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TROVATA LA CHIAVE DELLA SCUOLA IN TERRA DI SOFIA ORA RICOMINCIA LA STORIA thë shiurbiaritë me crundie the mirë pà mielë

Posted on 07 agosto 2025 by admin

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Le Terre di Sofia storicamente famose per le scuole che qui formavano i più solidi cultori arbëreşë di Calabria citeriore, secondo pensieri avveniristici e di formazione, greca, latina in solido progetto sociale e paritario.

Un centro del sapere unico e indivisibile, capace di formare figure secondo parlato, ascolto, religione, società e identità in tessitura educativa, profonda e duratura, che ebbero il loro risultato con le generazioni in grado di segnare indelebilmente la storia.

Ma dal 1799, e poi nel successivo decennio francese, si persero le chiavi di questa scuola e, la sua fiamma, iniziò ad affievolirsi, intraprendendo una lenta china e, da allora, solo un ristretto numero di figure hanno saputo distinguersi con dignità e nobiltà, avendo modo di tenere alta una tradizione meritava ben altra sorte.

Si giunge così al 1994, anno in cui la pena si fa ancor più pregnante e, la gestione di ciò che restava fu affidata ai meno adatti, ispirati dal vento e le movenze Albanistiche, le stesse prive di memoria e consapevolezza del ruolo affidatole.

Senza radici né visione, ogni legame autentico con la cultura arbëreşë venne dissipato, lasciando dietro di sé un vuoto difficile da colmare.

Una china che ha ridotto la memoria a ridicole attività, svuotate di senso, che non trovano agio né in casa né sulla strada e, sin anche nella chiesa, dove le processioni, un tempo sacre, si sono trasformate in manifestazioni a dir poco egocentriche, lontane da ogni spirito di credenza.

Il dato più allarmante è che tutto ciò denota una profonda mancanza di formazione, in ogni genere di conduzione: scolastica, culturale, religiosa, ma soprattutto civile, che denota non solo la esile competenza, ma anche la perdita del senso del rispetto verso la collettività.

Gli appuntamenti storici, oggi, esaltano i vili e dimenticano i pionieri, celebrando chi resta e fa “restanza”, ignorando ed ostacolando chi prova a fare formazione, chi costruisce o semina arando la terra buona per il futuro.

Eppure la prospettiva che fa intravedere un barlume di luce potrebbe far nascere un’inversione di rotta, quella capace di dare senso alla consuetudine, alla credenza, al parlato e alla cultura, perché ogni identità, se non opportunamente studiata termina per essere esclusivamente caricatura.

In questi Katundë dove il sole batte su pietre antiche e lingue spezzate, si celebra l’effimero,
come fosse verità scolpita.

Si vestono giorni di maschere nuove, di riti copiati, svuotati, inventati, mentre la memoria vera, quella dei padri, muore si accantona dopo pur se grida le memorie diventa e trasforma tutto in silenzio.

Chi tiene le chiavi della cultura non ascolta le voci dei nonni, ma costruisce castelli d’aria, con parole estranee al sangue.

Tradizioni ridotte a spettacolo, costumi indossati senza storia, nomi cambiati, usanze ricreate da chi non sa, ma comanda.

E la regione storica si sfalda, come un tessuto lasciato al vento, perché chi dovrebbe custodirla la riscrive senza conoscerla.

Ma c’è chi ancora, nel cuore, ricorda canti mai scritti, gesti antichi come la terra, e li serba, lontano dal clamore.

Ogni estate, nei paesi è un mercato d’ombre colorate, di suoni finti, di danze scollegate dalla linfa che un tempo le nutriva.

È una festa per chi passa e non resta, per il turista della breve sosta, per il viandante distratto che applaude, ma non capisce.

Non è più rito, è spettacolo da locandina, la cultura svenduta a buon prezzo perché l’applauso vale più della verità.

Le parole non trovano palco né microfono, mentre chi dirige la “tradizione” ne conosce solo la superficie.

