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11-11-1799: ANCORA NON CAMBIA L’ANIMA DEL igNOTO TRADITORE

11-11-1799: ANCORA NON CAMBIA L’ANIMA DEL igNOTO TRADITORE

Posted on 10 novembre 2021 by admin

01 - RaccontiNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Aver dato se stessi per ideali di un nuovo pensiero civile e culturale, incassando il titolo di una strada, una lapide e un busto a memoria dai suoi gjitoni, denotano quanta gloria, dopo oltre due secoli, sia inghisata nella figura e il ricordo di Pasquale Baffi, l’uomo più colto, sapiente, gentile e garbato della discendenza Arbéreshè.

Poco o nulla si conosce di eventuali atteggiamenti in forma di protesta di stati generali, i luoghi di pensiero minoritari cui apparteneva o gli eventuali titoli prodotti dagli anni sessanta del secolo scorso dai concittadini ormai tutti scolarizzati.

Dopo la battaglia di Vigliena del 28 giugno del 1799 e il conseguente ordine di arresto, disposto dal vertice dalle autorità; eseguito la fine di luglio definitivamente, è iniziato  un estenuante calvario, protratto per altri tre mesi, durante i quali, ha germogliato il protocollo del più vile tradimento, dopo quello dei trenta tre danari.

Solo per una ricompensa,  di poche decine di ducati, oggi poco più di sessanta euro; il valore della viltà, per quanti, sedevano sui bordi del “lavinaio”,  a dirigere.

Lo stesso luogo  tra i più insani del mediterraneo arbëreshë, lì, dove le cose false , riportate per nome e per conto di figure altre, amalorano ogni cosa, appartenenti alla memoria e al buon senso arbëreshë.

Lo stato di malafede e senza alcun principio morale o religioso, valorizza l’ambasciatore di pene, accolto da quanti le notizie non le sottopongono neanche al ragionevole dubbio, loco di virtù  assente, nonostante doveva essere  spazio di coesione sociale.

Seguirono nel corso di questo stato di cose, un numero imprecisato d’illusioni, offese, umiliazioni, cattiverie, disposte, da vili figure, sin anche nei confronti della moglie e i figli dell’illustre uomo di pensiero libero.

Il conseguente trasferimento, quel Novembre del 1799, quando, il generale della suprema corte condanna l’illustre e libero pensatore “per colpe riportate da generi vilmente allevati”.

Definendo eseguirsi la sentenza lunedì, undici corrente novembre, si diede luogo a quanto stabilito dagli organi preposti, conducendo l’illustre e libero pensatore, nella struttura, davanti il Palazzo di supplizio senza fine.

L’ordine, in oltre, precisava che si doveva predisporre le truppe per accompagnare al pubblico patibolo, disponendo, preventivamente pattuglie per le vie e le piazze del borgo, onde evitare ogni genere di contatto o adesione in favore della colta figura .

Così dopo la falsa apparizione di gjitoni e germani, il giorno 11 novembre, verso l’ora “diciassettesima e mezzo”, in otto coppie vestite a festa escono, dalle porte dei palazzi, regine del fuoco povero; e verso l’ora “diciottesima” di quel dì, mentre la madre dell’ignoranza  gioiva e ballava divertita, come i turchi con le resta del Castriota portavano per le terre in trionfo al grido; “ abbiamo fatto fuori, un altro”.

Da quel momento in poi, liberi da ogni genere di figura, si vestono da attori protagonisti; il valere della corona va avanti, certa che alcun antagonista si schiera in difesa del libero pensatore.

Le date e le tappe che ricordano quella storia che denota il cattivo gusto dalla corte reale, originaria dove i generi hanno solo “in dote la casa”, si articolarono così come segue:

– giugno segna la svolta; inizio di un’epoca buia;

– agosto il tempo del tradimento e della china senza fondo;

– settembre il tempo per violare il patto di unione;

– ottobre viene sprecato per sciupare le tracce del costruito storico;

– novembre la fine del riscatto: il ritorno a essere come un tempo casale;

La storia si ripete imperterrita il 13 giugno, sino l’11 novembre; un Pasquale Baffi è sempre, basta ripetere, fatti e gesta; germogli che non smettono di compromettere il grano buono; la falce del “potere” protagonista, fa da giudice e testimone, in favore del fatuo, nel mentre il buon grano è lasciato lontano dalla filiera della mietitura, sperando non germogli più.

Pur consapevoli che le madri vestite di raso, conoscono quali sono i germogli del grano che lievita e fa crescere il pane buono e pur se poco non manca mai, giacche, sufficiente a  garantire domani migliori, in certezze e cose garbatamente tramandate.

Per finire e aprire un nuovo stato di fatto, è opportuno precisare che Pasquale Baffi rappresenta il più alto emblema culturale e di pensiero della minoranza storica arbëreshë, noto  “non”  ad aver scritto discorsi, trattati in tema sociale, perché, quanti idoneamente formati, ogni volta che sentono o leggono i temi citati, quale farina buona di altri favellanti, sanno che il sacco di grano buono, da cui è stato prodotto, appartiene all’illustre e libero pensatore Sofiota.

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LE COSE ARBÈRESHÉ CHE MI COMPLETANO. (Shiurbisetë arbèreshé cë më varrògnènë)

LE COSE ARBÈRESHÉ CHE MI COMPLETANO. (Shiurbisetë arbèreshé cë më varrògnènë)

Posted on 07 novembre 2021 by admin

Colombo

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – È solito leggere trattazioni riferite alla Regione storica Arbëreshë, comunemente appellata Arberia; argomenti estratti da carte archiviate, interpretate da ignari senza titolo o formazione, famosi alla ribalta storica come referenti di luogo, epoca e uomini senza tempo.

