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IUNCTURA IL SISTEMA CHE PULSA INVISIBILE NEI KATUNDË Jiaku jonë su hharùa

Posted on 03 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Iunctura è un’espressione che denota l’atto del congiungere, formata da due o più parole che, insieme, assumono un significato unitario, spesso diverso dalla somma dei significati delle singole parole.

Il termine era molto usato nell’antichità per esprimere concetti complessi con eleganza e precisione.

Nel cuore dei centri antichi, specie in ogni Katundë arbëreşë, lontano dalle piazze luminose e dalle strade carrabili, esiste questo sistema poco noto o quasi, invisibile agli occhi dei forestieri.

Esso rappresenta insiemi urbani articolati e diretti dalla iunctura, fatta di vicoli tortuosi, archi incrostati da secoli, vichi ciechi, che si piegano su sé stessi, come vene di un corpo dimenticato.

A tenerlo insieme questo ricamo irregolare, non è la logica geometrica dell’urbanistica moderna, ma una “iunctura familiare”, in tutto una rete di legami invisibili che unisce case, cortili, orti e destini di generi tutti uguali.

Ogni pietra di questi sistemi, paragonabile alle radici in terreno fertile, custodisce una storia muta e, ogni arco che unisce due muri porta il peso di generazioni che qui passavano sotto.

Non si tratta solo di costruzioni materiali, ma di architetture colme con ideali, in relazionali geometrie, di voci che si rincorrono tra lenzuola stese.

Nel sistema organico, lo spazio non è pubblico né privato, ma condiviso e, i cortili si aprono solo a chi ne conosce le consuetudini, la chiave o meglio il codice per aprire ogni porta; i vicoli sono custodi della memoria collettiva; e gli orti botanici, sono tessitura odorosa di basilico e terra umida, in tutto piccoli polmoni di una città che respira piano, in silenzio, per dare al tempo un modo per riposare.

Questo mondo non è costruito con mattoni ma con gesti ripetuti, sguardi discreti, rituali quotidiani e, qui le madri si parlano di porta in porta, le nonne raccontano storie che nessun libro contiene e, i bambini imparano a camminare su pietre vive, scivolose e colme di storia parlata.

Qui, la famiglia non è solo sangue ma prossimità fisica, interdipendenza, tempo condiviso, un mondo che si difende e cresce i figli senza preferenze.

L’accoglienza non è diretta, perché segue e si proteggersi dietro curve strette e silenzi antichi, qui l’estraneo può passare, ma non restare perché novità.

Questo è un sistema chiuso non per ostilità, ma per necessità, perché l’equilibrio interno è fragile, come quello di un orto segreto, in quanto troppa luce lo brucia e troppo rumore lo spezza.

Nel tempo dell’apertura, della connessione perpetua, del tutto visibile e disponibile, questo sistema chiuso appare anacronistico.

Ma forse è proprio lì che risiede la sua forza segreta di questo popolo, non moderno, non lineare, non espanso e, in una parola: resistente.

È ancora oggi l’antico centro abitato, pulsa energia sotto l’asfalto, le beole di livellamento moderne o gli intonaci e i tetti inopportuni, che non hanno forza di cancellare l’antico tessuto di pietra, linfa e relazioni.

Una iunctura, appunto, dove l’umano non è un individuo, ma un nodo, di una rete stretta come i suoi vicoli, che continuano a vivere.

Cosi come i microcosmi familiari all’interno delle architetture urbane, oggi diventate il cuore delle città storiche del Mediterraneo, dove si sviluppano sistemi urbani che sfuggono alle logiche moderne della pianificazione aperta, funzionale e trasparente.

Si tratta di strutture dense e, stratificate, in cui lo spazio urbano si intreccia indissolubilmente con i legami familiari, le pratiche quotidiane che batte moneta di memoria collettiva.

Questo breve, intende esplorare il concetto di iunctura, inteso come metafora di una connessione sociale e spaziale, che si manifesta in vicoli ciechi, archi, cortili e orti nascosti delle sedici macro aree premoderne prese in esame.

L’obiettivo è analizzare queste forme urbane come, microcosmi autosufficienti, in cui l’individuo è parte di un corpo più grande, relazionale e stratificato.

