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CAVALLERIZZO: CRONISTORIA DEGLI AVVENIMENTI

Posted on 23 ottobre 2014 by admin

OLYMPUS DIGITAL CAMERA (Associazione Cavallerizzo Vive – Kajverici Rron) – Il 7 marzo 2005 si verifica un movimento franoso che coinvolse 30 abitazioni su circa 270 ed un tratto di strada provinciale di importanza cruciale per i collegamenti fra i paesi vicini (circa una decina)La frana del 7 marzo 2005 era conosciuta da anni addietro

L’11 marzo 2005, con D.P.C.M. pubblicato sulla G.U. n° 67 del 22 marzo 2005, viene dichiarato lo stato di emergenza fino al 31 gennaio 2006, poi prorogato con successivi decreti fino al 2012.

Nel marzo 2005 entra in carica il nuovo Sindaco di Cerzeto dott. Ermenegildo Mauro Lata

Il 29 aprile 2005, con D.P.C.M, n. 3427, tra le altre cose dispone che vengano effettuati studi su varie aree del Comune di Cerzeto.

Da fine giugno a metà luglio del 2005 vengono effettuati carotaggi nella frazione Cavallerizzo.

Il 7 luglio 2005, presso la sede della Giunta Regionale della Calabria, viene esposto l’esito degli studi relativi ai carotaggi (tra l’altro ancora in corso) e le possibilità di intervento per il ritorno alle ordinarie condizioni di vita della popolazione. Le soluzioni illustrate sono le seguenti:

1a soluzione

a) Mitigazione della pericolosità idrogeologica mediante:

– controllo del livello della falda;

– sistemazione e consolidamento dei versanti in frana o soggette a fenomeni gravitativi.

b) Recupero del danno abitativo ed infrastrutturale ed adeguamento sismico.

2a soluzione

a) Delocalizzazione totale della popolazione in una zona esente da rischi idrogeologici ed idonea dal punto di vista sia geologico-tecnico che socio-culturale;

b) Realizzazione di nuovi edifici conformi alla nuova normativa sismica.

Il Dipartimento della Protezione Civile Nazionale sceglie la seconda soluzione, ossia quella di delocalizzare integralmente il centro abitato in località Pianette in quanto “La delocalizzazione si presenta come l’intervento più efficace poiché”, secondo gli studiosi del Dipartimento, “gli interventi di mitigazione e recupero sembrano presentare costi rilevanti e certamente comparabili con quelli attribuibili alla delocalizzazione, nonché la popolazione resterebbe esposta ad un livello di pericolosità complessiva tale da necessitare di un adeguato sistema di allertamento e della conseguente pianificazione d’emergenza”. Tutto questo senza tenere in considerazione gli altri costi sociali, di disadattamento, dei legami familiari, del processo di disgregazione della comunita’, del distacco delle famiglie (specie le persone piu’ anziane) dalle proprie abitazioni rimaste integre e perfettamente abitabili e dal proprio paese.

La soluzione adottata dalla Protezione Civile non è arrivata dopo un coinvolgimento della popolazione. E’ stata imposta la delocalizzazione senza tener conto minimamente della possibilità di recupero dell’antico borgo.

Gli studi geologici vengono mostrati ufficialmente alla popolazione dopo 4 anni e mezzo dall’evento franoso (vedi successivamente indicazioni al 1° ottobre 2009). Da questi studi, sottoposti ad esperti geologi, si evince che per supportare la delocalizzazione son stati utilizzati studi relativi a campagna geognostica in loco effettuata negli anni novanta. Altri studi satellitari sono stati utilizzati come prova incofutabile di un paese ad alto rischio da frane e sismiche con movimenti consistenti all’anno. Siamo arrivati alla meta’ del 2014 e nessun movimento grave ha interessato il centro storico di Cavallerizzo, oggi abbandonato da tutte le Autorita’ preposte alla salvaguardia e alla tutela.

Il 21 ottobre 2005 viene emanata l’ordinanza n° 3472 (arreca una serie impressionante di deroghe ala legge sui lavori pubblici che ha consentito verosimilmente di dare i lavori senza gara di appalto), pubblicata sulla G.U. n° 255 del 2 novembre 2005, che stabilisce ufficialmente di delocalizzare la frazione di Cavallerizzo e di ricostruirla interamente nel suddetto sito di Pianette. Contestualmente viene presentata, presso la sede della Giunta Regionale a Catanzaro, una bozza del progetto preliminare

Nel 2005 viene chiesto un finanziamento di Euro 10.500.000,00 con oggetto: MESSA IN SICUREZZA, CONSOLIDAMENTO E RIQUALIFICAZIONE DI PARTI DELLA FRAZIONE DI CAVALLERIZZO, DELLA RETE STRADALE E DEI SOTTOSERVIZI DANNEGGIATI (STATO DI CALAMITA’ NAT. MARZO 2005).

Il 1° marzo 2006, con Decreto PCM del 30/01/2006, ripartizione quota dell’otto per mille per l’anno 2005 viene erogato un finanziamento di Euro 2.500.000,00 (2 milioni e cinquecento mila euro). Da come si evince dallo stesso Decreto cambia del tutto l’oggetto di destinazione dei fondi: “Comune di Cerzeto (Cosenza) – Programma di messa in sicurezza della popolazione di Cerzeto”. In pratica tale finanziamento richiesto per un fine preciso per la bonifica dell’area in frana sulla parte sud di Cavallerizzo viene riversato sulla costruzione del nuovo agglomerato urbano di Pianette, come si evince alla data di seguito del 2 maggio 2006. Bisognerebbe verificare altri, presunti, finanziamenti a suo tempo promessi dalla Provincia di Cosenza e dalla Regione Calabria, se sono stati erogati e per quale fine invece di intervenire sul corpo frana. Ancora oggi non e’ stato speso nemmeno un centesimo sulla parte sud del paese nonostante questa situazione rappresenta anche un pericolo per l’incolumità’ pubblica e privata delle tante persone che utilizzano i terreni all’interno del corpo di frana, le strade che costeggiano tutta la parte disastrata ed il cimitero adiacente.

Il 1° marzo 2006, viene svolta la Conferenza dei servizi che approva il progetto preliminare.

Il 4 aprile 2006, con procedure mai rese pubbliche, vengono aggiudicati i lavori di realizzazione del nuovo paese in località Pianette, ad una ATI (Associazione Temporanea di Imprese) che ha come capogruppo la ditta Zinzi S.r.L. di Catanzaro (appalto integrato –L’ATI si aggiudica oltre che l’esecuzione dei lavori, anche le successive due fasi progettuali previste dalla legge sui lavori pubblici. Quella definitiva e quella esecutiva).

Il 2 maggio 2006, con ordinanza n° 3520, viene stabilito che le risorse assegnate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 gennaio 2006, concernenti la ripartizione della quota dell’otto per mille per l’anno 2005 pari a euro 2.500.000,00 (2 milioni e cinquecento mila euro), finalizzate all’attuazione del programma di messa in sicurezza della popolazione di Cerzeto, siano trasferite al commissario delegato nominato per fronteggiare l’emergenza verificatasi in conseguenza degli eventi franosi. In pratica Bertolaso & Company hanno fatto quello che hanno voluto invece di bonificare la zona sud di Cavallerizzo e magari ripristinare il tracciato stradale provinciale tuttora interrotto e sul quale nessuno e’ mai piu’ intervenuto.

Il 16 maggio 2006, viene firmato il contratto dalla ditta Zinzi.

Con ordinanza 28 luglio 2006, n. 3536, del Presidente del Consiglio dei Ministri arrecante disposizioni urgenti di protezione civile. Al fine di consentire il proseguimento degli interventi straordinari ed urgenti previsti nel piano di delocalizzazione e di ricostruzione dell’abitato della frazione di Cavallerizzo nel comune di Cerzeto (Cosenza) di cui all’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 21 ottobre 2005 n. 3472 e successive modifiche ed integrazioni, è autorizzata la spesa di 36.700.000,00 milioni di euro.

Nella prima settimana di settembre 2006 nonostante non ci sia stata nessuna posa della prima pietra iniziano i lavori di sbancamento del terreno.

Il 21 novembre 2006 viene esposta da parte dei progettisti, presso il Comune di Cerzeto, una bozza del progetto definitivo del nuovo centro abitato da realizzare nella località Pianette (sempre del Comune di Cerzeto).

28 luglio 2007 nasce l’associazione Cavallerizzo Vive – Kajverici Rron formata da residenti e non dell’antico paese che lo vogliono preservare. 

31 luglio 2007 viene approvato il progetto definitivo da parte della Conferenza di Servizi, riunitasi presso la sede del soggetto attuatore (la prefettura di Cosenza).

10 ottobre 2007 viene posata la prima pietra con la cerimonia ufficiale. Vengono indicati 900 giorni per la consegna delle abitazioni.

Fine di ottobre 2007 l’associazione Cavallerizzo Vive con un’istanza di accesso atti, richiede tutta la documentazione relativa alla vicenda abbandono e ricostruzione. Dopo diverse vicissitudini, a distanza di 5 mesi, si ottengono dall’Ufficio tecnico del Comune di Cerzeto, 6 documenti su 27 richiesti (non ancora gli studi geologici prodotti per la delocalizzazione).

7 marzo 2008 viene inaugurata la zona industriale da parte del Commissario delegato Guido Bertolaso, costruita nella località Colombra (a valle di Pianette). Consegnata agli “artigiani” in parte a maggio del 2010 ma ad oggi a noi non risulta attiva.

26 maggio 2008 viene presentato un ricorso (dall’Associazione scrivente “Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron”) al TAR Calabria, poi successivamente trasferito al TAR Lazio (04/07/2008), con oggetto “approvazione del progetto definitivo di ricostruzione di Cavallerizzo”.

29 dicembre 2008 l’associazione scrivente presenta un reclamo al Garante per la Privacy per la pubblicazione sul sito web del “Comitato Cittadino per Cavallerizzo (per la delocalizzazione e l’abbandono di Cavallerizzo)” della stessa copia integrale del ricorso (vedi punto precedente) notificato al Comune di Cerzeto. A maggio del 2009 il Garante per la Privacy notifica al “Comitato Cittadino per Cavallerizzo” una lettera nella quale chiede informazioni per la violazione commessa e impone la rimozione immediata del ricorso pubblicato nel loro sito web. E’ importante ripetere che la copia del ricorso pubblicata era quella che e’ stata notificata legalmente al Comune di Cerzeto. Si capisce bene che qualcuno (qualcuno che ci lavorava) l’ha sottratta all’ufficio comunale e ne ha fornito una copia agli autori della pubblicazione come sopra descritto.

In data 16 aprile 2009 con prot. n° 2337/P e in data 6 luglio u.s. con prot. n° 1373/P La “Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio per la Calabria”, invia due lettere al Comune di Cerzeto e ad altri soggetti interessati alla “tutela storica, etnoantropologica e paesaggistica” affinché si intervenga celermente sul recupero dell’intero centro storico di Cavallerizzo perché ritenuto un complesso urbanistico-architettonico di eccezionale valore sia per la memoria storica, sia per l’aspetto morfologico e sia per la compattezza edilizia che esso rappresenta (Soprintendente ad interim Arch. Stefano Gizzi).

Nel mese di Giugno 2009 il dott. Ermenegildo Mauro Lata si dimette da Sindaco del Comune di Cerzeto.

Durante l’assenza del Sindaco vengono nominati, prima il Commissari Prefettizio dott.ssa Francesca Pezone e, successivamente, il Prefetto Vicario dott.ssa Paola Galeone proprio per la situazione delicata presente in Comune.

Il 1° ottobre 2009 ci vengono consegnate (all’Associazione scrivente “Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron”), nel Comune di Cerzeto, le relazioni ufficiali che hanno decretato l’abbandono dell’antico paese e della conseguente delocalizzazione. In pratica gli studi geologici vengono mostrati ufficialmente alla popolazione dopo 4 anni e mezzo dall’evento franoso.

La Protezione Civile era molto determinata a ribadire, anche con una certa arroganza, che le sue perizie erano assolutamente indiscutibili, ma era, se possibile, ancora più determinata a non farle vedere a nessuno. Dopo la sospirata acquisizione abbiamo scoperto che tali perizie non sono poi così inconfutabili. Ci siamo rivolti ad un esperto Geologo prof. Fabio Ietto dell’Università degli Studi della Calabria e, lo stesso, ha riscontrato delle incredibili novità. Le più importanti sono che l’area scelta per la delocalizzazione è pericolosa ancor più che l’antico Cavallerizzo e che quest’ultimo, con i dovuti accorgimenti, era recuperabile, spendendo anche molto meno di ciò che è stato finora speso.

Il 3 marzo 2010 il Tar del Lazio (per motivi che riguardano l’eccessivo ricorso ai poteri straordinari di deroga) annulla il verbale della conferenza dei servizi che aveva approvato il progetto definitivo della new town. Viene, nella stessa sentenza del Tar Lazio, denunciata la mancanza della Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA). I lavori nella nuova frazione si sarebbero dovuti fermare, ma con molta arroganza le Autorità coinvolte fanno proseguire la ricostruizione.

Nel mese di Marzo 2010 entra in carica il neo Sindaco arch. Giuseppe Rizzo (la nuova amministrazione è composta anche da persone che hanno sostenuto e avvantaggiato l’iter di delocalizzazione e di abbandono di Cavallerizzo, imposto dai vertici della Protezione Civile Nazionale e gli effetti contro coloro che non accettano tale scelta, in primis contro la nostra Associazione, si leggeranno di seguito).

Dopo qualche settimana dalla sentenza del Tar Lazio del 3 marzo 2010, la Protezione Civile Nazionale, la Prefettura di Cosenza (in qualità di Soggetto Attuatore) e successivamente anche il Comune di Cerzeto, fanno appello alla stessa sentenza.

Il Comune di Cerzeto (guidato dalla amministrazione del Sindaco Giuseppe Rizzo e da alcuni componenti del Comitato pro delocalizzazione), il  23 aprile 2010,  impedisce per la prima volta, dopo secoli di storia e di tradizione religiosa, la celebrazione della Messa in onore al Santo Protettore di Cavallerizzo San Giorgio Martire.

Il 25 maggio 2010 il Consiglio di Stato, accoglie l’istanza di sospensiva proposta dai soggetti qui sopra indicati e sospende l’efficacia della sentenza del 3 marzo 2010, rimandando, a data ancora da destinare, la decisione finale in udienza di merito.

Il 14 maggio 2010 il quotidiano nazionale “IL GIORNALE” pubblica l’articolo “Dai ministeri alla Finanza tutti facevano a gara per dar lavoro ad Anemone – Ecco l’ultima parte dell’elenco con 248 nomi, in chiaro o in codice, di quanti si sono affidati al costruttore arrestato per l’inchiesta sul G8”

Dall’inchiesta su Anemone & Company viene fuori che quest’ultimo ha manovrato anche il mega cantiere della New Town di Cerzeto attraverso il Consorzio Stabile Centritalia Scpa.

Anche “La Repubblica” ed il Fatto Quotidiano” e diversi giornali locali riprendono il fatto clamoroso: “Anemone anche nella Nuova Cavallerizzo di Cerzeto”.

Nei mesi di Giugno, Luglio, Agosto e Settembre 2010 il Comune di Cerzeto e la Prefettura di Cosenza, impediscono all’Assoc. “Cavallerizzo Vive – Kajverici Rron”, lo svolgimento delle usuali giornate ecologiche volte per preservare l’antico centro storico dall’abbandono.

Il 16 settembre 2010  ritorna, solamente nella New Town, Guido Bertolaso. Solite promesse e soliti convincimenti. Lo stesso giorno viene anche premiato con una medaglia dal “Comitato Pro delocalizzazione”. Come se tutto fosse andato alla perfezione.

Il 1 agosto 2011 l’Associazione “Cavallerizzo Vive – Kajverici Rron” deposita un esposto alla procura della Repubblica di Cosenza, denunciando tutti gli abusi attuati dagli Enti e persone coinvolte nella delocalizzazione di Cavallerizzo.

Il 22 gennaio 2011 scocca lo “zero” sul count-down apposto al cancello della new town di Cerzeto. Nessuno si fa vivo perché vi sono ancora molti altri lavori da terminare: sono stati completati solo due quartieri su cinque, mancano diverse opere di urbanizzazione, collaudi e il passaggio di proprietà dal Soggetto Attuatore al Comune di Cerzeto. La new town, dal punto di vista architettonico si presenta gia’ brutta e fredda.

