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IL SUONO, GLI ODORI, LA CONSISTENZA DELLA PASTA E IL SUGO FATTO IN CASA

IL SUONO, GLI ODORI, LA CONSISTENZA DELLA PASTA E IL SUGO FATTO IN CASA

Posted on 31 gennaio 2021 by admin

cera un voltaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La domenica, sino a quando ho abitato con i miei genitori, di sovente mi svegliavo piacevolmente con i ritmati tonfi che provocava l’impasto di (miell) farina, (ujë) acqua, (kripë) sale, (valë) olio e ( thë verdat e vesë) rossi d’uovo, lavorato a mano da mia madre, sopra l’apposito spianatoio, (Kiangùni).

Quando si raggiungeva, con il continuo rivoltare e stendere, la consistenza desiderata, si copriva il panetto, lievemente d’orato, con un canovaccio per lasciarlo riposare; a questo punto, mia madre, si recava in cucina a preparare il sugo, insaporito rigorosamente di carne d’agnello (shëtiërë).

Prima (valë)l’olio, poi (gudur)uno spicchio d’aglio intero sbucciato, (gnë fjetë dhafnie) una foglia di alloro; a questo punto iniziava a tagliare la carne, che avrebbe di li a poco rosolato, mescolando il tutto lentamente a fuoco lento ,assieme ai sapori naturali già elencati.

Quando la superficie della carne creava una lieve patina di crosta, era il segno che avrebbe incamerato gli aromi interni,  quello era il segno di aggiungere le quantità di passata di pomodoro, conserva di casa, che con la lieve cottura avrebbero insaporito il tutto.

I segreti per l’idoneo matrimonio, tra carne e sugo, grazie ai testimoni vegetali a questo punto, erano tre: il fuoco lento, coprire la pentola lasciando uno spiraglio per dissipare con misura i vapori e chicca finale, non aggiungere mai acqua.

A quel punto la casa diventava il paradiso di odori, il segno olfattivo della festa che inebria ogni angolo appena il sugo in iniziava lentamente a borbottare, nel chiuso della pentola.

La lentezza della cottura consente di tornare in sala da pranzo a dare forma alla pasta, procedendo nel toglieva il canovaccio sopra il prezioso impasto e dopo un’ulteriore stesa e ripiegatura  con la spatola (shëtërë) si inizia a realizzare piccoli frammenti di impasto: prima a forma rettangolare e poi cilindrici allungati.

A questo punto le piccole porzioni, si lavoravano con (hekuri) il ferretto, così come segue: si spargeva con maestria sul piano di lavoro farina e con manualità antica s’inizia ad arrotolare i cilindri d’impasto arrotolati al ferretto sul piano di lavoro; questo per non consentire che la pasta aderisca a esso, è lievemente curvo, tale che nella rotazione che consentire al fillilë di prendere la sua forma tipica, si sfili facilmente.

Cosi per un numero di azioni ripetute senza mai perdere il ritmo, prima sullo spianatoio lasciati a prendere la forma, poi si depositano in file ordinate, disponendoli sulla parte libera del tavolo su di una tovaglia opportunamente infarinata.

Terminata l’operazione, si copre tutta la disposizione delle file di pasta con il canovaccio e si ricontrollava la pentola del sugo, che nel lento borbottio raggiunto la consistenza ideale, ristretta e mai con chiazze acquose.

Per impiattare, si mette la pentola con acqua sul fuoco e appena raggiunta il punto di ebollizione s’immergono i fillilë facendoli bollire per pochi minuti e quando l’esperienza ritiene che siano cotti al punto giusto, si scolano per bene disponendoli nel piatto di portata.

La preparazione del piatto a questo punto può iniziare, insaporendo il tutto con il sugo ristretto, un pezzo di carne di coronamento ricoprendo tutta la superficie con una nevicata di pecorino locale, non prima di aver deposto una foglia di basilico di adorno.

Il sugo si preferisce farlo ristretto al punto giusto, perché la pasta essendo fatta in casa, è avvolta da acqua di cottura che si insinua all’interno incavato e rilascia nel momento dell’impiotamento, questi liquidi fondamentali andranno ad amalgamandosi con il sugo di superficie, insaporendo magicamente il tutto con il formaggio a la carne.

Guai a preparare il sugo per i fillilë, molto liquidi, perché poi si finisce di fare una annacquata diffusa, quello che comunemente succede in quei piatti di quanti/e dicono di saper fare e non sanno.

Fare la pasta in casa  secondo la cucina arbëreshë è un atto antico,  tramandato da madre in figlia, per questo non è certo nelle disponibilità di quanti hanno fatto altro in gioventù, gli/le stessi/e che oggi pur di apparire dicono di saper fare, ma questa è un’altra storia solo per fotografie di una pietanza annacquata, che fa sorridere quanti sanno e capiscono che il fare le cose arbëreshë è un’altra cosa.

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SHËPIA E GJITONIA

SHËPIA E GJITONIA

Posted on 11 gennaio 2021 by admin

PARLATE PARLANTI COMMEDIE EINAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Le Arche materiali e immateriali, che racchiudono il senso della consuetudini arbëreshë, trovano dimora, lì dove un tempo allocava il focolare per poi espandersi lungo lo sheshi sino all’infinito.

Quanto sarà esposto in questo breve, non contiene alcun  errore in senso di  costruito, luogo e ambiente naturale, lascia però volutamente libertà di espressione ai correttori storici seriali, che si adoperano pur di apparire, riferendo di forme grammaticali alquanto discutibili.

Per questo daremo avvio al discorso, parlando del modulo abitativo, additivo tipico arbëreshë, cui dare seguito alle espressioni della radice sociale di luogo e del ricordo; un tema che sino ad oggi ha ricevuto violenza in senso di valore sociale a dir poco inaudito in senso del significato, di ruolo, di veste e di attività.

Notoriamente il modulo abitativo (Kaliva, Moticela, Katoj) dopo l’epoca insediativa, di confronto, fu innalzato non più secondo i canoni estrattivi o del nomadismo, ma in muratura di pietra, calce e sabbia per la discendenza stanziale.

Esso fu realizzato in mura perimetrali, generamente con il lato opposto all’ingresso contro terra, il volume, completato grazie alla lamia di copertura,  in coppi, contro coppi e travatura in legno; un’unica pendenza verso la parte anteriore dove l’ingresso gemellata con una minuscola finestra, veniva igienizzato naturalmente.

Una superficie utile che variava dai sedici a venticinque metri quadrati, con unico accesso e piccola apertura per la ventilazione, ma soprattutto per il controllo della via.

Le connessioni tra  pietre sia internamente che esternamente erano regolarizzata da intonaco di calce con aggiunta di argilla e sabbia di lavinai, mentre l’ingresso di giorno fingeva anche da finestra con la tipica porta a due battenti verticali la cui parte superiore dava il consenso alla inferiore.

Una piccola apertura era gemellata non in senso di luogo per l’affaccio, ma per completare la visuale di controllo della strada e comunque non rientrava nella tassazione dell’area occupata e del vano di accesso.

