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L’ARCHITETTO ARBËREŞË SCAMBIATO PER UN PAPPAGALLO MUTO (Iatroj e shëpivet i mòtitë hështë i ruitur si gnë tathëghjellj pà ghjughë)

Posted on 21 maggio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il “pappagallo muto” (tathëghjellj pà ghjùghë) è un’espressione o immagine simbolica in grado di assume molteplici significati in ambiti o contesti in cui viene impedito di parlare a quanti potrebbero aprire nuovi stati di fatto.

Vero è il dato che il pappagallo è animale noto per la sua capacità di imitare la voce umana o simbolo del ripete senza cognizione cose, senza ragione se non per imitare il ripetere il perlato insistente del suo padrone.

Un pappagallo muto, sulla base di ciò, rappresenta un paradosso, un’immagine in contrasto con l’essenza stessa dell’animale e, il silenzio imposto o ereditato dalla natura, imiterebbe, una figura simbolica per quanti, pur avendo qualcosa da dire, non riesce o non possono esprimersi nel parlare, perché ritenuto dal padrone inadatto o impresentabile.

In senso più profondo, rappresenta la perdita di identità e l’essere noto, per una disciplina giusta privandolo della giusta scena proprio come accadrebbe per il pappagallo senza parola, che il padrone lo minaccia di chiuderlo nel buio dello scantinato.

Nei contesti artistici, storici o politici, un pappagallo muto può rappresentare chi è ridotto al silenzio da un’autorità che si mostra e apparisce ingenua e, priva di contenuti solidi e indivisibili.

Poi se questo è legato solo a concetti ripetitivi di una stagione lunga carica di frasi che il pappagallo apprende dal suo padrone.

Il pennuto muto è una figura simbolica che raffigura il silenzio innaturale e, la perdita della voce, rappresenta la metafora sociale del ripete meccanicamente ciò che sente, ed è stato ridotto all’impotenza.

Il caso studio del pappagallo muto degli Arbëreşë, tradizionalmente di contesto orale, rappresenta l’interruzione della metafora di tramandare in ambito familiare il protocollo del bisogno primo.

Molti linguisti Studiano e documentano questo modo di discendere, ma di sovente con strumenti tecnici interno del circoscritto mono disciplinare, senza allargare il confronto con storia, antropologia, pedagogia, sociologia, o promuovere un vitale protocollo per la società contemporanea (scuole, midia, politica e confronto), limitandosi ad archiviarla e vocalizzarla con adempimenti che danno ragione al Baffi quando versò calamaio e pennino contro il suo maestro senza formazione alloglotta.

Il pappagallo muto, allora, rappresenta chi parla, ma non nella lingua che dovrebbe studiare e, non la usa per creare cultura viva e diffusa.

Chi conserva ma non trasmette, documenta, cataloga, ma non partecipa attivamente alla rigenerazione sociale e culturale, diventando isola di vita reale, limitandosi a fare analisi morfologiche e fonologiche, ma non affronta il problema della scomparsa del parlato all’interno di una famiglia, in evoluzione.

Usare la metafora del “pappagallo muto” significa “analizzare un codice che non comunica, perché dimentica che le lingue vivono solo dentro i corpi, le storie, le relazioni comuni.”

Il pappagallo che parla a vuoto, ignora ogni cosa perché comunica cose senza alcun filo comune, diversamente dal “pappagallo muto” che rappresenta, quanti non parlano molto e ovunque, perché non hanno bisogno di ripetere cose, ma senza sostanza.

Il “muto” nel senso profondo, rappresenta un vuoto parlante, in contrapposizione a chi ripete, ma conosce, e non da giusto peso al sapere.

In tutto un doppio paradosso, in cui si evidenziano due modelli, in cui il pappagallo che parla molto, non conosce o ha misura di cosa parla e dice.

Il silenzioso diversamente rappresenta tutte quelle figure che tacciono perché conoscono molto e sanno che il potere del suo padrone lo potrebbe isolare e renderlo non più degno di essere esposto, metafora contraria dei ripetenti parlanti.

Il “pappagallo muto” ha per questo diversi significati, a seconda del contesto e, in generale, può riferirsi a individui silenzioso e riservati, ma colti e riflessivi.

In italiano, la locuzione “pappagallo muto” viene usata per descrivere una persona che non parla molto, taciturna, la stessa che generalmente preferisce osservare, ascoltare e tradurre l’ascolto in apprendimento, piuttosto che partecipare attivamente a una conversazione e deviarne il senso di tema o il significato. 

Un’espressione figurata in questo breve vuole riferire a cose che non si vogliono diventino note, perché potrebbero aprire nuovi stati di fatto, gli stessi che non sono contemplati dai principi o antagonisti senza titolo specifico, giacché, “fattori” che si presentano nelle fiere mercatali, come proprietari terrieri, esaltando principi di legalità assoluta anche se in vere, in quanto nulla gli appartiene, a mo’ di oggetto, animale o ideale. 

In molti contesti, “il pappagallo muto” rappresenta, in senso figurato, una figura alta e, gratuitamente spogliata di ogni significativo valore storico culturale, alla pari di un oggetto che non può essere utilizzato, perché reso inoperativo nei palcoscenici della ignobile platea, formatasi tra il lavinaio del Surdo e del Settimo Rendano. 

Certo che dopo decenni di studio e impegno multidisciplinare, finire per essere scambiato come facevano gli acerbi professore in prima elementare che per l’inadeguatezza professionale, perché non a regime la legge per gli alloglotti e, questi non erano in grado di comprendere, se un allievo di prima elementare era muto o non sapeva solo esprimere parole in italiano.

Ma più grave è chi oggi ritiene quella figura altamente formata e colma di valori Olivetari, deve tacere e fare il “pappagallo muto” sin anche nella definizione delle alte eccellenze vissute a Napoli.

Le storiche figure che hanno reso nota la Regione storica degli arbëreşë dal 1775 al 1865 lasciando tutti basiti e senza speranza, perché in attesa che gli inadeguati pappagalli che vagano per archivi e biblioteche allietino i viandanti della breve sosta partenopea.

Terminando con lo svilire il valore storico di oltre cento paesi di minoranza in sette regioni del meridione Italiano, una storia infinita che si rigenera e si sostiene grazie ai tanti pappagalli parlanti.

Gli stessi sostenuti e alimentati dal ciborio orientale, che non smette ancora di riverberare pene di storia, cultura e credenza secondo i ritmi e le vestizioni dei “pappagalli parlati”.

 Sono questi ultimi i preferiti e nessuna figura di genere, si rende conto di quanta pena incutono, in ogni manifestazione dove appaiono, sin anche per associare eventi anomali a lunghi storici ancora resilienti lungo le vie del centro antico dove appariscono gli ’Ouroboros: i serpenti o draghi che si mordono la coda, formando un incatenato cerchio, associato alla dea Igea che si ciba del sangue del rettile superiore.

Una delle espressioni più pregnanti e che rappresenta il processo alchemico senza fine di questo luogo ameno, si palesa nella inconsapevolezza degli astanti che approvano con incoscienza del valore in disunione che si sparge, per opera di quanti dovrebbero amministrare unione solidale, in questo storico luogo di transito in preghiera.

Ma la cosa più penosa è l’averla apposta proprio in quel quadrivio o croce rovesciata, dove era lo sversamento del malefico già indirizzato, al prescelto odei prescelti.

Atanasio arch. Pizzi                                                                                                 Napoli 2025-05-21

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