Non si trova trattazione che abbia esposizione semplice in forma d’inizio, uno svolgimento e conclusione, frutto di studio e quindi assunzione di responsabilità degli argomenti trattati, perché vi è sempre la forma espositiva per conto e per nome di altri.

Tutto è trattato per sentito dire o per atti e capitoli, il più delle volte indicatori di altre cose, altri avvenimenti e altrui fatti, i quali pur se importanti, non servono quale supporto ai discorsi intrapresi e divulgati sulla storica minoranza.

La favola più assurda è comunemente riferita nel corso da secoli,  dipingono  gli esuli con le braccia stese verso il cielo, inneggiando una favela ignota(????????).

Mai immagine più  banale e senza senso è stata riferita per conto degli arbëreshë, nonostante altre figure della storia quali Cristoforo Colombo, eseguisse lo stesso rituale  nell’approdare, alla fine dei viaggi; stessa postura, se proprio vogliamo analizzare l’immagine di luogo, di fatti, di uomini e credenze, quella favella ignota, rivolta verso il cielo era  sempre una semplice preghiera.

Partendo dal presupposto che s’inneggia al cielo, per ringraziare nostro Signore, specie chi viaggiava per mare era un rituale normale; così come gli arbëreshë  accompagnati  da  preti ortodossi;  come riferimento di credenza, come ben noto,  ragion per cui, non dovrebbe essere tanto ignota la favella, negli approdi della Sibaritide luogo di Antica Grecità.

Se a questo aggiungiamo l’enunciato caratteristico e caratterizzante la minoranza Arbëreshë nell’identificarli per esigenza della legge 482, ovvero, “la Gjitonia”, identificato come  mero “Vicinato Alloctono”.

Chi ha prodotto un inopportuno postulato avrebbe almeno dovuto essere un  parlante e rappresentante la consuetudine della minoranza, non un intervistatore accompagnato da giovani inesperti.

Se poi volessimo approfondire uomini, fatti della storia, le cose materiali e immateriali definiti dal genius loci, finiremmo in una palude da cui non si emerge aggrappandosi alla sola ancora dell’articolo sei della costituzione.

Specie chi va per mari non ha solo bisogno di un’ancora a “6”pollici, ma ci vogliono le “3”caravelle e  orizzontamento e testa le “9”cose indispensabili.

Oggi quello che più attrae sono il numero imprecisato di migrazioni, le quali per la variabile d’inizio, svolgimento fine e ritorno a casa, sembrano più caratteristica di un cambio sequenziale di velocità, ovvero: I° – II° – III° – IV°- V° – VI° – VII° e VIII° oltre Retro marcia  per tornare alle origini.

Le migrazioni nel fiume Adriatico, sin dove intercetta il mare Ionio, sono una costante che non ha tempo, sminuirle in maniera numerica, offende quanti studiano per realizzare le diplomatiche di coerenza storica, con formazione e titoli, il cui fine è la conoscenza e non il miraggio del palcoscenico dei media.

Se poi dobbiamo dare un senso storico alla venuta degli Arbanon, definiti Arbëreshë dalla storia, diventa fondamentale porre l’accento su ogni trattato della storia di quest’antico popolo, che per alcuni ha vissuto in forma di eroi, cavalieri e figure senza macchia.

Gli Arbëreshë, non sono figli illegittimi dell’antica Grecia, anzi, magari è il contrario; tuttavia, notoriamente si fa riferimento all’eroe Giorgio Castriota, non certo residente o appartenente al meridione d’Albania,  terra suddivisa storicamente in numerosi, governarati.

Come può essere possibile che le genti di una regione  scenario di scontri violenti e cruenti, vede sono la parte meridionale emigrare, mentre le altre, del centro, del settentrione,  oriente e occidente, imperterriti attendono  il terminare delle ostilità candidamente.

Il terzo millennio è iniziato, la tecnologia grazie alla connessione diffusa raggiunge ogni dove, per chi ha voglia, nel tempo di un’estate Arbëreshë, può acquisire dati, con lo scopo di tracciare  tempo e genti, provenienti dalle sponde inospitali a est dell’Adriatico.

Quando la parabola dell’impero romano con capitale Costantinopoli ha iniziato la china, questa contrapposizione di forze ha determinato due fronti, i quali trovarono il fulcro di frizione nelle terre oltre adriatico, e da questo momento, si sono formate onde di risacca latente di esuli.

Prima come soldati mercenari, poi in assetto di contadini, artigiani, cavallerizzi e uditori, in tutto come forza certificata, avente tutte la caratteristica della partecipazione del gruppo familiare di appartenenza tutto, come erano organizzati gli stradiotti a i tempi del Romano Impero.

Se di migrazione si deve parlare, essa è una sola; essa ha luogo dal 1769 al 1502, tempo in cui la moglie, dell’eroe Giorgio Castriota, Donica Comneno Arianiti, si stabili a Napoli, in forza del patto dell’ordine del drago, al fine di tutelarla sia dal punto di vista fisico e sia economico l’emblema  regina e la prole di quanti capitolavano in battaglia.

Se ancora oggi si continua ad indicare in forma sequenziale, sin anche la fine dell’impero romano con le navi del Doria, con qualche sparuto gruppo di arbanon e  nel settecento la forza della Real Macedone voluta da Carlo III° e il segno di una storia che si vuole imporre, ma priva di forma e notizia migratoria.

In conformità a questi espedienti, se escludiamo la visita di Giorgio Castriota nel meridione, la vicenda di accoglienza della Moglie Donica Arianiti Comneno, il disegno di una svolta storica, definibile come arretramento di fronte di quelle frizioni storiche che da adesso in poi vaporizzano nel breve tempo, il resto sono vicende riferibili ad altri temi, che non fanno storia.