Planimetricamente all’interno in origine il fuoco era centrale e lungo il perimetro era allocato un numero di giacigli tale da soddisfare le esigenze familiari, oltre le poche e misere suppellettili e attrezzi.

Nella parte prospiciente la strada , il modulo si affacciava con il fronte rettangolare corto che variava dai quattro ai cinque metri, raggiungendo un’altezza di poco più di due metri, mentre nella parte più interla l’altezza del volume poteva raggiungere anche i quattro metri di altezza, e consentire al piano inclinato di copertura un idoneo deflusso delle piogge.

Il modulo rispondeva alle esigenze del gruppo familiare arbëreshë che, diversamente dagli indigeni, si affidava alla forza lavoro del gruppo allargato, un numero di addetti pari alla dozzina, superata la quale, si dipartiva, realizzando nuovi moduli aggregandoli; nelle prima fase edificatoria in ordine articolato, in seguito in epoca seguente secondo la disposizione lineare.

Entrambi i sistemi aggregativi realizzavano i cosi detti e comunemente citati “sheshi”, un dedalo di stradine che conducevano in più spazi comuni.

Una vera e propria murazione difensiva, entro cui prima di accedervi, si doveva passare attraverso le dogane degli abitanti, che non lasciavano passare nessuno e niente per caso, se non prima aver chiesto ragione del passaggio e a chi appartenessero.

Lo sgretolarsi continuo dei gruppi familiari allargati, per la citata metodica di sostentamento, in seguito per lo scorrere delle generazioni porto a smarrire la memoria dell’antico o meglio originario ceppo familiare, i quali restarono comunque legati agli antichi patti di parentela la “Besa”, emulandola per certi versi nelle regole della gjitonia.

Essa per questo diventa, prima di ogni altra cosa, ricerca delle antiche origini, definendo gli ambiti di confronto, che potevano essere vicini e lontani dal focolare domestico, nel continuo indagare in forma di appartenenza parentale, sia in forma locale costruita e sia dell’ambiente in cui a fare da protagonisti ed essere i definitori finali, erano i cinque sensi diffusi e il conseguente bisogno di condividere le attività sociali, produttive ed economiche della vita, come era avvenuto in origine.

Ecco che Gijtonia, diventa il luogo per la ricerca dell’antico ceppo, cuore pulsante, ritmo dei cinque sensi e memoria di crescita dell’antica radice.

Con lo scorrere del tempo dalla fine del 1500, il modulo abitativo, dopo aver coperto lo spazio degli antichi recinti, si sviluppa in altezza e inizia una storia di architettura e scienza ben diversa; la Gjitonia rispettando l’ originario valore di parentela, si ammoderna e inizia ad accoglie classi sociali non più secondo una disposizione di classe lineare, ma diversificate e in forma verticale.

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TI INVITANO A PRANZO NELLA GJITONIA E NON TI DICONO IL GIORNO

TI INVITANO A PRANZO NELLA GJITONIA E NON TI DICONO IL GIORNO

Posted on 16 dicembre 2020 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Comunemente si sentono storie struggenti di valori privati, monetizzati però dal pubblico, di ciò, la realtà che appare è nella sostanza ben diversa da come si vuol fare apparire; peccato, veramente peccato che queste “Attenzioni”, in specifiche aree geografiche, sono esclusive per soli animali, non preservando alcuna forma di rispetto o scrupolo in tal senso, nei confronti di quanti vivono un disagio “endemico” nonostante di genere indispensabile per recuperare valori dell’identità locale, in forma di convivenza e buon senso.

Ciò nonostante, invece di tacere, si apre la scena con protagonisti animali a quattro zampe, per millantare forme di emergenze, non si sa se indotte, tra le mura domestiche o reali accadimenti di trama sociale.

Tuttavia, accade che a essere esclusi dalle dinamiche locali, siano gli uomini, gli stessi denigrati e valutati senza rispetto alcuno, pur se culturalmente preparati oltre ogni misura e garbo.

Questi brevi accenni, tanto per non perdere la rotta o il filo del discorso, chiedono almeno un ragionevole approfondimento verso la parità dei diritti animali e del genere umano, in tutto, “uguaglianza”; specie se le misure poste in essere hanno radice privata, poi saldate dalla cassa pubblica.

Scrivere è facile, poi si dovrebbe anche comprendere il peso delle parole, sparse nell’etere, alla fine sono proprio queste che vanno a impattare nel cuore e nell’animo di chi porta la croce, dove ancora oggi, nonostante l’esilio degli ebrei sia terminato, si continua a emulare imperterriti quelle orme discriminanti, vissute lì sotto loro sguardo a nord.

Certamente queste si potrebbero ritenere storie di luoghi lontani, o mai accadute, per quanti credono che solo i loro atteggiamenti siano utili per il bene dei generi, rispettosi della formula, “armiamoci e partite” oppure, “ti invito io e paghi tu”.

Metrica antica, o formula opportunistica, tanto per aprire la scena, senza arte o ampia visione del luogo; questo anche sulla scorta dei limitati strumenti culturali a disposizione dei commediografi, che per scelta di vita e non imposta volontà, termina la sua figura lì dove finisce l’ombra.

L’auspicio, di questo breve, mira al confronto culturale senza discriminazione di generi viventi, come solito dire a quattro occhi, avendo ben chiaro che alcuni attori, sin da piccoli usano: per orientarsi l’occhio della mente, per poi focalizzano ogni cosa con quello che appare.

Queste ultime in specie sono le doti che in modo inconfutabile consentono di cogliere il senso completo di questa amara stupida e ridicola vicenda; guarda caso, si coglie sin anche la misura di quanto siano distanti i fondamenti della cultura che conta e valorizza una ben identificata comunità e le gesta inutili che sortiscono preferiscono occuparsi di realizzare “lettiere per  randagi che non le usano nemmeno”.

Il titolo di coda, rileva la deriva che vive chi vorrebbero apparire, lievitando in non si sa in quale icona di un ipotetico trittico terreno, senza avere consapevolezza  di essere, corvo che vuole cavalcare l’aquila.

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L’ARBËRESHË È UN ARBANON CHE SAPEVA NUOTARE

L’ARBËRESHË È UN ARBANON CHE SAPEVA NUOTARE

Posted on 27 novembre 2020 by admin

PaestumTaucher

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La testimonianza di pittura greca è l’emblema di ogni luogo, ogni dove e ogni uomo che vive questa vita; specie per chi studia, non confronta e divulga favole Arbëreshë dal XIII secolo, giacché, la raffigurazione è la  sintesi perfetta da cui si sarebbe dovuto partire.

Il tuffatore, la sfida che l’uomo per sua scelta si appresta ad affrontare da solo senza supporto alcuno, accompagnato dalla sua originaria veste, senza la certezza di cosa troverà dietro quello specchio d’acqua sfiorato dalla luce e privo di increspature che creano ombra.

