessile.

Così, le macchine inglesi per produrre tessuti marciavano grazie all’olio di quella Calabria che, per produrre quell’olio, aveva rinunciato alla seta e alla tessitura in senso generale.

La conferma che la Calabria fosse diventata il fornitore ufficiale, sin dai suoi primi passi dell’industria inglese, lo riscontra ancora oggi nella misurazione del litro tipico dei frantoi, infatti, l’unità di misura ”il litro oleario” corrisponde a quattro “pinte britanniche” ovvero poco più di 2 litri dell’attuale misura commerciale.

Abbandonata i gelsi e la sericol­tura per la scarsissima irrorazione di capitali e di lavoro specializzato, fece si che l’olivicolture divenne ben presto la risorsa economica che impegnava più famiglie e più nuclei produttivi, mantenuto comunque un livello assai basso rispetto a come era stato per la seta.

Il cambiamento segnava anche la fine di un primato millenario, destinato a ripercuotersi in enormi perdite di capitali che non sarebbero stati più recuperati.

La Calabria, non ha storicamente un’esatta localizzazione sul territorio regionale di esemplari particolarmente estensivi, di uliveti, in quanto, da millenni è presente l’oleaster (in arbereshe liosterà) una sorta di cespuglio spontaneo di olivo, ancora diffusamente presente in molte zone e da cui si estraeva un rudimentale olio.

La piantumazione e la cura della pianta, si deve sicuramente attribuire ai monaci Basiliani, che affinarono questa attività, ed e grazie al monachesimo latino, benedettino, cistercense, certosino, florense, e, infine francescano, che questa attività ha avuto una tradizione che oggi caratterizza con eccellenze il territorio.

L’olivo è segnalato nel Cosentino e sulle coste del reggino dall’epoca sveva; si hanno testimonianze, per il territorio di  Bisignano e Luzzi nella valle del Crati già dal XIII secolo.

Lo testimoniano, le entrate dei feudi cosentini dei Principi di Bisignano tra il 1578 e il 1580, che segna l’inizio della maggiore diffusione della coltura dell’olivo nella provincia e nella regione, causa l’esenzione di tasse,  cui godrà la l’attività fino ai primi decenni del Seicento.

In questo periodo nella Calabria citeriore ebbero un ruolo fondamentale, i profughi arbanon, questi per la loro grande esperienza nel rassodare e porre a dimora ogni genere di coltura da un lato si resero protagonisti nel mantenere i gelseti ancora produttivi e dall’altra rassodare e riconoscere quali fossero i terreni più idonei per vite, ulivo e cereali.

Gli arbëreshë dopo aver rassodato il terreno lo osservavano, lo tastavano, misuravano con le mani la consistenza e poi lo odoravano e ne sentivano il sapore masticandolo.

Una consuetudine antichissima che usava sia per le attività agricole ma anche per quelle d’insediamento per la realizzazione delle “dimore sia in forma estrattiva sia in quella compositiva”.

Oggi, dopo alcuni secoli di lenta ma progressiva espansione dell’olivicoltura, essa è presente su buona parte del territorio della provincia, escluse le superfici occupate dalla catena appenninica e dall’altopiano della Sila ad altitudini in media superiori ai 600 m.

Le maggiori concentrazioni si registrano nella sibaritide, sulle colline ioniche presilane, nella fascia prepolino e nella media valle del fiume Crati.

Resta un dato fondamentale, ovvero, per non aver difeso le attività che rendevano la Calabria l’eccellenza nella produzione della gelsi-sericol­tura, non aver intuito dare forza economica finalizzata a rinnovare la filiera di questa eccellenza, si è finiti per oliare gli ingranaggi delle industri britannica che aveva sottratto il primato.

Oggi che la seta proviene da altre latitudini, le stesse capaci di trarre profitto da quell’attività per la quale ci siamo dimostrati incapaci di saper amministrare, valorizzandola rimane l’olio, che a differenza di quelle epoche si raccoglie dall’albero e si estrae a freddo.

La particolare metodica sommata alle caratteristiche territoriali e climatiche della provincia citeriore e in particolare la media valle del Crati; culla naturale mediterranea, la stessa che consente di caratterizzare gli elementi tipici della “nota dieta mediterranea” riconosciuto diffusamente nel trittico alimentare: ulivo, vite e cereali.

