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IL LAGRIMOSO CAMMINO DEGLI ARBËREŞË VERSO LA TERRA PROMESSA Si u lljeva si sotë nenghë thë pèe

Posted on 29 luglio 2025 by admin

Giorgio Castrita L'arbëreshë 2

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel corso del XIV secolo, gli Arbëreşë seguirono il percorso per raggiungere la terra promessa dal principe Giorgio, che non porta emblemi di tradimento né sul capo e né sul cuore.

L’eroe diffuse e rese pubbliche le direttive par raggiungere queste terre, come un profeta fa, nel predisporre ogni cosa per l’indispensabile accoglienza, e come fare quando sarebbe giunto il momento di incamminarsi per lasciare, le antiche terre con il cuore e la mente colmi di principi di credenza a fraterna solidarietà.

Una vera e propria” terra promessa” che doveva essere  una nuova patria, su cui elevare i principi di credenza senza compromettere gli altrui o dare l’idea di essere invasori.

Il confine solido e facile da individuare era, il mare Adriatico dove solidamente indica la via di giorno al sole e all’imbrunire anche alla luna buona entrambi che vano verso il sud dell’Italia.

Per loro, questa regione buona divenne “terra promessa”, come lo fu per i popoli che segnarono e segnano la storia tutti alla ricerca di, un rifugio dove poter vivere in pace, mantenendo viva l’identità della terra di origine parallela colmi di ambiti collinari, qui ritrovati.

Ancora oggi, i loro discendenti custodiscono con orgoglio quella memoria di coraggio e speranza di cui ricordano e tramandano gesta credenza e consuetudini.

Una volta individuati i luoghi più adatti nelle regioni del Meridione, in particolare in Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Sicilia, Abruzzo e Molise, gli Arbëreshë si distinsero per la loro laboriosa arte nel bonificare terre e renderle parte attiva della dieta mediterranea, vino, olio, cereali e pastorizia.

Riuscirono a rendere produttive terre abbandonate e a riportare in vita numerosi centri rurali ormai spopolati o in decadenza.

Fondarono villaggi, costruirono chiese, coltivarono i campi e contribuirono attivamente alla rinascita economica e culturale di quelle aree, intrecciando il loro destino con quello delle comunità locali, pur rimanendo fieri custodi della loro identità.

Con il loro lavoro, la loro fede e la capacità di integrarsi senza perdere le proprie radici, crearono uno dei modelli più solidi e duraturi di integrazione mediterranea, senza soluzione di continuità tra cultura ospitante e tradizione arbëreşë.

Tutto questo fu possibile grazie al loro codice linguistico orale, mai formalizzato in scrittura, che tramandava storie, valori e memorie. Le loro gesta rimasero così un fatto intimo, custodito nella memoria collettiva ma ignorato dalla grande storia, e tutt’oggi assente negli archivi e nelle biblioteche.

Oggi, variegate istituzioni religiose, politiche e culturali cercano inutilmente di attribuire a loro uno scritto ufficiale, tuttavia il penoso ardire non è stato mai coerente con la loro natura, che sistematicamente riconsegnano agli illustri mittenti.

Per questo motivo viene caparbiamente e giustamente rifiutata, perché non può essere compresa lo sforzo fatto da chi lavora, da quanti siedono e osservano il tempo che scorre lento e, segna profondamente il radicato di un popolo operoso.

Quando gli Arbëreshë giunsero nel Sud Italia, trovarono villaggi abitati da poche anime, comunità isolate e terre quasi abbandonate, convertendo da subito questi stati di fatto con fraternità ritrovata, costruendo ponti e strade e dando meta a un nuovo modo di abitare ed accogliere.

Con spirito solidale e profondo senso del territorio, si affiancarono fraternamente agli abitanti locali, portando nuova forza e vitalità. Insieme resero quei luoghi nuovamente vivi, coltivando la terra, ricostruendo legami e rafforzando l’identità delle comunità.

La loro presenza non fu invasiva, ma rigeneratrice: un incontro silenzioso che cambiò il destino di interi territori.

Tuttavia, dovettero affrontare ogni sorta di avversità, con determinazione e sacrificio, riuscendo ad averne ragione, innestando radici e custodire la loro identità.

Ma, dalla loro terra d’origine, gli echi della sottomissione non hanno mai cessato di farsi sentire, arrivando fino a qui come un richiamo un ronzio silenzioso in memoria di quella fuga che per i dominatori doveva essere un giorno portata a buon fine.