Si tuffa nudo, senza vesti, costumi o emblemi allegorici, forte solo del suo animo, la sua sapienza ed il suo corpo; con le sole nudità si appresta ad affrontare un nuovo mondo, sicuro di poter presto riemergere e confrontare vecchie con la nuova sensazione.

Così è stato per gli arbëreshë nel XIII e così lo è per tutte quelle persone che non restano fermi ad aspettare che siano gli eventi ad avvolgerli e preferiscono affrontarle lealmente con le proprie forze.

Si dice che chi si tuffa nei mari, per emigrare porti con sé costumi e beni, purtroppo questa vecchia rappresentazione funeraria greca, “radice saggia”, da torto a tutti i comuni pensatori, perché il tuffo verso una nuova era si fa solo con l’anima, la sapienza e il corpo, il resto a venire sarà una dimensione, in cui si confortano le virtù del tuffatore (l’Uomo) con la nuova dimensione ospitante (la Natura).

Il tuffatore si espone convinto del suo gesto, si adopera nell’impresa, sicuro delle sue capacità, uno slancio, una postura per incunearsi senza stravolgere la superficie della nuova era, non ha dubbi mette in gioco se stesso e non teme risvolti malevoli.

Egli va alla ricerca di nuove misure naturali che possano accogliere il suo essere, non per le cose materiali che non porta con se, ma per l’immateriale che non conosce e gli consentirà di migliorare e aggiungere cose nuove, al bene del cuore, della mente e del suo corpo, in tutto del suo genere.

Questa è una parabola perfetta per gli arbëreshë e per quanti comunemente raccontano e diffondono le conseguenze di quel tuffo, augurandoci che almeno sappiano interpretare ciò che vedono e solo quello che è.

Questa immagine oggi diffusamente si può applicare alle mille vicende che si vivono lungo le coste del Mediterraneo, ma questa è una piaga più ampia per questo, la raffigurazione deve essere un monito per tutti.

Per concludere è bene che all’interno della regione storica sia ben chiaro l’evidente stato dell’atleta,   in procinto di iniziare l’esodo; e mentre si libera nell’aria mostra tutto quello che è, non è vestito e non trascina  “bauli con le vesti della sua futura sposa” ne librerie, colme di “alfabetari”  per le discendenze.

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LA SAPIENZA ASCOLTA, MISURA E RICORDA; LE MAGARE DANZANO E SCRIVONO SULLA CENERE

LA SAPIENZA ASCOLTA, MISURA E RICORDA; LE MAGARE DANZANO E SCRIVONO SULLA CENERE

Posted on 16 novembre 2020 by admin

CasaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – L’Arbëreshë nasce agricoltore del suo sapere, moto perpetuo di sentimenti e consuetudini antiche, alimentato dalla natura attraverso il territorio circostante; riverbero ritmico di quanto posto a dimora in inverno e cultura in estate.

Esso provvede alle sue necessità vitali, per se e il gruppo a cui è parte, all’interno del suo giardino, dove innalza l’abitazione è dispone l’orto.

Il giardino è il labirinto per difendersi dai simili e difendere fisicamente la famiglia;

l’abitazione e il luogo dove vive, prolifera, difende le cose materiali, misura indispensabile nel confronto con gli eventi naturali;

l’orto è la farmacia, per cautelarsi i dai venti e da esseri  non  visibili,  per questo più pericolosi per la sua salute.

Il modello sheshi così composto, diventa il centro proto-industriale, dove si mira a rispondere agli accadimenti per la sostenibilità del modello di vita arbëreshë, basato per questo su fondamenta consuetudinarie mediterranee.

Il “luogo dei mestieri”, predisposti in accordo con l’ambiente naturale, essi diventano il teatro delle tradizioni, in cui la natura promuove il trittico alimentare e l’uomo organizza secondo i ritmi sostenibili dell’ambiente  che ne pesa e ne modifica la consistenza dell’ambiente nello scorrere del tempo.

Tra gli abitanti del bacino mediterraneo le terre dell’Italia meridionale ricadenti nel quadrilatero equipollente che si estende dalla Grecia più orientale. sino al Portogallo più occidentale tra i paralleli 37° al 43°, gli stessi che secondo il Grinvic della geografia che lo voleva anticamente a Napoli, vedono gli arbëreshë protagonisti dell’antichissima tradizione tramandata secondo i canoni esclusivamente idiomatici di convivere con la natura senza mai immaginare di sopraffarla.

Essi senza mai abbandonare le diplomatiche orali ereditate nell’antichità, seguono con i ritmi delle due stagioni l’antico protocollo di tutela, arte popolare come elemento non di arrochire se stessi, ma tutelare lo sheshi e l’ambiente circostante.

Per questo la misura è presa dalle flessibilità dell’ambiente naturale, utilizzando, realtà estrattive, poi additive, comunque senza incutere o predisporre ferite che la natura nel breve di una stagione non è in grado di risanare.

L’abitare in luogo coinvolge l’essenza dell’essere umano, questo occupa e vive l’ambiente intorno a sé, percependo a misurare lo spazio attraverso la percezione dei cinque sensi.

La vita umana per questo si svolge senza soluzione di continuità, nello spazio luogo, che il corpo umano con le sue interazioni riconosce e sanifica continuamente le sfumature a lui malevole.

L’essere umano misura la spazialità del luogo, lo caratterizza per quanto a lui necessario, inserendosi nelle trame, non per conquistarlo per distruggerlo o sottometterlo come fanno le malattie, per questo ne diviene parte e in comune convivenza, creano l’equilibrio antico, per la quale è stata accostata.

Si potrebbe a questo punto iniziare a trattare le origini e gli emblemi dei generi Arbëreshë in senso di luogo storia e arte in campo artistico, architettonico e urbanistico, ciò nonostante si vuole iniziare con la vestizione, visto che è diventata una emergenza.

L giorno d’oggi essendo diventata la vestizione  il biglietto da visita dell’intero indotto della regione storica, e l’uso comune che si adotta, richiede almeno di leggere almeno il sunto del manuale d’uso e manutenzione, non diversamente da come si fa quando si adottano prodotti  sconosciuti.

Oggi è opportuno, dopo circa tre secoli di uso, rilevare che quanti si esibiscono con l’emblema di solidità, unione e prole familiare, immaginando si scalare l’olimpo della visibilità diffusa, commette un grave errore, specie nei confronti di quanti conoscono e sanno leggere per questo prendono una grande pena per i messaggi comunemente inviati.

Evitate di esporvi, se ignorate il senso delle posture o dell’ alzare il padre, sconfinare gratuitamente nella fonte della prole o addirittura sopprimere il senso di reggenza della casa; quelle vesti, fuori dalle abitazioni entro cui venivano indossate, vanno garbatamente indossate, perché se solo immaginate il segnale che inviano utilizzando le mani o fermarle in maniera errata, vi vergognereste non solo di voi ma del genere che rappresentate.

Sul costume è bene porre l’accento, sul dato che si articola secondo i seguenti elementi e secondo la prima ricerca storica di antica matrice, rappresentano: la famiglia, il futuro di questa ……………………Continua.