Un equilibrio unico tra ambiente naturale e produttivo, che consente al territorio di auto rigenerarsi, mantenendo le produzioni in equilibrio perpetuo tra di loro.

Sicuramente la perdita del primato della seta è stata un pessimo affare, per la classe dirigente del settecento, ma l’equilibrio naturale che nel contempo gli operosi calabresi e le minoranze storiche sono riuscite a porre in  essere sono irripetibili.

Oggi la produzione dell’olio ha raggiunto eccellenze che nessuno avrebbe mai immaginato, considerando che si è iniziato con il fornire olio per sapone e ingranaggi e oggi l’olio calabresi sono esportati in tutto il mondo con valori di rilievo e raccontano di un olio ambito in tutte le tavole che contano perché in esso è racchiuso il valore unico di:

Colore: verde con venature oro e riflessi color smeraldo;

Odore: fruttato leggero e fresco, con piacevoli sentori di frutta, ortaggi, e cuore di carciofo;

Sapore: sapido, lievemente dolce, con gradevole percezione amara, discretamente pieno e persistente;

Sensazioni: aspettiamo le vostre in Regione Storica Arbëreshë, perché graditi ospiti, di una consuetudine antica.

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LA VIA DELL’OLIO “Kavaljoderë” Nella soglia della via?

Protetto: LA VIA DELL’OLIO “Kavaljoderë” Nella soglia della via?

Posted on 20 giugno 2020 by admin

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IL COSTUME ARBËRESHË; È LA BANDIERE DELLE SEDICI MACROAREE DELLA REGIONE STORICA NON È UN ESPERIMENTO SARTORIALE PER LE RAMMENDATRICI DEL PAESE DI FRONTE

Protetto: IL COSTUME ARBËRESHË; È LA BANDIERE DELLE SEDICI MACROAREE DELLA REGIONE STORICA NON È UN ESPERIMENTO SARTORIALE PER LE RAMMENDATRICI DEL PAESE DI FRONTE

Posted on 02 giugno 2020 by admin

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STORIA TRA ALBANIA E NAPOLI: MONUMENTI E ARCHITETTURA  (Dal centro antico di Napoli, al Padiglione Albania della Mostra d’Oltremare )

STORIA TRA ALBANIA E NAPOLI: MONUMENTI E ARCHITETTURA (Dal centro antico di Napoli, al Padiglione Albania della Mostra d’Oltremare )

Posted on 29 maggio 2020 by admin

Padiglione Albania

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Napoli e le sue provincie sin dai tempi dei fondatori sono state, per le caratteristiche climatiche, ambientali e strategiche, luogo di approdo, accoglienza e convivenza tra popoli con diverse ideologie.

Tra queste, resiste imperterrita, allo scorrere del tempo, la popolazione della minoranza storica Arbëreshë, che silenziosamente è protagonista incontrastata sia nelle provincie dell’antico regno e sia nella capitale partenopea.

Il centro antico della storica capitale dell’Italia meridionale, per la sua posizione baricentrica nel mediterraneo, facilitò l’approdo a Romani, Greci, Bizantini, Normanni, Francesi, Spagnoli, Austriaci e tante altre popolazioni e dinastie di rilievo.

Tutti depositarono temi indissolubili, i cui lasciti sono diventati la forza della città, tra questi a partire dal XII secolo,  vanno ricordati anche gli antichi abitanti dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, l’odierna Albania.

Le prospettive naturali, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto; dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine, raccontano attraverso le Carmina Convivalia l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienze turistica.

La città metropolitana di oggi e il centro storico e quello antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione Arbanon, racchiusi ancora oggi nel silenzio più intimo, tra i decumani del centro antico e in tempi più recenti nella piana del quartiere di Fuorigrotta e più in dettaglio all’interno dell’area dell’odierna Mostra d’Oltremare.

Dei due episodi storici di convivenza e cooperazione, il centro antico non corre alcun pericolo per i processi di tutela cristallizzati, giacché luoghi di storia protetta; diversamente accade nell’edificio che pur testimoniando, la prima pagina del rilancio culturale economico e produttivo dell’Albania di settant’anni addietro, non ha avuto lo sperato momento di gloria, cosi com’era stato immaginato dai suoi progettisti.

L’edificio fieristico denominato Padiglione Albania, fu edificato negli anni trenta del novecento, nella Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare di Napoli; dedicato specificamente all’Albania (stato Skipëtaro), unico padiglione, per i rapporti storici che lo legavano all’Italia, a essere contraddistinto con il nome proprio della Nazione.

