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PIETRE LEVIGATE CHE RACCHIUDONO L’IDENTITÀ ARBËREŞË DA SECOLI purù ù si ghuratë bhëghë jatrojnë

Posted on 08 agosto 2025 by admin

FondazioniNapoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’infinita murazione di iunctura familiare, silenziosa ma pulsante, continua a sostenere le architetture invisibili dei centri storici arbëreşë.

Essi non sono solo case che affacciano su vicoli stretti e tortuosi, ma nodi di memoria intrecciati da generazioni, in tutto pareti che raccontano appartenenze, voci e riti antichi.

Qui, la famiglia non è un’unità chiusa, ma una rete porosa che tiene in vita la lingua, la fede e l’anima di un popolo migrato senza mai andarsene davvero o dimenticare i luoghi natii.

Ogni cortile è un confine tra tempi, ogni anziano un archivio vivente e, la comunità resiste non solo perché rimane, ma perché continuamente si ricostruisce dentro il cuore delle sue stesse mura.

Nei centri antichi dove vivono gli arbëreşë, il tempo scorre in due direzioni: una che scava silenzi nella continuità di chi resta, e un’altra che si tende come un filo sottile tra l’andarsene e il tornare.

Chi rimane, immerso nella quotidianità del luogo, spesso dimentica, non per disamore, ma perché l’abitudine erode i contorni del ricordo.

Le pietre, i riti, le parole diventano sfondo, e il vivere stesso smussa la memoria collettiva, che attende anzi grida il desiderio di essere rigenerata.

Chi parte, invece, custodisce e, porta con sé il profumo del pane rituale, il suono gutturale del parlato materno, l’eco di una liturgia ascoltata da bambino.

Nella distanza, ogni dettaglio si amplifica, diventa oggetto di cura ed è proprio nl momento del distacco che si sedimenta la memoria, e il desiderio anzi la promessa del ritorno.

Senza misura e non è fatto di lunghi, brevi periodi o solo simbolico, perché lo scopo il potere mira a ridestare ciò che il tempo aveva sopito.

Il forestiero che torna non è mai straniero, ma portatore di un’identità affilata dalla nostalgia, capace di rigenerare legami e rinnovare significati.

Come ad esempio svelare usanze che parevano perdute, ridà valore a gesti minimi, ravviva le case vuote con parole antiche e prospettive nuove.

Il suo sguardo che proviene dall’esterno è necessario, perché ha il valore di uno specchio che riaccende la consapevolezza in chi è rimasto.

Così, il movimento non è fuga, ma ciclo e, la partenza non è rottura, ma solidità di quel momento, il ritorno non è solo memoria, un seme antico che inizia a fare radici per fiorire come si fa con la buona semina.

Sulla riva del tempo si sviluppa una forza silenziosa in ciò che si stacca dal flusso e trova il coraggio di restare esposto.

Una pietra rimossa dal fiume, che per anni è stata levigata, trascinata, nascosta nel fondo opaco della corrente e, quando finalmente si adagia sulla riva, non è più solo un frammento in balia del corso.

È materia nuova, temprata dal passaggio e ora posta alla luce, sotto il sole, dove può rivelare tutta la sua forma.

Così accade anche per le comunità dove, le persone, i luoghi che scelgono di non lasciarsi travolgere dalla corrente del tempo ma di uscire, di mostrarsi, di prendersi lo spazio dell’attesa.

I centri storici arbëreşë, con le loro pietre antiche, sono come quelle rocce emerse: sopravvissute a secoli di mutamenti, guerre, migrazioni, assimilazioni culturali.

Eppure restano ancora lì, a brillare quando il sole, la memoria, la coscienza, l’attenzione, vi si posano sopra.

Non temono le stagioni, perché le hanno già attraversate, non temono l’erosione, perché sono forgiate nella resistenza.

E non temono neanche l’oblio, perché hanno imparato che, al di fuori del fiume, la forma che si prende non è casuale, ma una scelta di vita, da cui ogni incisione è segno di storia, ogni spigolo è testimonianza, ogni levigatezza è memoria.

Lontano dal fluire continuo che inghiotte e confonde, ciò che è stato portato fuori può finalmente essere visto, riconosciuto.

Può riflettere la luce e generare nuova vita. Come una pietra sulla riva, non è più solo ciò che era: è ciò che diventa.

Per questo il ritorno deve essere accolto come un atto generativo all’interno delle dinamiche che governano le comunità diasporiche e, nello specifico, quelle di matrice arbëreşë, dove il tema del ritorno non deve essere intesa come supremazia o dominio verso i restanti.

Ma deve assumere assume un valore che va oltre la semplice dimensione geografica, perché tornare non è soltanto il movimento fisico verso il luogo d’origine, ma è, più profondamente, un atto culturale e simbolico.

In tutto un rientrare dopo essere stati forgiati altrove, per cui il momento diventa esperienza esterna che vuole unire e non separare per essere risorsa.

Chi parte spesso si allontana per necessità o per desiderio di conoscenza e, nel tempo, questa distanza diventa elaborazione.