Sono episodi comuni senza ne luogo e ne tempo; essi lasciano il tempo che trovano, cosa ben diversa sono gli atti posti in essere, le disposizioni e i luoghi di allocamento, prima in forma estrattiva o dei materiali deperibili (periodo breve del nomadismo) e poi in forma additiva e dei materiali inalterabili, epoca della residenza (periodo lungo della residenza storica).

Se a questo associamo i quartieri storici che legano tutti gli oltre cento paesi di origine Arbanon e il modello sociale dei cinque sensi, muoversi all’interno dei centri antichi Arbéreshè è molto semplice e facilmente navigabili.

Tutto poi è consolidato dalla lettura del vestito da sposa femminile della macro area citeriore Ionica, un libro di temi consuetudinari realizzato in forma di vestizione, esso contiene tutti gli intervalli di continuità storica della minoranza, conservati in tutti i punti di unione fatti con filo e ago.

Queste  cose, sommate, all’eredità in forma di costume, consuetudini e appuntamenti dell’estate e dell’inverno Arbëreshë (Moti i Madë e Moti i Viker)  completano la formazione culturale di ogni buon addetto che studia la conservazione delle tracce storiche, con il fine di offrire  solidità alla lettura, alla traduzione poi resa disegno, progetto di ogni elemento finito, che vede protagonisti gli Arbëreshë (Shiurbisetë arbèreshé cë më varrògnènë)

Per concludere le figure che oggi servono sono lo storico e il progettista, esponenti inscindibili secondo il teorema, per il quale: 

  • lo storico che camminare all’indietro; con lo sguardo rivolto  al passato; di fianco il presente; spalle al futuro.
  • il progettista  procede in avanti; futuro di fronte, il presente a fianco e la storia alle sue spalle.
  • Vale Vale, sino alle albe che seguono i tramonti che verranno.

 

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MANZANERA (Manxana e zézë)

MANZANERA (Manxana e zézë)

Posted on 19 ottobre 2021 by admin

20210106_155311NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – I fenomeni di persecuzione indirizzati verso ambiti, gruppi, minoranze religiose e culturali sono opportunamente arginati, con idonei strumenti, contenuti nel diritto internazionale; a garanzia di ogni forma con caratteristiche storiche minoritarie.

Quando si parla di tutela o valore dei centri minori di origine Arbëreshë, si entra a pieno titolo nel tema citato, rivolto al senso conservato nel perimetro del centro antico minore; sono proprio questi ad attende le necessarie misure, atte a contenere la marea di liberi operanti culturali, armati di mantici inenarrabili.

Notoriamente le minoranze storiche siano citate nell’articolo, sei, della Costituzione Italiana il cui enunciato precisa che: La Repubblica tutela con corrette norme le minoranze linguistiche. … Questo sintetico articolo s’ispira a un efficace principio di rispetto della lingua parlata da una comunità e precisa senza ombra di dubbi alcuno la presenza in Italia di minoranze linguistiche, ossia gruppi che non parlano l’italiano come prima lingua.

Il prodotto legislativo del 1999 n° 482, avrebbe dovuto consentire di adottare misure sostenibili rivolti ad ambiti, gruppi, minoranze religiose e culturali, attraverso il diritto internazionale, secondo cui ogni insieme riconosciuto quale forma storico minoritaria, poteva attingere risorse per sostenere la propria forza minore.

A ben vedere, visti i risultati cui si è approdati dopo oltre un ventennio di applicazione della legge 482/99 è opportuno rivedere l’insieme del dispositivo aggiungendo e rifinendo comma, al fine di aprire nuove prospettive di tutela attingendo nelle pieghe degli articoli 3 e 9 della Costituzione Italiana.

L’articolo tre della Costituzione esorta non solo di attivarsi per l’uguaglianza dei cittadini, ma come riferito nella seconda parte, della legge, sottolinea: il compito della Repubblica a Rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Chiara espressione non è adottata all’interno di alcune minoranze storiche, che nonostante allarghino la propria deriva culturale, nulla viene fatto per rimuovere o correggere le attività poste in essere, a scapito di quanti si adoperano per arginare lo stato delle cose .

Se a questo suggerimento costituzionale, non contemplato nei comma della 482 del 99, aggiungiamo cosa propone l’articolo nove della costituzione italiana, nel suo enunciato introduttivo si allargano enormemente le misure dell’orizzonte,in contenuti ambientali e di cose, come qui di seguito enunciato: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Le direttive nascono e sono state specificate, nella legge n. 352, del 1997; avente come oggetto la promozione e il sostegno di progetti finalizzati al restauro e alla valorizzazione dei beni culturali.

Il decreto lgs. n. 42/2004, in fine definisce senza ombra di dubbio alcuno, il codice per i Beni Culturali e Paesaggistici e per la prima volta si giunge a dare una definizione di bene culturale, infatti, l’articolo 2, sancisce che: Il patrimonio culturale è costituito dai “beni culturali e dai beni paesaggistici”.

  • Sono beni culturali “le cose” immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, il cui interesse è rivolto ai valori artistici, storici, archeologici, etnoantropologico, archivistici e bibliografici e le altre cose individuate dalla legge o in base a questa, come testimonianze aventi valore di civiltà.
  • Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge.
  • I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione, della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela.

