Categorized | In Evidenza, Storia

TEMI DEI DICTA IN: ARBËRIA, BORGO, VICINATO E MUZEU, LE PENE INFINITE ARBËREŞË (i vunë edè bërlcunë bjbilljavetë)

Posted on 13 agosto 2025 by admin

aaaaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel dibattito pubblico e nei discorsi divulgativi, in conferenze e lezioni scolastiche dalle elementari sino ai capitoli di tesi, sono continuamente riportati elementi di conoscenza sommaria o da intenti elementari con gli arbëreşë protagonisti di sonorità linguistici e concettuali inopportuni.

I termini ricorrenti come: Arberia, Borgo, Vicinato, Muzeu, sono con ostinazione utilizzati come emblemi identitari, ma svuotati di ogni genere di contesto storico, culturale a loro attribuibile.

Il ripetersi e il susseguirsi di queste parole, presentati in ogni dove come “marcatori dell’appartenenza etnico-linguistica”, produce una narrazione con una forte deriva degenerante, a tratti infantilizzante, che riduce una complessa vicenda di migrazione, resistenza culturale, trasformazione e stratificazione storica a un racconto edulcorato, stereotipato e sin anche irrispettoso.

Il rischio di queste semplificazioni non è solo quello di alimentare un’immagine distorta della minoranza arbëreşë, ma anche quello di tradire il senso profondo della sua memoria storica brillante e irripetibile.

Infatti, parlare oggi di “Arberia” come se fosse un’entità omogenea, atemporale e quasi mitologica, significa ignorare le profonde differenze territoriali, linguistiche, storiche e politiche che attraversano i gruppi arbëreşë delle sedici macroaree diffuse del meridione Italiano.

Significa anche sorvolare sul fatto che l’identità è stata, fin dalle origini, il risultato di processi di adattamento, conflitto, conservazione e mediazione culturale molto distesa e diffusa.

Allo stesso modo, l’abuso di termini come Borgo e Muzeu, riduce la vitalità di queste comunità a una rappresentazione da cartolina o da esposizione museale, congelando la loro storia in un eterno presente turistico e spettacolarizzato.

Il “borgo arbëreşë” diventa, in questo contesto, non un luogo vivo, ma una scenografia senza il suo tempo e, il “museo” si trasforma da strumento di documentazione e riflessione storica a vetrina statica di “tradizioni” selezionate e decontestualizzate specie quando millanta la conservazione della consuetudine di vestizione.

Questa premessa vuole dunque aprire un discorso critico e storicamente fondato sull’identità di una specifica minoranza e sulle modalità con cui essa viene rappresentata e deve essere raccontata nel presente.

È necessario liberarsi da un certo linguaggio appiattito, figlio dell’ignoranza o del marketing identitario, della prostrazione moderna alla terra di appartenenza, da cui gli arbëreşë si dissociarono per conservare e sostenere la semplice radice storica, divenendo oggi realtà che, per secoli, ha saputo resistere, ibridarsi, ridefinirsi e trasformarsi in linea con il suo passato.

Nel linguaggio comune, “Arbëria” viene spesso utilizzata per indicare genericamente “il mondo arbëreshë”, come se esistesse una regione riconoscibile, coerente, geograficamente delimitata e culturalmente unitaria.

Questa espressione, però, porta con sé un’ambiguità di fondo, che da un lato aspira a dare coesione a comunità sparse, dall’altro rischia di costruire una mitologia semplificata e, per certi versi, autocommiserante.

Il termine “Arbëria”, nella sua attuale accezione popolare o “promozionale linguistica”, è figlio più della nostalgia che della storia.

Non è un toponimo antico, ma una costruzione recente, spesso impiegata in chiave promozionale o turistica e, nel peggiore dei casi, è un contenitore identitario ad uso e consumo di una retorica autoreferenziale e, produce un effetto contrario, perché, invece di emancipare, infantilizza, invece di aprire al confronto, chiude nella comfort zone di una memoria idealizzata che non è altro che una egocentrica menzogna.

Il paradosso è che “Arbëria” viene spesso brandita come emblema di orgoglio identitario, ma funziona, nei fatti, come una categoria riduttiva, quasi dispregiativa, perché colloca le comunità arbëreşë in una specie di “isola linguistico-culturale”, separata dal mondo reale, che non poteva generare una storia così forte e complessa.

È un po’ come dire “sono di Arbëria”, allo stesso modo in cui un italiano all’estero potrebbe essere etichettato con lo stereotipo “Polentone”, definizione spoglia di contesto, semplificante, e spesso utilizzata con ironia o condiscendenza.

L’ironia, però, qui si ritorce verso l’interno, è l’autoritratto che lascia immaginare riferisce solo di una parte della comunità, privandola cosi di ogni consapevolezza identificativa.

Parlare di “Arbëria” come se fosse un luogo reale che univa un popolo, un’entità organica o una “nazione culturale” compatta, è una forma di autoesotizzazione.