Forte dell’esperienza barese, all’interno della Fiera del Levante, l’urbanista Gherardo Bosio, progettò il Padiglione di Fuorigrotta, affiancato dall’architetto Pier Niccolò Berardi.

L’opera espositiva a tema, esclusa la breve parentesi dell’inaugurazione, sembra aver assunto le caratteristiche delle pietre tipiche Albanesi e resistere solo per essere contemplato per la sua lapidea durevolezza.

Esso nasce come biglietto da visita delle eccellenze Albanesi, il cui tema architettonico metteva in evidenza le tipiche abitazioni denominate “Kulla” abitazione grazie alla quale le famiglie allargate Arbanon difesero la propria identità linguistica, metrica canora, consuetudinaria, e religiosa.

Diversamente dal progetto che mirava a valorizzare le caratteristiche: storiche, geografiche, della produzione e del lavoro, che avevano contraddistinto, l’Albania sia dai tempi dell’impero romano.

L’edifico si presenta come una struttura in pianta rettangolare, in bugnato e arricchita da aquile di epoca romana ai quattro angoli; la facciata principale ospitava, un ampio loggiato ornato da un altorilievo di Bruno Innocenti intitolato “Il trionfo navale celebrato in Roma da Gneo Fluvio”.

Il salone interno, si presentava rivestito da lastre di marmo apuano, ulteriormente impreziosito da lacunari in vetro di Murano che conferivano alla struttura un particolare irraggiamento.

Il percorso espositivo si sviluppava secondo priorità riferite all’Artigianato e all’Industria della Nazione Albanese dell’epoca, proseguendo, attraverso due scalinate, in marmo posti alla destra e alla sinistra rispetto all’ingresso, si giungeva al primo piano.

Nella scalinata di destra, dominava l’opera pittorica “Albania Romana” di Primo Conti, accompagnando il visitatore verso la Storia dell’Albania; la scalinata di sinistra, sovrastata da un dipinto di Gianni Vagnetti, conduceva alla sezione riservata alle opere che si andavano a realizzare in Albania.

Pregevolissimi erano i materiali archeologici secondo l’allestimento di Luigi Penta: essi consistevano in quattro statue collocate al piano terra, provenienti dallo scavo archeologico albanese dell’acropoli di Butrinto.

Tra queste la scultura della Dea di Butrinto, della quale la sola testa ebbe ragione dei bombardamenti che di li a poco tempo l’avrebbero deturpata.

Il secondo piano ospitava otto teste che non subirono danno e dopo la guerra furono custodite per 20 anni dalla Soprintendenza Archeologica di Napoli prima di essere restituite all’Albania nel 1967.

Dopo appena un mese dall’inaugurazione, la Triennale delle Terre d’Oltremare fu chiusa a causa della guerra e nel corso del conflitto gli americani occuparono la Mostra per allestirvi il 21st General Hospital allocandovi nei suoi spazi le sale operatorie.

Con la fine della guerra, il polo fieristico rimase abbandonato fino al 1948, quando si diede avvio al progetto per la ricollocazione fieristica del polo, conclusa nel 1952 con la conseguente inaugurazione con titolo il Lavoro Italiano nel Mondo.

La manifestazione segnò anche l’inizio di una lenta e inesorabile manomissione del tema architettonico originario, stravolto per aver modificato alcune strutture identitarie dell’antico progetto, perché profondamente danneggiate dai bombardamenti.

Oltre ciò, nel corso del rifacimento il padiglione venne convertito, con poca attenzione del suo originario tema, intitolandolo al Lavoro Italiano in Oceanica.

Tuttavia, la nuova mostra non ebbe il successo sperato e chiuse, dando così avvio ad un secondo abbandono dell’ edifico, che questa volta si protrasse per oltre quattro decenni.

Alla fine degli anni ’90 furono messe in atto le prime manovre per il ripristino dell’area fieristica, che culminarono nel 2001 con la gestione di Comune di Napoli, Regione Campania e Camera di Commercio.

Da allora sono stati fatti grandi passi in avanti verso la definitiva riqualificazione dell’area, ma ciò nonostante il Padiglione Albania, fu abbandonato èd ebbero inizio le drammatiche vicende di abbandono e l’ovvio degrado.