Va rilevato che le misure non identificano beni specifici, ne fanno una graduatoria del bene, giacché, oltre al paesaggio, la tutela mira ai beni individuati come “cose materiali ed immateriali”, lasciando agli esperti il valore decisionale; sulla base di questa breve introduzione nascono spontanei i seguenti interrogativi:

  • Perche nel 2004 in piena espunzione delle attività di tutela della minoranza non è stata posta la giusta attenzione e rendere la 482/99 più incline alle esigenze che erano poste in essere con le tante attività il cui risultato lasciavano il tempo che trovavano, senza migliorare nulla della regione storica?
  • Perché si e terminati, nel ritenere che solo l’aspetto idiomatico, andava preservato, immaginando la minoranza storica un fenomeno di voci altre sfuggito alla terra di origine e per questo andava riportato nell’ovile Albanese?
  • Quale attenzione è stata rivolta alle attività d’innalzamento dei centri antichi tipizzando il modello o meglio la cellula abitativa di base estrattiva e in evoluzione additiva?
  • Come si sono svolte le ricerche per la definizione della Gijtona che è finita per essere identificata come esempio copiato dal compagno di banco indigeno?
  • Quale attenzione è stata rivolta ai percorsi bizantini,nel meridione Italiano, poi diventati dal XV secolo la stella cometa, per mantenere la rotta nel percorso di insediamento?
  • Quale valore si è dato alle eccellenze in campo sociale, culturale, della scienza esatta o come liberi pensatori di un mondo nuovo che ancora attende il suo momento di attuazione?

Questi accenni e molti altri ancora sono le domande cui gli stati generali, non hanno saputo rispodere, ne hanno definito forme preliminari di progetti multidisciplinari.

Tutte le mancanze sono poi emerse, quando la pandemia, ha imposto conferenze non in presenza e tutta l’inesattezza delle cose è venuta a galla con tutti gli abbarbicamenti connessi.

Una e non certo è la meno importante è la definizione dell’insieme minoritario, ritenuto a torto, “eccellenza di nomadismo perenne”, nonostante sia estrapolato diffusamente nelle capitolazioni, con le case di pietra e arena, segno evidente di popolazioni stanziali.

La minoranza non è fatta di episodi d’incontro, tra due o più persone operose ad accendere un fuoco per iniziano a parlare in voce altra, poi magari se piove vanno via a e lasciano i carboni ad ardere e bruciano l’ambiente circostante.

La minoranza storica contiene un patrimonio identitari fatto di cose materiali e immateriali, essa si ferma per costruire e solo dopo accende il fuoco della casa, identificata come la prima cosa da proteggere e mai lasciata al suo destino, perché culla di un mondo antico.

La minoranza storica non inquina, lasciando imprudentemente fuochi accesi per discutere di cose futili, essa rispetta la natura con cui dialoga, al fine  di garantirsi le risorse e la continuità storica di un identificato luogo parallelo alla terra di provenienza; tutto questo non si può sintetizzare nel tempo che bruciano sarmenti o si fa un discorso inutile, fatto in voce altra; in altre parole la minoranza stoica non è un fuoco di paglia acceso da comuni viandanti.

Come si possa parlare di minoranza, senza avere consapevolezza del labirinto costruito, denominato sheshi, “il rione” sovrapposizione di tempo e ingegno; cose prodotte dalla minoranza, per segnare indelebilmente la presenza, nella più stretta collaborazione con la natura; l’ambiente parallelo individuato oltre il fiume Adriatico accanto ai segni bizantini.

Per terminare si vuole rilevare che l’appellativo “Regione storica diffusa Arbëreshë; il modello più longevo di integrazione mediterranea”, ha ricevuto i complimenti Presidenziali, a cui si è aggiunto l’intero gruppo della sua segreteria, nel novembre del 2018.

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UNA DIPLOMATICA PER DEFINIRE I FATTI, LE COSE E Il TRASCORSO DI UNA FIGURA

UNA DIPLOMATICA PER DEFINIRE I FATTI, LE COSE E Il TRASCORSO DI UNA FIGURA

Posted on 10 ottobre 2021 by admin

Muro

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La diplomatica è la scienza che ha per oggetto lo studio critico del documento storico, al fine di determinare il valore come testimonianza esatta.

Essa è una disciplina nata nella seconda metà del secolo XVII, con oggetto di studio i concetti, le tecniche e le procedure per giudicare la genuinità di un documento, tramandato secondo i canali dell’ufficialità.

Inizialmente era intesa come scienza ausiliaria della storia, tuttavia, nel corso del XIX e XX secolo è diventata aiuto indispensabile per la ricerca storica.

La diplomatica, trova la sua origine con i primi studi filologici, compiuti dagli umanisti, il fondatore fu Francesco Petrarca, nel 1361 dimostrò la falsità dei pretesi privilegi concessi agli Asburgo d’Austria da Cesare e da Nerone, su richiesta dell’imperatore Carlo IV.

Un secolo più tardi, il romano Lorenzo Valla, nel 1440, pose l’accento sulla falsità della donazione che l’imperatore romano Costantino fece a papa Silvestro I, noto come “Discorso sulla donazione di Costantino”, falsamente creduta autentica e da allora in poi ebbe inizio una vera e propria verifica delle cose e gli uomini della storia.

La premessa pone l’accento su cosa è divulgato  in forma di un “Discorso”, specie se il teorema tratta di quanti vissero i territori paralleli prima ad est e poi anche ad ovest del “Fiume Adriatico”.

Queste popolazioni, note alla storia non per atti trasmessi e compilati da scriba, ma solo per la forma orale, quando iniziarono a definire forme  grammaticali, una volta compilate e poste a riposo, non smisero più di lievitare sotto i flussi dei venti nuovi.

E’ per questo che lo studio della storia, i fatti, le cose e gli uomini di questo popolo, non devono  essere affidati alle trascrizioni ereditate dalle lievitazioni di un criscito ignoto, in quanto urgono gruppi di lavoro pluri disciplinari, in grado di comprendere avvenimenti, date, luoghi, per  tessere le tele della storia,  secondo l’idioma dei lasciti ereditati.