Il 28 gennaio 2011 con apposita O.P.C.M. viene prorogato per la sesta volta lo stato di emergenza nel territorio del Comune di Cerzeto, fino al 30 giugno 2011 (data in cui si dovrebbero completare tutti i lavori).

Il 5 febbraio 2011 il Comune di Cerzeto in presenza del Soggetto Attuatore Prefetto di Cosenza dott. Cannizzaro, consegna ad alcune famiglie, solo simbolicamente, alcuni alloggi dei due quartieri completati. Il proprietario del nuovo alloggio firma il contratto (controparte è lo stesso Comune) preliminare di permuta (cessione della vecchia casa dell’antico Cavallerizzo in cambio della nuova abitazione nella new town) da formalizzare con atto definitivo entro un anno. E’ un consegna farsa in quanto i nuovi alloggi pre-consegnati non hanno ancora il certificato di agibilità (mancano i collaudi tecnico-amministrativi) e ne dovrebbe essere vietata sia la possibilità di effettuare modifiche sia di abitarvi. Nel contratto, però, viene data la possibilità di fare modifiche anche sostanziali e non viene vietata l’effettiva permanenza. L’Associazione scrivente segnala il tutto alla Procura della Repubblica di Cosenza.

Successivamente (lo vedremo nei prossimi punti) il Sindaco si trova costretto a fare una nuova ordinanza dove impedisce qualsiasi modifica.

Il 25 febbraio 2011, in visita ufficiale, il nuovo capo della Protezione Civile Naz. Franco Gabrielli viene prima nell’antico Cavallerizzo e poi va nella New Town. E’ la prima volta che un Capo della Protezione Civile mette piede nell’antico borgo di Cavallerizzo. Bertolaso, Rinaldi, Fiori non ci sono mai stati di persona. Noi dell’Associazione Cavallerizzo Vive – Kajverici Rron, abbiamo espresso la nostre opinioni e le nostre volontà, ma niente è stato tenuto in considerzaione. Nella new town, lo stesso Gabrielli inaugura la consegna di alcuni alloggi sempre dei due quartieri terminati.

Il 24 marzo 2011 il Comune di Cerzeto emette una nuova ordinanza dove vieta la possibilità di effettuare modifiche sostanziali negli alloggi pre-consegnati. Tutto questo ha dell’incredibile perché il Comune di Cerzeto nonostante non sia ancora proprietario degli immobili costruiti nella new town figura come controparte nel contratto preliminare di permuta. Oltretutto, nello stesso contratto, indica la possibilità di fare modifiche negli alloggi e così fa la gente. Successivamente i Carabinieri, forse anche su indicazione dei responsabili di cantiere, chiedono lumi su questa strana vicenda delle modifiche. In effetti se non vi sono i collaudi tecnico-amministrativi, il proprietario che ha firmato il contratto preliminare, non è proprietario a pieno titolo dell’immobile. Oltre tutto a non poter fare nessuna modifica nel nuovo alloggio non può assolutamente abitarvi, cosa che alcuni però stanno già facendo.

Sul fatto che molti hanno già fatto diverse modifiche il Comune è stato costretto ad emettere l’ordinanza di cui sopra.

La frazione di Cavallerizzo è oggi completamente abbandonata ed i proprietari delle abitazioni  rimaste intatte possono accedervi ogni lunedì, mercoledì e venerdì, previo permesso del Comune di Cerzeto (salvo in caso di pioggia).

Si precisa che gli edifici che non sono stati interessati dalla frana risultano circa l’85 % del totale, alcuni di importanza storica per il territorio.

La frana del 7 marzo 2005 ha coinvolto e distrutto per un tratto di circa 400 m la strada provinciale che attraversa il nostro paese sulla parte di nuova costruzione a sud. Questo evento ha di fatto tagliato i collegamenti con l’importante centro abitato di San Marco Argentano, creando innumerevoli disagi a tutti i paesi del circondario posizionati a sud ed a nord della frazione Cavallerizzo (una decina di Comuni). Oggi, questo tratto di strada non è ancora stato ripristinato. I tracciati alternativi non sono adeguati dal punto di vista della sicurezza stradale ed inoltre allungano di molto i tempi di percorrenza.

La delocalizzazione è stata una soluzione imposta presa senza le dovute ponderazioni. Un abbandono dell’antico centro abitato che trae origine da opportunismi e da una serie sconvolgente di dichiarazioni allarmistiche tendenti a convincere la popolazione della veridicità di presunti studi ed indagini geologiche effettuati a Cavallerizzo. Gli studi che abbiamo ottenuto (4 anni e mezzo dopo l’evento franoso) sono stati smentiti su carta da due illustri Geologi prof.ri Fabio e Antonino IETTO – UNICAL ed altri nomi di importanza regionale e nazionale che ribadiscono la frettolosa ed inappropriata scelta della delocalizzazione dell’intera frazione di Cavallerizzo. La relazione dei geologi sopra citati denuncia un rischio da instabilità idrogeologica molto elevata del sito scelto per la delocalizzazione (località Pianette sempre nel Comune di Cerzeto). Nello stesso tempo le relazioni indicano che anche tutti quei paesi che si trovano sulla faglia “San Fili a San Marco Argentano” presentano forti problemi di dissesto idrogeologico, molti, anche più gravi di Cavallerizzo, ma rimangono abitati come sempre.

Alla “cricca” interessava, su tutti gli altri, l’aspetto della ricostruzione e ovviamente i finanziamenti che sono arrivati ufficialmente, sino a fine lavori a 72 milioni di euro!

Nel nuovo agglomerato urbano di Pianette, nonostante siano stati inseriti nelle varie fasi progettuali, non sono state costruite la Chiesa e la Scuola.

Il 14 febbraio 2012 presso la sede del Consiglio di Stato si discute l’udienza finale in merito al ricorso presentato dall’ Associazione scrivente.

Il 21 novembre 2013 l’Associazione “Cavallerizzo Vive – Kajverici Rron” presenta un esposto alla procura della Corte dei Conti di Catanzaro, denunciando tutti gli abusi attuati dagli Enti e persone coinvolte nella delocalizzazione di Cavallerizzo per frode allo stato e danno all’erario. Tale esposto per non si sa quale motivo, non e’ stato mai protocollato.

L’11 dicembre 2013 il Consiglio di Stato emette una elaborata sentenza ed accoglie, in parte, il ricorso cosi esprimendosi: “la successiva scelta di delocalizzare Cavallerizzo . . . non può farsi rientrare tra quelle di carattere emergenziale”,  manca la Valutazione di Impatto Ambientale e annulla per effetto il verbale della conferenza dei servizi che aveva approvato il progetto definitivo della new town di Pianette. Il nuovo agglomerato urbano e’ abusivo e sono nulli tutti i titoli di proprieta’ o i negozi di affitto e vendita.

Il 24 gennaio 2014 l’Associazione “Cavallerizzo Vive – Kajverici Rron”, data l’inerzia delle amministrazioni, presenta, dinnanzi al Tar del Lazio, un ricorso per l’ottemperanza della sentenza emessa dal Consiglio di Stato nel dicembre 2013.

Il 7 febbraio 2014 l’Associazione scrivente presenta lo stesso esposto del 21 novembre 2013 alla Guardia di Finanza di Cosenza (Polizia Tributaria) con le stesse motivazioni.

Le indagini sono tuttora in corso: Danno all’erario, spreco di denaro pubblico, gestione degli appalti, abusivismo edilizio.

Il 14 marzo 2014 il Comune di Cerzeto (CS) presenta un ricorso per la revocazione o annullamento della sentenza del Consiglio di Stato emessa a dicembre 2013 chiedendo anche la sospensiva di modo che si potessero allungare i tempi in merito alla discussione del ricorso d’ottemperanza.

Il 15 aprile 2014 si tiene al Consiglio di Stato la discussione della sospensiva chiesta dal Comune di Cerzeto (CS) per il ricorso di revocazione o annullamento della sentenza emessa dallo stesso Consiglio di Stato. In tale udienza, come vedremo alla data del 15 maggio 2014 (data di pubblicazione della sentenza in questione), il Collegio giudicante discute definitivamente il ricorso in questione.

Il 23 aprile 2014 dato il ricorso di revocazione di cui sopra, in attesa della pubblicazione della sentenza, il Tar del Lazio rimanda l’udienza (all’11 giugno 2014) per la discussione dell’ottemperanza della sentenza emessa dal Consiglio di Stato.

23 aprile 2014 Giorno della Festa del Santo Patrono di Cavallerizzo San Giorgio Martire. Sia l’amministrazione comunale di Cerzeto e sia la Sede Vescovile di San Marco Argentano vietano la possibilità di celebrare la secolare festa religiosa nell’antico paese. E’ evidente la volonta’ da parte delle Istituzioni di cercare di annientare del tutto la storia e cultura del piccolo borgo arbereshe. Qualsiasi attivita’ volta alla tutela ambientale e culturale e religiosa nell’abitato di Cavallerizzo, autorizzata o supportata da una istituzione o autorita’ puo’ essere intesa come l’essere d’accordo con l’Associazione Cavallerizzo Vive e quindi con il recupero del paese ad oggi abbandonato.

Duarante i mesi di aprile, maggio, giugno e luglio in nuovo Rettore della Rettoria di San Giorgio Martire in Cavallerizzo, con l’autorizzazione vescovile, inizia a trasferire tutti i beni della secolare Chiesa verso il nuovo quartiere popolare di Pianette, dove attualmente pende la sentenza del Consiglio di Stato del dicembre 2013 che afferma l’abusivita’ dell’intera area urbana.

Il 15 maggio 2014 il Consiglio di Stato, definitivamente pronunciandosi, notifica alle parti in giudizio la sentenza con la quale dichiara inammissibile il ricorso presentato dal Comune di Cerzeto per l’annullamento della sentenza emessa dallo Consiglio di Stato (si ricorda che la sentenza era risale all’11 dicembre 2013 e nella stessa, il nuovo agglomerato urbano, fu dichiaro abusivo). Lo stesso Consiglio di Stato il 15 maggio 2014 condanno’ il Comune di Cerzeto a rifondere le spese legali sostenute dall’Associazione “Cavallerizzo Vive – Kajverici Rron”.

L’11 giugno 2014 si tiene al Tar del Lazio l’udienza per la discussione del ricorso per l’ottemperanza della sentenza emessa dal Consiglio di Stato.

Il 2 luglio 2014 il Tar del Lazio emette la sentenza l’Associazione “Cavallerizzo Vive – Kajverici Rron”. Il Tar Lazio ha accolto il ricorso dell’associazione scrivente ed ha accertato la colpevole inerzia delle Amministrazioni, condannando le Amministrazioni medesime a riavviare il procedimento abilitativo del nuovo abitato entro trenta giorni, previa acquisizione della valutazione di impatto ambientale. Ove ciò non avvenga verrà nominato un commissario ad acta che avra’ altri trenta giorni a disposizione per convocare una nuova conferenza di servizi. Il TAR Lazio ha condannato, ancora una volta le Amministrazione a rifondere le spese legali ai ricorrenti.

L’8 settembre 2014 Presso il dipartimento della Protezione Civile Nazionale si e’ tenuta la prima seduta della conferenza di servizi volta all’approvazione postuma della Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.) e di seguito all’approvazione del verbale approvante il progetto definitivo della new town di Cerzeto, (quest’ultimo definitivamente annullato dal Consiglio di Stato con sentenza dell’11 dicembre 2013 – n. 02834/2010 Reg. Ric.).

Nella stessa riunione, il Presidente da seguito a quanto indicato dalla Sentenza del Tar Lazio del 2 luglio 2014 e chiede alla Regione Calabria di esprimersi in merito all’assoggettabilità alla V.I.A. (Valutazione di Impatto Ambientale) del nuovo agglomerato urbano di Pianette di Cerzeto, tuttora marchiato come abusivo. Si attende l’esito della Regione Calabria.

Nella prima settimana di Ottobre 2014 il Sindaco di San Marco Argentano, Virginia Mariotti, ha convocato diversi amministratori nella sala consiliare del suo municipio per riaccendere i riflettori sull’argomento del ripristino della strada provinciale di Cavallerizzo, interrotta a seguito della frana del 2005. Dal documento prodotto, si evince la “forte preoccupazione per la diminuzione dei residenti nei propri centri abitati”. Gli stessi studenti, che frequentano le scuole di San Marco (distante solo pochi km) hanno difficoltà a raggiungere la cittadina normanna a causa della viabilità. Ma le ripercussioni, emerge dal documento, sono anche economiche e culturali. «I cittadini dei borghi -è scritto- che un tempo si ritrovavano per mercati, fiere, ecc., sono sempre più isolati e rischiano di perdere la loro identità». E nell’evidenziare le “notevoli difficoltà quotidiane per gli spostamenti”, gli amministratori evidenziano le necessità della strada anche sotto il profilo sanitario, visto che il presidio ospedaliero di San Marco resto un importante punto di riferimento. Alla luce di questi fatti, quindi, la concordata sinergia per “liberare le proprie comunità dall’isolamento”. A questo seguiranno nuovi incontri per sensibilizzare le altre istituzioni a muoversi al fine di risolvere l’annoso problema della viabilità.

La Storia Continua

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Protetto: VDÌQ NJË KÀTUND ARBËRESHË E MOSNJERÌ E DÌ

Posted on 11 settembre 2014 by admin

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“L’abitato arbëreshë di Cavallerizzo”

