NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Il modello linguistico consuetudinario per eccellenza e precisamente quello adottato dalle genti che vissero nei pressi o a breve distanza, dal bacino mediterraneo, riconosciuti dalla storia come: Arbanon, in seguito Arbëri e in fine Arbëreshë, rappresenta il più enigmatico e complicato sistema sociale, ignoto a quanti vanno marenghi immaginando che la cartacapra da risposte.
Oggi chi ha ereditato l’inestimabile valore storico, vive all’interno della Regione Diffusa del Mezzogiorno Italiano, supportato comunemente, riguardo l’aspetto linguistico, da quanti vivono le antiche terre d’Albania secondo i limiti di un tempo.
La caparbia popolazione consuetudinaria, rappresenta, o meglio è un esempio trasversale dell’enunciato secondo il quale la storia sia depositata in tomi o comunque nelle archiviazioni scritte in forma, documentale o cartapecora.
Per certi versi il principio potrebbe essere un valido supporto per la ricostruzione delle epoche e delle ere del passato, ma non è certo il vangelo, o la regola che vale per tutte le dinastie del passato, specie quando a scrivere a trascrivere e riportare, sono propri quanti formati secondo canoni clericali, poi di dogeniana memoria, non facendo mai emergere i comuni o i testimoni che ereditavano i motivi del segno di croce, conservando ben altra memoria.
Nascere all’interno di una culla sociale senza confini come quella arbëreshë “la Gjitonia e in conseguente sistema urbano e architettonico, consente di avere doti ineguagliabili, attraverso le quali, la capacità di lettura di cosa ti circonda, si affina e consente di riconoscere cosa è utile per per ricostruire secondo presupposti ereditari; non sono certo i titoli subito portati a casa, questi ultimi, pur se necessari, non sono fondamentali per tradurre e comprendere o avere consapevolezza per distinguere con grazia, saggezza, garbo e giudizio, ciò che ti appresti a cogliere.
A tal fine è bene precisare che vanno evitate le campagne di confronto con quanti millantano e impropriamente si considerano i conservatori di una tradizione antichissima, senza averne alcun titolo, in quanto, si finirebbe inesorabilmente a perdere la rotta non riuscendo più a definire “l’unica storia” che va ricercate per calettarla perfettamente poi con gli avvenimenti del passato.
Nelle vicende che accomunano la lingua, la consuetudine, la metrica del canto e la religione greco bizantina degli arbereshe, per lungo tempo si è ritenuto che fondamentali fossero la ricerca delle parlate delle favole e dei testi clericali della minoranza storica, questi espedienti specie se usati senza ordine e ne grado, hanno fatto più danno negli ultimi decenni che in millenni di storia.
Le civiltà più antiche della storia degli uomini, sono state sudiate attraverso le architetture e i segni che queste popolazioni hanno estratto prima ed elevato poi, nei luoghi attraversati, bonificati e vissuti.
Come potevano fare diversamente quanti da ormai sei decenni hanno immaginato che attraverso la definizione della lingua con quanti hanno preferito la fucina degli invasori poter ricostruire un segno tangibile dell’identità arbëreshë.
Come potevano esimersi da errori grandi come le corna di una capra, senza i principi di conoscenza, consapevolezza, cognizione o idea del [no…..s] o del [ger….ko], capacità di lettura di thema o di [so..to co…no]; è normale che poi si vergognassero persino del trattato di “Besa” Kanuniana o del concetto del clan di famiglia allargata, immaginando vergognosa culturale, un po’ come vergognarsi delle proprie madri perché vestono in tema di Stolja.
Ripercorrere la storia della minoranza più numerosa del meridione italiano, non è stato una cosa semplice, giacché la definizione della sua origine, partendo dai soli stato di fatto odierni, richiedeva almeno un’altro punto per tracciare una retta secondo una ben identificata direzione, ma una volta intercettato il secondo punto, in questi giorni di esilio forzato, ha reso tutto più limpido e chiaro avendo ormai la direzione, si tratta solo di camminare e scegliere cosa è genuino raccogliere e dare in pasto alle pecore cresciute nella mangiatoia del “sordo” e del “settimo rigagnolo” , ma questa è un’altra storia ancor più penosa e indicibile.