Gli Arbëreshë, approdati oltre l’Adriatico in cerca di libertà, affrontarono ogni genere di avversità. Nemmeno nella “terra promessa” fu loro concesso di pregare liberamente: la fede, che li aveva sostenuti nell’esilio, venne ostacolata. Eppure, nonostante tutto, divennero protagonisti di unione e custodi di una cultura viva, resistendo al tempo e alle imposizioni. Ma dalla loro terra natia, gli echi della sottomissione continuano a riverberare, giungendo fino a noi come monito e memoria.

La fuga degli Arbëreshë dalle loro terre storiche, alla ricerca di una terra di credenza e libertà, non è mai stata davvero perdonata. Né dai dominatori che li videro partire, né da coloro che li accolsero con diffidenza. Profughi e custodi di una fede antica, affrontarono il peso dell’esilio e il silenzio dell’incomprensione. Eppure resistettero, costruendo ponti tra memoria e identità, tra radici spezzate e nuovi orizzonti.

Se all’inizio fu la diffidenza ad accogliere gli Arbëreshë, ma poi sottoscritti i patti seguirono la forma di credenza a cui si scelsero i patti bizantini, poi formalmente garantita dagli atti dell’Unità.

Ma dal XIX secolo in poi cominciò ispirati dal ventennio Italiano inizia una nuova fase, con cui si e dato avvia allo sminuire e il parlato, sulla scorta del principio che voleva legare la terra promessa e l’antica terra di pena con il filo nero dell’inchiostro.

Ha cosi inizio la progressiva perdita della lingua parlata, e con essa la smitizzazione della figura di Giorgio Castriota volgarizzandolo come uno Scanderbeg.

Un’azione lenta e silenziosa, che oggi transita indisturbata attraverso letterati e governi, senza consapevolezza né memoria alcuna, nel comprendere quanto male si faccia a questo popolo da oltre un millennio.

Così, ciò che era stato rifugio e resistenza rischia di dissolversi nell’indifferenza del presente, a giudicare dai viandanti che qui giungono come turisti della breve sosta.

Si potrebbero fare esempi, offrire certezze, indicare fonti. Ma chissà quanti oggi hanno davvero gli strumenti per comprendere. La verità è che la conquista ottomana, e con essa la repressione delle credenze degli Arbëreshë, non ha mai smesso di esercitare la sua ombra. Anche dopo l’esilio, anche dopo l’approdo oltre l’Adriatico, quella sottomissione si è perpetuata — prima nella diffidenza, poi nella concessione formale, infine nell’oblio. Oggi, tra istituzioni distratte e memorie spezzate, la loro identità continua a resistere, ma senza il riconoscimento che meriterebbe. La storia degli Arbëreshë non è solo una storia passata: è una domanda ancora aperta sul presente.

Difficilmente ci sarà mai spazio per un confronto pubblico autentico, perché i cosiddetti “prescelti” nella nostra terra, pur consapevoli del gioco perverso che si consuma, non hanno né la forza culturale né la conoscenza storica per misurarsi con chi, come i primi Olivetani di Napoli, portavano sulle spalle secoli di pensiero e e credenza da diffondere a chi ignorava sin anche credenza.

La rappresentanza ad oggi è diventata vuota, sterile, e incapace di affrontare le vere domande e, nel silenzio perpetuo che non nasce dall’ignoranza del popolo, ma dalla rinuncia colpevole di chi avrebbe il dovere e l’opportunità di parlare con lealtà verità e competenza.

E tutto si cela dietro i libri, i manuali, i tentativi di formalizzare l’alfabeto arbëreshë, che, in verità, non è mai esistito davvero, o non ha mai avuto un’alba piena, nonostante viene evocato come segno di dignità linguistica, ma è spesso solo una vetrina vuota, costruita per rassicurare coscienze istituzionali, non per custodire davvero una voce viva, sicura e pronta ad essere ascoltata.

L’identità, quella autentica, non sta nei caratteri tipografici, ma nei suoni che resistono nel parlato e il cantare degli anziani, nelle preghiere sussurrate, nei silenzi non tradotti e, finché si continuerà a nascondere la realtà dietro simulacri cartacei, nessuna rinascita sarà possibile.

Quello che resta sono i fatti che dimostrano che essi divennero esempio di ingegno e lungimiranza e, costruirono ponti e strade, divulgarono temi moderati per unire religioni e culturali e, divennero portatori di conoscenza tra le masse prive di istruzione.

La loro presenza contribuì a trasformare territori marginali in centri di sviluppo e, oggi sono un modello di integrazione e progresso.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-07-29

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