Posted on 03 agosto 2014 by admin

Cavallerizzo faiNapoli (di Atanasio Pizzi) – L’abitato di Cavallerizzo è una frazione del comune di Cerzeto, esso fa parte dei centri arbëreshë della provincia cosentina (Calabria Italia Meridionale) ubicato tra le colline del Monte Mula che un tempo fungeva da spalla occidentale alla lingua di mare che copriva i territori calabresi sino a Pian del Lago. Il suo nome deriva da un cavallerizzo dei principi Sanseverino noto come San Giorgio di San Marco. I territori sui quali si ubica l’abitato Arbëreshë, sono menzionati già dal 1065, con la loro donazione all’Abazia di La Matina. Nel 1462 il territorio rientrava tra quelli acquistati da Luca Sanseverino primo Principe di Bisignano. Quest’ultimo si attivò personalmente e mise in atto nella provincia citeriore, fiorenti attività agricole, silvicole e pastorali, tali da far acquisire ai suoi possedimenti l’appellativo di granaio regio. La macchina produttiva e il suo indotto ben presto subirono, purtroppo, gli effetti della carestia, della peste e dei terremoti che ebbero come scenari la Calabria e tutto il meridione. I successori di Luca, rispettivamente: Girolamo, Bernardino e Pietro Antonio per cercare di dare linfa economica ai loro territori, accolsero nuove e operose genti di origine albanese. I quali, dopo un iniziale ”nomadismo”durato fino alla metà del XVI secolo, s’insediarono definitivamente in casali disabitati, nei pressi di chiese o conventi. La successiva stipula dei rispettivi atti di sottomissione, tra gli esuli e le autorità locali, rappresenta un punto di svolta fondamentale, in quanto sancisce il diritto di edificare manufatti in muratura oltre ad avere i privilegi di trasferire alle discendenze quanto a loro disposizione. I piccoli insediamenti urbani che si consolidano a seguito delle dette capitolazioni sono allocati prevalentemente a ridosso degli assi di comunicazione secondaria o lungo i confini territoriali delle diocesi, accumunati dalla giusta distanza dalle zone fluviali e costiere, per l’imperversare delle famigerate, anofele. Ebbero così inizio quelli che oggi si riconoscono come agglomerati urbani diffusi arbëreshë, contenitori fisici di costumi, consuetudini, lingua e religione,  tramandati oralmente grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun. I quartieri di Cavallerizzo, Katundì, Moticèlleth, Sheshi, Brègù e Nxertath, rappresentano il percorso evolutivo che l’abitato ha seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine. È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato i parallelismi d’ambito ideale per consentire agli albanofoni proporre agli antichi assetti urbani; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile consisteva in un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale. Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello metropolitano o della multimedialità. Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la connotazione urbana, da avvio alla composizione dei primi isolati (manxane), secondo aggregazioni modulari di tipo articolato e lineare. Lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, Ruhat. Il centro non è costituito da un unico punto-luogo simbolico; la centralità si frantuma in più simboli e luoghi: il centro e la centralità religiosa si dissociano il che da avvio alla policentrica tipica degli agglomerati. La gjitonia, (dove vedo e dove sento), racchiude e racconta ciò; essa dal XVI secolo resiste agli assalti della modernità diventando il luogo della ricerca dell’antico legame, fattore indispensabile della consuetudine arbëreshë ancora viva in questi ambiti. La gjitonia ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nella piazzetta Sheshi e si estende lungo le Ruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei territori comunali Kushet. La gjitonia per ogni arbëreshë si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata. Per questo gli agglomerati Albanofoni rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storie dissimili, in grado di produrre il modello d’integrazione più riuscito del mediterraneo. Il piccolo abituro, Shpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia, Matunazeth, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce, arena e legno. Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi prevalentemente in direzione verticale. È da questo periodo che negli ambiti urbani calabresi le dimore assunsero una nuova veste distributiva. Essa allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni furono realizzate al primo livello. I successivi frazionamenti, utilizzarono l’uso delle scale esterne, profferlo, modificando radicalmente, in questo modo, le prospettive all’interno dei borghi. Il ciclo di crescita dei modelli edilizi  minoritari si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente. Ciò avviene solo per le classi più elevate naturalmente, perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri, mentre quella media brandisce la nuova posizione sociale, utilizzando frammenti costruttivi dei palazzi post napoleonici. La storia del borgo di Cavallerizzo acquisisce dal XIX secolo le vicende della crescita edilizia in maniera incontrollata e diffusa, come avvenne per tutti i borghi e le città italiane. La notte del 7 marzo 2005 una frana lungo il margine meridionale dell’abitato, coinvolse il quartiere di recente espansione denominato Nxertath, (castagne innestate) realizzato su una copertura detritica eluviale già interessata da fenomeni gravitativi già dal XVII secolo, come riportato nei relativi archivi storici, in cartografie del 1903 e nella carta geologica del 1960. La condizione d’instabilità di quel versante nonostante fosse stata segnalata da Ietto nel 1978, a seguito della messa in opera della condotta idrica Abatemarco, interrata nello stesso versante e da Guerricchio nel 1998 per la verifica di un fabbricato lesionato. Entrambe le relazioni suggerivano possibili soluzioni d’intervento per la messa in sicurezza del versante, dei pochi edifici allora presenti e della condotta idrica soggetta a ripetuti disservizi. Gli interventi non furono mai realizzati, né presi in considerazione nonostante la continua crescita edilizia di quel quartiere. A seguito dei fenomeni gravitativi, nella porzione meridionale dell’abitato di Cavallerizzo, furono condotte dal Comune due campagne d’indagine geognostica nel 1982 e nel 1998-99, a fronte di ciò l’istituto CNR-IRPI di Cosenza attivò un sistema di monitoraggio dell’area in frana. Il collasso del 2005 ebbe ad attivarsi dopo un periodo di elevate precipitazioni atmosferiche, come richiamato nella rete di monitoraggio CNR-IRPI, che provocarono condizioni di saturazione idrica del versante. Il cinematismo della frana fu di tipo rotazionale nella porzione alta per poi attivarsi in colata, interessando un’area già ampiamente instabile e posta in crisi dalla speculazione edilizia dal 1980. Elevati danni furono riscontrati solo nel quartiere periferico denominato Nxertath, interessando solo l’11,5% del costruito totale; mentre nessun danno si rinviene nella restante parte dell’abitato, intatto a tutt’oggi. Dal 2005, non risultano esserci stati altri evidenti movimenti che interessi il centro storico e nessuna evoluzione è stata riscontrata nell’area frana. L’assenza di scivolamenti in atto fu riscontrata anche nel 2009, quando le precipitazioni atmosferiche invernali fecero registrare un valore cumulato maggiore rispetto a quello del 2005. Pertanto non è da escludere che all’anomalo incremento piezometrico, riconosciuto come causa di attivazione della frana, abbia concorso la condotta idrica Abatemarco, prontamente deviata all’indomani dell’evento. È chiaro che in assenza d’interventi per la mitigazione delle condizioni di rischio, resta elevata la possibilità di coinvolgimento delle aree urbane limitrofe. Pertanto il dato inconfutabile risulta che, per aver frettolosamente valutato gli ambiti di frana, si è intrapreso un percorso storicamente fallimentare. A tal proposito va rilevato che a seguito della frana del 2005 fu interdetto l’accesso all’intero centro urbano di Cavallerizzo, ordinanza ancora oggi in vigore e i cui motivi furono ufficialmente resi noti solamente nell’ottobre del 2009, basate solo su un rilevamento geomorfologico di superficie, che indicherebbero l’esistenza di una paleo-frana coinvolgente l’intero abitato, integrato con indagini geognostiche eseguite negli anni novanta del secolo scorso (quindi prima dell’evento 2005), oltre ad uno studio di telerilevamento satellitare che indicherebbe una traslazione dell’abitato di circa 1 cm/anno. Il dato fornito, coinvolge ed è diffuso a tutti i centri abitati, ubicati a Nord e a Sud di Cavallerizzo, con velocità di scivolamento variabili da 2 a oltre 6mm/anno, desumendo però una condizione di elevato rischio frana, in condizioni sismo-indotte, per il solo borgo di Cavallerizzo. È opportuno rilevare che le condizioni di rischio potenziale, per frane sismoindotte, sono estendibili comunque a gran parte della Calabria Nord occidentale, compreso il nuovo insediamento scelto per la delocalizzazione. Va inoltre rilevato che dopo la prima conferenza di servizi, tra maggio e giugno del 2006, si diede avvio alla fase di sottoscrizione degli atti, cui la popolazione era obbligata a cedere la vecchia abitazione, in cambio di una che avrebbe avuto gli stessi valori storico-sociali in ambito di Gjitonia(?), sottoponendo a questo iter anche coloro che innanzi a queste capitolazioni moderne non si sono mai presentati a sottoscrivere. Nel 2007 fu quindi definito il progetto esecutivo di delocalizzazione e nel corso del 2008 fu illustrato alla popolazione il nuovo paese arbëreshë con all’interno le gjitonie.È pur vero che durante la pubblicazione messa in stampa, eminenti cattedratici in maniera educata e perentoria misero in guardia i progettisti dell’errore cui andavano incontro, ciò nonostante il 7 Marzo de 2008 fu deposta la prima pietra di quello che sarebbe dovuto essere un paese, arbëreshë, con le gjitonie. Purtroppo gli organi decisionali garantirono, a detta loro, l’incolumità fisica e la tutela storica materiale e immateriale di Cavallerizzo, ma per la redazione del progetto non indicarono come prioritario la figura dell’esperto d’ambito arbëreshë, e avviarono in maniera anomala il progetto ritenendo che i minoritari arbëreshë si potevano paragonare a una qualsiasi popolazione disseminata negli ambiti del mediterraneo. Ciò ha prodotto equivoci paradossali che rivelano il poco rispetto volto nei confronti della regione storica albanofona, a tal punto da scambiata la Gjitonia con i Quartieri e per questo modificando in maniera radicalmente il rapporto tra costruito e non costruito. La stessa sorte ha coinvolto anche i sistemi viari, che nell’eseguito vengono riproposte con dimensioni simili alle aree mercatali. Questi pochi accenni, assieme ad altri non citati, ma per questo non meno rilevanti, confermano quanto sia stato sottovalutato il modello arbëreshë. Un’analisi eseguita a ritroso dallo scrivente indicherebbe che quanto “messo a dimora in località Pianette”, è il frutto di ambiti verosimilmente prossimi dell’equatore che purtroppo nella valle del Crati vanifica ogni sforzo che i minoritari albanofoni compiono per riversare riti e la consuetudine all’interno di un contenitore anomalo. L’unica nota positiva all’interno di questo curioso intervallo della storia albanofona, è rappresentato da un gruppo di abitanti di Cavallerizzo, che nel 2007 fondarono l’associazione “Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron” e l’anno successivo presentarono ricorso al T.A.R. del Lazio che annullo il verbale della conferenza di servizi del 31/07/2007 c, quest’ultima aveva legittimato  il progetto definitivo del nuovo paese che in data 14 maggio 2014, fu dichiarato in via definitiva abusivo. Il 2 luglio 2014 il T.A.R. del Lazio ha accolto il ricorso per l’ottemperanza della sentenza del Consiglio di Stato ed ha accertato la colpevole inerzia delle Amministrazioni, condannandole a riavviare il procedimento abilitativo del nuovo abitato entro trenta giorni, previa acquisizione della valutazione d’impatto ambientale con tutti i limiti del caso.  Il tribunale ha inoltre già statuito che qualora l’amministrazione preposta non ottemperi “entro il termine indicato”, se ne occuperà un commissario ad acta già individuato nella persona del Ministro dell’Ambiente o “un dirigente da lui delegato”, con termine perentorio di altri trenta giorni. In tutti questi anni, comunque siano andate le cose, l’abitato storico di Cavallerizzo, con i suoi oltre 550 anni di vita, oltre ad aver convissuto con fenomeni d’instabilità, dal 2005 ha dovuto rispondere in maniera autonoma anche a processi vandalici oltre a quelli dell’incuria e all’abbandono che sono i peggiori. I processi avviati da quest’affrettata operazione si possono rispettivamente elencare in un nuovo insediamento privo degli atti amministrativi; il vecchio paese dichiarato inagibile e la scissione della comunità in due fazioni, che non riconoscono neanche il perimetro religioso a cui fare riferimento per festeggiare il protettore San. Giorgio, poiché, la Diocesi rimasta il baluardo di unione della popolazione ha preferito disconoscere l’antico e solidissimo perimetro di culto, per officiare la ricorrenza in un anonimo e non meglio identificato abituro. Tutto ciò sancisce ancora una volta il fallimento di una metodica che ha sempre portato squilibri nelle popolazioni de localizzate, processo violento che strappa in maniera indiscriminata le radici, ignorando quanto sia rimasto ancora innestato nel territorio. Ciò ha prodotto alla comunità frammentata e disadattata, distorsioni sociali, espressione del legame materiale e immateriale smarrito cui nessuno potrà mai porre rimedio visto il dilatarsi dei tempi. Alla luce di quanto emerso è palese la necessità di tutelare il centro storico di Cavallerizzo, perché la rara consuetudine minoritaria, inghisata in quegli ambiti, attendono di essere risvegliata e collocata con rispetto nello scenario sociale, culturale e scientifico calabrese così come integrato prima dell’evento franoso. L’abitato di Cavallerizzo nasce perché è il risultato dell’azione di una civiltà cui è parte indissolubile, non frutto dell’azione costruttiva di un singolo ma il luogo che rappresenta la cerniera di culture e per questo non più riproducibile. Dopo gli avvenimenti succedutisi a circa dieci anni dall’evento franoso, alla luce delle sentenze, si dovrebbe giungere a un ragionevole esame e consentire la messa in sicurezza degli ambiti di frana. Il centro storico, ancora intatto, attende attraverso opportuni interventi per rivitalizzare il patrimonio storico costruito in 550 anni di vita arbëreshe. Il recupero dell’agglomerato deve avere come fine prioritario la ricollocazione della minoranza storica condivisa con l’associazione Cavallerizzo Vive, e da tutta la regione arbëreshë. Un progetto che ha come indicatore la storia albanofona, intrisa nelle ostinate murature che continuano a riverberare antichissime vicissitudini innestate nelle consuetudini arbëreshë, in solida convivenza con il territorio  Kushe. La realizzazione di un albergo diffuso in sintonia con le attività tipiche  adoperando come residenze gli abituri arbëreshë. Utilizzare l’edilizia storica  al fine di utilizzarli come istituti o centri per il controllo della valle Crati e monitorare, gli aspetti idrografici, climatici e sismici. È chiaro che per mettere in atto progetti di tale portata è indispensabile la partecipazione concertata del Comune di Cerzeto, l’UNICAL, la Provincia di Cosenza, la Regione Calabria e il CNR. Il fine è di produrre un esempio di tecnologia, arte, restauro attingendo nelle consuetudini arbëreshë, creare non solo un osservatorio delle dinamiche intrinseche del territorio ma anche il fulcro di eccellenze e  ricchezze. L’auspicio prossimo è quello di vedere come primi attori di questa vicenda, la comunità di Cerzeto e San Giacomo che unita ai fratelli di Cavallerizzo restituiscano il piccolo borgo alla Regione Storica Arbëreshë, rievocando l’antico rito del 4 Giugno 1667, quanto a seguito della perdita di possesso dei vecchi proprietari del borgo arbëreshë di Kajverici, la Marchesa di Santa Caterina, Ippolita Belveris in esecuzione a quanto disposto dal tribunale si sottopose, alla presenza dei rappresentanti, Sindaco, Eletti dell’Università e di un nutrito numero di testimoni, che assistevano al rigido formulario, che qui di seguito viene esposto nelle sue diverse fasi: La baronessa, doveva compiere davanti a tutti i testimoni di cui sopra una serie di atti, come quello di spezzare un ramo, riempirsi il pugno di terra e lanciarla per aria, passeggiare a piedi o a cavallo, muoversi a suo piacimento e fare ogni cosa che gli venisse in mente, tutto ciò confermava l’effettiva presa di possesso del bene e Kajverici Rroi.

 

Bibliografia:

Fabio Ietto (2010)

Geologyresearcher UNICAL, DiBEST

Antonio Madotto

 Editor of the site “Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron”

Atanasio Pizzi  (1987-2014) Scritti inediti

Architect and editor of the site “Sheshi i Pasionatith”

 

 

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Protetto: COMUNICATO STAMPA SULLA SENTENZA DEL T.A.R. LAZIO SU RICORSO D’OTTEMPERANZA.

Posted on 05 luglio 2014 by admin

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L’arberia

Posted on 29 dicembre 2013 by admin

Larberi1NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – L’arberia fonda la propria esistenza su due elementi che la rendono particolarmente affascinante; il reale, riconducibile a tutto quello che appare, attraverso le innumerevoli manifestazioni viziate atte a dilapidare certezze; l’altro aspetto irreale, rappresenta l’essenza pura difficile da interpretare, quindi di non facile manomissione, riconducibile nei tanti gesti, riti, e consuetudini della millenaria storia arbëreshë.

Due aspetti che coabitano e mantengono in vita la minoranza; facce della stessa medaglia, che portano, incise le diffuse favole della sua storia, da una parte e dall’altra, la matrice che con garbo tramanda solidi valori.

Arberia, trattato di vita, regola, teorema, funzione dell’anno solare; respirati, avvertiti e vissuti solo da chi conosce l’essenza di questo popolo.

Aspetti della metrica del canto, che da un lato consuma le cose materiali e dall’altra difende le cose immateriali.

Sono stati tanti quelli che, a vario titolo, hanno cercato di riassumere per grandi linee o con veri e propri trattati, la storia degli albanofoni ma senza mai venirne a capo in maniera decente, come pure è vastissimo lo scenario di chi ha copiato e divulgato frammenti di storia senza alcun ragionevole confronto con le realtà contigue.

Vero è che a oggi le uniche informazioni che possano ritenersi tali e fungere come riferimento per le caratteristiche sociali e abitudinarie della comunità arbëreshë sono: Il Discorso Sugli Albanesi pubblicato nel 1807, i di cui manoscritti sono stati realizzati dal 1765 al 1799 e conservati nello studio di via San Sebastiano in quelle che si individuavano come le case dei Correale; le emergenze architettoniche ancora in vita; e Il Kanun, che in forma scritta, lo si trova per la prima volta nel XV secolo, formatosi sull’iniziativa di Leke Dukagjini;.

Questi sono trattati di largo spessore per l’etnia perché forniscono la condizione degli arbëreshë sparsi nei territori del regno partenopeo e quella degli albanesi in terra d’origine.

Leggendoli con attenzione, si possono cogliere le tappe sociali e lo stato in cui vissero gli albanesi, da queste si possono trarre le certezze su quale sia stato il percorso che ha reso possibile la permanenza, l’integrazione, e la salvaguardia dell’idioma degli arbëreshë nei territori ritrovati.

L’Arberia è da ritenersi una regione che fonda la propria diversità nella linguistica, nella religione e nel consuetudinario nonostante il continuo confrontarsi con le realtà indigene e quelle dominanti.

Tutto ha inizio con l’instabilità politica sociale e religiosa dei territori di origine, individuati come il crocevia delle diaspore dell’est Europa, questa costrinse gli albanesi a continue migrazioni, prima negli ambiti della stessa Albania e poi in approdi extra territoriali.

Alla fine del XV secolo, la politica, identificabile nei buoni rapporti di Giorgio Kastriota con i regnanti partenopei; la religione, di rito Greco-Bizantina, radicata nel meridionale bizantino riconducibile ai presidi del rossanese; il parallelismo orografico dei territori collinari, furono i motivi trainanti della scelta di abbandonare le terre natie e dirigersi verso il meridione d’Italia.

