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LE CLASSI ALTE DALLE BASSE DISTINE COME LE ACQUE DI LEVANTE E DI PONENTE katundi hëştë i bëne me drelljàrti i dreshjmi, stà-ngòj e morj-itë

Posted on 09 agosto 2025 by admin

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NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel tempo in cui la Storia ancora si scriveva col passo lento delle alleanze e le promesse solenni, il cuore dell’antico Katundë cresceva e prendeva forma secondo un equilibrio pacifico.

I capitoli tra i migranti e i principi trovavano agio e modo per essere trascritti e, il centro antico poté essere spartito secondo un ordine nuovo, ma profondamente radicato alla memoria di uomini, alla ricerca di un nuovo futuro di convivenza.

Il centro antico, a quel tempo ancora non proprio concepito solidamente, si distese come un ramo a memoria dei due pensieri: la parte alta, rivolta a nord, fu concessa ai nobili e alle famiglie di sangue antico pronto ad essere garanzia; la parte bassa, che volgeva a sud, ai meno abbienti tra cui, artigiani, mercanti e a chi della nobiltà non conservava che il ricordo nei racconti e il contatto con l’agro produttivo.

Ma era lì steso un altro confine, più sottile e più potente, che attraversava entrambe le parti, ovvero un antico limite segnato dalla natura e, da una promessa, quella di non procedere oltre la linea invisibile che divideva l’oriente dall’occidente, perché lì un tempo si disponeva il canale sacro delle acque potabili.

Questo confine, trovava il suo baricentro proprio dove oggi si apre la il Largo davanti alla antica scuola estiva dei Vescovi, il luogo di silenziosa memoria studio e credenza, ma anche di autorità spirituale, come se la promessa originaria, affidata alla custodia delle più alte figure delle scuole di formazione del Katundë.

Fu lì che i padri fondatori, si strinsero le mani, giurarono davanti al cielo con testimone il solco immaginario tracciato sulla terra, che divenne invalicabile e, avrebbe determinato il destino delle genti unite per un comune ideale di rispetto e solidità sociale.

A est, l’acqua era limpida, abbondante, e con essa, le case si intersecavano tutte sulla via per l’acqua, da allora in avanti risorsa nota come stà-ngòj.

Tutti i tetti del centro antico erano ben inclinati, e indirizzati per sanificare la soglia di casa con le aque meteoriche e le strade riflettevano luce della fontana pertinenziale.

Chi abitava ad est era cresciuto nel rispetto di quel confine invisibile, non per paura, né per legge scritta, ma per fedeltà a una parola data.

E proprio nella fedeltà alla promessa si sviluppò un senso dell’ordine e dell’equilibrio che diventò cultura, costume, identità qui ad ovest denominato morj-itë.

Così, anno dopo anno, secolo dopo secolo, il baricentro del patto, oggi calpestato da passi ignari nel Largo dei Vescovi, continuò a pulsare nel cuore, nascosto nel centro antico, come un punto d’equilibrio che non può essere spostato senza che tutto, prima o poi, si spezzi.

Fu nel 1919 che la strada provinciale, fece scivolare verso il basso quell’antico confine, tracciando il suo corso nuovo e deciso, cancellò l’antico, che per secoli aveva separato gli abitanti dell’alto da quelli del basso.

Eppure, proprio lì, tra le due fontane, quel limite parve resistere, saldo e immutato sino agli anni trenta del secolo scorso quando un nuovo modo di attingere acqua si unifico nella nascente prospettiva politica e religioso del ventennio in atto.

Il confine dell’acqua piovana che scendeva dal tetto della casa dei Bugliari di sopra e questa nobile acqua scendendo verso il basso del paese, attraversava la pizzetta sottostante, l’orto botanico antico, dei Bugliari passando di fianco al palazzo arcivescovile e da qui sempre verso il basso raggiungeva l’antica parerà, dove gli abitanti di sopra e di sotto attingevano la sabia per fare cose con calce arena e pietre, nel rispetto dei capitoli condivisi.

In sostanza il luogo dove gli arbëreşë si disponevano per vivere e abitare e innalzare Katundë era attraversato da due direttrici fondamentali che ne condizionavano profondamente l’organizzazione sociale e ambientale: una asse Nord-Sud, legata alla struttura sociale, e una Est-Ovest, definita da caratteristiche geologiche e dalla disponibilità d’acqua.