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ABITAZIONI PRIVATE DELLA REGIONE STORICA MEDITERRANEA (Si Zùëmë e bëmh shëpij)

ABITAZIONI PRIVATE DELLA REGIONE STORICA MEDITERRANEA (Si Zùëmë e bëmh shëpij)

Posted on 06 novembre 2020 by admin

1008s

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’abitazione rappresenta l’artificio o involucro che l’uomo realizza per dare seguito alla permanenza in territori ritenuti a lui idonei, dove ritiene sia opportuno vivere.

In genere le terre dei luoghi di allocamento sono espressione del connubio tra natura e uomo, un legame generalmente vivo e pulsante che non ha soluzione di continuità, in cui entrambi danno e prendono secondo le necessità, mirate o indotte.

L’abitazione o involucro vernacolare, dopo la sua attuazione, protegge l’uomo da eventi climatici e di specie, non sempre in linea con le esigenze del genere umano.

Per questo, tutto quanto disposto e proposto dall’uomo in senso abitativo, inizia a caratterizzare l’ambiente naturale e, quando i ruoli s’invertono e la natura appare come se amplificasse le sue necessita, del suo andare delle più estreme manifestazioni.

L’abitazione nel corso dei secoli, assunto la funzione di memoria evolutiva, sia del luogo che dell’uomo, segnando il grado di geniali compromessi, tra natura che dispone e l’uomo che trasforma, sempre meno, in forma sostenibile.

I trattati su tali eventi sono trascritti dallo scorrere del tempo, si modificano continuamente, sia si tratti di vita nelle selve, sia in zone lacustri, di montagna, collinari o desertiche.

Tutti i modelli di microclima realizzati dall’uomo, comunque e dovunque perseguono il principio di creare un microclima rifinito, rispetto all’ambiente naturale che lo contiene; disponendo per questo forme atte a preservare la specie uomo, dalle insidie naturali, animali o di simili avversi.

Sin dalle costruzioni primitive la fattura strutturale e quella distributiva, rispondeva, in misura minima, alle esigenze locali, sia si trattasse di terreni coperti in strato d’acqua, sia collinari temperati o montuosi, creando una barriera sempre crescente verso ogni forma di accanimento esterno.

La caratteristica costruttiva quindi nasce nel palcoscenico, in cui i protagonisti, ambiente e uomo si misurano continuamente: tra natura, che propone e l’intelligenza dell’uomo, che trasforma.

Le case delle aree pianeggianti furono realizzate su impalcati di legno, perché questo comunemente era coperto dall’acqua, consentiva di liberarsi, alla meglio, dalle emanazioni febbrigene del suolo, Venezia stessa, fu costruita secondo tale direttiva anche se in epoca relativamente antica.

Così avvenne quando gli ambiti sono in altitudini e longitudini dissimili, pur garantendo una buona vivibilità, serviva tenere in serbo apparati idonei a garantire la vivibilità per l’uomo, non sempre in linea per la genesi naturale del luogo.

Nelle aree collinari, s’inizio con le forme estrattive, Matera e un solido esempio, seguita da quella additiva, con abitazioni innalzate di materiali locali; dal ghiaccio polare, ai rami, pietre, argilla delle zone collinari e montane mediterranee, ai pozzi delle aree desertiche.

Da semplici ricoveri amovibili nei primordi della civilizzazione, l’uomo, passa per transizioni a ricoveri più articolati e in linea con la vita in continua evoluzione.

Non è necessario risalire ai primi albori della civiltà umana per trovare l’uomo in abitazioni di fattura elementare, tutte accomunate da fonti d’acqua, elemento primario ed indispensabile da cui partire per caratterizzare il luogo e ambiente vissuto.

Le abitazioni, siano esse realizzate, in spianate lacustri, in valli, in fianchi di colline e o vette montuose, possedevano corsi o fonti, le stesse che oggi ritroviamo in tutte gli agglomerati piccoli, medi e grandi che hanno fatto la storia degli uomini.

Popolazioni più evolute come quelle mediterranee aggiunsero, altre alla porta d’ingresso dell’abitazione, anche la finestra, nel cui vuoto ricavato, modellavano pelli di vescica, per illuminare l’interno, senza disperdere calore o dare accesso a insidie in forma d’insetti.

Il progredire lento e continuo del Genius loci abitativo, inizia con l’addomesticare luoghi d’insediamento, e di pari passo fornire maggiore solidità alle strutture innalzate dell’uomo, per vivere ambiti identificabili come propri o laboratori per misurare la flessibilità della natura.

Tutto ciò, sulla scorta di un elenco di consuetudini di memoria, di tempo e di uomini, che consegue il raffinare sin anche il gusto artistico dell’opera muraria.

L’esperienza attraverso le dinamiche climatiche vissute dei popoli mediterranei, consentono il conseguimento di traguardi che divengono primato di alcuni uomini rispetto ad altri; abitazioni attraverso cui si possono identificare popoli, le  consuetudini che seguirono e le priorità sociali poste in essere.

I Greci non seguivano l’emblema dell’abitazione, in senso di casa, perché la famiglia si riconosceva nel tempio, quasi completamente pubblica, agitata da grande volubilità negli avvenimenti politici, orfani del sentimento più delicato del posto per la donna nella loro esistenza, per questo decorando con fina architettura le loro case, lasciando in secondo piano l’agiatezza interna.

I Romani, riconoscendosi negli ordinamenti civili, più stabili della loro politica di grandi dominatori, erano più legati dei Greci alla donna, alla famiglia, di conseguenza maggior culto per la casa.

Anche nelle sezioni naturali abitative delle rovine di Pompei si rileva, la grandiosità delle abitazioni e il lusso con cui se ne decoravano l’interno.

Pareti finemente affrescate e pavimenti arricchiti con mosaici; camere, colonnati ricoperte d’oro, di madreperla e adornate di pietre preziose.

Tutto finalizzato all’agiatezza e affienare costumi, manifestazioni di una ricchezza e potenza, sconfinata di un popolo conquistatore.

È presso i Romani, quando la capitale era Costantinopoli, che l’abitazione prese grande e splendido sviluppo, non solo per le classi sociali ai vertici del sistema imperiale, sin anche negli ambiti più reconditi, vennero avviate politiche abitative dove l’emblema familiare iniziò diffusamente ad apparire e prendere luogo specie nei confini dello sterminato impero, in forma allargata.

È grazie a greci e romani che prendono spunto i centri antichi detti minori specie quelli che abbracciano l’antico regno di Napoli da sud a nord, predisponendo centri abitati nei pressi agresti, così  come la capitale dell’impero si misurava con le sue colonie e in specie quelle più recondite.

 A tal modello urbanistico, fece seguito un intervallo di media curanza, specie nelle case del  popolo, che dopo aver definito volumetrie e funzioni interne utili all’uomo, venne trasformato, fu utilizzata come parte urbanistico difensivo, in sistema di sheshi (il labirinto), le cui abitazioni costruite in aderenza, servite da strette vie, con poca aria e luce variabile; divennero il contorno difensivo dei Castrum feudali.