Gli Arbëreshë approdati nelle rive della sibaritide si avviarono verso le zone collinari dell’interno, nei territori dai Principi Sanseverino di Bisignano e s’impegnarono con tutte le risorse che li rendevano unici nel rapporto mutualistico con il territorio e simili a quelli Albanesi.

I compiti loro assegnati nelle prime capitolazioni, di cui rimangono rare tracce, secondo regie disposizioni miravano innanzitutto a segnare il territorio, con il fine di inviare un segnale netto ai pirati che incrociavano lungo le coste dello Jonio.

In questa prima fase, gli arbëreshë, si adoperarono anche a bonificare un territorio impervio, privo di strade, devastato dagli innumerevoli corsi fluviali, paludoso nelle aree estensive e per una moltitudine di calamità naturali, reso improduttivo, in fine misero a dimora produzioni intensive.

Il periodo in cui gli albanofoni assunsero l’onere di assolvere queste due emergenze, viene  erroneamente ricordato come la fuga dalle gabelle, della delimitazione urbana, del basto e delle intercessioni della figlia del Kastriota con il governo partenopeo.

In questo intervallo storico i Sanseverino di Bisignano ristabilirono il controllo del territorio dalle incursioni e nello stesso tempo venne instaurato l’ideale mutualistico rapporto di cooperazione con gli ambiti intensivi che vennero messi in produzione.

Richiesto e ottenuto, attorno al 1538 l’integrazione di nuove capitolazioni, il permesso di costruire case in pietra, gli arbëreshë innalzando le modeste dimore all’interno dei loro presidi recintati, dando inizio d’ora in avanti, allo sgretolamento della solida cellula familiare allargata, in quello spazio che l’aveva sempre protetta; sheshi.

A  metà  del  secolo XVI, quando i principi Sanseverino di Bisignano avviarono il processo di rilancio dei loro territori, dopo la carestia e la peste, i terremoti che avevano sterminato gran parte della popolazione, nei paesi che diverranno i luoghi albanofoni, si contavano non più di una casa in muratura per ogni casale e non superando neanche la cinquantina, i casali minoritari, il territorio sicuramente appariva naturale e incontaminato.

Più che luoghi costruiti essi rappresentavano luoghi di aggregazione, in cui il riferimento edilizio era rappresentata dall’unica Kaliva in muratura, dalla chiesa e dalle capanne in paglia, vista l’estensione del territorio di riferimento si può facilmente dedurre l’irrilevante presenza del costruito rispetto al paesaggio naturale .

La caratteristica dei nuovi abituri di origine albanofona era rappresentata dal gruppo famigliare allargato che costruiva e modificava il territorio in maniera diffusa, insediandosi secondo schemi prestabiliti, nei tre ambiti della Calabria citeriore e precisamente quelli collinari della Sila Greca, del Pollino e della Mula che abbracciavano le valli dell’Esaro e del Crati.

Il visitatore odierno, di quel grande vuoto edilizio non può certo avere percezione, anche perché per cinquecento anni, sino al rilancio economico degli anni, sessanta, in queste aree si sono evoluti, modelli abitativi funzionali all’economia del territorio e nella più assoluta conformità di materiali, tecniche e tipologie edilizie.

Il rilancio del modello industriale e la differenziale capacità economica tra il nord e il sud dell’Italia sono diventati la spia di una crisi più generale del rapporto tra le comunità e il loro spazio di vita.

Un processo così capillare da apparire inarrestabile, verso il quale nessuna istituzione pone rimedio, ormai, così diffuso e radicato da costituire una grande metafora della crisi più generale e complessiva della Calabria interna.

A fronte di ciò, gli ultimi censimenti ci raccontano di un vero diluvio di case, questa volta nuove, per lo più grandi, isolate e disperse nelle periferie dei villaggi, quanto le vecchie erano accentrate e compatte, estranee per forma e sostanza costruttiva al loro contesto, tanto quanto le precedenti erano pensate  e costruite  sulla  misura  locale.

Assistiamo così al paradosso storico di paesi minoritari che crescono mentre si svuotano, che aggiungono case a case, occupando gli orti periurbani mentre la gente se ne va.

Il recinto e lo spazio vuoto tendono a contrarsi a vantaggio del pieno rappresentato dalla cellula edilizia.

Lo spostarsi dell’equilibrio dalla proto-industria all’industria determina distinzioni più nette tra spazio della produzione e luoghi della trasformazione e del consumo domestico.

Le attività direttamente produttive non abitano in questi territori, né chi siede a capo delle comunità, è in grado di produrre progetti solidi, mirati ad avere un senso compiuto.

Un giorno si decide, irresponsabilmente, di svendere i propri ambiti, poi si rubano idee a coloro che di questa etnia hanno una lucida visione conservativa e allora si decide di realizzare: gli alberghi diffusi, rilanciandoli privi di progetti che abbiano solida applicazione e in linea con la storia d’ambito.

Rendere noti e fruibili i propri contesti, attraverso elementi che hanno fatto la storia dei minoritari come ad esempio, il recinto, in cui emerge la cellula abitativa, la casa come fabbricato, in cui far rivivere frammenti di vita, farebbe rivivere le essenze più intime d’arberia.

Il momento storico che viviamo va vissuto utilizzando al meglio tutte le risorse della diversità culturale a nostra disposizione, nulla può essere attuato senza progetti, essi non devono contenere chissà quali caratteristiche speciali, infatti, l’importante che abbiano quei piccoli segni della tradizione albanofona.

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ENRICO CUCCIA, UN GRANDE ECONOMISTA ARBËRESHË

Posted on 26 novembre 2013 by admin

CucciaNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Enrico Cuccia nacque a Roma il 24 novembre 1907 da Pietro Beniamino e da Aurea Ragusa, il nonno paterno, Simone, era un noto avvocato siciliano di origini arbëreshë di Mezzojuso in provincia di Palermo, eletto in Parlamento dal 1882 per quattro successive legislature.

Il padre Beniamino, su consiglio e con l’appoggio influente di Guido Jung, agli inizi del secolo si trasferì a Roma, dove fu assunto al ministero delle Finanze.

Esperto di questioni fiscali e amministrative collaborò anche con, Il Messaggero, noto giornale romano allora controllato dall’Ansaldo dei fratelli Perrone.

Come la sorella, Enrico frequentò le scuole della capitale e terminato il liceo al Tasso e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, laureandosi col massimo dei voti nell’anno accademico 1929-30 sotto la guida di Cesare Vivanti con una tesi sui listini di Borsa e la speculazione.

È stato un banchiere italiano e rappresenta una delle figure di spicco della storia economico-finanziaria italiana del XX secolo.

Fu sposato con Idea Nuova Socialista Beneduce, figlia di Alberto, da cui ebbe tre figli, Beniamino, Auretta Noemi e Silvia Lucia.

Alla fine degli anni Venti la sua carriera iniziò con un triennio di tirocinio come cronista presso il Messaggero, che gli valse l’iscrizione all’albo dei giornalisti professionisti.

Nel 1930 fu assunto a Parigi nella Banca Sud-Ameris, nel 1931 era passato in Banca d’Italia, presso la rappresentanza di Londra; nel 1934 era stato chiamato all’IRI alla cui testa vi erano due personalità formidabili come Alberto Beneduce e Donato Menichella; nel 1936, fu inviato dal sottosegretariato per gli scambi e per le valute in Africa orientale italiana con l’incarico di creare le delegazioni del sottosegretariato e con quello informale di stroncare un traffico clandestino di valute.

Enrico Cuccia lavorò in Africa orientale italiana insieme al suo collega Giuseppe Ferlesch sotto le direttive di Alberto D’Agostino, capo della direzione generale delle valute  e sottosegretariato, al vertice del quale c’era Felice Guarneri.

Il suo lavoro fu accolto favorevolmente in Italia e il 1 luglio 1937, ritornato in patria per qualche giorno, fu ricevuto insieme a Guarneri da Benito Mussolini, quell’incontro venne evidenziato da un articolo apparso sul Corriere della Sera , nel quale si leggeva che: Il Duce elogiava il dottor Cuccia per il lavoro compiuto in circostanze particolarmente difficili.

Si trattava di un segnale, sottinteso ma chiaro, destinato a chi premeditava di attentare all’incolumità di Cuccia e diretto al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani e al suo entourage che non avevano gradito le intromissioni del giovane funzionario in una gestione amministrativa che Cuccia sospettava fosse caratterizzata da gravi irregolarità finanziarie e da un’interessata tolleranza nei confronti dei trafficanti di valuta.

Nonostante la situazione disagiata e pericolosa nella quale visse durante il periodo di permanenza in Africa orientale, nonostante le difficoltà e gli ostacoli, Cuccia operò con grande serietà e severità, stilando relazioni tecniche precise ed esaustive che puntualmente inviava a D’Agostino, ricevendone indicazioni e incoraggiamenti continui.

Le sue capacità innate a questo tipo di lavoro lo portarono ad essere chiamato anche nelle fila, della Comit diretta da Raffaele Mattioli.

Durante la seconda guerra mondiale si recò spesso in Svizzera allo scopo di sostenere la Resistenza, per la quale operò anche da staffetta con la copertura fornitagli dal fatto di essere un funzionario di banca di alto livello.

Fino dal 1944, Enrico Cuccia seguì la vicenda di Mediobanca, quando Mattioli propose un “ente specializzato per i cosiddetti finanziamenti a medio termine, in sostanza, un modo per superare la legge bancaria del 1936.

In un convegno tenutosi nel 1986 Enrico Cuccia descrisse con precisione le difficoltà incontrate nella realizzazione del progetto, che aveva richiesto oltre 18 mesi di laboriose trattative, sia per trovare dei partner che accettassero di entrare nel capitale del nuovo istituto sia per superare le obiezioni di chi, come il governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi, temeva che dietro questo progetto vi fosse di fatto il ritorno della Comit alla struttura della banca mista: ecco perché Cuccia organizzò il lavoro dell’istituto che gli venne affidato da un lato senza fare a meno delle Bin azioniste, ma dall’altro lato tenendo le medesime largamente all’oscuro delle decisioni che la banca stava per prendere, apprendendole generalmente a cose fatte.

Il 3 novembre 1944 fece parte della delegazione italiana, composta tra gli altri da Egidio Ortona e Raffaele Mattioli, che si recò a Washington con l’obiettivo di richiedere al governo statunitense aiuti per la ricostruzione post-bellica italiana.

Nell’aprile 1946, Cuccia divenne il direttore generale della nuova società Mediobanca, posseduta da Credito Italiano, Comit e Banco di Roma. Nel 1949 diviene anche amministratore delegato.

Mediobanca fu costituita il 10 aprile del 1946. Il capitale di 1 miliardo di lire fu sottoscritto per il 35% dalla Banca Commerciale Italiana e dal Credito Italiano e per il restante 30% dal Banco di Roma, divenne in breve tempo il centro del mondo finanziario e politico italiano. Il caso più importante, tra le numerose grandi transazioni economico-finanziarie gestite da Cuccia e da Mediobanca, fu sicuramente la scalata alla Montedison di Giorgio Valerio da parte dell’ENI di Eugeni Cefis.

L’istituto costituì il perno di un sistema di alleanze, che attraverso partecipazioni incrociate e patti parasociali garantiva stabilità degli assetti proprietari dei maggiori gruppi industriali.

Un altro aspetto importante dell’azione di Cuccia fu l’apertura internazionale che avvenne nel 1955.

Nel suo viaggio statunitense del 1965 Antonio Maccanico ebbe modo di apprezzare la considerazione che si avesse a Wall Street per Enrico Cuccia, il cui nome era all’epoca in Italia quasi del tutto sconosciuto al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori.

Nell’84, raggiunta l’età di 75 anni, l’IRI ne impose le dimissioni dalle cariche in Mediobanca. Ma dall’’88, dopo la privatizzazione dell’Istituto, fu nominato Presidente onorario e nel lungo periodo che va dal 1984 alla sua scomparsa, avvenuta a Milano il 23 giugno del 2000, Cuccia ebbe la fortuna di poter contare su due collaboratori straordinari, Salteri prima e poi Vincenzo Maranghi che erano cresciuti con lui e ne avevano assorbito gli insegnamenti, per cui, pur cessando dalla cura quotidiana di Mediobanca rimase pienamente inserito, fino alla sua morte, nei meccanismi decisionali della banca che aveva modellato con assoluta determinazione e di cui aveva fatto uno perno centrale nella vita economica italiana.

Per quanto riuscì a realizzare ottenne le seguenti onorificenze, il 2 giugno 1957 Grande ufficiale dell’Ordine e il 15 settembre 1966 Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito, entrambe, dalla Repubblica Italiana

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GIZZERIA E IL SUO CAMMINO STORICO

Posted on 14 ottobre 2013 by admin

GizzeriaGizzeria (CZ) – (di Camillo Trapuzzano) – Se il tempo da me previsto per scrivere questo saggio è stato molto più lungo di quanto avessi  immaginato,  ciò  è  dipeso  dal  fatto  che  ho  voluto  dare  ad  ogni  mia  affermazione  una giustificazione logica e ponderata, in maniera che anche i più restii possano convenire con la conclusione che mi sono prefisso di raggiungere: dimostrare la fondatezza storica della presenza arbëreshe a Gizzeria.

Questo, come tutti i post che seguiranno, è parte di un più ampio studio in corso sulla storia umana nel territorio di Gizzeria. L’obiettivo è quello di fare un po’ di chiarezza sul suo lungo e interessante passato. Gizzeria ha attraversato le fasi rilevanti della nostra Calabria -dal neolitico all’età contemporanea- conoscendo il suo massimo splendore nel periodo bizantino e in maniera più accentuata e riconoscibile, nelle sue implicazioni di tipo culturale e religioso, nonché nel nome nell’Età moderna- riuscendo a conservare rilevanti e variegate testimonianze culturali, onomastiche, toponomastiche e archeologiche delle epoche che ne hanno segnato la storia.

Schematicamente potremmo suddividere la storia di Gizzeria in tre grandi fasi:

a)  Cronistoria

   La prima fase, che dal Neolitico giunge agli inizi del XII, si identifica con  l’esperienza storica in cui sul territorio gizzeroto si riscontrano testimonianze  protostoriche relative a grotte e  utensili  (asce,  selci,  pesi;  punte,  raschietti  e raschiatoi  di  ossidiana),  a reperti archeologici: hydria, anfore greche, e tombe nelle località di  Viali,  Famularo, Comunelli, Celsito, Dirroito, Parracocchia, Valle Cerza, Cerzito, Sperone, Ministalle, Passo Carglio, Livadia, Valle Masi, Cecatella, o Aria de Magari, Spineto, San Nicola e Campolongo (in una di queste è stato rinvenuto un chiodo di  bronzo contenente un’iscrizione in Greco “ΑΙΩΝΟΣ” che indica il concetto di tempo infinito) che si datano tra il IV-III secolo a.C.. Dovette avere una sicura presenza in età  romana (epoca adrianea), “mausoleo di località Sperone”, del I- II secolo d.C., con riuso  fino al IV-V secolo d.C., documentato da una lucerna e da vasellame in sigillata  africana  e poi prerogative di villaggio bizantino nella parte bassa del suo territorio, quella collinare di Valle Masi, denominata [‘Casale Vecchio’ o

Paragolio’(antico centro, paese antico, gr. med. Παλαιοχωρίοη)], nella cui presunta area sono state identificate tombe, ed i resti di una muraglia che dovrebbero appartenere alla chiesa detta di San Nicola.

b)  Considerazioni

    In questo lungo e interessante periodo storico, di Gizzeria non v’è alcun cenno negli scrittori antichi: i reperti e le tombe con oggetti greco e romani, rinvenute nelle  campagne dei dintorni  di  Gizzeria  testimonierebbero,  tutt’al  più,  che  nel  territorio,   sorsero,  nell’età ellenistica, nel tardo impero e per buona parte nell’alto medioevo degli agglomerati di case: sparsi nella «chora» o «villæ», per la presenza di estesi latifondi e  di grandi proprietà signorili. Comunque nessuna di tali località è mai ricordata negli  scritti di quei tempi, neppure in quelli di carattere storico o geografico, né, d’altronde, è segnata negli “Itinerari”.

c)  Cronistoria

   La seconda fase, che va dalla metà del XII secolo a quella del XVI, incomincia dalla grave crisi  demografica,  economica,  sociale  di  metà  Trecento  dovuta  alla  peste,  alla  guerra, all’abbandono delle colture, ma anche per le frequenti incessanti incursioni saracene lungo le coste calabresi che si concretizza nello spopolamento del territorio gizzeroto (G. Galasso, Economia e società…, 1967).