L’ingresso all’edificio, infatti, è a oggi circoscritto da un muro in cemento che ne impedisce vista e accesso, la cui naturale conseguenza è la perdita immateriale del suo significato storico e l’inesorabile cedimento del suo particolarissimo bugnato. 

Tutta la vicenda del padiglione Albania cui si deve porre rimedio e dare lustro, sino a oggi si possono sintetizzare nel dato, che non rientra ne fa parte di questa analisi,specie quelle legate all’ultima vicenda che ha visto l’intero piano di riqualificazione dell’comparto, oggetto del ritiro dai fondi europei previsti per la sua riqualificazione.

Alla luce di ciò e di tutte le vicende storiche che legano Napoli, il meridione d’Italia e l’Albania, devono porre in essere attività in concertazione tra le istituzioni, affinché il padiglione assuma quella funzione di fratellanza storica, economica, sociale, culturale, religiosa e politica per il quale venne innalzato e contro ogni avversità degli uomini continua a resistere imperterrito.

Il Padiglione Albania, allocato all’interno della mostra d’Oltremare, non è un semplice involucro fieristico reversibile, e adattabile a ogni genere di avvenimento, in quanto, nasce come emblema storico di cooperazione e diffusione delle eccellenze di oriente e di occidente cordialmente convergenti nel bacino mediterraneo.

Un monumento realizzato a tema per unire l’Italia ospitante e l’Albania ospite, una caratteristica parallela che unisce i due ambiti territoriali posti di fronte e quanti hanno avuto la possibilità di farla brillare, non possedevano lo spirito storico culturale per comprendere il ruolo che esso doveva assumere.

Oggi le istituzioni Albanesi e Italiane dovrebbero rendere merito alla caparbia durevolezza di questo manufatto, segno di unione di due popoli e terre parallele, predisponendo misure adeguate per confermare il legame tra le due nazioni, essendo l’Italia, anche la patria ospitante la minoranza storica più numerosa del meridione italiano: gli Arbëreshë.

Per questo, urge istituire un comitato tecnico, politico e scientifico, al fine di concertare, appropriate iniziative per restituire al manufatto gli  originari temi divulgativi dei territori oltre adriatico sia dal punto di vista sociale e sia produttivo, degli Albanese a Napoli.

Basterebbe spolverare protocolli tecnici e porre in armonica cooperazione i Ministeri della Cultura, del Turismo, degli Esteri e dell’Industria, oltre Regioni, Provincie e Comuni, per rendere l’edificio, un luogo d’incontro per la minoranza storica arbëreshë, che con le sue eccellenze è stata sempre in prima linea con le vicende storiche partenopee, ancora oggi solidamente connesse alle realtà sociali culturali ed economiche meridionali.

Il padiglione Albania alla mostra mediterranea potrebbe diventare l’emblema di un trittico culturale senza eguali, per questo, attraverso il giusto progetto di restauro funzionale, si potrebbe allestire attività in rappresentanza di una Regione Storica Arbëreshë e della Nazione Albanese in terra d’Italia.

Un vero e proprio manifesto fieristico espositivo,da cui far emergere l’espressione culturale, senza soluzione di continuità, secolare, al fine di rendere merito al modello  sociale, culturale, linguistico, consuetudinari e religioso, tra i più solidi del bacino mediterraneo, frutto della buona cooperazione di radici solidali.

Il padiglione Albania monumento unico nel suo genere, rappresenta, il luogo in cui convergono culture diverse, per confrontarsi, per far emergere le cose buone dei due paesi di fronte, proprio come “l’Aquila bicipite”, che rappresenta un solo corpo, forte e solido, con le prospettive di orientamento ricolte sia a oriente e e sia a occidente.

Uomini culture religioni e operosità messi a confronto per migliorarsi e spargere esempi attraverso gli elementi caratteristici della regione storica arbëreshë, l’esempio mediterraneo di cui Napoli e l’antica Albania, hanno reso possibile, da sei secoli e senza soluzione di continuità sino a oggi.

 

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NASCERE E CRESCERE SECONDO IL FOLCLORE ARBERESHE

NASCERE E CRESCERE SECONDO IL FOLCLORE ARBERESHE

Posted on 24 maggio 2020 by admin

AAAAAAAA1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – L’insieme delle nozioni popolari, distinto dal patrimonio e dall’orientamento culturale superiore ed egemonico, nelle manifestazioni della vita culturale genericamente popolare, s’identifica nel folclore.