E quanto era considerato ordinario si carica di significato, ciò che era dato per scontato si definisce nella memoria.

La cultura, il parlato, l’ascolto, i rituali familiari e comunitari si sedimentano nel ricordo, fino a diventare patrimonio consapevole.

È in questo processo che l’individuo si “forma” o meglio, si forgia, come avviene per la pietra levigata dal fiume che poi si deposta sulla riva.

Una volta formati da questa esperienza, tornare non è mai un semplice “rientrare”, ma un “ritorno qualificato”.

Si torna con occhio nuovo, con la capacità di riconoscere il valore delle cose che per chi è rimasto possono essersi assopite nell’abitudine.

Il ritorno, in questa chiave, diventa un atto generativo che produce consapevolezza e, riattiva memorie, crea connessioni interrotte svelando le opportunità nascoste, sfuggite alla memoria di chi fa statica restanza.

Per chi è rimasto, questo ritorno non deve essere percepito come una minaccia, una sfida o come un giudizio o critica fatta dall’esterno, ma come una nuova occasionepe dare continuita storica a un determinato luogo Katundë.

Il tutto deve essere inteso come certezza che da ora in avanti potrà e dovrà fare solo cose genuine, non per idealismo, ma perché il tempo della dispersione ha affinato la visione e ridefinito le priorità. Il bene che si genera nel ritorno è un bene condiviso, partecipato, costruito con lentezza ma con l’intenzione bene in opera diffusa.

Nei piccoli centri arbëreşë, spesso segnati da spopolamento e marginalità, questo tipo di ritorno può rappresentare un momento di svolta, non come mera parentesi nostalgica che immobilizza, ma come progettualità che innova nel rispetto delle radici.

La comunità, grazie a chi ritorna forgiato, può imparare a vedersi di nuovo e, magari con il rigenerarsi delle pieghe amene che oggi appaiono adombrate e, magari prive della giusta luce per farle brillare come erano un tempo.

Anche solo rinnovare un muro, rifare una parete, ridare forma al contatto tra la base e l’elevato, tra la fondazione e ciò che vi cresce sopra, è come compiere un gesto di memoria.

È lì, in quella giunzione antica, che si custodisce il senso profondo dell’abitare, del costruire, del tramandare.

Così, ogni pietra riposizionata, ogni intonaco steso, non è solo un atto tecnico, ma un piccolo rito di continuità, un frammento della storia degli Arbëreşë che ritorna alla luce.

Nelle case, nei muri, nelle geometrie delle architetture, rivive il parlato e l’ascolto, il canto, l’identità di un popolo che ha saputo conservare le proprie radici pur lontano dalla madrepatria.

Restaurare una parete, una casa o un palazzo allora, non è solo conservare il passato, ma rinnovare un legame profondo tra memoria e presente, tra terra e spirito.

Non tutto ciò che appartiene alla storia si conserva dietro un vetro o tra le pagine di un libro in biblioteca o un atto di archivio.

Ci sono memorie che si trasmettono attraverso i gesti, che si radicano nei corpi prima che nelle parole e, quando una mano si posa su una pietra per raddrizzarla, per riportarla al suo posto, non sta solo ricostruendo un muro, ma sta ricucendo un legame, sta riattivando un patto antico tra chi costruì e chi oggi torna a vivere.

Rinnovare una parete, rifare l’unione tra la fondazione e l’elevato, è come riportare in vita un dialogo sospeso.

È come se le voci di chi se n’era andato, portando con sé, la festa e il dolore del distacco, trovassero finalmente un punto in cui tornare a parlare.

Il tutto non è solo un gesto tecnico, ma un atto di memoria incarnata e, il muro rinnovato non serve solo a reggere il peso del tetto, ma anche a reggere la storia che ancora pulsa tra quelle pietre.

Chi è partito, chi ha lasciato queste terre per cercare altrove un pezzo di futuro, porta nel cuore il suono di una lingua imparata dai nonni, l’odore del pane cotto a legna, la geometria delle stanze strette dove si pregava in due lingue.

Tornare non è soltanto varcare una soglia per ritrovare la misura del proprio nome in un paesaggio che non ha dimenticato, ma posare di nuovo in piedi su una terra che non chiede spiegazioni, perché riconosce il passo e il peso di quella figura.

Così accade che, nel rinnovare una parete, si rinnovi anche la fedeltà a una storia che non ha bisogno di essere celebrata nei musei.

Perché i musei custodiscono, ma non vivono e, invece, i muri che si rialzano oggi, con mani giovani e vecchie insieme, raccontano di una memoria che si fa presente, che abita ancora.

E allora il matrimonio tra fondazione ed elevato diventa simbolo di ciò che resiste, come un popolo che non ha mai smesso di essere, anche quando sembrava disperso.

Non serve altro che ascoltare, perché le pietre parlano, e lo fanno nella lingua antica degli Arbëreşë, quella che sa di vento, di resistenza e di radici che non si spezzano.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                            Napoli 2024-08-08

 

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