Se  osserviamo  la  sequela  di  guerre  condotte  nell’Italia  meridionale  dagli  inizi  della penetrazione normanna fino alla fine della dinastia aragonese (1503), possiamo notare che è

un susseguirsi di furti e saccheggi che mettevano a dura prova le popolazioni autoctone: […] in quanto a devastazione. I normanni son peggiori dei saraceni e dei bizantini; prendono ciò che trovano, per cui molti cessano di coltivare la loro terra o abbandonano i loro monasteri […] (Centro Studi normanno-svevi- Università degli Studi di Bari, Roberto il Guiscardo …,

1991)

d)  Cronistoria

   La terza fase, infine, vede il ripopolamento, la rinascita del territorio e, dietro l’arrivo dei profughi Albanesi, il sorgere a nuova vita di Gizzeria con il suo statuto cinquecentesco e la sua diversità culturale e religiosa. Si instaura un nuovo rapporto col mondo delle campagne e del territorio lametino, determinando un riassetto territoriale legato allo sviluppo del polo lagunare dei laghi la Vota (che trova le sue motivazioni storiche ed economico-politiche nel quadro più ampio delle dinamiche tirreniche) dall’altro la  progressiva occupazione stabile del  territorio  gizzeroto  medio  e  alto  con  le  attività  per  l’allevamento,  la  pastorizia  il disboscamento e la messa a coltura di nuove terre.

A. È arrivato Godot. A proposito della presunta origine e della continuità storica tra il lontano passato e il presente.

Un gruppo di studiosi, guidati dal professore Emilio Rosato, hanno voluto individuare, all’interno di una ricostruzione complessiva della vicenda della civiltà bizantina, gli elementi di “continuità” che avrebbero caratterizzato la storia e le istituzioni del villaggio bizantino dal basso medioevo all’età contemporanea, relegando la vicenda dell’insediamento albanese di Gizzeria ad un ruolo marginale, come meccanismo di difesa di fronte ad un timore di “spaesamenti esistenziali e perdite di identità“.

Da quello che si riesce a capire dal resoconto prodotto dal Gruppo Acadjus, il lavoro è consistito nella presentazione di alcune ricerche storiche in polemica con quanto la cultura locale ha finora prodotto.

Nel  commento  si  dice:  “[…]  25  (venticinque)  cognomi  di  origine  albanese  in  tutto  il lametino. E’ il risultato della ricerca effettuata dal Prof. Giuseppe Masi che, avvalora, casomai ci fosse bisogno, lo studio del Prof. Burgarella sulla mitizzazione delle origini arbëreshe del Comune di Gizzeria. […] Anche questo studio, ha messo in serissima discussione l’attribuzione di origine albanese al comune di Gizzeria, scaldando gli animi dei gizzeroti presenti in platea che rigettano quanto assegnato alla loro storia da vecchi politici incauti nel loro operato e da nuovi persistenti su questo fronte”. […] secondo il prof. Rosato non è assoluta ma soggetta a mutazione e dipendente dal tempo. La ricerca storica ha evidenziato che dall’epoca dell’imperatore Basilio I, fine del IX secolo, periodo in cui fu fondata l’attuale Gizzeria, Gypsia, sino al 1500, presunta fondazione o rifondazione di Gizzeria dagli Albanesi, esiste un “vuoto di memoria storica”, un oscurantismo intenzionale a discapito della cultura calabro-greca ancora palpabile soprattutto nelle tradizioni popolari di Gizzeria […]Scrivere di una società di cui sono sopravvissuti pochissimi archivi e documenti ufficiali obbliga a fare appello a tecniche di ricostruzione e analisi molto diverse da

quelle familiari agli storici dell’età moderna[…].

Alla luce di quanto scritto dal Gruppo Acadjus sento la necessità di fare alcune precisazioni soprattutto per la correttezza d’informazione di cui tutti hanno diritto, non certamente per l’autore della stesura della nota. Pertanto, preciso quanto segue:

1.  Si può ovviamente dissentire da alcuni, o dell’intero contenuto, delle cose che sono sinora state scritte e pubblicate dagli studiosi locali, ma la rilettura storica, non basata su  dati e riferimenti qualificati, è inutile e superficiale – buona solo per le autocelebrazioni  -, in particolare non può essere accettata come lezione di storia perché a tutt’oggi non è stata né provata da nuovi documenti, né sono state pubblicate le varie relazioni da cui si evincono le fonti e le bibliografie che avvalorano la ricerca stessa. Cosi come non è accettabile la rimozione del ruolo storico e culturale che gli arbëreshe hanno avuto nella Gizzeria dell’Età moderna. Non si è trattato di

qualche sparuto gruppo di famiglia di origine albanese – come andate scrivendo – che casualmente si è fermato nel nostro territorio, ma di 65 nuclei familiari  che fermandosi  nel  territorio  di  Gizzeria,  allora non  popolato,  lo  hanno  fatto rinascere a nuova vita.

2.  C’è il tentativo più o meno velato, ma proprio per questo più subdolo e pericoloso, con cui il Gruppo Acadjus, mistificando i dati storici, tende a sopraffare e a inglobare la  civiltà  del popolo arbëreshe in quella, a loro parere, più  nobile dei Bizantini. Sic!!.  Una  sorte di razzismo  strisciante,  talvolta  persino  involontario,  che  nasce  dall’orgoglioso  senso  di appartenenza ad una civiltà superiore, su cui costruire una  identità collettiva. Una storia vecchia, che gli arbëreshe conoscono bene, per averla vissuta sulla propria pelle, nel corso della loro lunga storia, quando per baroni e vescovi, i nuovi arrivati non erano altro che dei ladri e degli assassini. Mentre Pompilio Rodotà nella  sua “Storia del rito greco in Italia” scriveva che: “I vescovi latini ignorando l’origine, la  santità ed i misteri del rito greco, l’abominavano come velenoso serpente“.

Gli Albanesi meritano attenzione e rispetto in ragione anche della loro storia. Erano illirici, in termini moderni albanesi, imperatori come Decio, Claudio II il gotico, Diocleziano e soprattutto Costantino. Costantino era di lingua illirica, così come erano di lingua illirica, con buona pace dei greci che se li disputano con i bulgari, e quindi, in termini moderni, albanesi, Filippo e Alessandro Magno. I quali, sì hanno portato la cultura greca verso est, ma la loro lingua di casa era l’antica lingua macedonica, che era una lingua di tipo illirico, di tipo albanese. Ancora adesso nel Kosovo e nell’Albania del nord c’è il toponimo mathi che ricorda appunto la radice del termine Macedonia. (Ires, Seminario di studi Albanesi, Torino

1966).

Inoltre mi preme rimarcare l’arroganza e l’altezzosità dei soci Acadjus, a loro dire, i soli depositari

del “sapere“, ignorando tutte le opinioni presenti nella società gizzerota.

Ritengo più semplice di ogni spiegazione riportare ciò che hanno detto e scritto che chiarisce bene  il  concetto  delle  loro  idee:  […]con  l’introduzione  del  moderatore  nonché  responsabile scientifico Emilio Rosato, il quale ha rimarcato la necessità di fare chiarezza sulle origini del paese, per arrivare a definire CON CHIAREZZA la reale verità storica di Gizzeria offuscata in questi anni da un ostinato connubio tra Gizzeria e la sua fondazione avvenuta ad opera di ceppi di derivazione arbëreshë. Una tesi, questa, che il Prof. Rosato ha respinto fortemente, spiegando che Gizzeria ha un’origine greco-bizantina, come tutta la Calabria e asserendo, inoltre, che “trasfigurare la storia di un popolo e le sue origini è responsabilità dal peso enorme quanto immorale, da contrastare  con  tutte  le  forze,  onde  evitare  spaesamenti  esistenziali  e  perdite  di  identità, un’operazione dovuta alle future generazioni“. […] Rosato, ha affermato che “le origini del paese sono da ricercarsi … nella storia greco-bizantina…, non certamente in falsi miti e ipotesi di studio portate avanti in questi ultimi anni“[…].

Non sono abituato a rispondere a chi mi insulta e non lo farò nemmeno stavolta, sebbene sarebbe sin troppo facile replicare al prof. Rosato, che mi dà dell’immorale e, in altra parte, di incompetente, facendogli notare come il suo comportamento in relazione agli studiosi di storia locale era un genere molto in voga nell’Ottocento (Marc Bloch e Lucien Febvre, le Annales, 1929).

Mi piace invece replicare, ricordando  al prof.  Rosato e al gruppo Acadjus, che quegli studiosi da voi detestati, quegli oscurantisti culturali e ignoranti, non hanno commesso un reato. Hanno scritto libri. Presentano documenti nuovi o interpretano a modo loro documenti che già conoscete. Debellarli, per voi alti sacerdoti della cultura, è dunque facilissimo: basta confutare le loro presunte “prove” e interpretazioni. Fatelo, signori. Farete un favore a tutta Gizzeria, perché la cultura di una piccola comunità avanza così, nella polemica senza censure preventive né tabù sacrali, e a voi stessi.

Nel confronto, ma voi ne ignorate il termine, le idee altrui si sconfiggono confutandole. L’esercizio di confutare esercita le menti, le rende più fini e sottili, costringe a informarsi. Quegli autori hanno lavorato e lavorano su materiali, libri e idee che circolano da almeno trent’anni: nel controbatterli, anche voi potete aggiornare la vostra cultura, nel caso fosse (come a volte pare) un po’ datata, ferma e sicura di sé in certezze cattedratiche.

Leggete le loro pubblicazioni ed anche voi sarete d’accordo che: Alfonsino Trapuzzano, più di quarant’anni fa, ha avuto il merito di far conoscere la storia di Gizzeria – fino ad allora nell’oblio

– oltre i confini della nostra Regione; Ettore Jannazzo, è uno scrupoloso ed attento osservatore del paesaggio storico e agrario del lametino; Michele Maruca Miceli, con il “Calendario Jezzaroto” ha raccontato tanta parte della nostra tradizione orale e riportato alla memoria tanti personaggi della nostra cultura contadina e, cosa più importante, ha avvicinato i nostri connazionali all’estero alle loro origini; Camillo Trapuzzano, per dare un senso alle vicende storiche gizzerote non si è limitato a scrivere la storia tout-court dell’insediamento di Gizzeria e delle rispettive vicende feudali, bensì di analizzarne alcuni momenti nodali ovvero presentare aspetti socio-economici e di costume così come sono venuti alla luce attraverso una lunga e paziente ricerca in vari archivi del territorio e in quello di Stato di Napoli.

Analizziamo ora perché questo tentativo è destinato a fallire miseramente con tutto il suo carico di boria accademica ottocentesca.

Vediamo  intanto  cosa  si  è  scritto  o  non  scritto  nella  documentazione  storica  e  nelle bibliografie su Gizzeria.

Gli studiosi delle patrie memorie, che si sono occupati di Gizzeria, concordano nel ritenere che il suo territorio ha conosciuto tutte le dominazioni che si sono succedute nella Piana Lametina dagli Enotri agli Spagnoli. La stessa archeologia sembra confermare tale percorso storico ma di questo ci occuperemo in un prossimo post.

Cominciamo col dire che Gizzeria non compare fra i borghi calabresi:

   Nelle cedole angioine del 1276 del Giustizierato di Calabria (G.PARDI, La popolazione

calabrese del 1276 e i Registri Angioini, in “Arch. stor. prov.nap.”, VII (1921);

   Fra le terre del Giustizierato di Calabria, che contribuirono alle collette dell’anno 1269;

   Non risulta nelle comunità soggette a tassazione nel periodo Angioino (Camillo Minieri

Riccio, Notizie storiche tratte da 62 registri Angioini, 1877)

   Nei registri della Cancelleria Angioina (Riccardo Filangieri, I registri della Cancelleria …,

1950)

   Nelle rilevazione dei fuochi del periodo Aragonese del 1447, Liber Focorum Regni Neapoli

conservato presso la Biblioteca Berio di Genova, non si contano fuochi censiti;

   Non viene fatta menzione del villaggio bizantino di Yussariae nei testi greci (F. Trinchera,

Sillabus graecarum…, 1865)

   Non viene fatta menzione del villaggio bizantino di Yussariae nelle Rationes decimarum

Italiae  dei  secoli  XIII  e  XIV  Apulia-Lucania-Calabria.  (Domenico  Vendola,  Rationes

decimarum…, 1939, figurano invece i casali di: Nicastro, Nocera, Maida, Feroleto, ecc., un certo Dominus Andrea de S. Eufemia;

   Nel Regesto Vaticano per la Calabria tra il XII e il XVI secolo (p. F. Russo, Regesto

Vaticano…, 1974;

   Nella  carta  topografica  al  250.000  a  cura  dell’Istituto  Geografico  De  Agostini  unita  al volume del Vendola, non è riportata la posizione di Gizzeria;

   Il monastero bizantino di San Nicola, non ricorre nell’elenco del Korolevskij; nell’elenco del Laurent; e nelle bibliografia sui monasteri visitati da Atanasio Calceopulo nel  1457-58 (M.H. Laurent- A. Guillou, Le liber Visitationis d’Athanase Chalkèopoulos  -1457-1458,

1960; e così pure nelle bibliografia di Francesco Russo, I monasteri greci della Calabria nel secolo XV, Supplemento al «Liber Visitationis» di Atanasio Calceopulo del 1457-58. XVI,

117.

Allo stato delle attuali conoscenze e delle ricerche fatte possiamo sostenere che Gizzeria, nel periodo storico tra il XII e il XV secolo, era feudo rustico, cioè senza comunità di uomini giuridicamente costituiti in Università.

 

Gizzeria, come entità avente potere giuridico e religioso, entrò a far parte della storia della

Calabria nel XVI secolo:

   Il Barrio riporta il nome di Gizzeria senza alcuna annotazione (Gabrielis Barrii Francicani,

De Antiquitate est Situ Calabriae…, 1571)

   Scipione Mazzella Napolitano nel 1586 ci informa che: Il villaggio di Gizzeria era, in quel tempo di 72 fuochi. I fuochi del villaggio sono anche riportati dal Giustiniani: “Gli abitanti sono Albanesi al numero di 800 in circa, addetti per la maggior parte alla sola agricoltura (Lorenzo Giustiniani, Dizionario Geografico – ragionato del Regno di Napoli, 1797). Nel

1521 fu tassata per fuochi 72, nel 1545 per 64, nel 1561 per 121, nel 1595 per 124, nel 1669 per 113, nel 1732 per 120. In (Giuseppe Caridi, Popoli e terre di Calabria, 2001).

   Il  Marafioti  scrive:  “sono  nel  convicino  di  Nicastro  alcuni  casali,  cioè   Gizzaria,   e Zangarona, li quali parlano in lingua Albanese“. (Girolamo Marafioti, Croniche e Antichità di Calabria, 1601)

   Giuseppe Maria Alfano di Gizzeria così scrive: Terra alla metà d’una collina, d’aria buona, Dioc. Esente, 8 miglia da Nicastro distante, 28 miglia da Caatanzaro, e 3 dal Golfo di S. Eufemia; Baliaggio della Religione di Malta. È abitata da Albanesi di Rito Latino. Pop. 846 (Giuseppe Maria Alfano, Istorica Descrizione del Regno di Napoli, Napoli 1823);

   Francesco  Tajani  in  “Historie  albanesi”  del  1866  scrive:  “finito  il  bisogno  delle  armi fermaronsi  nella  provincia  di  Catanzaro  presaghi  dei  tristi  giorni  all’Albania  riserbati. Sorsero così  “Andalo,  Amato,  Arietta, Carafa,  Casalnuovo,  Vena,  Zangarona”,  ai  quali seguirono”Pallagorio, San Nicola dell’Alto, Carfizzi e Gizzeria”.

   Domenico Zangari riporta il nome di Gizzeria e lo annovera tra i paesi arbëreshe ripopolati per emigrazione diretta, cioè gli Albanesi che giunsero a Gizzeria provenivano direttamente dai paesi balcanici “Gli Albanesi che popolarono Gizzeria dovrebbero  appartenere alle prime immigrazioni, con qualche aumento di coloni, al tempo di Carlo V, di quelli rifugiati nel regno, da Corone e da Modone“. (Domenico Zangari, Le Colonie  Italo Albanesi di Calabria, Napoli, 1941)

   The  Italo-Albanian  Villages  di  George  Nicholas  Nasse,  riporta  alcuni  dati  relativi  a “Altitudine and population of Italo Albanian“: Gizzeria, 630 m. slm, popolazione nel 1951 per 5486; nel 1955 per 5757. Inoltre “Religious rites ad languages of the  Italo-Albanian villages of Calabria and Sicily“: Gizzeria di rito “latino” e di lingua “albanian” (a mio parere

si tratta di un errore a quella data il lessico della parlata jezzarota era il calabrese), in Pietro

Scaglione, Istoria Shqipetarevet …, 1921).