Sul piano sociale, la direttrice Nord-Sud segnava una distinzione netta tra due gruppi fondamentali della popolazione: da un lato, i letterati, custodi della lingua, della religione greco-bizantina e della memoria culturale arbëreşë; dall’altro, la manovalanza agricola, dedita al lavoro dei campi e alla sopravvivenza quotidiana.
I letterati, spesso formatisi nei collegi religiosi o in contesti urbani, rappresentavano l’élite culturale della comunità. Vivevano generalmente nei nuclei più stabili dei paesi, dove si trovavano le chiese, le scuole e le case più antiche.

La manovalanza, invece, occupava zone più periferiche o collinari, spesso in condizioni precarie, legate a un’economia di sussistenza e a una vita scandita dal ritmo delle stagioni e del lavoro manuale.

Questa divisione non era solo economica o culturale, ma aveva anche risvolti simbolici: la lingua albanese, ad esempio, veniva preservata nei canti liturgici e nelle scritture dei letterati, mentre rischiava di essere trascurata nel linguaggio quotidiano del popolo, più esposto all’influenza italiana.

In senso Est-Ovest, il territorio arbëreshë era attraversato da una seconda linea di frattura, questa volta geologica e ambientale.

La fascia orientale presentava una maggiore instabilità del terreno: frane, smottamenti e cambiamenti nel corso dei fiumi erano eventi frequenti, alimentati da una presenza abbondante ma caotica dell’acqua.
L’acqua, infatti, era una risorsa tanto preziosa quanto difficile da gestire e, la sua abbondanza, se non incanalata, poteva trasformarsi in minaccia, rendendo il terreno instabile e le abitazioni vulnerabili.

Il costruito degli arbëreshë dovevano quindi confrontarsi continuamente con il problema dell’equilibrio: costruire sistemi di canalizzazione, spostare insediamenti, adattare la vita quotidiana a un ambiente mutevole.

Al contrario, nella zona occidentale, la presenza dell’acqua era più razionale e controllabile. Ciò permetteva una maggiore stabilità insediativa e una gestione più efficiente delle risorse agricole. Questo assetto influenzava anche il modo in cui le comunità si organizzavano: laddove l’acqua era meno minacciosa, si potevano sviluppare strutture più durature e pianificate.

Queste due direttrici, sociale (Nord-Sud) e ambientale (Est-Ovest), tracciavano una mappa invisibile ma potentemente determinante nella vita dei paesi arbëreshë.

La storia di queste comunità non può essere compresa senza tener conto di come la geografia e la struttura sociale abbiano dialogato, a volte in armonia, altre in contrasto, nella costruzione della loro identità.

Gli arbëreşë, insediate nell’Italia meridionale tra il XIV e XV secolo, hanno abitato i margini geografici e culturali trasformandoli in centri di resistenza e intelligenza collettiva.

Attraverso una sapienza tramandata oralmente e vissuta in gesti concreti, hanno costruito sistemi sociali e ambientali fondati su una logica armonica, quasi matematica.

Oggi, questi sistemi abitativi di iunctura familiare, se opportunamente riletti, indagati con sovrapposizioni cartografiche della storia, con strumenti critici e scientifici, evidenzierebbero i teoremi vellati di grande attualità.

Specie di quando tramandato dal consuetudinario, secondo il teorema del cortile, che risulta esse molto più di uno spazio fisico circoscritto, perché se osservato dal punto di vista relazionale, esso denota uno spazio di negoziazione tra intimità familiare e apertura comunitaria, in tutto il fondamentale teorema, di natura sociale, che può essere così formulato: coesione sociale di un sistema chiuso, mantenuto stabile da uno spazio ideale intermedio, di permeabilità regolata tra individuo e collettività.

Poi è il cortile che risulta essere sempre aperto, ma custodito, condiviso ma definito, rappresenta questa zona di equilibrio dinamico.

Luogo di scambio di cibo, racconti, gesti di cura, è anche spazio di trasmissione culturale informale, dove si codificano i ruoli, si educa con l’esempio, si misura il tempo umano.

Matematicamente, il cortile è la soglia costante, l’unità semipermeabile che consente il flusso tra sistemi (casa/famiglia – villaggio/comunità), regolandone gli atti, affinché l’equilibrio non venga dissipato.

Il secondo teorema, di natura ambientale, si incarna nella relazione tra casa e orto botanico e, qui ogni casa, anche modesta, si accompagna spesso a un orto curato come giardino di sussistenza, biodiversità e memoria.

Un ecosistema domestico è sostenibile quando la produzione è funzione diretta della diversità, e il consumo si adatta ai ritmi della rigenerazione naturale.

L’orto botanico non è solo spazio di coltivazione alimentare, ma archivio vivente, dove sono conservati i semi antichi, rimedi, erbe medicinali, varietà locali pronte a diventare innesti delle primizie o purpignera come era un tempo.