Lo studioso attento conosce e si confronta sistematicamente con altri suoi della stessa radice linguistica, si adopera a tracciare linee di progetto preventive, intercettando cose e fatti reali, terminando poi in seguito, La ricerca, con la verifica generale con le memorie storiche pure.

Se un “Discorso” è fatto per le genti che non usano modelli di scrittura, oltretutto mai condivisa, non può esimersi dal nominare eccellenze, fatti, argomenti e atteggiamenti, secondo un filo logico che ha un inizio, uno svolgimento e una fine, che poi non è altro che la radice fatta di consuetudini antiche, che solo i designati conoscono.

Solo in questo modo non si dispongono ombre o  seminano dubbio sulla genuinità del prodotto editoriale divulgato.

Il processo del “Discorso” riceve il riconoscimento condiviso, solo se la farina contenuta viene dal sacco di quanti sanno conoscono e anno vissuto un determinato ambiente, glia ltri che si muovono nel fatuo del sentito dire, come ad esempio, il pensiero  del  libero pensatore del 1799, divulgato da voce altra con trascrizioni sottratte finisce di proiettare ombre magre.

In altre parole riferiamo degli editi allocati, in Via San Sebastiano, che non furono distrutti, diversamente da quanto posseduto in Via Sant’Agostino degli Scalzi, dove, nell’agosto del 1799 tutto fu dato alle fiamme, ad esclusione delle 33 monete, di ricompensa per il contadino in affitto.

La conferma del furto viene, esclusivamente, dalle competenze letterarie, infatti solo un eccellente della lingua Greca, capace di leggere e tradurre tutte le  forme dialettali elleniche, poteva fermarsi nella trattazione, davanti al baratro senza urgenza di tuffarsi nelle incertezze dello scrivere il parlato antico, limitandosi per questo alla mera comparazione di confronto e origine, senza illudersi si poter volare perché si trovava alto.

Uno studioso ed esperto di lingue antiche, se non azzarda a scrivere, una parlata antica dall’alto del suo sapere, un motivo lo doveva avere.

Egli non lo fa perché intuisce il “valore del codice familiare da non divulgare, ma proteggere”,  diversamente dai gesti inconsulti, dei comunemente, i quali, non avendo altri palcoscenici, agitano le braccia e le mani illudendosi di poter volare.

Quanti hanno avuto il privilegio di crescere secondo regole antiche dettate oralmente per tutelare la propria radice da contaminazioni altre, rende vulnerabile ogni cosa quando il codice termina nelle mani di figure senza testa,  specie per quanti, e sono tanti, non  conoscono il valore di quelle parole e il danno che vanno a compiere.

Giocare con la vita e la morale degli altri è facile, ancora peggio non avere scrupoli nel perpetrarli ad oltranza sino alla morte.

L’arroganza di predisporre trame per esse intoccabili nell’uso  della falce, termina quando rimani solo e ancora non si è consapevoli del maltolto, specie, quando gli altri voltano le spalle, perché parenti fidati e l’attrezzo che ancor prima di coagulare il sangue del primo tradimento,  si muove per attingere altro  sangue fresco, è il segno dell’onnipotenza ciana .

Non dimentichiamo il martello che dal 1811 è utilizzato per demolire fisicamente i presidi della cultura, gli stesi trasferiti per meglio formare nuove generazioni secondo l’antico consuetudinario, di lingua forme di confronto e religione.

L’onnipotente dopo essere stato protagonista negativo negli avvenimenti del 99, ombra occulta di grano insanguinato, coperto dal re, seminando terrore e morte nel natio; veste la toga della legalità, illudendo nel contempo i locali di profitti immobiliari; nessun progetto ha fatto l’uomo più blasfemo nell’uso degli attrezzi da lavoro più noti della storia, un uso che non trova eguali nel corso della storia.

Falce è martello sono gli emblemi dell’operosità e della fratellanza degli uomini, usarli per distruggere e tradire è fuori da ogni regola del genere umano, se si esclude l’inferno dantesco.

Certamente i sospetto non fanno una prova, nessuno troverà mai un atto nell’archivio di stato civile o militare, certificante tanta viltà e cattiveria, restano i fatti e le trascrizioni della storia che non lascia dubbi, anzi sono segnate dal sangue che non coagulerà mai.

L’arma del delitto e un rasoio ideale ad arco che nessuno troverà in alcun luogo, il fabbro modellatore è il Diavolo, il solo titolato a utilizzare le fiamme dell’inferno per forgiare trame di sofferenza diffusa.

Esso è un attrezzò immateriale ben affilato, si chiama la viltà, nessuno li troverà mai, il sangue versato in Piazza Mercato e quello sul grano che non germoglia più, nelle vicinanze de lavinaio, resta e come diceva un noto editore: il sangue sparso non va dimenticato (gjàku i shprishur su hàrrùa).

Non è concepibile attribuire studi millantati nei salotti culturali di Europa, “la questione meridionale”, a quanti non erano in grado di distinguere i palazzi del potere, dalle zone mercatali, dalle cristiane o le bizantine Chiese.

Se nel, 1785-86-87, in Svezia questi studi venivano largamente divulgati e apprezzati dai grandi di quel tempo, come fanno ad essere eccellenza altrui, nel corso del decennio francese?

Tanto meno si possono fare discorsi sulle dinamiche di valorizzazione del meridione, quando non si possiede ancora alcuna conoscenza del territorio e degli atti di Cassa Sacra riportati in Greco Antico, materia e piattaforma per un solo protagonista dal 1783 sino al 1799.

Poi se a questi dati di carattere formativo di tempo e di luogo, aggiungiamo il dato che ogni volta che si sono accesi i riflettori sulla stessa figura, un suo fattore o domestica ha avuto riconosciuto un compenso dalle istituzioni preposte, qualche abbaglio inizia a illuminare la via dei tre indizi, che fanno la prova.