L’era segna anche l’abitazione quale possedimento per la discendenza, anche per le classi meno abbienti e con l’accalcarsi dei moduli abitativi in aderenza si aggiunsero emergenze igieniche non trascurabili per le quali, la natura chiederà ripetutamente conto in varie epoche, oltre agli interessi maturati dai derivati dall’ambiente naturale violato, in diverse forme.

Resta comunque il dato secondo cui l’abitazione per la stabilità della vita politica ed economica, ebbe un ruolo fondamentale perché i modelli assunsero non solo il ruolo di rifugio per la notte, ma anche utile di giorno per la trasformazione e il confezionamento dei frutti dalla terra.

La classe operaia agreste a quei tempi, fondava la base della catena economica del mediterraneo, la casa la notte rifugio per rigenerarsi e di giorno coltivare l’essenza sociale nei periodi non lavorativi e come la terra anch’essi riposavano.

L’abitazione è anche stalla per i fedeli animali da soma e del latte mattutino è il luogo per conservare e affinare gli indispensabili attrezzi, per un più cospicuo ritorno economico.

La casa nelle ore di relativa libertà, continuava a essere anche il luogo per difendersi, delle colonie, ovvero, i territori agreste, mediamente distanti, posti generalmente a valle, quindi più esposti ai pericoli derivanti dal famigerato anofele.

Presso le nazioni che vivono affacciate sul bacino del mediterraneo, con il crescere accentramento, non migliorarono le dinamiche abitative, sia dal punto di vista strutturale che igienico, in quanto i moduli si espansero in altezza, questo nuovo modo di costruire, espose a nuovi rischi l’abitazione che in questo modo ingloba anche le ire di eventi tellurici, oltre al perenne insinuarsi, nei fessurati conseguenti rimasti scuciti, l’aria intrisa di vaiolo e  peste che diedro non poche pene al genere umano.

Sotto l’aspetto puramente abitativo nell’area che si estende dalla Turchia sino alle zone più recondite, del Portogallo, il modulo abitativo attinge comunemente dall’architettura romana, mentre da quella greca prende i caratteri distributivi urbanistici con gli sheshi che diventano l’emblema difensivo privo di barriere sia in forma di murazioni e sia di fossati.

Il modello, specie, nei centri identificati come castrum, casali, mote, terre, frazioni e comunque sistemi abitativi riferibili ai centri di residenza dei principi o locali, continua il suo lento evolversi sino al 1783.

Questa diventa una data fondamentale, in quanto, il conseguente terremoto fa crescere l’interesse delle classi dirigenziali non per mera la salute delle classi meno abbienti, ma per il declino economico a cui si va incontro se non si adoperano nuove strategie per la solidità delle abitazioni, il cui sistema aggregativo da forza al luogo dei cinque sensi, l’unica formula che da linfa nuova all’economia da quel tempo in avanti.

Nell’Italia meridionale per quanto attiene la salubrità dell’abitare si deve attendere il regolamento 6 settembre 1876, n. 2120 che sino ad allora, pur essendo stati vissuti molti patimenti in senso igienico, solo dopo l’alternarsi di pestilenze sività ed eventi tellurici, si pose attenzione allo stato della salubrità pubblica all’interno dei centri antichi, con la legge di sanità pubblica del 20 marzo 1868, nel di cui Capitolo primo, si stabiliscono i parametri di salubrità, delle abitazioni e dei  luoghi  abitati a cui non si può sottrarre, stabilendo che:

” Art. 44 La tutela della pubblica salute, per quanto concerne le abitazioni e i siti destinati soltanto ad uso dei privati, è affidata ai sindaci; i quali vi provvedono curando l’esatta osservanza dei regolamenti comunali di igiene pubblica, ed osservando da parte loro quelle prescrizioni, il cui adempimento è posto a carico dell’Amministrazione comunale.

” Art. 45 L’autorità dei sindaci in materia sanitaria si estende anche agli ospedali, luoghi di detenzione, istituti pubblici e stabilimenti sanitari, tutte le volte si tratti di un fomite qualunque di insalubrità, capace di estendere la sua azione anche al di fuori con danno al vicinato.

” Art. 46 I regolamenti d’igiene pubblica per ciò che concerne la salubrità delle  abitazioni  prescriveranno principalmente l’osservanza delle seguenti disposizioni:

” a) le case siano edificate in guisa misura e che non sia difetto di aria e di luce;

” b) siano provviste di latrine, le quali devono essere costruite in modo da non lasciar adito ad esalazioni danno::;e ad infiltramenti;

” c ) gli acquai e gli scaricatoi delle acque immonde e residue degli usi domestici siano costruiti in maniera da non pregiudicare e guastare i pozzi:

” d) le case, o parte di esse costrutte o restaurate, non possano essere abitate prima che siano dichiarate abitabili dalla Giunta comunale, sentito il parere, della Commissione municipale di sanità.

” Art. 47 I suddetti regolamenti potranno inoltre prescrivere, dove esistete un considerevole agglomeramento di abitazioni, possa essere proibito di tener stalle permanenti ad uso di interi armenti o pecore di capre o di altre specie di animali.

L’ultima legge sul risanamento e quella dei prestiti a miti interessi o di favore, con cui il Governo, facilitava molto le operazioni finanziarie dei Comuni, per spese tendenti a migliorare il proprio abitato, nonché l’istituzione di Commissioni di ingegneri e sanitari, addetti alla Direzione superiore del Regio o di quelle istituite nelle singole Prefetture delle provincie, per il fine di agevolare lo studio delle opere di risanamento a farsi dai Comuni stessi.

Esse varranno molto per ottenere una razionale riforma in questo settore, così essenziale del benessere della specie umana. 

Dalla nascita delle abitazioni, l’uomo si è evoluto, sino a raggiungere livelli apparenti di una vita migliore, non alla pari della sostenibilità dell’ambiente costruito e altera a dismisura l’equilibrio sostanziale tra natura e uomo, mutando lo stato delle cose, dove a soccombere in apparenza è la natura, ma chi coglie i frutti più malevoli è l’uomo.

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LA NOSTRA AQUILA (petriti Jonë)

LA NOSTRA AQUILA (petriti Jonë)

Posted on 06 novembre 2020 by admin

eagle with two headsNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nonostante siano stati educatamente informati, constatato  palesemente il grado d’immaturità, sin anche nel comprendere quale fosse il senso del verbo : “rilancio”.

Gli fu offerta una chiave di lettura per avere chiara ogni loro decisione, a fini di tutela e conservazione; rilevando, che la memoria storica, da decenni è posta nelle disponibilità di comuni apprendisti/e, che notoriamente, non avendo vissuto o formatisi a Napoli, come fecero le eccellenze della storia di Terra, non hanno maturità sufficiente e predispongono esperimenti malevoli che adombrano, con veli malevoli, ogni opportunità di rilancio.