Lì si manifesta la matematica ambientale fondata sulla ciclicità, sulla proporzione tra bisogno e disponibilità, e sulla non-linearità della cura e, non tutto produce ogni stagione, ma ogni elemento è parte del disegno complessivo.

La casa, in questo modello, è centro operativo e sensoriale: riceve dall’orto e vi restituisce, con gli scarti, le acque, l’attenzione quotidiana.

È una macchina di equilibrio tra interno ed esterno, tra naturale e costruito, in tutto la “matematica direttiva” di cui parliamo, ma non è fatta di cifre, in quanto esse sono relazioni strutturate, uno schema invisibile che regola il vivere. Cortile, casa e orto costituiscono una triade funzionale e, questo si pone alla base di una visione più estesa e razionale dello spazio abitato che contempla.

Una fitta coltre sembra essersi posata, negli ultimi decenni, sui centri antichi arbëreshë dell’età moderna, e non si tratta solo di oblio, ma di una forma più sottile e pericolosa di smarrimento dove a rimetterci è stato l’antico ideale di sviluppo che un tempo informava la struttura stessa dei paesi, la loro coesione sociale, il senso profondo dell’abitare.

Quel disegno, non tracciato, ma tramandato attraverso consuetudini, linguaggi, gesti e ascolto, ha ceduto il passo a una razionalizzazione estranea, spesso imposta da logiche urbanistiche uniformanti, incapaci di leggere l’anima dei luoghi.

Un Katundë arbëreşë non nacque mai come “centro storico” nel senso moderno del termine, ma “centro antico” quest’ultimo un termine coerente da conservare, perché organismo lucido e vivo, in costante evoluzione all’interno di regole comunitarie che rispondevano a un equilibrio preciso tra l’uomo, la terra e la memoria “antica”.

I patti di consuetudine giuridiche orali e rituali civili, regolavano non solo le relazioni sociali, ma anche l’uso dello spazio.

Ogni cortile, ogni vicolo portava impresso una funzione che travalicava la sua mera utilità, perché era simbolo, di un linguaggio condiviso.

Con l’illusione del “progresso” e la rincorsa a modelli urbanistici eterodiretti, molti di questi centri hanno visto incrinarsi le loro fondamenta culturali.

Non parliamo solo di materiali e, della pietra sostituita dal cemento, del legno soppiantato dall’alluminio, dei tetti con pigmenti moderni, ma di princìpi.

Salendo al livello di “centro storico razionale”, secondo la retorica amministrativa degli anni settanta e ottanta, si è smarrito ogni riferimento a quei codici antichi che facevano della disposizione degli spazi, un’estensione del vivere condiviso.

La pianificazione ha velato, anziché valorizzare e spianato le differenze in nome di un’omogeneità estetica e funzionale.

I centri storici riscrivono e non conoscono nemmeno la lingua parlata tra quelle pietre; i tracciati, rettificati; gli spazi condivisi, privatizzati o abbandonati.

Si è introdotto il concetto di “centro da tutelare” al posto del “luogo da vivere” e, così nella tutela, si è consumata la separazione definitiva tra la vita e il luogo.

I patti di consuetudine, che non erano mera norma etica relazionale, sono oggi quasi del tutto dimenticati, coperti da regolamenti edilizi e piani regolatori che parlano una lingua altra.

I vecchi codici dell’abitare, basati sulla prossimità, sull’accoglienza e sulla cura reciproca, sono diventati incomprensibili anche agli stessi eredi di quelle culture.

Questo scollamento tra struttura fisica e struttura sociale ha creato una crisi identitaria profonda e, i giovani abbandonano, gli anziani resistono, i nuovi arrivati non leggono più il territorio come testo culturale ma come spazio da consumare.

Il risultato è un paesaggio svuotato, nonostante gli interventi di restauro, le pietre parlano meno, le voci si disperdono.

Rimane da chiederci se questa trasformazione sia davvero irreversibile, oppure se, scavando tra i ruderi delle consuetudini, tra i frammenti di lingua e rito ancora vivi, sia possibile ritrovare almeno il sentiero che riporti all’antico ideale di sviluppo.

Non per ricostruire il passato, ma per trarne radici più profonde da cui possa rinascere un modello nuovo, non imposto ma emerso, in tutto un’architettura dell’anima, prima che della pietra.

Oggi chi conosce e sa di questi confini dei centri antichi sa dove cercarli e come trovarli, ma questa una storia infinita, la stessa che pone gli arbëreşë al centro dell’infinito culturale che non è fatto di mero parlato di radice albanistico o albanese, dirsi voglia e diffuso.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                             Napoli 2025-08-09

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