Si può concludere che le eccellenze sono tante e potevano essere giustamente innalzate, sotto  il punto vista della legalità, della cultura, della scienza esatta; valga per citazione un solo esempio, a cui si potrebbero aggiungere altri novemila novecento novantanove: dove i Tecnici della Roma Imperiale in tutto il suo splendore si fermarono e lasciare il passo alla natura, un architetto osò superarli, ciò nonostante nell’inconsapevolezza generale si preferisce promuovere cose persone e arte prive di senso garbo e rispetto.

Tutto questo normalmente conduce nel campo del fatuo dovela confusione è garante, sin anche per le gesta del Beato Angelo di Acri, attribuite a di San Francesco di Paola; il segno evidente che la notte è ancora lunga buia e tempestosa.

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GIACULATORIA INNALZATA! ( per gli Arbëreshë ghe vieshëe e shëluer)

GIACULATORIA INNALZATA! ( per gli Arbëreshë ghe vieshëe e shëluer)

Posted on 19 settembre 2021 by admin

Miracco ii

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La chiamano l’Athena della cultura minoritaria e qui, come accadeva nell’antica Grecia, fattori di genere, abilità fisiche, condizioni economiche, qualità culturali rendevano concreto “l’esposizione”, ampiamente accettata e contemplata per secoli.

Oggi accade che le figure più in vista, sono scelte secondo una strana  “giaculatoria” innalzando  valori di culturali, frutto di studi altrui, come si faceva tra scolaretti quando si copiava il compito del compagno di banco, per poi nel cortile, a missione compiuta gridare:

NE HO FATTO FUORI UN ALTRO!

La premessa serve a individuare lo stato di fatto del luogo dell’inadeguatezza storica, ove senza soluzione di continuità, si carpiscono i concetti e le scoperte culturali di quanti sono cresciuti e formati a Napoli, come  successo nel decennio francese e invece di elevarli per rendergli merito, si buttano a terra volgarmente come una Vieshë buttata li per disonorare .

Sono sempre i comunemente a dominare la scena, con falsità, tenendo ben stretto a denti stretti, il filo che lega bugie su bugie,  una trama labile e perversa; essa da un momento collasserà, per il troppo carico di bugie, falsità e tradimenti;  nessuna intercessione celeste si produrrà per sostenere, quel luogo di pena infernale, castello di carta in salsa di favola e tradimenti.

Se un paese è appellato, capitale di cultura, similmente alla capitale della Grecia antica, le eccellenze che vi nacquero, andrebbero sostenute e poste in prima fila, non abbandonate per poi avvicinarle con lo scopo di creare canali di favore ed esporre i maltolti culturali agli ignari di turno, perché miseri formati, i quali per incompetenza storica preferiscono atto poco nobili, il cui risvolto  termina con il lascito del tempo che trovano.

Una carovana di saltimbanchi dei corridoi degli archivi pronti ad allargare la deriva; la cui meta si finalizza nell’atto di fare scena irreale, pesci da circo fuori d’acqua,  si agitano sventolano le pinne a modo di fazzoletti al vento, aooariscono muti senza nenia, un elevato inutile che subito dopo precipita a jàcere.

Se il luogo della “giaculatoria” è inteso come porto sicuro, per gli instancabili pescatori di storia, questi dovrebbero essere protetti, non perennemente buttati a mare e come se non bastasse, nel momento del massimo confronto culture, preferirli alla povertà di contenuti, alla ricchezza culturale ereditata.

Da quando l’uomo è diventato civile, a trionfare non è stato la “giaculatoria” del buttare, perché la forza del contro canto innalzato con sentimento e credenza è più pregante e vince perché sostenuta cose con senso e radice:

VERGOGNA! VERGOGNA! VERGOGNA!

( Turpë! Turpë! Turpë!)

Si potrebbe ipotizzare che fare errori è umano, ma quando la deriva della non cultura, persiste da oltre un millennio, si potrebbe ipotizzare che  luogo, l’aria, il vento, il sole o l’acqua che sono malevoli, ma una buona dose di colpa senza ombra di dubbio spetta al genere umano che risiede.

Chi vi soggiorna è una comunità abbandonata a se stessa, nonostante abbia avuto innumerevoli possibilità per emergere non è stata mai in grado di attingere cose buone, preferendo  sempre il faceto e volgere lo sguardo dove tira il vento e la sabbia fine imperterrita da fastidio alla vista e con la sua consistenza appiattisce la prospettiva culturale.

  • Se oggi il luogo è noto sin anche per viltà  germana, non ha consapevolezza del perché il re preferì reclutare a meta settecento, un prete locale,  eccellenza di fedeltà cristiana e sociale a cui affidare la credenza e le anime di quanti componevano l’esercito noto come Real Macedone;
  • Se nel vasto Regno di Napoli nel 1798, in questo luogo, nessuno ha avuto il coraggio di innalzare l’albero della pace, nonostante un suo figli era ministro di quel governo, che doveva essere unico e indivisibile;
  • Anzi va aggiunto che quando quel governo terminò la sua breve parabola e il figlio“esposto, fini per essere cattivamente afforcato”, preferirono ignorare l’accaduto, rievocandolo addirittura solo un secolo dopo la disfatta, rimanendo nel contempo a vivere come topi nelle proprie dimore estrattive;
  • Se per cinque giorni, pochi anni dopo lo scorrere di quel secolo, ignorarono il Vescovo, per essere terminato rimanendo tutti fermi vigili e nascosti, dopo essere stato spogliato di ogni bene, in quelle cinque vergognose giornate che non terminano mai;
  • Se non si ha memoria del prete, che per la sua morale religiosa e civile fu nominato Vescovo di rito Bizantino nel tempo in cui il sole traccia un giorno, perché serviva elencare cosa fosse ancora indenne dell’istituzione fiore all’occhiello del bizantinismo meridionale e deciderne le sorti;
  • Se non si ha consapevolezza di segnare, marcare o circoscrivere dove è avvenuto il primo delitto istituzionale del meridione in età moderna;
  • Se ancora oggi non si ha alcuna consapevolezza di cosa rappresenti e denoti la vestizione tipica femminile arbëreshë, giornaliera, di festa e di matrimonio, unico componimento artistico non scritto, perché consuetudine ereditata oralmente;
  • Se non si ha consapevolezza delle cose da preservare per evitare questo stato di cose che non avrà mai fine cosa si puù mettere in campo di costruttivo senza aver preso provvedimenti relativamente a tutto ciò?