Nulla è stato incamerato in memoria, da quella breve conversazione, dove vissero i famosi Olivetari, quelle poche, semplici e fondamentali parole, durarono nella memoria, solo per poco meno di 356 K/m, e giunti, dove il patrimonio è casa, i principi divennero foglie al vento.

Vero è che allo stato dei fatti, continuarono imperterriti a preferire figure di genere confuso, esiliando nel contempo, ai margini del dibattito sociale culturale, tangibile ed intangibile, la parte sana con titoli, meriti e memoria di garbo locale.

Dopo tante belle parole e garbati intendimenti futuri fu preferita “la continuità culturale malevola”; la stessa che immagina, dispone e progetta, bandiere per terra, compromessi senza senso, apparizioni, progetti, restauri, toponimi e ogni sorta di espressione allegorico-giullaresca, presentata come memoria genuina.

Se a questo si aggiunge il dato che socialmente non si raggiungono neanche i minimali requisiti di rispetto dei cinque sensi, è palese che non vi sia più nulla da aggiungere al pozzo nero della rinascita, colma in vero di pregiudizi.

Non abbiamo bisogno dei figli dei mandatari dell’eccidio del 1806, per conoscere,sapere, valutare, come e cosa ricordare della nostra storia locale “unica e irripetibile”.

A tal proposito è bene precisare che esistono e sono numerose le eccellenze locali; se per qualche banale motivo non avete capacità per distinguerle, perché privi di nobili principi, chiedete e sarete illuminati da quanti sanno parlare capire e proporre “rilancio”.

Il modello di famiglia più duratura e solida del vecchio continente, prevedeva nel suo disciplinare, di affidare per dirigere e coordinare la continuità storica e sociale del gruppo familiare, alla persona più “caparbia e lucida”, per la crescita perpetua del gruppo.

La persona più “caparbia e lucida”, predisponeva strategie e assegnava ruoli specifici ai generi, in funzione delle capacità che essi palesavano sin da giovani, senza alcuna prevaricazione, perché la meta da perseguire non mirava alla gloria del singolo, ma alla continuità identitaria, economica, sociale e storica della specie.

Questo semplice ed elementare principio, ha reso possibile il riverberarsi delle famiglie, dalla notte dei tempi sino a oggi; è lecito, quindi, chiedersi: perche del 2019 in avanti, ad assegnare i ruoli siano i meno “capaci”, che della “lucidità” mentale ne fanno un uso improprio immaginando che sia luce a uso e consumo della propria figura che pur se illuminata mostra solo ed esclusivamente la sua ombra.

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CONTRO LA PROPRIA RADICE

CONTRO LA PROPRIA RADICE

Posted on 29 ottobre 2020 by admin

CONTRO LA PROPRIA RADICENAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando l’eroe dei Balcani, riteneva importante appostarsi nelle strette vie che conducevano al campo di battaglia, per disorientare il nemico, incuneandosi nei loro fianchi secondo il principio che: “la migliore difesa è attaccare”, non immaginava che dopo qualche secolo i suoi diretti sottoposti, ne avrebbero fatto un uso improprio contro loro stessi.

Nulla di più coerente e solidamente comprovato si può cogliere vivo nelle consuetudini che caratterizzavano la regione storica, oltre che le terre lasciate al libero arbitrio del “cane d’oriente”.

Un principio che dalla morte dell’eroe, quando era finalmente Giorgio, ha invaso le terre che sarebbero dovute essere del suo popolo, mai unitosi in forma di regno o altra forma, se non diffusamente sparsi e disconnessi,  innescando così la deriva, figlia del senso più malevolo di quel  nobile atto di “tutela”.

L’affermato “la migliore difesa è attaccare” potrebbe apparire provocatoria, ma se analizziamo il senso, esso riassume tutto ciò che avviene o è avvenuto tra le genti che avrebbero dovuto “difendere” la regione storica e gli ambiti di provenienza della radice, dove l’atto di produrre attività “distrugge” ogni cosa.

Così è avvenuto; infatti, la minoranza meridionale, dopo essersi insediata, nelle terre ritrovate e i detti fratelli rimasti a casa, appropriandosi di ciò che restava, tutti assieme non hanno reso nulla per tutelare, difendere o lasciare intatto, quanto pervenuto dalle generazioni precedenti, se non attaccare per spogliare di ogni senso, grado e modo il protocollo ereditato.

Che questa non sia una provocazione, ma uno stato di fatto, si può riassume nell’immaginare, un candido lenzuolo bianco steso al sole imbibito di lacrime di lacrime di dolore.

Tutto quello che si può dire, guardando il candido velo: in ogni ora, latitudine e prospettiva, non cambia perché rimane sempre un lenzuolo bianco, “la resa”, steso sulla regione storica, in attesa si asciughino, le innumerevoli lacrime amare, consapevoli che nulla cambierà, perchè non e alto che un vessillo; “la resa” dopo “l’attacco”.

Ormai è semplice costatare che nel passaggio da padre in figlio, madre in figlia, discendenza laica, clericale e di ogni raggruppamento immaginato per “difendere” secondo principi immateriali, l’atto materiale conseguente ha poi terminato per “attaccare” e ferire mortalmente.

Se oggi noi volessimo analizzare una qualsiasi elemento dei pilastri della regione storica, ovvero: Idioma, Metrica, Consuetudine, costume e Religione, non c’è nulla che sia rimasto indelebile, non per l’evoluzione che ogni cosa del genere umano, ovviamente deve seguire, ma la strada intrapresa dai comunemente tutori, dell’irripetibile protocollo, che contemplava ogni tipo di attacco, proveniente da ogni dove, non considerando, gli  innaturali dall’interno.

I  fondamenti hanno subito ogni tipo di angheria e se solo immaginiamo le pene cui è stata sotto posta “la parlata madre”; questa che per sua nota natura, non avrebbe mai contratto matrimonio o firmato in forma scritta, con generi che non vivessero di promessa data, secondo la sua radice; ciò nonostante è stata “strasciniata” contro il suo volere, con tanto di testimoni dentro plessi, istituti, istituzioni, chiese e ogni presidi atto a maritare.

Una serie di attacchi senza precedenti, da parte di ogni genere di avventore, questi, credendo che il modello fosse in fondo al pari di una povera dona, sola e abbandonata, verso la quale si poteva incutere ogni genere di vessazione, compreso appellarla comunemente come persona, quando in realtà, è stata e sarà sempre, solo ed esclusivamente una divinità di altri tempi.

Questo è solo un accenno di cosa le sia capitato, in tempi che si presupponeva fossero più illuminati e se poi volessimo, addentraci negli ambiti di valori tangibili e intangibili, che la rendono unica e speciale, dovrebbero fare, mea culpa, di come generi, istituzione ed eventi la trattano.

Si dice che la natura degli uomini non conosce tempo e confini, questi gli uomini, appena nascono, iniziano la propri battaglia di sopravvivenza, ed è anche giusto, ma puntare subito e dare pene al seno che hanno ancora in bocca, si ritiene sia malvagio;  azione senza senso, ma forsse giusta per chi inizia a crescere sotto falsi principi, mode e vesti, che imperterriti, vanno in  tondo millantando di cercare il latte di seno perduto.