Tutto questo per fare solo vetrina, di un’eco lontana truccata per fare scena, mentre chi ricorda davvero, viene zittito, o peggio: ignorato e lasciato in un angolo mentre riceve abbracci materni da madre cultura.

E onde evitare il continuo ripetersi lo stato di fatto è opportuno precisare che la memoria non si compra, non si ricama su un abito nuovo, e tanto memo si può assegnare a nome e per conto di improvvisate associazioni di faccendieri culturali senza alcun titolo o merito di studio che si nutrono di falsa cultura travestita per nascondere la verità e quando tutto appare evidente palesano tutte le nudità di vergogna.

Per conto e per nome della cultura, parla chi non ha mai ascoltato, dirige chi non è maestro, racconta la storia chi non sa nemmeno dove inizia e scrivono con l’inchiostro del sudore altrui.

Si riempiono i palchi di finzioni travestite da tradizione, mentre i sapienti tacciono, tenuti fuori, esclusi, dimenticati e tenuti fuori dall’agro della cultura sin anche con gli abbai dei cani randagi loro amici.

Ogni cosa è fatta da chi meno dovrebbe farla, e intanto si spengono le fioche luci del passato, perché non serve sapere, basta apparire, non serve custodire, basta vendere basta onorare gli ultimi per avere voti e preferenza al tempo delle elezioni.

Altra pena infinita è l’allestire musei del costume e biblioteche a opera di figure che non sanno tessere cucire o riconoscere colori, gli stessi che non conoscono il postulato dell’ascolto del parlato e non sanno sin anche leggere gli scritti in italiano corrente.

Soggetti privi di competenze specifiche si improvvisano esperti, continuando a fare danni alla cultura locale, pur non conoscendo né pratiche tradizionali né lingua né storia.

È urgente fermare questa tendenza e restituire valore alla competenza autentica, al sapere tramandato e a chi davvero custodisce l’eredità arbëreşë.

Questa è una prassi fortemente diffusa per la quale si moltiplicano musei del costume e biblioteche allestiti da chi non sa tessere, non sa leggere e, soprattutto, non conosce la tradizione che pretende di rappresentare.
Così facendo, si diffondono concetti inopportuni, ricostruzioni inventate e fatti mai avvenuti, snaturando il senso autentico della cultura della regione storica diffusa e sostenuta dai suoi abitanti formati.

Il costume femminile, di sovente, viene ridotto a un modello scenografico, un abito che appare all’improvviso davanti all’altare per il matrimonio, e il tempo che verrà, come se fino ad allora fosse stato sotto sale sia la stoffa e sia la figura che lo indossa di genere femminile, stella appena caduta dal cielo, perché chiamata dal divino a fare matrimonio sull’altare.

Una visione folkloristica e fuorviante che cancella il vissuto quotidiano e la crescita paritari dei generai, sino ad allora inesistenti e, il significato dei simboli, e il valore profondo che questi elementi avevano nella vita reale delle comunità.

È necessario difendere la memoria vera, ascoltare chi conosce davvero, e impedire che l’arbitrio e l’improvvisazione si sostituiscano alla storia e alla competenza.

A tal proposito è bene sottolineare che non è sufficiente recarsi in archivi e biblioteche per acquisire quella tessitura solida che dà sostanza alla storia.

Il lavoro dello storico non si esaurisce nella raccolta diligente di documenti o nella consultazione di fonti, giacché, queste sono condizioni necessarie, ma non ancora sufficienti.

Fare storia significa saper interrogare criticamente le tracce del passato, riconoscere ciò che le fonti dicono e, soprattutto, ciò che tacciono e, questo significa connettere indizi dispersi, contestualizzare, interpretare, e talvolta contraddire la voce stessa dei documenti.

Solo attraverso questa operazione intellettuale, che richiede metodo, sensibilità e capacità di sintesi, si costruisce quella trama complessa che trasforma i dati in conoscenza storica.

Senza questo passaggio fondamentale, la ricerca rischia di ridursi a un accumulo di informazioni, priva di respiro e di senso.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                          Napoli 2024-08-07

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