Rende i discorsi sull’identità arbëreşë accattivanti per l’esterno, ma sterili all’interno e, soprattutto, impedisce di vedere la reale condizione di queste comunità, che oggi vive la marginalità sociale, decadenza demografica, perdita linguistica, e un profondo scollamento tra narrazione e vissuto.

Lo studio della geografia umana ci insegna che i luoghi abitati dall’uomo possono essere classificati secondo diverse categorie, ovvero: Regioni Storiche, Regioni Ambientali e Regioni Politiche.

Questa tripartizione è fondamentale quando si cerca di definire lo spazio che occupano, o che hanno occupato le comunità caratterizzate da specifiche identità linguistiche, ambientali culturali e storiche.

Nel caso degli arbëreşë, il ricorso generico al termine “Arbëria” risulta, da questo punto di vista, inadeguato e impreciso.

Esso non corrisponde a nessuna delle tre tipologie canoniche di regione, non essendo riconosciuta politicamente, non ha coerenza ambientale, e storicamente è una finzione narrativa costruita a posteriori.

Al contrario, il concetto di regione storica diffusa arbëreşë può rappresentare in modo molto più coerente e fedele alla realtà.

Si tratta di un insieme di comunità che, sebbene dislocate in territori non contigui, sono accomunate da un’origine storica condivisa (la migrazione di popolazioni albanesi tra il XIV e il XV secolo), da una lingua comune (l’arbëreşë), da pratiche religiose specifiche (rito bizantino-greco), e da elementi culturali riconoscibili.

Il termine diffusa è qui essenziale, come avviene per le fratrie (gruppi parentali presenti in più luoghi ma legati da memoria, tradizione e origine), la regione storica arbëreshë non si definisce per continuità spaziale ma per coerenza culturale e per relazioni storiche profonde.

I Katundë sono sparsi tra la Calabria, la Sicilia, la Basilicata, la Campania, l’Abruzzo, il Molise e la Puglia, eppure condividono un patrimonio immateriale e del costruito storico che li unisce oltre la frammentazione territoriale.

Infine, questa regione storica diffusa è sostenuta nella lingua arbëreşë non è solo un codice di comunicazione, ma anche un sistema simbolico che lega i luoghi alla memoria parallela e all’identità.

La lingua arbëreşë, pur con le sue varianti, funge da collante e da infrastruttura immateriale che tiene insieme l’intero “arcipelago delle comunità”.

È nel linguaggio che la regione storica si fa viva, resistente, resistente alla dispersione e alla dimenticanza.

L’intera regione storica è legata da una radice linguistica essenziale, che affonda le sue origini nell’Arbëreşë.

Questa lingua, tramandata oralmente per secoli, descrive il corpo umano, i suoi bisogni primari, e tutto ciò  che l’ambiente offre attraverso la natura per garantirne la sopravvivenza.

Ogni parola è intrisa di un sapere arcaico, strettamente connesso alla terra, agli elementi, e al vivere quotidiano in equilibrio con il mondo naturale, in tutto è una lingua che non solo comunica, ma custodisce un’identità profonda e resistente che rende tutti i parlati uguali.

Per questo motivo, parlare oggi di regione storica diffusa arbëreşë

, e non genericamente di Arbëria, non è solo un’esercitazione terminologica, ma un atto di rigore concettuale e di rispetto verso una realtà storica complessa, che ha bisogno di categorie adeguate, per essere compresa e rappresentata.

Aprire una diplomatica sulle pene della Gjitonia paragonata impropriamente dai non parlanti, al semplice “vicinato” rivela il baratro culturale in cui, dal 1990, sono stati proiettati i meno adatti dal promontorio del sordo.

Una deriva che rappresenta la pena storica senza eguali, sintomo della perdita di un tessuto sociale profondo, comunitario e solidale, sostituito da legami deboli e da un lessico spogliato di memoria.

Un altro termine ricorrente, usato spesso in modo acritico nelle narrazioni sui paesi arbëreşë, è borgo, parola, oggi largamente impiegata in ambito turistico, mediatico e, porta con sé una connotazione romantica, ma anche una precisa stratificazione storica ed etimologica.

Borgo, infatti, ha radici germaniche (burg), e indica originariamente un luogo fortificato, gerarchico, organizzato secondo una logica di difesa e controllo, una sorta di centro chiuso, definito da una struttura piramidale, con un chiaro ordine sociale e spaziale.

Il borgo nasce e si sviluppa come espressione del potere feudale e urbano medievale, e in Italia è spesso associato a contesti etnici o culturali molto diversi da quelli degli arbëreşë.

Applicare questo termine alle minoranze in senso generale, significa compiere un’operazione di cancellazione simbolica e culturale.

Le comunità minoritarie non si sono insediate in “borghi”, ma hanno costruito, o ricostruito,villaggi che nella loro lingua e struttura socio-economica si chiamano katund, Hora e Civitas.