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LA MISURA DELLA LUCE ALL’INTERNO DELLA CHIESA QUANDO DIVENTA GRECO BIZANTINA

LA MISURA DELLA LUCE ALL’INTERNO DELLA CHIESA QUANDO DIVENTA GRECO BIZANTINA

Posted on 28 ottobre 2020 by admin

il cercatore arberesheNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando l’opera compiuta dai caparbi dispensatori di fede, susseguitisi sino alla fine del secolo scorso, fu posta nelle disponibilità dei “Comunemente”, ogni cosa diviene teatro e terminò il senso del culto.

Un manufatto che sin dalla posa della sua prima pietra, alla fine del seicento, è stato illuminato secondo principi atti a indicare persino strutturalmente la via verso la fonte del Fiume Nilo, perché luogo della nascita di credenza storica.

Se da qualche decennio questa direttiva ha smarrito il senso, come fatto dal “Karloberg” e il suo seguito, di saltimbanchi miscredenti, urge, adoperarsi per eliminare gli impropri abbagli di devianza.

Rientrare sulla retta via oggi, e rendere viva la funzione del manufatto in senso di chiesa deve  promuovere attività manutentive, non prima di apporre l’ultima pietra: le schermature in alabastro e ricollocare, l’originario supporto luminoso tipo, in essenza di ulivo.

A tal fine, per rendere ogni aspetto, limpido e cristallino, è  il caso di spiegare, quale sia stata la volontà di una tradizione Ortodossa, che analizzata secondo metodiche di confronto, non sono proprio in linea con i fondamenti seguiti dalle popolazioni della Regione Storica, i di cui sacri perimetri religiosi, li preferisce illuminati senza eccessi e volumetrie circolari predominanti.

L’inopportuna innovazione, incuneatasi circa un decennio or sono ha fatto si che i corpi illuminanti e i relativi supporti in essenza di ulivo locale, ha ritenuto idoneo dimetterli .

Anche se vero, secondo il dire di incauti apprezzatori locali, che “peccassero” di solidità strutturale, sarebbe bastato “confessarli” sotto la guida di pazienti restauratori, per restituire il candore originario senza intaccare, estetica, luce e le prospettive che illuminavano con rispetto.

Gli apparati di luce bizantina erano opera dell’artigiano Gi. Di Benedetto, maestro di manualità antica,eccellenza in tutta la macro area, detta della Presila Arbëreshë.

La manualità del maestro fu anche modello di ispirazione per l’Archimandrita e il sapiente esecutore pittorico, della scuola cretese, che in paese seguiva i lavori per il trattamento delle superfici da affrescare e quanto della verticalità muraria da ricoprire con marmi perché troppo esposte a florescenze di risalita, perché a contatto del perimetro fondale.

La premessa fa da supporto a un dato storico inconfutabile, secondo cui l’illuminazione per una chiesa, specie se affrescata in tutto lo sviluppo delle superfici interne, deve rispettare parametri di luminosità solare e artificiale ben calibrati.

L’intensità solare deve essere filtrata con lastre in alabastro, mentre il sistema indotto con apparati illuminanti calibrati, i due sistemi, non devono violare la luce di credenza, unica fonte da cui alimentare la fiammella spirituale, guida fondamentale per il giusto orientamento.

Se questo è il principio sintetico secondo cui un sacro perimetro deve essere illuminato, non si comprende quali siano stati i presupposti religiosi per non seguirli, credendo che il luogo sia considerato al pari, di un teatro, una sala per riunioni laiche, o salotto di case nobiliari.

Questi ultimi sicuramente ambiti con esigenze diverse e per i quali l’eccedere in forme luminose trova una sua logica, diversamente da come deve essere nei luoghi di culto dove a porre in evidenza è la luce interiore che notoriamente brilla dentro di noi.

Alla “luce” di ciò va affermato che il messaggio pittorico ha bisogno solo di essere accompagnato, non servono distrazione pirotecniche, per raccogliere il senso della credenza, anche perché, così facendo si minimizza il senso del  luogo e si rende al pari di un salone in una comune abitazione con le opere di famiglia apposte alle pareti.

Luce eccessiva all’interno del sacro volume, sminuisce l’unicum divino, deteriorando i valori senza tempo, giunti sino a noi, grazie a piccole fiammelle in lume a olio.

Tuttavia, il prodotto finale del “volume Sacro”, deve mirare a creare prospettive atte ad agevolare l’apprendimento, la visione e il senso, delle icone di fede e credenza, senza esporre le opere pittoriche, con apparati generalmente malevoli alla vita stessa dell’opera, sin anche in senso materiale.

All’interno di una chiesa non deve essere compromesso, il messaggio rivolto ai devoti “la luce divina”  essa deve brillare per il suo significato di raffigurazione, le sacre immagini.

Il senso di “un’opera” da una “non opera” si distingue nel fatto che la prima contiene: soggetto, forme e contenuti, la seconda, si identifica solamente attraverso la formazione culturale di quanti ricevono mandato, per sostenerla, tutelarle e valorizzarla.

L’arte è, innanzi tutto, forma di comunicazione, secondo un punto di vista, essa diventa critica, quanti non sono in grado di leggerne i contenuti ritenendo più idoneo, cancellarli mira a sopprimere la memoria dell’artefice.

Il Croce parlava di “senso artistico” come “un’intuizione che si fa espressione”, in senso “non neutrale”, cioè che diventa posizione e il caparbio prete, assieme al suo fedele artista, avevano idee ben chiare.

La creazione, indubbiamente, una forma di linguaggio autonomo che interpreta il mondo, ponendosi lontano dall’idea di un’arte meramente decorativa, il genio esprime con la sua metrica un punto di vista, un insieme di significati che lui stesso rinviene nella realtà, comparandoli sapientemente ai canoni di credenza.

Anche quando l’arte è l’espressione religiosa di un determinato ambito, si parla di angolo privilegiato della ricerca estetica, questa, senza mediazioni logico-deduttive, si fa specchio del mondo o, comunque, di un universo, di un cosmo in cui l’artista è l’artefice di una visione originale che lo avvicina al lettore nel momento del osservazione senza penitenze.

Se così non fosse, non avrebbe luogo il fine dell’arte che è comunicare messaggi di credenze quel luogo e di tempo.

Accade purtroppo chi eredita l’opera per istituzione, il messaggio da diffondere, specie se comunemente tutelato, diventa una sorta di teatro dove si cerca di incunearsi, come falsi protagonisti, pur se privo di ogni genere di consapevolezza, in grado di rispetti la linea dell’artista primo, in altre parole: la via divina che appare discreta e senza abbagli.

L’atto del comune esperto o gruppi di appartenenza locali, risveglia, tensioni intellettuali, etiche e religiose, creando bagliori personali oltretutto pericolosi, perché allontanano il senso, dell’opera luogo, impedendo al seme del valore di fiorire.