Osserviamo ora più da vicino, invece, cosa dicono i documenti, rinvenuti presso vari Archivi di Stato, che parlano di Gizzeria, facendone una lettura critica, rielaborandone i testi e proponendoci di interpretare in maniera obiettiva e serena i contenuti.

 

B. Capitoli e Grazie

Il 1572 rappresenta per il casale di Gizzeria una data storica. Proprio in quell’anno, infatti, vengono  consegnate  nelle  mani  del  sindaco  del  tempo  Giorgio  Bideri  (cognome  arbëreshe)  i Capitoli e Grazie, il cui contenuto contribuiscono a chiarire la rinascita del casale di Gizzeria in età moderna.

Si tratta di 25 articoli che sanciscono il diritto per gli arbëreshe di Gizzeria e per quelli che verranno ad abitarvi, di costruire case, vigne e giardini nel territorio “Yzzaria”, ed i relativi obblighi, ratificando quindi ufficialmente, dopo circa 70 anni, il diritto all’insediamento.

Di seguito alcuni degli articoli, i quali si offrono alla lettura almeno da due angolazioni: una

intrinseca, si direbbe di contenuto; l’altra estrinseca, di fattura materiale e di tradizione.

Quanto alla prima, essa attiene alla natura particolarissima dei documenti in questione: i Capitoli, cioè le richieste inoltrate dai sudditi al potere centrale e alle quali l’approvazione regia conferiva valore normativo, in particolare sul difficile, iniziale rapporto tra immigrati e popolazione gravitante nel territorio lametino.

3 – Item supplicano, che loro bestiame possano pascolare in detto tenimento d’Yzzaria libere sine ali gus obstaiulo, dico in deto tenimento d’Yzzaria, e di Santa Femia liberi, siccome pasculano li cittadini de Santa Femia nello tenimento de detta terra, e non essere tenuti in altro eccetto ad iura palaggi accorrendo, e pagare li dannaggi comettessero alle robbe, e la censi de particolari possessori sincome godeno li cittadini de Santa Femia. S.S. Ill.ma  comanda che detti Greci siano trattati, e godano come cittadini de Santa Eufemia

Il primo dato è quello che “gli abitanti di Gizzeria vengono definiti – e si definiscono essi stessi – Greci “[…]. Secondo l’ampia storiografia, greci vengono chiamati gli italo/albanesi, in virtù del rito ecclesiastico ortodosso e non già per la loro nazionalità (Katia Massara, I possedimenti dei cavalieri di malta nella Piana Lametina in una Platea del 600, 2005).

13 – Item supp.no, che il Preite Greco, ch’havrà da comunicare in detto Casale e ministrare li sacramenti ecumenici piaccia a V.S.I., e R.ma  concederli due tumolate de terra, e questo per la loro comodità, e salute de l’anima d’V. S. Ill.ma, e R.ma, e d’essi cittadini, e similmente del censo della casa seù pagliaro et horto contiguo, et altre angarie; Selont.nta SS.I. come tanto si sarà uno, come se saranno doi Preiti Greci in detto Casale concede due tumolate de terra tantum, e non dupplicasse detta concess.ne perche fussero doi preiti, mà le tingano del pagliaro, e d’altre angarie siano franchi.

Il secondo dato riguarda invece la pratica del rito ortodosso nella Calabria del cinquecento e a Gizzeria in particolare. Tutti gli storici concordano che a quella data la Calabria era interamente latinizzata. Solo con la venuta degli arbëreshe venne reintrodotto il rito ortodosso “preite greco“, e a Gizzeria fu sostituito da quello latino nella prima metà del XVII secolo dalle autorità feudali (C. Trapuzzano, Gizzeria nei documenti storici, 2002).

24 – Item supp.no  che V.S. Ill.ma, e R.ma  se degni concederli, che niuno Italiano habbia, né possa abitare con casa in lo detto casale d’Yzzaria atteso per li passati sono successi molti scandali per habitare in detto casale alcuni Italiani, perché generalmente quando alcuno Italiano và ad abitare in lo detto Casale è persona de mala vita. S.S. Ill.ma Comanda che non sia lecito ad alcuno Italiano, altro che non sia Greco habitare in detto Casale con la casa eccetto si fosse necessario, ò utile à detto Casale, e con vuluntà, et ordine de S.S. Ill.ma, e R.ma

 

Da questo articolo sembra che la popolazione presente sia tutta di greci (italo/albanesi) poiché fa menzione dei soli Greci, come se non ci fossero stati altri cittadini di sangue italiano o calabrese.

Emerge inoltre la preoccupazione dei greci, che si adoperano energicamente per ottenere dal bali del Baliaggio di Sant’Eufemia fra Fabrizio Pignatelli “se degni concederli, che niuno Italiano habbia, né possa abitare con casa in lo detto casale d’Yzzaria”, ed in particolare che siano solo i greci ad abitare il casale “eccetto si fosse necessario, ò utile à detto Casale”.

Appare del tutto evidente che se la comunità di Yzzaria era formata da una “sparuto” gruppo di famiglie albanesi, come sostiene il prof. Emilio Rosato, presidente della associazione Acadjus, le norme in esame dovevano essere formulate diversamente: non erano certamente i greci che rivendicavano il diritto a che “alcuno italiano” abitasse o venisse ad abitare il casale ma erano gli italiani a rivendicare tale diritto.

Un altro aspetto da rimarcare, poi, è relativo alla data di concessione dei “capitoli e grazie“: se il paese esisteva già prima della venuta degli arbëreshe, non si capisce perché si è dovuto arrivare alla seconda metà del  XVI secolo  -1572- per  ottenerli,  quando  gli  abitanti  che vivevano  alle dipendenze dell’Abazia di  Sant’Eufemia  –  costruita da Roberto  il  Guiscardo nell’anno  1062-, godeva (sincome sono franche le case de Santa Femia[…]detti  Greci siano trattati, e godano come cittadini de Santa Eufemia), da data imprecisata – di tali privilegi.

È ragionevole perciò pensare che l’abitato di Yzzaria, a quella data, era un casale abitato da soli arbëreshe; che il rito ecclesiastico praticato era quello ortodosso, introdotto nel casale solo di recente, poiché il papas (prete) greco è un certo Domenico Trapuzzano, il cui cognome è attestato per la prima volta in Calabria con la venuta degli arbëreshe in Calabria e in Sicilia. Questo si evince

maggiormente da documenti coevi dove il prete greco risulta ammogliato, condizione questa non prevista dal rito latino.

C. Costume femminile

Con la parola “costume” intendo ciò che per secoli è stato il modo del vestire tradizionale di un luogo che variava da zona a zona.

Il vestiario dipendeva dalle origini storiche delle comunità che vi s’insediarono e dagli eventi

storici.

In Calabria, ricostruire la storia del costume, è un’impresa piuttosto difficile perché non

 

esistono fonti iconografiche, archeologiche e letterarie che ci riportano alle origini dei costumi calabresi.

Tutto ciò premesso, riprendo quanto sta scritto nel sito del Gruppo Acadjus in merito alla relazione sull’origine del costume femminile del lametino:

Ultimo relatore è stata Francesca Alessia Mirabella, laureanda all’Accademia di Belle Arti di Brera, ha trattato il tema “La pacchiana e le sue radici greche” esponendo diverse iconografie raffiguranti il costume della pacchiana e altri abiti della tradizione inerenti la Calabria e in particolare il lametino. Mirabella, nel corso della sua esposizione, è stata accompagnata da una ragazza che ha indossato un abito tipico della tradizione di colore nero, che rappresentava un abito da sposa.

Ospite della serata, Desiré Perri, ragazza di Gizzeria che ha partecipato alla kermesse Miss Calabrisella 2013 indossando il costume con il quale ha vinto la manifestazione itinerante sugli abiti tradizionali calabresi e vincendo la finalissima di Vallefiorita proprio venerdì 23 agosto“. (Resoconto del Convegno del 24 agosto 2013

Sicuramente  la  laureanda  Mirabelli  ha  dato  una  sua  testimonianza,  raccontando  che  il costume odierno del lametino è una variante di quello che indossavano le donne greche. Per cui, c’è da supporre, che anche quello di Gizzeria, ricadente in area lametina, per analogia, derivava, come base, da quello greco.

Recenti  studi  hanno  avuto  il  merito  di  farci  conoscere  un’altra  storia  sulle  origini  del

costume gizzeroto.

In una piccola pubblicazione dal titolo “Il costume femminile di Gizzeria” (C. Trapuzzano,

2005), l’autore avvalendosi di una ampia documentazione proveniente dall’archivio di Stato di Catanzaro – Sez. di Lamezia Terme – che conserva la raccolta degli atti dei notai della Piana lametina, ha cercato documenti per fornire elementi utili al recupero del vero costume di Gizzeria ma contestualmente ci ha regalato preziosi documenti dotali del 1600 e 1700 ed altri capitoli matrimoniali compresi fra il XVII e il XVIII secolo.

Il risultato finale della ricerca storica è stato quello di restituirci un elemento vitale della cultura arbëreshe di Gizzeria, il costume che da noi è scomparso da tempo remoto.

Al netto dei tanti limiti che la sola ricerca documentaria presenta nel fornici il modo come andavano indossati i vari pezzi del costume femminile sia un’occasione persa, ma per motivi opposti a quelli dei critici citati sopra: è un’occasione persa per fare autocritica. E per provare a spiegare al pubblico come stanno le cose senza facili indignazioni, altezzosa autoreferenzialità e quell’orribile  linguaggio  «accademico  ottocentesco»  che  non  solo  è  sgradevole,  ma  anche incomprensibile ai più, vediamo in dettaglio alcuni punti:

[…]Dai documenti nuziali più antichi, il primo, risalente all’aprile 1635, riguarda gli sposi Marco Masi e Minica Cralesi (Crialesi). Dotanti sono Jacobo e Joanne Cralesi fratelli di Minica che in San Biase presso lo studio del notaio stipulano il contratto relativo per il prossimo  matrimonio  fra  Marco  Masi  e  Minica  Cralesi,  promettono,  in  particolare,  i seguenti «beni mobilibus»: «una gonnella di lana nobile di cola torchino, dui altri di lana rustica, una usata e l’altra nova, dui dubretta con su missi uno paro de maniche di velluto nigro, due altra para di maniche di panno di stametta colorati, septi sottane, septe rindella, septe cimuse, septe caiule».

Il secondo atto vede, invece, il chierico Domenico Statti promette «in more clericando – e s’obliga di pigliare, et accettare per cara e leg(itti)ma sposa» Dolorice Graziano figlia di Gioseppe e Caterina Calabria i quali promettono in dote: «docati duecento di cui sessanta in beni mobili». Le parti convengono, inoltre, che la dote venga restituita nel caso che «la detta  futura  sposa  rimanga  senza  figli  legittimi  e  naturali,  discendenti  di  suo  proprio corpo», e che: «” ……, quia sic la vesti all’italiana, come so state vestite le sorelle carnali di detta futura sposa».

Nel terzo, futuri sposi sono Lorenzo Mauro ed Elisabetta Barone figlia di Francesca Giraldi la quale promette per il futuro matrimonio, i seguenti «beni mobili»: «uno matarazzo usato, una coverta di lana nigra lavorata, uno paro di lenzola, uno dobretto, uno sproviero, due sottane di donna lavorate all’italiana, una tovaglia di tavulo di cottone, una tovaglia di cistello, uno coscino usato, quattro stiavucchi di cottone, due mandili lavorati di seta nigra,

uno spallieri, una maijlla, una cascia d’abiete, due banchi per lo letto, et un altro per

sedersi, una frissura di ferro, uno ronciglio [..]».

Il quarto, invece, vede futuri sposi Antonio Statti e Margarita Palermo, figlia di Jacona Marotta, la quale promette: «à detti futuri sposi li beni mobili all’Albanisesca à cinque, à cinque e di più loro promettono uno saccone, una coverta di lana, uno sproviero di laborato di canne diece, uno dobretto di lino, nuovo all’uso, e sono a cinque, à cinque: cinque sottane, laborate all’uso, cinque caiule, cinque rindella, cinque cimuse […]».

Sono interessanti dunque alcune parti dei documenti, se non altro perché ci offrono uno spaccato, degno di ulteriori approfondimenti, sulla struttura della società di Gizzeria che a partire dalla seconda metà del  seicento, ruota attorno agli  «usi e consuetudini di detto Casale», e ci segnalano il peso dei matrimoni misti, cioè tra albanesi e italiani, sull’istituto degli usi e costumi.

Dal contenuto degli atti rogati dai notai Paola e Dara, apprendiamo che i patti dotali della comunità albanese di Gizzeria seguivano precise consuetudini, in conformità agli usi della lontana madrepatria «beni mobili all’Albanisesca à cinque, à cinque»; che i pezzi del costume femminile, con  regolarità  descritti  in  tutti  gli  atti,  erano  costituiti  da:  sottana,  cajula,  rindella,  dubretto, maniche e cimuse; che i vari pezzi del costume femminile erano tessuti o lavorati a mano, secondo gli usi e costumi del tempo: «laborate all’uso, e consuetudine del detto Casale», oppure le maniche di donna «di velluto nero guarniti all’uso italiano dico albanese»(atto notarile notaio Domenico Antonio Dara), diversamente era precisato il tipo di lavorazione: «due sottane di donna lavorate all’italiana», veniva, inoltre, precisato, quando l’abito non era quello degli usi e costumi del paese, come doveva andare vestita la donna: «….. la vesti all’italiana, come so state vestite le sorelle carnali di detta futura sposa »; inoltre, che il copricapo cajula – kesa  in albanese – veniva posta sulla testa delle spose novelle, secondo usi della tradizione albanese che non si osservano nella cultura occidentale e calabrese in particolare.

Apprendiamo,  infine,  che  sia  per  il  seicento  che  per  la  prima  metà  del  settecento  si mantengono grosso modo le linee e la fattura dell’originario costume femminile albanese, mentre, è verso la fine del settecento e maggiormente nell’Ottocento, che le donne di Gizzeria cominciano a rendere il loro abito simile a quello dei paesi limitrofi. La presenza nella dote – in particolare nei matrimoni misti – di pezzi d’abbigliamento come: mandile, scuffie, spalleri, che appartengono alla tradizione calabrese, lasciano pensare questo.

Sebbene l’attuale comunità di Gizzeria abbia perso l’identità e a volte anche la memoria storica delle proprie radici e della propria cultura etnica, non è azzardato, dopo un attento studio dei documenti, affermare che gli stessi ci riconsegnano sorprendenti elementi pieni di significati molto più forti di quanto ci sembrino nella descrizione degli atti notarili e connessi con la cultura delle comunità arbëreshe della Calabria di quegli anni […]. (C. Trapuzzano, Il costume…, 2005).

D. Struttura socio-economica di Gizzeria nel Cinquecento

Gizzeria, posto alle pendici dei primi contrafforti del monte Mancuso, poggia le basi della sua storia

urbanistica sulla nascita del primo nucleo abitativo attorno all’attuale sito.

Nel censimento ufficiale della popolazione del casale di Gizzeria, nel 1544, figurano 65 nuclei familiari, per una popolazione complessiva di 245 unità.

Qui di seguito riportiamo, a titolo esemplificativo e non esaustivo, alcuni nuclei familiari, la loro condizione sociale ed economica, tratte da “Il casale di Gizzeria sulla base dei fuochi del 1544” di Camillo Trapuzzano:

1)  Angelo Dara di anni 26, sua moglie Angela di anni 23, Joanne figlio di anni 4, Bascia figlia di anni abita in detto casale da 3 anni. Possiede tugurio e due bovi.

2)  Cosmiano Buba di anni 31, sua moglie Lucretia di anni 23, Menico figlio di anni 4, Maria figlia di anni 3. Abita in detto casale da 10 anni. Possiede tugurio ed un bove.

3)  Joanne Francze di anni 17, sua moglie Maria di anni 18. È nato in detto casale. Possiede soltanto il tugurio.