Tutte queste citazioni assieme a tante altre che rimarranno ignote, per la troppa fiducia i verso proponimenti di seggiola jàcere; allo scopo servirebbe cambiare totalmente registro e aprire la scena  a quanti la ricerca sono in grado di confrontarla con il territorio, essi sono gli unici capaci a farlo perché hanno seguito percorsi accademici e curriculum specifici, quelli indispensabili a leggere forme di progetto storico di natura e uomo.

Per terminare e rendere merito a un “figlio alto” che pochi conoscono ma molto ha fatto, , si vorrebbe rilevare il valore di questa figura locale del secolo scorso; egli dopo aver costruito il focolare  per la madre Carmela, si sedeva con lei  e annotava ogni cosa per confrontarla con i lucidi anziani che lui spesso si recava a trovare.

Il fine di questo antico modo di tutelare era quello di comprendere in maniera razionale, come realizzare i solchi dove depositare i semi della cultura identitaria locale, nel giardino, dell’INA Casa,  e pochi anni dopo la sua dipartita quei germogli sono diventati,  quello di cui disponiamo oggi  e senza misura disperdiamo; lui si chiamava “T. Miracco”.

Di lui non c’è via, non c’è luogo, non è stata predisposta la ben che minimale manifestazione, evento o nota in suo ricordo, nonostante oggi, la consuetudine locale vive  delle sue regole, nella festa padronale e a tante altre manifestazioni durano per  l’impegno profuso quando si applicare alle cose arbëreshë.

La sua opera, avremo modo di approfondirla, con più particolari, in quanto era una vera forza naturale e trainante della consuetudine arbëreshë; va accennato che segnò la nascita e il proseguo della Banda Musicale, del Gruppo Folcloristico, le regole che seguivano prima, durante e dopo il matrimonio, i festeggiamenti religiosi locali, la pronunzia, senza mai tralasciare ogni piccola ricorrenza, indispensabile allo svolgersi delle stagioni arbëreshë.

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RICORDATO PER VOLERE DI LUIGI DE MAGISTRIS IL PORTO SICURO DI DONICA ARIANITI COMNENO LA MOGLIE DI GIORGIO CASTRIOTA

RICORDATO PER VOLERE DI LUIGI DE MAGISTRIS IL PORTO SICURO DI DONICA ARIANITI COMNENO LA MOGLIE DI GIORGIO CASTRIOTA

Posted on 16 settembre 2021 by admin

LAPIDE DI VIA SANTA CHIARANAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel discutere dei tanti luoghi della storia arbëreshë qui a Napoli, non molti mesi addietro, ebbi modo di affinare un episodio fondamentale, grazie alla guida attenta dallo studioso ing. Giovanni Panzera, relativi agli eventi, secondo i principi dell’ordine del drago, che videro accolta  a Napoli la moglie dell’eroe nazionale Albanese Giorgio Castriota, “comunemente appellato Scanderbeg”.

Alla luce dei fatti, risulta che dal 1468 al 1502 la regina dimorò a Napoli e dall’agosto del 1469, presso S. Chiara, per chiudersi nel più riservato dolore di regina e madre afflitta dedicando, il suo tempo alla preghiere, sino a quando la Regina Giovanna di Trastámara (anche Giovanna III) gli affidò il ruolo di madre di corte.

Tornando ai giorni nostri, questa storia di accoglienza, non avrebbe avuto la giusta misura di lustro, se non ci fosse stata la mia ventennale collaborazione con il collega e Consigliere Comunale di Napoli, architetto Gaetano Troncone, il quale si è subito prodigato a farmi incontrare il sindaco Luigi De Magistris, quest’ultimo, nell’immediatezza del nostro incontro, ben accolse la proposta di allocare una lapide in memoria, di quanto gli veniva esposto con dettagli e particolari inediti, specie quando veniva sottolineato, il dato secondo il quale la nobile mogli dell’eroe Albanese, a Napoli, trovo il porto mediterraneo sicuro, dove poter vivere ricordando e onorando l’eroe Albanese deceduto, in quanto di una principessa si stava trattando.

Questo incontro avvenne nel mese di febbraio nella sede comunale di Palazzo San Giacomo di questo anno, a seguito mi affrettai a disegnare il manufatto marmoreo da apporre.

Nel contempo, coinvolsi il Sindaco, il Vicesindaco e studiosi locali di Greci, l’unico Katundë Arbëreshë, dove ancora si parla l’antica lingua e si vive secondo regole consuetudinarie antichissime.

L’amministrazione Comunale di Greci ha subito predisposto misure per ricambiare, in forma di rispetto, l’accoglienza che i partenopei rivolsero alla nobile donna, l’atto si concretizza nel donare il manufatto in marmo per ricordare il luogo della memoria del condottiero scomparso, con una duplice dicitura in italiano e in Arbëreshë.