Sostituire i corpi illuminanti di una chiesa senza consapevolezza storica alcuna finisce nell’abbagliare i luoghi di provenienza della nostra credenza religiosa.

È cosi diventa inutile e intitolare a Santi Alessandrini chiese, quando con luci accecanti e rotondità senza misura si impedisce di guardare verso i luoghi della sua provenienza, gli stessi dove ebbe inizio il predicato religioso.

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I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO DIVENTATI GRIGI, OGGI RESTA IL RICORDO DI QUEI COLORI.

I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO DIVENTATI GRIGI, OGGI RESTA IL RICORDO DI QUEI COLORI.

Posted on 25 ottobre 2020 by admin

I CINQUE SENSI ARBËRESHË SONO INGRIGITI,NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Ormai da diversi decenni gli Sheshi minoritari sono avvolti da ceneri di paglia, quest’ultima, notoriamente illumina nel corso della breve combustione e non aiuta la consuetudine di quanti vivono del calore dei cinque sensi arbëreshë.

Il fuoco è indispensabile per il passaggio generazionale, così viene compromesso e unire gli oltre cento Katundë, sotto bagliori di paglia turca, non fornisce la giusta energia al protocollo, di legna ardente sapientemente governata.

La continuità che univa e dava solidità alle consuetudini della minoranza, quanto non è stato più alimentato con essenze arboree tipiche dei territori paralleli ritrovati, (Kuzareth tronchi calibrati ed essiccati) gli unici in grado di assicurare il calore, anche durante l’esodo notturno, temperando l’ambito delle Kaljve, mentre si attendeva il sorgere del sole per dare continuare alla storica missione.

Ciò nonostante con il passare del tempo, si sono elevate generazioni, preferendo i lampi e i bagliori brevi dei fuochi di paglia turca, esponendo le nuove leve al grigiore delle ceneri volatili, filamenti di scarto del grano, supporto inutile dopo la maturazione che sosteneva al sole l’indispensabile frumento.

Gli sheshi da quel tempo iniziarono a perdere i colori tipici, oltre l’aspetto formale, per i brevi fuochi di paglia, gli stessi che in ogni manifestazione abbagliano e garantiscono episodi di calore che terminano prima che la luce muoia, tramandando per questo eredità in forma di ceneri, la fine del passaggio generazionale, perché  privo di forma orale e gestualità.

Il fuoco di paglia notoriamente non garantisce tempi lungi, davanti al camino, anzi una volta accesa costringe tutti ad allontanarsi per il forte calore e poi rimanere disorientati e infreddoliti ancor di più.

Il ricordo va alle nonne che con un tronco padre e tanti piccoli rami o parti di esso ricavati dal taglio con l’ascia (tòprà) alimentavano il “fuoco lento” ma efficace del camino, ritualità questa che avvicinava davanti ad esso e nel contempo garantiva il latte caldo al mattino, il pranzo di mezzodì e la cena della sera.

Un fuoco senza soluzione di continuità, sempre identico e solido come era anche, il passaggio da padre e figlio, e madre in figlia, pochi gesti ritmati con sapienza, senza mai perdere né la continuità della fiamma, né la quantità di calore.

La sera poi, si disponeva tutto in modo tale che al mattino avrebbe ancora continuato un frammento di carbonella, figlia della lenta combustione, quella sufficiente a garantire continuità al senso di fuoco e di casa sempre viva.

Il luogo del fuoco storico, all’interno delle case degli arbëreshë, rappresenta l’ambito delle consegne tra generazioni, l’unico in grado di riverberare favelle antiche e nello stesso tempo illuminare le case, le strade e i vichi (shëpij, huda e rruga), garantendo sin anche l’inviolabilità dello sheshi, anche di notte.

Quando oggi si torna nei luoghi delle consegne e troviamo altri apparati, realizzati dagli addetti locali, secondo i quali ogni tipo di calore e luce, in grado di genera presupposti di sostenibilità identici a quelle antiche, si comprende quanto sia devastante la deriva in atto.

Grazie ai ricordi, ancora vivi in numerosi e valorosi tutori, gli stessi che conoscono, sanno quale sia il senso di quel fuoco, solo essi, possono  rifugiarsi nel ricordo con mente lucida per ripristinare gestualità, cui quel luogo è stato addomesticato e attende di essere ripristinato, solo in questo modo potranno essere forniti gli strumenti idonei a dipingere  e risvegliare secondo antichi pigmenti gestualità che oggi sono indispensabili, per la continuità della minoranza.

Un abaco di colori caratteristico vivo all’interno di poche case, non violate, potrebbe innescare nuove scintille se le giuste figure depongono con “saggezza nel focolare madre, un tronco padre, per innescare gli arbusti figli” il resto, è  fiamma forte e duratura, quella capace di creare i presupposti antichi e trasmettere consuetudini in forma orale, alle nuove generazioni.

Sedere innanzi quella bocca di calore antico, si recuperano i sensi di un tempo non molto lontano, anche se le quinte dello sheshi sono state violate, il passaggio dei valori, secondo consuetudini rimane le stesse,  potrà dare vita agli scenari secondo la tavolozza di colori arbëreshë.

Anche se oggi, fuori dall’uscio di queste preziose case, la realtà dello sheshi  è invaso da strimpellatori c favelle che ormai seguono le mode di quanti, si sono distratti nell’ascoltare, le parole e il crepitio di quella fiamma lenta, preferendo cenere di paglia turca.

Oggi è bene avere consapevolezza che le parole ritmate dal fuoco lento dell’identità arbëreshë, sono le uniche da ascoltare, anche si preferiscono e sono più semplici da comprendere, il grigio facile, quello capace di uniformare le parlate locali, unificare le vesti delle spose, con posture inopportune e portamenti a dir poco inconsueti.

Come si può ritenere di essere eredi di un patrimonio orale mai ascoltato, se quando si divulga è cenere riversata con la metrica di quanti gli ambiti del fuoco arbëreshë non lo conoscono anzi, ignorano persino l’esistenza.

Come si può ritenete tutori o dispensatori di consuetudini, suonando chitarre, organetti e ogni tipo di strumento, immaginando che l’essere arbëreshë è solo una favole disconnesse dagli ambiti costruiti e quelli naturali.

Visto lo stato di fatto, si ritiene doveroso ripristinare l’antico fuoco, impegnando le risorse pubbliche, al fine di realizzare confronti attraverso piattaforme multimediali, tra chi conosce il fuoco arbëreshë  e quanti non sanno, oltre alla moltitudine che confonde cenere di paglia con quella del fuoco lente che faceva parte sin anche della catena alimentare.

Il fine vorrebbe rinvigorire l’originaria radice arbëreshë, coadiuvati, questa volta, da quanti hanno vissuto, visto e ascoltato saggezze, davanti al tepore di quelle antiche fiamme, per ricucire finalmente il senso delle persone, i loro abiti, le case e lo sheshi, ripristinando i cinque sensi Arbëreshë, senza adoperare più toni di grigio, ma gli ori e i colori tipici.

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