Il termine è formato da due parole, di origine anglosassone e rispettivamente sono: “popolo e sapere”e mirano ad associare per tramandare le tipologie di tradizione in forma oralmente, concernenti, usi, costumi, miti, narrazioni, credenze, musica, canto, il tutto riferito a una determinata area geografica, di una ben identificata popolazione.

Quando tutto questo insieme di nozioni si ha la fortuna di coglierle nel corso dell’adolescenza, in armonia con i dettami caratteristi e caratterizzanti il sociale tipico di quel identificato territorio, è segno che il tassello del folclore è stato coniato.

Un bagaglio la cui radice culturale ti è affidata dalla tua genitrice, la stessa che per essere rimasta, orfana ha recuperato l’amore materno mancato, nell’accogliere di buon grado la nuova figura, riconoscendo attraverso consuetudini antiche le caratteristiche locali dei cinque sensi di vita locale che non ha potuto ricevere dall’originario amore materno.

Più di un secolo di storie avvenimenti e consuetudini, canti, appuntamenti religiosi e manifestazioni ripetute ogni anno senza soluzione di continuità; questo e null’altro sono l’insieme di radici che poche persone possono aver avuto in eredità; da qui ha origine la radice di ricercatore, di studioso ben distante dalle false ideologie, quelle che messe a confronto tra uomo territorio e natura, si polverizzano nel tempo di un fuoco di paglia e il vento le porta via.

Essere un arbëreshë, privilegiato, erede di radice del folclore, non è un fatto che capita per caso, perché oltre ad essere abituato a cogliere odori, colori, sapori, e pieghe di vita, di chi ti segnava la strada, indossando con garbo e dedizione l’abito tipico secondo il rigido protocollo immateriale, bisogna essere in grado saper leggere e interpretare i segni dell’identità che ti lasciava.

Specie se si tratta dell’insieme di “cultura, idioma, consuetudini, metrica, in armonica credenza greca bizantina”; la radice fondamentale che poi è un insieme inscindibile cui non devi ne aggiungere e ne sottrarre nulla, ne tanto meno sottrarre o cambiare quantità e qualità.

Se poi la figura paterna è un ottimo fabbro, che per le sue capacità di arte, sa come temprare, sino a rendere solida, inattaccabile e indeformabile, la propria indole, è segno che i principi per progettare e seguire la giusta rotta nel corso della vita diventa certezza.

Nascere e crescere nel quartiere simbolo dell’operosità arbëreshë, con il suffisso e l’identificativo “Ka lemi”, al fianco di gjitoni che giornalmente verificano la tua parlata perché, (a detta loro), corri il rischio di essere scambiato per un figlio di zingaro provenienti dai paesi limitrofo e finisci di essere portato via, è la misura che conferma l’appartenenza alla tipica gjitonia arbëreshë.

Allora è segno che provieni dal mondo fatto di “biblioteche viventi”, “una fonti raffinate”, “istituzioni inestimabili”, in tutto sei il figlio di madri che ti avvolgono e ti allattano del loro sapere, secondo una ben identificata tavolozza di colori, con cui poi in seguito potrai lasciare il segno disegnando un quadro unico e irripetibile, opera di folclore, quella che ad oggi manca alla regione storica, la cui conferma non di “alchimisti litirë” ma da “ rari genitori e gjitoni arbëreshë”.

Quando poi arricchisci e affinai con titoli a tema sei perfettamente in grado di tracciare le arche idonee da cui partire e dare senso, sia dal punto origine: la tua famiglia, e poi ai relativi cerchi concentrici, perché possiedi un tesoro inestimabile, in senso di valori intangibili che ti consentono di raggiungere sin anche il tangibile da illustrare agli altri.

Una cinta di valori, storicamente ordinati e indissolubili, principi inequivocabili, con priorità rivolto al senso, di sociale, consuetudinario, idiomatico e religioso, gli stessi che danno forza al folclore, la famiglia, alla fratellanza, alla gjitonia, al costume, alle tradizioni e  ogni elemento che caratterizza la minoranza e il suo ambiente naturale. 

Alla luce di ciò, ritengo, affermo e ripeto che la storia degli arbëreshë “non è stata mai fatta”, ora soltanto può iniziare, perché gli avvenimenti che prima parevano slegati e inesplicabili, finalmente descrivono una trama legata che trova ragione, senso, e verità di essere.