4)  Thodaro Cacossa di anni 44, sua moglie Margarita di anni 37, Georgio figlio di anni 16, Demitre figlia di anni 1 figlio di anni 16, Demitre figlia di anni 14, Joanne figlio di anni 6, Antonio figlio di anni 3, Bascia figlia di anni 9.  Abita in detto casale da 8 anni. Possiede casa, vigna e tre bovi.

5)  Menica vedova del quondam Giovanni Brescia di anni 37. È sola e poverissima.

6)  Angelo Mase di anni 52, sua moglie Vascia di anni 42, Joanne, figlio di anni 22, Thodaro figlio di anni 19. Abita in detto casale da 35 anni. Possiede tugurio, vigna e tre bovi.

7)  Antonio Brescia di anni 37, sua moglie Polisena di anni 22, Thodaro figlio di anni 6, Rosa figlia di anni 2. Non possiede nulla.

Le informazioni che si possono desumere dalla sua analisi si prestano ad alcune riflessioni:

Onomastica

Si osserva, in primis, da un punto di vista demografico,  che nel 1544, la popolazione giovanile era composta da nativi di Gizzeria, ossia erano tutti nati nel territorio gizzeroto, mentre i loro genitori vivevano nel territorio gizzeroto da almeno 35 anni.

La ricerca onomastica ha altresì evidenziato che i cognomi presenti nei fuochi del 1544, (C. Trapuzzano, Il casale…, 2012), sono riconducibili alla diaspora albanese, come, ad esempio, il cognome Masi.

Il Dorsa include il nome di Masi o Masci tra alcune delle nobili famiglie Albanesi: «tra i vari condottieri che si distinsero per valore e per fama sotto Carlo V, si ricorda un Nicolò Masi comandante la cavalleria dei Stradioti composta di 500 cavalli, e famosa in Italia dopo i soccorsi apportati da Castrista a Ferdinando d’Aragona. (V. Dorsa, Gli Albanesi ricerche e pensieri, 1847)

Il cognome Masi è inoltre attestato in molte località arbëreshe:

[…]  Oggi  attestato  nella  comunità  nella  forma  Masi,  che  compare  già  nella  seconda registrazione del 1595, compresa nella Platea del 1614. Secondo Giuseppe Valentini S.J. (cf.

‘Sviluppi onomastici-toponomastici’, cit., p. 8), “[…] il cognome Mansius, de Masio, de Massio (che però potrebbe essere Mashi), è frequentemente attestato nel Catasto veneto per la regione scutarina del 1416-1417; poi dal 1482 al 1549 troviamo dei Masi, Maza, Massi e Maxi (Masci?) tra gli stradioti; un Matteo Masa nel 1487 è tra i fondatori di Piana; un Colla Massi e un Marin Massdi (Mazi? Masci?) figurano tra i ‘vecchi capi principali’ del 1602 l’uno per la provincia di Petrella e l’altro per quella di Padenia (‘), e un Mazi è un cognome che si sente ancora non infrequentemente nello Scutarino; nella toponomastica abbiamo un Mazi presso Janina nell’antica regione dei Malacassi, detto altrimenti Mazia, e un Mazia presso Paramythia, un Masi o Mazion nell’eparchia di Konica; 3 Mazi nel nomo di Attico- Beozia, eparchia d’Attica e Megaride, e uno per ciascuna delle eparchie di Argo, Corinto, Elea, Olimpia’. La forma oggi più diffusa di tale cognome, Masci [alb. Mashi] potrebbe rappresentare, come ipotizza il Solano (cf. Francesco Solano, ‘La realtà storico- linguistica delle comunità albanesi d’Italia’, in F. Altimari e L.M. Savoia (a cura di), I dialetti – italo.albanesi, cit., p.73) anche la forma italiana scritta – con evidenti condizionamenti

ortografici  dovuti  al  più  ridotto  repertorio  fonologico  (e  grafemo)  dell’italiano  rispetto all’albanese – dell’originale Mazhi (così nella parlata di Eiannina, in cui tale cognome è tutt’oggi presente, si sente oggi pronunciato il cognome che viene trascritto però Masci):

‘non essendovi nella ortografia italiana un segno che rappresentasse il suono /C/ si è ricorso al grafema più prossimo, ossia <@>’[…]. (Francesco Altimari, Tracce onomastiche albanesi nella comunità calabrese di Gizzeria, 2006).

Insediamento umano

Al tempo della sconfitta del Centelles il territorio di Gizzeria era ormai disabitato. La lunga crisi -economica e politico-sociale aveva reso deserte molte aree della Calabria.

Gli storici son d’accordo nel ritenere la Calabria dei secoli XI- XV, una terra impoverita e spopolata a causa di una serie di congiunture negative.

Scrive Giuseppe Caridi, la Calabria nei documenti storici, pp. 12-13: «[…] per quanto riguarda la popolazione calabrese, notizie certe della sua notevole diminuzione si possono desumere dal confronto di alcuni superstiti registri fiscali compilati nella seconda metà del Duecento e a metà del Quattrocento. Nel 1276….   vi erano 393 agglomerati urbani ……a distanza di 169 anni, nel

1443  …..risultano  soltanto  245  centri  abitati, 148  in  meno rispetto a 169  anni  prima. […] Il decremento demografico, che fu generale, colpì tuttavia in misura maggiore le aree costiere e quelle situate lungo gli itinerari degli eserciti […]».

Sotto la dominazione spagnola le deserte contrade di Gizzeria andavano popolandosi di famiglie albanesi, profughe dalla loro patria invasa dai Turchi.

[…] A far ripopolare il territorio fu quasi certamente l’allora priore di Sant’Eufemia, fra Fabrizio del Carretto, una delle più influenti personalità politiche nel Regno di Napoli. Obiettivo del priore era quello di bonificare e risanare il territorio, disabitato da secoli, per consentirne lo stanziamento alla popolazione che in quei luoghi, lontani dal mare ed ubicati in anfratti nascosti per chi sbarcava lungo le coste del Tirreno, erano considerati sicuri e molto difendibili dalle scorrerie dei pirati.

Il contributo determinante in questa direzione, cioè il ripopolamento, fu dovuto, tuttavia, ad un fattore esterno: il trasferimento nelle terre di ‘Yussariae’ di numerosi profughi albanesi, sodali di Gjergj Kastriota Skanderbeg. Provenienti da tutta l’Albania e da varie regioni della Grecia, queste popolazioni, durante il XV secolo ed anche successivamente, vennero a rifugiarsi nel regno di Napoli per sottrarsi all’invasione ottomana della loro patria […]”. (C. Trapuzzano, Il casale di…, 2012)

Struttura urbana

È del tutto evidente, infine, che il nucleo urbano che si stava componendo, costruito senza alcuna regolamentazione urbanistica ma seguendo l’aspra morfologia del terreno roccioso, non era compatto e solido come i tradizionali centri storici medioevali, ma vi erano “tuguri” sparsi, forse monofamiliari, composte da un solo ambiente in cui si svolgeva la vita domestica.  Si tratta – come ben si può vedere – di un’area di relativa recente formazione, ed i cui fatti urbani fondativi più salienti sono da ricondurre, probabilmente, tra la fine del 1400 e i primi anni del 1500.

Che sia un sito, quello dell’attuale centro urbano, di recente formazione lo testimonia il fatto che non mostra alcun segno di stratificazione archeologica, ossia che il paese sia stato costruito su un precedente insediamo urbano. Dati che sono in netto contrasto con la presunta stratificazione storica del luogo sostenuta dai soci dell’Associazione Acadjus.

 

Condizioni di Vita

I suoi abitanti erano per lo più di povera gente, abbrutita dalle disagevoli condizioni di vita, il cui destino era lavorare la terra e cercare di sopravvivere, con i pochi mezzi che il feudatario aveva messo a loro disposizione; Essi erano cittadini senza terra e senza diritti, una testimonianza che si trattava ancora di uno stanziamento, ancora nomade, vagavano alla ricerca, sulle colline, di acque  e  di  terre  da  disboscare  e  mettere  a  coltura  e  passando  solo  in  secondo  momento all’insediamento fisso.

Fu  solo  dopo  una  lunga  evoluzione,  attorno  al  XVII  secolo,  che  semplici  abitazioni “pagliai“, ossia capanne costruite con pietra a secco e coperte con tetti rivestiti di rami, usati fino ad allora come abitazioni, vennero sostituiti con costruzioni più stabili e si accrebbero anche i bisogni, per cui chiesero e ottennero terreni da coltivare.

La Platea della terra di Gizzeria del 1624 ci informa di queste iniziali trasformazioni:

Giorgio Dianì alias Camera

    Per una casa loco detto li Rosati, confine la casa de Vincenzo Lata, la casa che fu de Cola

Rosato et via pubblica: grana dieci.

    Per una terra d’una quatucciata alla Costa de Valli delli Pira, confine la terra de Cola e

Thodero Dianì et Andrea de Brella Crapis: grana sei e mezzo;

    Per una metà di casa e metà d’horto contiguo loco detto li Rosati che prima fu de Yanne Rosato, che l’altra metà è posta all’herede de Paulo Thoya, confine la casa che fu de Brella Manis, Antonio Rosato et via pubblica: grana setti e mezzo;

    Per una tumulata de vigna e terra tumulate tre à Santa Dominica, che prima fu d’Yanne de

Cola Rosato, confine la possessione d’Yanne de Pietro Greco, Andrea Thoya, heredi de

Minico Stati et via pubblica: un carlino e grana setti e mezzo; (Katia Massara, I possedimenti

dei Cavalieri…, 2005

Da tale descrizione e a poco più di cento anni dal loro insediamento -superato, o almeno sembra, lo stadio di nomadismo- il casale e i suoi abitanti hanno terre da coltivare, una casa meno precaria e la toponomastica assume un profondo significato storico-culturale.

A  fronte  di  una  economia  di  sussistenza  e  scambio  fra  beni  e  con  una  popolazione prevalentemente  agricola  permangono  condizioni  di  povertà,  le  uniche  differenziazioni  che implicano  una  gerarchia  di  classi  sociali  sono  quelle  rappresentate  dai  “pecorai“,  “vaccari”  e “bracciali“. Sono questi gli unici segni distintivi di una società non già storicamente consolidata che può far valere secoli di insediamento in un luogo ma quello di una società, giovane di recente insediamento, che si andava strutturando in dimensione giuridica. Una società dinamica, più ricca e differenziata che in parte troviamo nel Settecento.

Il territorio di Gizzeria in quegli anni era, nella sua parte montana, una folta selva, priva di abitazioni, ai primi abitatori fu concesso loro il diritto di pascolo, e la possibilità di disboscare e di coltivare i terreni. Per lunghi anni i terreni arativi destinati a colture di pregio, come i cereali e gli ortaggi, occupavano una stretta fascia immediatamente a contatto con il villaggio. I primi anni furono, quindi, caratterizzati dalla miseria, le precarie condizioni economiche impedivano ogni forma  di  sviluppo  e  li  costringevano  a  vivere  nell’ignoranza.  L’isolamento  geografico  e  il linguaggio incomprensibile per gli abitanti dei paesi limitrofi, la diversità del carattere ed il rito religioso (greco-ortodosso) segnarono per lunghi anni la loro esistenza. Solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, come si evince dai libri parrocchiali e dalla documentazione coeva, la comunità di Gizzeria è più aperta e ricca di rapporti con le altre località della Calabria. Ciò è dimostrato dai registri dei battesimi e dei matrimoni, nei quali sono indicati i nomi, i cognomi ed i luoghi d’origine dei padrini cosi come numerosi sono i matrimoni tra gli Albanesi di Gizzeria e gli Italiani. Tutto ciò favori gli scambi commerciali dei prodotti della terra, ma anche dei prodotti artigianali quali coperte ed altro, cosi come abbastanza diffusa doveva essere la pratica del prestito di soldi per come si evince da alcuni atti notarili, indice questo anche di una certa disponibilità “finanziaria” almeno delle famiglie più agiate.  Mentre l’abitato  andò,  via via incrementandosi

grazie anche alle massicce migrazioni interne. (C. Trapuzzano, Gizzeria nei…, 2002)

Era questa, quindi, la condizione giuridica, demografica e sociale del casale di Yzzaria, nel territorio Lametino.

E. Convegni del Gruppo Acadjus

Poiché dagli  interventi degli  organizzatori  del Convegno  di  Torre dei  Cavalieri  del  09 febbraio  2013,  non  sono  stati  aggiunti  ulteriori  elementi  di  novità  rispetto  alla  tradizione storiografica, anzi si è volutamente ignorata; e poiché non si può capire la storia di Gizzeria nell’età moderna se si ignora la diaspora albanese e non si può parlare degli Albanesi se si disconoscono le cause che la determinarono, non riusciamo ad immaginare proprio come il prof. F. Burgarella abbia potuto giungere alla sua interpretazione.

Dice il prof. Burgarella:

[…]  da  quello  che  ho  detto  risulta  evidente  un  fatto  il  toponimo  Gizzeria  è  di  epoca bizantina ma potrei dire anche che forse è di epoca precedente a quella bizantina: si tratta di un toponimo di epoca tardo romana se non romana ed indica in maniera inequivocabile una “cava di gesso”[…].

Non  si  può  che  essere  di  questo  parere.  Anche  perché,  sia  G.  Alessio,  Saggio  di toponomastica Calabrese, 1939 che C. Trapuzzano, Gizzeria tra passato e presente: i nomi e i luoghi, 2007, hanno avuto modo, in più di una occasione, di scriverlo.

Dunque (come F.  Burgarella) il  toponimo  Gizzeria ha origine sia  nel  greco  medievale “Γυψαρίο” (cava di gesso) che nella forma originaria latina “gypsum” in quanto fin dall’epoca romana si ricavava appunto calce e gesso dalle abbondanti rocce calcaree.

Se l’etimologia della forma Italiana attuale del toponimo è dunque da gypsum dei Latini in cui si designava una “cava di gesso” ossia una località caratterizzata da particolari forme del terreno o ambientali, ciò significa che il termine veniva adoperato per indicare, dell’attuale territorio, solo la parte relativa alle cave di gesso, cioè identificava un luogo ma non un paese “Vicus, Loci, Choria, Casale”, cioè una unità insediativa stabile, vero e proprio villaggio rurale.

Anche se le origini di Gizzeria rimangono ignote, o, meglio, non si riesce a collocarle con precisione nel tempo e la letteratura antica non offre nulla su cui appigliarsi, e la formazione del toponimo può essere sia romano che bizantino, è interessante sottolineare sia la conferma “della non provenienza del nome dagli albanesi, proprio perché il paese c’era già almeno dall’anno 1062, in tempi in cui la trasmigrazione albanese in Calabria era lontana”(C. Trapuzzano, Gizzeria nella…,

2002)  che  una  smentita  della  colossale  balla,  sostenuta  del  Gruppo  Acadjus,  sulla  presunta fondazione bizantina di Gizzeria medioevale che ha dato origine alla Gizzeria dell’età moderna.

Gizzeria è un paese storicamente giovane anche se nel suo territorio, una volta molto più esteso,  sono  state  rinvenute  nel  tempo,  chiarissime  tracce  di  testimonianze  antiche  sin  dalla Preistoria, cioè di un popolamento rurale sparso nella fascia precostiera fino almeno alla prima metà del XII secolo e rinvenimenti di reperti archeologici, molti dei quali, andati perduti.

L’attuale posizione geografica, posta su un’altura che consentiva il controllo della piana lametina, è il risultato della urbanizzazione, già a partire dal XVI secolo, operata dagli albanesi.

Il prof. Burgarella ci informa anche che: […] io sono rimasto sorpreso nel leggere nel Dizionario Toponomastico e Onomastico di Gerhard Rohlfs che Gizzeria significa cittadina abitata dagli albanesi. Non sta da nessuna parte. Sono rimasto sorpreso, adesso capisco perché, quando

un collega illustre che si è occupato in anni lontani di Gizzeria a proposito di un convegno mi riferisco  a  Daniele  Gambarara,  mi  aveva  chiesto  come  si  dicesse  in  greco  “zingaro”  perché evidentemente  si  cercava  di  spiegare  il  termine  Gizzeria  in  termini  di  legame  etnico  con  gli albanesi, di legame linguistico con gli albanesi e soprattutto in termini di collegamento con gli zingari […] Naturalmente qui il problema diventa per così dire di estremo interesse perché il problema finisce con richiamare le radici di Gizzeria[…]

Non staremo a commentare la fondatezza di questa visione. Notiamo solo che in questa esposizione il relatore intende presentarci una interpretazione conosciuta a priori, anche se ce la prospetta, sorpreso (sic.!), come scaturente dall’osservazione dei fatti narrati e che gli serve solo a dare carattere di maggiore credibilità al suo messaggio, a quella interpretazione della realtà che si trova alle radici delle origini bizantine di Gizzeria.

