NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sono Olivetano e figlio di una terra antica, plasmata da madri contadine e padri sapienti, in una terra dove gli abbracci sono la culla naturale del sapere.
Non parlo per non tacere, ma per svelare le cose della storia e, il raccontare verità dimenticate pur se scolpite nella pietra che ancora echeggiano tra vigneti, uliveti e grano delle colline mediterranee.
Sedete, ascoltate, perché nella mia voce c’è la vostra origine, nel mio racconto, la vostra identità e, potrete conoscerla solo ascoltando il mio parlato, così avrete modo di essere immersi e affrontare con più garbo i vostri domani.
La storia di un luogo non appartiene mai a una sola persona, né a una sola epoca, ma è il frutto di tante genti e tanti trascorsi, fatti di umiltà e dedizione, costruendo cosi cose grandi e discrete per voi e anche di loro.
Ogni pietra riposta, ogni campo arato, ogni parola tramandata è parte di un disegno più ampio, fatto di mani operose, cuori pazienti e menti di luce.
Ci sono nomi che si ricordano e altri che il tempo ha avvolto nel silenzio, ma tutti hanno avuto un ruolo, tutti si sono adoperati, nel loro tempo e nel loro modo di essere, per fare.
C’è chi ha costruito, chi ha protetto, chi ha insegnato, chi ha semplicemente vissuto con dignità, e chi ha sottratto, contribuendo a mantenere viva l’anima del paese, sin anche in pena.
Nessuno è stato inutile, nessuno è stato davvero solo, perché ogni genere nasce dall’incontro, dalla fatica condivisa, dal desiderio comune di lasciare qualcosa di buono al dopo.
È questo che rende grande un luogo e, non sono solo i monumenti o i nomi incisi, ma la memoria collettiva fatta di gesti semplici e coraggiosi, ripetuti ogni giorno con amore e con il principio di fare.
Non ho interesse a ripetere scritti altrui, né a custodire o formule linguistiche che non portano e ne hanno peso alcuno.
Quello che cerco non è la bellezza dei segni, ma la sostanza delle parole che hanno avuto un compito preciso, ovvero quello del saper dare agio a costruire.
Non metaforicamente, ma nel senso più concreto e, costruire comunità, legami, identità e le parole che sono servite, senza clamore, nell’elevare case, riconoscersi tra simili, per vivere al suo interno e tramandare ciò che conta per essere ripetuto.
Nei centri antichi degli Arbëreşë, come in tanti luoghi dimenticati, la lingua non è mai stata un ornamento, ma una struttura, con funzione dell’architrave a forma di corona.
Non si parlava per dire o rumoreggiare dissenso, si parlava per mantenere e, ogni parola portava dentro una funzione come dire pane, nominare la terra, identificare i vivi e i morti è un modo di esistere e identificarsi. Perché chi taceva troppo a lungo, termina per sparire o non partecipare terminando di non sostenere le cose che servono per fare la storia di un Katundë.
Gli Arbëreşë non sono conquistatori, non sono oppressori, ma quanti che hanno sostenuto nel susseguirsi delle epoche, questi luoghi naturali, privi di imperi o imperativi, perché colmi di memoria e, avevano necessità di sostenere un luogo nel tempo.
Le loro parole non servivano a comandare, ma a resistere, non imponevano, ma reggevano, un linguaggio costruito su fondamenta più antiche della scrittura stessa, fatta di un alfabetario tessuto tra relazioni, consuetudini e ascolto silenzioso.
Molti di quei suoni sono stati trascritti male, o non sono stati trascritti affatto e, gli alfabeti dominanti non li hanno contenuti, o li hanno resi di genere ignoto o inadatto.
Così oggi difficoltà a leggere, capire e comprendere quelle tessiture che fanno i centri antichi che appaiono marginali, quasi trasparenti e nella prospettiva naturale apparire senza rispetto dell’ambiente.
Ma chi ha orecchio per ascoltare comprende che lì c’è stata una densità, che resiste ancora, perche le pietre accantonate stridulano ancora e, le famiglie conservano, le feste mostrano la tenuta di un’identità che non ha bisogno di legittimazioni ufficiali, specie da chi non ha neanche un orecchio per ascoltare.
L’Italia ufficiale si è costruita anche grazie a queste voci minori, ma non ormai tutti lo hanno dimenticato, e che dovrebbe, preferisce raccontarsi essere centrale, e indossare emblemi lineari multicolori per apparire sugli altri.
E invece è stata una tessitura, fatta da mani diverse, lingue diverse, funzioni diverse, in tutto popoli che hanno allestito le fondamenta non per monumenti, ma per strutture vive ed essenziali.