Più di un secolo e mezzo di storia consuetudinaria conservata e catalogata in fascicoli che nessun dipartimento, universitario contiene e ne mai potrà riuscire ad uguagliare, sino a quando si persevera nell’allocare i più preferiti dai più formati.

Questa inesorabile scelta è una deriva non volgere attenzione nella storia generale, scritta secondo i fati, gli avvenimenti, gli uomini e i Katundë, cosi facendo è stata ulteriormente spregiata, da  proponimenti senza alcuna forma di protocollo attendibile o verificata sul territorio.

Quale attendibilità la storia degli arbëreshë può avere, se tracciata in disarmonia con i rigidi protocolli consuetudinari delle famiglie matriarcali arbëreshë, secondo cui ogni giorno e ogni cosa ha un significato in ritualità uniche e insostituibili.

Essa rappresenta un riversare continuo di atteggiamenti di vita sociale negli ambiti arbëreshë e in ogni dove diverso si ripropone, diventa una fucina di un metallo le di cui pieghe e sfumature appartengono esclusivamente a quella fascia mediterranea, la stessa, sempre un passo avanti rispetto alle altre genti del globo terrestre.  

La regione storica arbëreshë, comunemente denominata Arbëria sta in cima ai pensieri e agli affetti di ogni studioso, sia ad Est che ad Ovest del mare adriatico e dello jonio, di queste terre sono stati considerati patrioti quanti dicevano di amare la terra natale, amministrando direttamente gli statuti, che dovevano essere il beneficio dei poveri, celebrando i fasti di queste terre in ogni maniera, ornamento e lustro.

Chi a tutt’oggi ha legato al folclore unico e inscindibile di Idioma, consuetudine, metrica del canto e religione, viene considerato o accusato di possedere idee indigene  per un buon arbëreshë.

L’accusa venne fatta in seguito al primi articolo  divulgato in tal senso relativo all’interpretazione storica della kaliva e del significato del baliaggio, recensito, da una conversazione apparentemente benevola, ma che voleva difendere le ilarità storiche monotematiche divulgate.

Cosi come i canti popolari che accomunano e allargano i confini stessi della cultura arbëreshë, ritenendo che quelli odierni di estrazione “Turcofona” nel vasto quadro della cultura dell’Arbëria indifferenziata, possa creare presupposti di dialogo o dialoghi in cima ai pensieri e agli affetti di ogni sorta di studioso.

La Biblioteca Storica o le biblioteche storiche non stanno ne a Napoli, Barcellona, Palermo o Venezia ne tanto meno in Turchia, esse risiedono nei paesi arbëreshë,  sono i lasciti delle nostre madri, quelle madri che hanno saputo  esse sapienza locale, “biblioteche viventi”, “fonte”, “istituzione”, in tutto, tavolozze con cui disegnare il quadro unico e irripetibile, opera folclore; poi gli altri disperdono e non vestono di garbo.

“Per le madri arbëreshë che sapevano vestirsi e non si vergognavano di essere esempio antico , folclore!”.

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MAIUS II N SHEN THANASII PATRI

MAIUS II N SHEN THANASII PATRI

Posted on 23 aprile 2020 by admin

NATALIZIO 2 MaggioNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Anche quest’anno si è in fermento per la festa che rappresenta l’apice di coesione e di credenza di tutta la comunità Sofiota.

Il ricordo va a tutti i nostri cari che nel corso dei secoli hanno reso possibile tutto ciò e, allora come oggi nell’approssimarsi del due di maggio, si prodigavano per rendere questo momento di credenza condivisa unico e irripetibile.

La Festa sempre intensa e colma di valori, ogni anno con una caratteristica che  precisa torna alla mente e il ricordo va ad ognuno di loro che sono tanti.

Si sfornavano ceste di taralli, per ben accogliere le visite di rito e di amicizia, o scendere di casa, nel corso della processione e offrirli, numerosi, come sostegno ai fedeli in penitente  devozione.

Si ordinavano le strade, si adornavano finestre, balconi e loggiati, con essenze floreali e si stendevano raffinatissime coperte.

Ogni anno l’evento era caratterizzato o per meglio dire caratterizzato  con  novità pianificate dalla brillante, radicata e preparata Commissione , la quale atteso cil consenso univoco della popolazione, si adoperava per porla  in essere diventando l’elemento pregnante di quell’anno, quello che va in oltre sottolineato: in  esclusiva forma devozionale.