Ma la cosa sorprendente è la riproposizione della assai discutibile lettura sul significato etimologico del termine, che si ritrova solo in G. Rohlfs, senza tener conto della storia e dei nuovi apporti e contributi linguistici davvero straordinari più recenti, che abbiamo avuto modo di trattare in varie pubblicazioni.

Le  osservazioni  dell’illustre  studioso  proseguono  esaminando  la  diaspora  albanese  e  le

diverse interpretazioni fornite in passato dagli studiosi. Ecco le sue testuali parole:

[…] Gli albanesi sono senz’altro venuti, hanno avuto modo di insediarsi, però per quanto riguarda Gizzeria, diciamo, non c’è altra testimonianza, anzi secondo la ricostruzione di Mandalà, secondo quello che dice Mandalà, che è uno studioso albanese di Sicilia, Ordinario dell’Università di Palermo, ecco secondo quello che egli dice naturalmente la venuta di Demetrio Reres, tutto il mito dei fratelli Reres è tutto un mito che è stato costruito sulla base di fonti posteriori che sono state palesemente fabbricate attorno alla famiglia Rodotà […]

[…] Mandalà si sofferma in maniera molto analitica sugli sviluppi di questa leggenda volta ad amplificare la venuta degli albanesi anche in contesti in cui gli albanesi probabilmente c’erano o  se  c’erano,  c’erano  in  maniera  molto  limitata  e  viene  notato  che  Gizzeria  viene  inserito esattamente – leggo quello che ho scritto – per completare sino al parossismo, ripeto è lo studioso che quando ha presentato questo libro all’Università c’è stata uno scontro epocale tra gli studiosi di stretta obbedienza albanese e gli studiosi invece che avevano a cuore la correttezza della documentazione storica, l’autenticità della documentazione storica, […] per completare, sino al parossismo, l’effetto delle colonizzazioni dei militari di Demetrio Reres è intervenuto sul finire del secolo XIX Francesco Tajani il quale, decise non solo di modificare l’elenco “ufficializzato” da Dorsa, ma anche di aumentare il numero dei paesi, che da sei passarono a undici[…]

[…] È significativo un fatto, e con questa considerazione concludo, che l’enfatizzazione delle origini albanesi viene fatta nell’Ottocento e questo è molto importante, significa meno di due secoli fa significa la mitizzazione degli albanesi era per così dire un ingrediente indispensabile perché l’Italia umbertina potesse aspirare al suo spazio nella penisola balcanica […] Quindi sono orientamenti che sono suggeriti da esigenze politiche di natura non strettamente collegati con la documentazione storica […].  (Tra […] la trascrizione della registrazione dell’intervento del prof. Burgarella  al  convegno  dell’Associazione  Acadjus  del  09  febbraio  2013.  Testo  non  rivisto dall’autore)

Concordo con l’intervento del Prof. Burgarella che interpreta il prof. Mandalà in merito alla presunta colonizzazione operata da Demetrio Reres. Il quadro sulla venuta degli albanesi non è ancora compiutamente definito, per dirla con le parole del prof. Burgarella, è ancora “sub judice”.

La figura di Demetrio Reres è questione intorno alla quale si è dibattuto a lungo. In passato alcuni studiosi hanno scritto che, intorno al 1448, il condottiero Demetrio Reres, dietro invito di Alfonso I d’Aragona sbarca in Italia con un contingente di albanesi per fronteggiare le rivolte contadine scoppiate in  Calabria. Ad operazione conclusa, gli albanesi  ottengono in cambio di potersi stabilire in alcune contrade e ripopolarono alcuni paesi attorno a Catanzaro (Andali, Arietta, Caraffa,   Carfizzi,   Gizzeria,   Marcedusa,   Pallagorio,   S.   Nicola   Dell’Alto,   Vena   di   Maida, Zangarona), da altri non è stato riconosciuto invece l’aiuto di Demetrio Reres prestato ad Alfonso d’Aragona e che non ci sono documenti attestanti che i suoi soldati abbiano avuto il permesso di restare in Italia e di ripopolare casali disabitati o fondarne di nuovi.

Quest’ultima tesi sembra ormai non lasciare spazio ad alcun dubbio, giacché di recente è stato possibile dimostrare che il diploma che riporta questa notizia «si tratta di un diploma dato a Gaeta il 1° settembre 1448, inserito negli atti del Notar Diego Barretta di Palermo, che lo registrò il

24 settembre 1665, in cui Demetrio Reres, valoroso capitano degli Epiroti, condottiero di tre colonie

albanesi si era adoperato con faticosi servizi militari per la conquista di tutta la provincia della

Calabria Inferiore, insieme con i figli Basilio e Giorgio» (Pietro De Leo, Gli albanesi…)  è un falso.

Precisiamo, comunque, che dire che la figura di Demetrio Reres non è mai esistita è una cosa, dire o far sembrare una pura deduzione logica che venuta meno la figura di Demetrio Reres i casali sorti negli anni della rivolta dei baroni in Calabria non sono mai stati ri/fondati è un’altra (tant’è che lo  fa anche  il prof. Mandalà nella sua pubblicazione, citando proprio il lavoro  di Domenico Zangari).

Resta pertanto chiaro sia per Mandalà che per Domenico Zangari che Gizzeria rappresenta uno  tra  i  primi  insediamenti  albanesi  d’Italia:  “[…]Gli  Albanesi  che  popolarono  Gizzeria dovrebbero appartenere alle prime immigrazioni[…]”. (D. Zangari, Le Colonie…., 1941).

Il prof. Burgarella, dopo aver affermato che alla presentazione del libro di Mandalà ci fu uno scontro tra innovatori e conservatori sulla corretta interpretazione della documentazione storica, aggiunge per altro che FrancescoTajani, nella seconda metà dell’800, per motivi anche “nazionali”, fece una sorte di miracolo, moltiplicando i casali albanesi, “che da sei passarono a undici“.

Ma vediamo cosa dice in realtà Francesco Tajani nel suo “Historie albanesi” del 1866, scritto, come egli afferma, “gli scrittori dei tempi ne registrarono con bastante precisione gli arrivi, a noi resta soltanto il coordinarli con gli avvenimenti storici“. Ed è ciò che il Tajani ha fatto, riportando correttamente l’elenco dei casali che, in quegli anni turbolenti, popolarono le terre calabresi. Egli scrive:  “Sorsero così Andalo, Amato, Arietta, Caraffa, Casalnuovo, Vena, Zangarona,  ai quali seguirono Pallagorio, S. Nicola Dell’Alto, Carfizzi, Gizzeria”.

Come ben si può notare, per la maggior parte si tratta di casali che ancora oggi continuano a conservare la lingua, ossia a tutt’oggi parlanti l’antico idioma.

Per quanto riguarda invece Gizzeria la documentazione storica in nostro possesso ci dice che il  casale  conservò  il  rito  religioso  fino  ai  primi  anni  del  XVII secolo,  mentre  per  la  ricerca linguistica siamo di fronte ad un classico esempio di archeologia linguistica.

Siamo  cioè  in  presenza  della  sparizione  della  lingua  d’origine  da  tutti  i  “domini

comunicativi“, cioè, “la dismissione di un’abilità linguistica ad opera dei singoli parlanti di una data comunità per effetto della scomparsa del mondo culturale ed economico che tale comunità motivava e teneva insieme“. Maria Francesca Stamuli, Morte di lingua …, Università degli Studi di Napoli Federico II -Dipartimento di Filologia moderna, 2008

Appare altresì evidente che prima della venuta degli arbëreshe il territorio di Gizzeria era spopolato e che non esisteva alcun centro abitato, diversamente avremmo dovuto rilevare, dai

fuochi del 1544, i cui dati demografici si possono tranquillamente retrodatare agli inizi del XVI

secolo, qualche latino o italiano nato o residente nel casale. (C. Trapuzzano, Il casale…, 2012).

Qualcuno, forse si aspettava di trovare il casale ancora abitato dai signori bizantini che, rimasti a corto di manodopera, aspettavano i “cafoni” albanesi per rimettere a coltura le terre abbandonate. E invece no, nulla di tutto ciò emerge, anzi i documenti analizzati ci restituiscono un luogo non mitizzato, ma abitato da uomini e donne, persone “in carne ed ossa” che, una volta fuggiti dall’Albania e dalla Grecia, trovarono le terre di Gizzeria disabitate e le andarono a popolare. E, a distanza di cinque secoli, noi ne siamo fieri discendenti.

A maggior conferma poi dell’asserzione del Mandalà/Zangari, concorrono altre circostanze di non poco rilievo desunte da una serie di documenti ampiamente trattati ed affrontati in questo saggio e in recenti studi e pubblicazioni.

È evidente che nella fretta e nella preparazione del convegno di Torre dei Cavalieri del 09 febbraio 2013, i documenti sopracitati, sono sicuramente sfuggiti all’illustre prof. F. Burgarella, altrimenti non avrebbe potuto sostenere che “[…] per quanto riguarda Gizzeria, diciamo, non c’è altra testimonianza […] (se non quella legata alla venuta in Calabria di D. Reres, ndr), ma seguendo più da vicino, quanto prodotto dalla cultura locale, avrebbe dovuto ammettere che Gizzeria rientra “non in maniera molto limitata“[…] non solo negli stanziamenti arbëreshe del XVI secolo ma come nuovo insediamento titolare di diritti e obblighi.

Condivido dunque in parte il pensiero dell’illustre Prof. Burgarella, dal quale invece dissento laddove egli ritiene che la Gizzeria albanese non sia altro che il derivato di una “ricostruzione Leggendaria”  –  mitizzazione  –  operata  da  alcuni  studiosi  albanesi  in  epoca  settecentesca  e ottocentesca.

A  darcene  la  conferma  che  non  si  tratta  di  una  ricostruzione  leggendaria  è  la  lettura dell’attuale posizione geografica del paese dove: ogni via, ogni angolo, ogni pietra dell’attuale centro abitato, parla il linguaggio della storia, ossia della cultura arbëreshe.

Ed  è  la  toponomastica,  una  delle  componenti  fondamentali  della  memoria  storica  nel territorio e dunque della cultura locale, a darci il segno più tangibile di questa appartenenza ad una precisa etnia.

Gli arbëreshe hanno voluto fissare nel tempo alcuni dei luoghi del territorio con nomi

appartenenti alla loro civiltà e alla loro cultura. Partendo dall’attuale centro abitato hanno chiamato Micatundo il colle che sovrasta l’abitato di Gizzeria alle cui pendici è stato costruito il paese (Deriva da alb. ‘mbikatundi’, sopra il paese), mentre a valle troviamo le località di Bidderi e Schips (cognomi arbëreshe), poi Cava e DDara (Dara, nobile famiglia arbëreshe di Gizzeria; cognome diffuso anche in alcune comunità arbëreshe in Sicilia), a seguire Fuscia l’ampio terrazzamento quasi ridosso del paese (alb. fùshë-a, pianura, piano, spiano), e subito dopo Livadia, ampio e disteso altopiano, a mezza costa, mediamente sui 200 metri sul livello del mare, ideale per qualsiasi tipo di coltura.  (alb.  livàth-dhi  ‘prato,  campo,  pianura,  piazzale,  campagna;  anche  piccolo  paese nell’Albania Meridionale) e per finire Martino, località a ridosso del mare a ricordarci un ulteriore cognome arbëreshe. (C. Trapuzzano, Gizzeria tra passato…2009).

 

F. Conclusioni

Ricercare nuove ipotesi sulla storia di Gizzeria appartiene alla “ricerca storica“, così come non è una prerogativa esclusiva né degli “scienziati” né degli studiosi di professione affrontare tali argomenti. Con questa affermazione non si vogliono, naturalmente, esprimere valutazioni di ordine morale e tantomeno attribuire a chicchessia titoli di merito o di demerito

Ciò che a mio parere non è accettabile, è la mistificazione dei fatti, la falsa riproposizione degli avvenimenti storici cosi come si sono succeduti nel corso dei secoli.

Come è infatti avvenuto nel recente convegno di Torre dei Cavalieri dove si è consumata l’ennesima  farsa  sulla  pelle  della  comunità  di  Gizzeria.  L’ennesimo  convegno  basato   su mistificazioni e falsi storici, buono solo come macchina del fango per un gossip estivo, che va benissimo se catalogata sotto la voce “eventi di intrattenimento estivo”, ma non dovrebbe essere l’obbiettivo di una crescita culturale, sociale ed economica.

La presenza dei gizzeroti è stata scarsa, la comunità locale non è stata coinvolta, cosi come il

Sindaco e gli stessi amministratori.

Il convegno si è concluso con una passerella del costume femminile lametino, lo spettacolo è stato interessante, peccato che non si è parlato del costume femminile di Gizzeria, delle sue origini e della sua evoluzione.

La nostra comunità ha bisogno di conoscersi meglio e questo non solo e non certo per un mero gusto di erudizione, ma soprattutto perché sono convinto che la conoscenza del passato è in grado di farci approfondire la consapevolezza del presente, di mettere a fuoco la nostra identità. Aver concretezza del proprio stato determina la capacità di programmare consapevolmente il futuro. La storia, quindi, non come sterile curiosità o semplice conoscenza, ma come strumento pragmatico di vita, di miglioramento della condizione della stessa.

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Protetto: I PRÌNCIPI E I PRINCÌPI DEI SANSEVERINO

Posted on 12 ottobre 2013 by admin

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Protetto: L’ECCIDIO DI S. SOFIA DELL’AGOSTO DEL 1806

Posted on 13 agosto 2013 by admin

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LA GEOGRAFIA DELLA PERCEZIONE ATTRAVERSO GLI ATTI D’ARCHIVIO

Posted on 29 luglio 2013 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – La geografia si è andata storicamente definendo e utilizzata idoneamente può essere fondamentale a delineare in maniera attendibile  le anomalie diffuse degli ambiti minoritari.

Al progres­sivo susseguirsi di viaggi ed esplorazioni del passato, in relazione al contesto storico-culturale possono essere di grande aiuto alla definizione di ambiti che non trovano riscontri nei tanto acclamati scritti archivistici.

Perciò, avendo una nuova prospet­tiva grazie alla geografia, che da alcuni decenni si è trasformata nella sua antica natura di disciplina, descrittiva, compilativa è statistica, in applicativa,  acquisendo noi, grazie a questa evoluzione, un nuovo strumento di ricerca secondo canali più moderni e affidabili.

Superandola fase del dibattito a volte anche aspro fra sostenitori del determinismo geografico e promotori della reazione possi­bilistica, la tematica dei rapporti uomo-ambiente ha un suo posto di rilievo anche nella cultura del mondo antico.

La geografia, a partire dalla metà del secolo scorso, si è mossa, avvalendosi delle metodologie, secondo correnti di pensiero di matrice strutturalistica, quantitativa, sistemica e percettiva.

Ed è proprio alla luce di quest’ultimo orientamento , la geografia della percezione  che bisogna auspicarsi di derivare la costruzione di una carta geografica dei contesti storici della regione d’arberia.

In sintesi, la geografia della per­cezione, contigua ad altre discipline umane come la psicologia, la sociologia, la letteratura, oggi, ha cambiato le sue metodiche di applicazione, giacché non si osservare più il territo­rio nella sua oggettività pura e semplice, bensì è prerogativa dell’osserva e alle modalità con cui vengono fatte le indagini che sono funzione indispensabile dalla preparazione e capacità soggettive.

Ne consegue che i rapporti uomo-ambiente vengono colti non solo considerando l’am­biente nella sua obiettiva realtà, ma soprattutto attraverso i modi con cui l’uomo si pone in relazione ad esso e lo perce­pisce in base alla propria cultura, all’età, alle esperienze di vita e al patrimonio culturale.

Una delle più note tecniche messe a punto dalla geografia della percezione rendere le immagini spaziali che singolarmente ci forgiamo nella nostra mente e consiste nella costruzione, a scala urbana o regionale delle cosiddette “mappe mentali”, ossia carte disegnate a mente, tendono in risalto quegli elementi ed aspetti del territorio soggettivamente utili all’autore e meritevoli di considerazione.

Pertanto è intento derivare dalla toponomastica e dalle note dei documenti di archivio, tracciare una cartografia o geocarta configurabile in senso lato come mappa mentale, in quanto costruita su toponimi tratti dalle opere e appunti e quindi correlata alla sua percezio­ne dello spazio.

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) –

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