Essi non hanno scolpito nella pietra, ma inciso nei ritmi della quotidianità, non hanno dominato, ma sono durati, tutti insieme per fare catena umana e passare l’uno con l’altro, le pietre per innalzare Katundë.
Parlare oggi di queste comunità non è nostalgia, ma restituire densità e ruolo ad ogni frangente della storia, ma non per correggerla, ma per completarla e renderla solida e indivisibile.
Dare spazio a ciò che non si è imposto, eppure ha resistito, costruito e sostenuto il peso del tempo.
Ogni pietra, ogni muro scrostato racconta storie che conosco a memoria, come i volti degli anziani seduti all’ombra che, con un cenno del capo, mi riportano al tempo in cui tutto sembrava più semplice e per essere compreso.
E complicato oggi raccontare le voci che rimbalzano tra i vicoli, con ancora l’accento antico dei nonni, e l’aria profuma di pane appena sfornato, o rivivere le prospettive di quei giardini, tra i rami del fico e i fiori sparsi senza ordine, dove ritrovare la verità delle cose semplici, l’identità, l’appartenenza, l’amore per una terra che non smette mai di parlare, anche da lontano e senza mai smettere di pulsare come fanno le cose fatte con il cuore.
Essere un Olivetano non è semplice da spiegare, perché è diverso da chi vive senza radici né visione del futuro. Un Olivetano parte con uno scopo: custodire e trasmettere certezze e fede, non per diffondere parole vuote o verità distorte.
Gli Olivetani germogliano là dove non c’è credenza, dove le radici sono dimenticate e non esiste albero che dia ombra a chi vive di sudore e dolore. Portano senso dove manca direzione, e fede dove tutto sembra smarrito.
L’ulivo è una pianta che, una volta cresciuta, dona ombra per sempre. Non si lascia influenzare dalle stagioni: rimane solida, sempreverde, rispettosa dei ritmi del sole e della luna. I suoi frutti sono indispensabili, ma la sua forza più grande è l’ombra che offre, rendendo più lieve la fatica di chi lavora.
C’era un paese arrampicato tra le chine delle alture calabresi, dove le campane non suonavano mai da sole ed erano illuminate senza sosta dal sole e dalla luna.
E al loro fianco, si levava sempre un canto antico, intonato da gole che conoscevano l’arbëreşë puro e antico che riecheggiava assieme al greco della chiesa.
Lo chiamavano i figli di due alture: da una parte la pietra dura dei monasteri, bianca e paziente come un libro aperto; dall’altra il respiro nomade degli arbëreshë, popolo venuto dal mare e mai più tornato indietro ed entrambi, vivevano fianco a fianco, uno nel parlato della casa e, l’altro nel canto della chiesa.
Padre, olivetano, parlava poco ma scriveva credeva molto e diceva che la vera preghiera era “fare bene le cose semplici”: accendere un lume, zappare una vigna, ascoltare.
Dall’altra parte, la nonna che prima era stata madre e zia che raccontava storie al fuoco, tra proverbi arbëreşë e ricordi confusi di una terra mai vista e diceva che da piccola saliva sui tetti delle chiese per sperare di vederla.
Un giorno d’agosto, al centro della piazza, si sposarono i nipoti di entrambi, nessuno seppe decidere se usare l’incenso greco o l’acqua benedetta benedettina, così decisero di usarle entrambi.
Il sacerdote leggeva in latino e, il coro rispose in arbëreşë e, alla fine, quando il sole calava dietro le querce, e la gente diceva: “Questo non è un matrimonio, è una terra che ricorda chi è.”
E mentre il vino scorreva e i tamburelli battevano il tempo, qualcuno, forse un vecchio monaco, o forse un pastore, sussurrò: “Dove si mescolano i popoli che non si sono mai arresi, lì nasce il Mediterraneo più vero.”
Un Olivetano si nutre già da piccolo della saggezza semplice e concreta tramandata dalle mani operose delle madri, delle zie e delle nonne, che lavoravano “crusca” cioè con le cose che resta del lavoro quotidiano, genuino e vissuto.
Poi gli olivetani erano cresciuti e preparati alla vita, sotto la vigile sapienza dei padri, degli zii e dei nonni: sono loro tutti, con il genio e l’esperienza, a istruirle, e fargli da maestri.
Il primo vero “titolo” che ricevono gli olivetani, quindi, non gli viene conferito da cattedre polverose o da istituzioni sterili, magari piazzate tra i torrenti secchi e dimenticati.
No, il sapere qui nasce dalla voce collettiva del popolo, dall’intelligenza quotidiana e concreta di un intero Katundë che educa, plasma, forgia e garantisce un letterato arbëreşë.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-08-25