L’operosità e l’inventiva produsse gli indimenticabili moduli illuminotecnici, fatti con chiodi, ferro filato, una tavola di legno e portalampada a vista, furono questi apparati che   volto nuovo alle quinte del paese,  durante la notte grazie i piccoli contributi energetici attinte da ogni famiglia per devozione.

Come l’anno che volle dare al paese una pigmentazione mediterranea, dipingendo a calce, le quinte delle case dove sarebbe transitata la processione, comprese quelle della piazza: producendo così una nuova prospettiva cromatica.

Altri anni si preferì attivare le risorse addobbando la chiesa, con arazzi e tendaggi per dare senso al sacro volume in tono caldo e sontuoso, (la chiesa a quei tempi era priva dai preziosi dipinti della scuola cretese).

I multicolori Palloni, intelligenti opere realizzate con pochi e rudimentali apparati; carta velina, colla di farina, ferro filato, resti di candele e pezzi di sacchi in canapa.

Gli stessi che nel corso dei decenni, sono divenuti un vanto in tutta la provincia, grazie alla caparbietà di quanti hanno continuato a realizzarli con il compito di lasciare la memoria ell’operosita alle nuove generazioni.

Ricordo la funzione religiosa (mèsha llalbit), che l’instanzcabile “Zoti Kappa” la mattina del 23 aprile, primo giorno delle novene, ufficiava nella Kona.

Immancabilmente la mattina del ventitre mia madre, Adolina Kongorelit, di buon ora, iniziava la vestizione delle Stolje senza nulla lasciato al caso, come tradizione arbëreshë pretende e scendeva quando si sentiva chiamare da Marja Vukastòrtit,  e avviarsi a piedi verso la Kona, in compagnia di altre afferrate e garbate devote, è d’obbligo ricordare: Melina Ngutjt Serafina Kurthëvet, Annetta Abelith, Anmaria Pasionatit, Koncetta Miluzith, Rusaria Pixhònit, Martoresa Timbunit, Vittorina e Lilina Zingaronit, capeggiate da suor Melania e le sue consorelle.

Esse si dirigevano verso la Kona ove li attendeva l’indimenticabile Padre Capparelli assieme al fedelissimo Benito Fabbricatore (i bëri Mindìut) e al canto di Djta Jote iniziavano le lodi al santo e la funzione religiosa.

Non so se oggi questa tradizione si ripete o è stata accantonata come tante altre, ma l’entusiasmo e la convinzione che queste donne avevano sono rimaste radicate nei valori e nella credenza che i Sofioti hanno nei confronti di Sant’Atanasio.

Mi auspico che quest’anno rimangano fuori dalla chiesa gli inni e le lodi da stadio che il saggio Archimandrita Giovanni Capparelli ha sempre rifiutato e richiamato la popolazione intera a non esternare all’interno del sacro perimetro, dove esortava tutti a cantare gli inni religiosi e BASTA!

Mi rivolgo alla Commissione, affinché questa FESTA conservi gli opportuni caratteri religiosi, con l’auspicio che gli insegnamenti del saggio Padre Capparelli , oltre a quello delle devote sofiote che hanno sicuramente lasciato il senso della festa e non vadano calpestati da quanti non hanno la misura di cosa unisce il Santo alla Comunità o magari lo ignora del tutto.

Per le disposizioni clericali laiche quest’anno non daranno spazio ai consuetudinari riti fuori e dentro il perimetro dal cuore del paese, nella Kona, o durante la storica rievocazione dell’estate arbëreshë dal Ottava rispettosi delle limitazioni imposte.

Tuttavia si spera che gli adempimenti all’interno e all’esterno del perimetro religioso siano attuati, dalle persone figlie e figli del garbo e con senso della devozione, e non preferiti quanti hanno sempre vissuto ai margini, perché bravi a fare come il diavolo, tutto subito e male, a scapito della  credenza che vuole i tempi della metrica e la consuetudine.

Sant’Atanasio unisce storicamente tutti i Sofioti il due Maggio: quest’anno la processione sarà unica e irripetibile in quanto raccoglie allo stesso modo tutti noi fedeli credenti.

Tutti i Sofioti del mondo nel 2020 avranno modo di condividere quest’appuntamento in forma irripetibile, con “il cuore o con la mente”, senza distinzione ne di luogo e ne di genere, per una volta nella storia saranno tutti uguali, sin anche chi a Napoli per imposizione veshëkavile deve badare alle proprie cose.