Essi non sono solo un sinonimo di “villaggio” o un modello antropologico, ma una forma di insediamento aperta, partecipativa, legata strettamente all’agro circostante, dove i rapporti tra gli abitanti non erano definiti da rigide gerarchie feudali, ma da reti di collaborazione, solidarietà e parità relativa.

Questi centri antichi, non sono un insieme chiuso e isolato, ma una comunità in dialogo con la terra, il paesaggio e gli indigeni.

Le minoranze nel meridione, non giunsero per fare guerre, sopraffare e dominare, ma solo per convivere parimente con gli indigeni.

Nel katund, le relazioni sociali e familiari erano fluide, spesso organizzate secondo logiche di mutualità tra generi, famiglie estese e confraternite religiose.

Il sistema comunitario, almeno nelle sue forme originarie, rifiutava la verticalità del potere tipica del borgo feudale, promuovendo invece un modello di convivenza basato sul consenso, sul confronto, sull’equilibrio tra individualità e collettività.

Questo rende ancora più stridente l’adozione del termine borgo nel parlare corrente e istituzionale, un termine che oggi viene usato per promuovere un’immagine turistica ed estetizzante, ma che è, nei fatti, l’esatto opposto della realtà storica, sociale e dei principi delle comunità arbëreşë.

Recuperare il Katundë, o quantomeno riconoscere la differenza strutturale tra borgo e Katundë, non è un vezzo linguistico, ma un atto di rigenerazione culturale.

Serve a rimettere al centro una visione dei Katundë descritti per ciò che sono stati e, in parte sono ancora, in tutto una continuità resiliente, aperta, solida, agricola e, paritarie; l’opposto della visione chiusa e verticalizzata che il termine borgo implicitamente richiama e ricorda.

Chiudiamo questo percorso critico con l’ultimo termine della retorica più abusata e diffusa nelle narrazioni dell’identità arbëreşë: ovvero il Museo, spesso trascritto come Muzeu in un tentativo di “traduzione” pseudo-linguistica, molto ma molto elementare.

Si tratta, ancora una volta, di un uso meccanico e inconsapevole del linguaggio e, la parola Muzeu, così com’è usata, in numerosi e continui contesti locali, non è frutto di un’elaborazione culturale autonoma o di un adattamento linguistico profondo, ma una semplice copiatura fonetica dell’italiano, svuotata di pensiero (pà mendjë, direbbero gli stessi arbëreşë che fanno memoria storica).

Il museo, per definizione, dovrebbe essere uno spazio di conservazione critica, di interrogazione della memoria, di trasmissione dinamica della cultura.

Ma nella realtà di molti contesti, il Muzeu, si riduce spesso a vetrina, a contenitore di oggetti “tipici” esposti senza contesto, a una galleria dell’ovvio o racconto a dir poco, irreale se non addirittura elementare e, per questo sin anche sgrammaticato.

Non racconta la storia, la semplifica, non interroga il passato, lo imbalsama e, ogni cosa esposta è il contrario di quello che servirebbe a una cultura minoritaria.

Da ciò si deduce che esso non è un momento di memoria che resiste e fa autoriflessione, ma una cartolina per turisti distratti o per discorsi istituzionali autoreferenziali.

In più, il Muzeu è raramente un luogo vissuto, perché non è inserito nel tessuto attivo della comunità, non parla con la scuola, non dialoga con i giovani, non si connette alla lingua e con le cose che qui hanno sostenuto la storia.

È spesso una struttura statica, decorativa, che separa il passato dal presente invece di tenerli in tensione creativa, per questo, il Muzeu è la prova finale di quanto sia debole, e per certi versi inconsapevole, la gestione della memoria di un luogo specie se di minoranza ancora oggi, un’archeologia dell’apparenza, più che un archivio critico del vissuto.

Come per Arbëria e Borgo, anche qui l’abuso del termine (e del concetto) produce l’effetto contrario a quello desiderato e, invece di rafforzare l’identità, la cristallizza, invece di formare coscienza, costruisce una rappresentazione.

Il Muzeu dovrebbe essere mente, pensiero, costruzione collettiva, ridotto a semplice etichetta, in tutto è l’ennesima occasione perduta per trasformare la memoria in progetto.

Se in questi elevati trovano esposizione allestimenti in forma di sposa, festa, mezza festa, giornaliero, di lutto e di mezzo lutto, si può da questi temi, cogliere la mancanza di ogni ragionevole atto di esposizione che termini nel fatuo più velato e polveroso posto sotto vento e, quindi senza un domani.

Cosa che troverebbe più ragionevole il percorso che porta la donna a percorrere il percorso tra casa chiesa secondo il protocollo Olivetano che la vuole; Donna, Sposa, Regina della casa e del fuoco, Vedova in certa e Vedova, secondo il volere di nostro Signore, sino alla fine dei suoi giorni e, sempre in rappresentanza di vestizione.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2025-08-13

 

 

 

 

 

Leave a Reply

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!