Gli agglomerati storici che dal Levante dell’antica Grecia, sino al Portogallo, tra il diciannovesimo e il quarantaduesimo parallelo, condividono tratti urbanistici comuni, con la presenza di vicoli stretti, passaggi coperti, cortili interni e una separazione fluida tra spazio privato e pubblico, una metrica nota come modello vernacolare del bisogno.

Lungi dall’essere un limite, perché questa chiusura morfologica costituisce una strategia di sopravvivenza climatica, sociale e simbolica.

Come osservano diversi autori, che studiarono questa macroarea simile ad un organismo vivente e, costruito “dal basso” dai suoi abitanti, e non progettato “dall’alto” con protagonisti tecnocrati o pianificatori verticali.

In questo contesto, l’architettura non è neutra, ma il riflesso di un sistema di relazioni che protegge, seleziona e regola l’accesso delle cose.

Qui l’architettura non parla non si mostra e, non fa rappresentanza di apparenza, perché partecipa all’insieme dove non è protagonista prima, ma elemento sostenuto e diretto dalla solidità petrografica dalla morale locale che parla canta e fa consuetudine senza emettere fumo dal camino.

Ogni curva, ogni arco, ogni chiusura è anche una forma di memoria collettiva e di difesa culturale e, il termine latino iunctura, che indica un’unione, una connessione stretta tra elementi distinti, è qui utilizzato per descrivere non solo la configurazione urbana, ma anche la struttura sociale di questi ambienti.

Le famiglie estese, spesso organizzate attorno a cortili comuni, formano reti dense di interdipendenza economica, affettiva, simbolica secondo un manuale di consuetudini trasmesso con gesta e parlato.

Questo tipo di coesione non si limita all’ambito domestico, infatti permea la configurazione stessa della città, dove il passaggio da un vico all’altro richiede conoscenza dei codici locali e accettazione sociale. L’infrastruttura è, in questo senso, anche infrastruttura morale e, chi non a parte della rete, passa automaticamente ai margini, fisici e simbolici.

I vicoli ciechi e gli orti botanici, sono i simboli di resistenza e cura, qui questi adempimenti popolari non sono un’anomalia, ma una forma di resilienza spaziale e speziale.

I vicoli ciechi non sono meri errori della viabilità urbana, ma spazi liminali dove si concentrano pratiche di cura, ritualità e controllo comunitario, che non possono sfuggire.

Essi permettono una sorveglianza dal basso, un filtro sociale e un senso di intimità che l’apertura moderna spesso dissolve.

Gli orti botanici, termine usato in senso evocativo per indicare piccoli giardini chiusi, spesso nascosti dietro mura domestiche, per essere metafore viventi della sopravvivenza culturale.

In essi si coltivano non solo piante, ma anche saperi, abitudini alimentari, e forme di relazione con il tempo e con la terra.

Sono spazi non mercificati, sottratti alla logica produttivista, che riflettono una etica della sussistenza e della memoria.

Il concetto di sistema chiuso può assumere una connotazione negativa, associata a chiusura identitaria, esclusione sociale o resistenza al cambiamento.

Tuttavia, in questo contesto, la chiusura non è difensiva ma protettiva e, diventa equilibrio interno di una comunità complessa, spesso marginalizzate dai processi moderni di gentrificazione e globalizzazione.

La chiusura è, in questo senso, una strategia adattiva e, consente di conservare risorse, memorie, forme di reciprocità che altrove si sono dissolte.

È anche uno spazio di negoziazione quotidiana, dove le relazioni sono regolate da norme implicite, più che da contratti o dispositivi tecnologici.

Tutto questo mira ad evidenziare che le forme urbane chiuse, dense e relazionali, qui ancora pulsanti e pronte a rigenerarsi, trovano agio nei centri storici arbëreşë del Mediterraneo, non sono residui del passato da cancellare o riqualificare, ma radice antica che fiorisce futuro per le società in fermento.

Perché, esse rappresentano modelli alternativi di coesistenza, basati su legami, memoria e prossimità e, la iunctura che li tiene insieme è fatta di pietra, affetti, ritualità, in memoria dove si stabilisce che l’urbano è prima di tutto una costruzione a misura dell’uomo.

In un’epoca in cui lo spazio tende a essere disgregato, connesso ma fragile, questi sistemi chiusi ci offrono un insegnamento prezioso sancito, che ricorda con forza la metafora dell’abitare che include anche l’appartenere a un luogo fisico e morale.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-03

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