W W W Shen Thanasi çhëshë i Madë!!!!!

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GLI ARBËRESHË, LA STORIA DIFESA CON LA PELURIA

GLI ARBËRESHË, LA STORIA DIFESA CON LA PELURIA

Posted on 22 aprile 2020 by admin

Diavolo_Gesu-290x300NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La minoranza storica arbëreshë nel corso della storia del mediterraneo, ha espresso il valore innato, nel predisporre modelli sociali economici, che poi sono oggi l’espressione delle città moderne o dette, metropolitane.

Le stesse che poi in seguito ampiamente dimostrate, a quanti abituati a vivere di espedienti senza radice, gli oppositori  di queste idee innovative, nonostante anche essi avranno, prima o poi,  modo di beneficiarne in senso di applicazioni sociali, politiche, economiche e della scienza esatta.

Gli arbëreshë notoriamente sono ricordati, semplicemente, per le vicende di confronto e scontro, sia in terra natia e sia negli ambiti paralleli della regione storica del meridione italiano, dal XIII secolo.

Qui in questo breve si vogliono distinguere le categorie sane dalle “litirë” le stesse che non saranno ricordati come prescelti se non per essere stati capaci di produrre danno, danno e solo danno.

Questi ultimi nelle narrazioni diffuse, appaiono descritti senza cultura, similmente agli animali che per difendersi dal freddo non usano l’intelligenza ma attendono che la natura li munisca di peluria o altro apparato naturale di equilibrio corporeo, come ad esempio, artigli e la mala lingua, per soddisfare il bisogno di alimentarsi.

La natura degli uomini, si può riassumere in una serie infinita di linee parallele, ciò tuttavia, allocare gli arbëreshë in tipologie cosi estreme, non è esatto, anche se per certi versi quando si subiscono le angherie di quanti, vestendo giacca cravatta e guanti, nascondono la peluria e gli artigli, forse un’icona parallela dove intercettarli sarebbe il caso di evidenziarla per riconoscerli.

Come per esempio l’affascinate idea di illuminismo moderno della “Regione storica diffusa arbëreshë” e il progettato polo di valorizzazione, in cui far convergere necessariamente, teoremi e direttive da sottoporre al vaglio di un gruppo multidisciplinare.

Il progetto per la tutela della minoranza arbëreshë, assieme ad altri pronti per essere innalzati, sono stati preparati, senza che nell’arco di venti anni, nessuno di essi sia andato a buon fine; “OPPOSIZIONI” di varia natura, ne hanno impedito la diffusione.

Alla luce dels clima politico, che nel corso degli anni pur se profondamente mutato, è rimasto solidamente ancorato al suffisso cultural-economico, imponendo la costruzione di un istituzione di falsi cultori, gli stessi che affrontano l’inverno con la peluria cresciuta naturalmente, per difendere se stessi e il loro ambiente naturale cavernicolo.

Se non si corre ai ripari, è normale che poi a difendere la credibilità arbëreshë, non rimane altro che rivolgersi a imperterriti cavalieri dell’architettura e dell’urbanistica, figli di quella rara consuetudine che cura e conosce gli ambiti attraversati bonificati e innalzati dagli arbëreshë.

Diversamente dai tuttologi per gli atteggiamenti acquisiti, non riescono sin anche di attraversare il Surdo e il Settimo, ormai in secca, per partecipare alla disputa, che ha luogo nella Chiana, sotto le pendici della mula, dove i litiri dall’alto dei loro tacchi a spillo, dicono di saper fare i paesi arbëreshë con le gjitonie dentro.

Sono fieri sui loro cavalli, quanti usano le proprie capacitò intellettive, predisponendo gli idonei apparati, costruiti e innalzati, nel rispetto dell’ambiente, del tempo e degli uomini, secondo disciplinari realizzati dalla intelligenza, quella storica conservata nel cuore e nella mente, senza sprecare energie per tenere in vita l’apparato digerente. 

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VALJIE, GJITONIA, SKANDER, QUARTIERE, BORGO, TANTO PER CITARE L’APPARIRE!

Protetto: VALJIE, GJITONIA, SKANDER, QUARTIERE, BORGO, TANTO PER CITARE L’APPARIRE!

Posted on 12 aprile 2020 by admin

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