Il sindaco De Magisteri ha preso a cuore la storia di Scanderbeg e della moglie Donica Arianiti Comneno e nel breve temine ha riunito la commissione toponomastica, la quale letto e trovato conferme, ha approvato l’apposizione della manufatto marmoreo, nei pressi del Monastero di Santa Chiara, lungo l’omonima via, dove a breve avrà modo di essere allocata il marmoreo di ricordo.

Una nota di merito va al Consigliere Comunale Gaetano Troncone, per aver innescato tutto ciò, ma un plauso inestimabile, che tutta la Regione storica Arbëreshë e l’Albania deve riconoscere, va al Sindaco Luigi De Magistris, il quale pur dovendo amministrare una città che conta milioni di abitanti, e le relative problematiche a cui va rivolto tanto impegno, ha espresso interesse particolare al momento storico, svoltosi nei pressi del complesso di Santa Chiara; diversamente da tanti altri amministratori minori, i quali avendo meno impegni, sprecano e cancellano la memoria delle cose arbëreshë, preferendo esclusivamente attività  senza radice, che terminano inesorabilmente, nel lasciare il tempo che trovano.

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LE COSE CULTURALI PREROGATIVA AI TEMPI DI LLALË COSTA B., POI VENNE IL NULLA

LE COSE CULTURALI PREROGATIVA AI TEMPI DI LLALË COSTA B., POI VENNE IL NULLA

Posted on 20 agosto 2021 by admin

COsta

Nell’era moderna, per “Bene o Cose del Patrimonio Culturale” s’intende cosa e quanto contribuisce per tracciare la storia di una ben identificata macro area.

Il patrimonio, per questo, abbraccia un vastissimo numero di elementi definiti e indefiniti, ragion per la quale i legislatori per evitare di omettere ogni bene, li identifica come:

“cose del patrimonio storico culturale”

Di esse sono parte inscindibile:

  • i Beni d’interesse archeologico, mobili o immobili, testimonianza irripetibile, di un territorio;
  • i Beni d’interesse storico e artistico, mobili o immobili aventi relazioni con la storia culturale;
  • i Beni di natura ambientale come i paesaggi, naturali o trasformati dall’uomo e le strutture insediateve (urbane e non) valori di civiltà, espressione del genius loci;
  • i Beni “librari” quali manoscritti, carte geografiche, incisioni, produzioni letterarie etc.

Un ventaglio di cose che sfugge alla sensibilità condotta dai comunemente, i quali per scarsa formazione e rispetto delle cose del pesato, le identifica come superfetazioni o elementi vetusti, di poco conto, dei quali si ritiene più comodo farne a meno, sostituendoli o rifinendoli con inopportuni apparati.

Questo succede per strade, piazze luoghi ameni, edifici privati, pubblici e di culto; è proprio di quest’ultima categoria che si vuole menzionare un aneddoto, che per molti a suo tempo sembrò una reazione inopportuna, ma con il seno del tempo, oggi dobbiamo rendere merito all’intuito dell’anziano tutore delle cose e della storia arbëreshë di Santa Sofia.

Era la fine degli anni quaranta del secolo scorso e la chiesa matrice dedicata a Sant’Atanasio, allocata nell’omonima piazza dedicata al piccolo, veniva segnata con apparati caratteristici della chiesa latina.

Il progetto voluto dall’allora Parroco G: Capparelli, mirava a sostituire la cadente copertura a due falde contrapposte, con una più moderna a forma di carena rovesciata in cemento armato.

L’esperimento strutturale, adottato e collaudato dai tecnici vaticani, i veri progettisti, rispondeva a questa esigenza diffusa, nell’aquilano, in mote chiese di quella regione.

Il progetto mirava a calettare all’interno del perimetro murario antico, un telaio strutturale di pilastri, travi perimetrali e soletta verticale di irrigidimento, per sorreggere volta e campanile.

Per l’epoca il progetto si riteneva all’avanguardia e migliorava la fruibilità in sicurezza del sacro volume Sofiota, ad opera di manovalanze locali e maestranze indigene.

Quando l’opera era al termine e le risorse risultate, grazie alle donazioni dei fedeli, soverchianti, indusse l’entusiasmo del prete locale a sostituire anche la storica porta dell’ingresso principale a due battenti, in legno massello, rifinita da un particolare bugnato.

Opera di un falegname, che per sfuggire al carcere certo nel 700, trovo riparo in chiesa e per ricambiare la popolazione per  garantito il rifugio, si adopero a realizzare tutte le opere di falegnameria di cui la chiesa mancava, dai tempi dai sua edificazione.

Nel cantiere di fine quaranta del secolo scorso, ormai al termine dei lavori della copertura, si aprì una discussione tra contrari e favorevoli, i di più per sradicare l’antico varco di legno, per uno più moderno, lucido, nuovo e duraturo.

La sera quando il cantiere chiuse, uno degli operai, nel transitare davanti alla casa di llalë Kosta (Zio Costa), essendo lui uno degli attenti finanziatori locali, domandò, all’operaio, come si procedeva e se le cose andavano bene, nell’avere come risposta, la novità di voler sostituire la storica porta principale, per una più bella, lasciò a dir poco perplesso il vecchi saggio.

All’indomani di buon ora, il saggio Sofiota, si fece trovare  davanti alla chiesa e quando, prete, geometra e i referenti mastri del cantiere furono tutti presenti, pretese che gli si rendesse conto di cosa li avesse spinti a quella malevola manomissione.

Segui un vivace confronto verbale, dal quale emersero tante cose buone per conservare e tutelare lo stato del sacro varco, rispetto alle irresponsabili motivazioni per dimetterlo e con il ricavato riscaldare il focolare di qualche capomastro, ragion per la quale, llalë Costa Baffa, ebbe ragione su tutti.

Nel mentre, si allontanava l’anziano tutore di cose antiche, non fece a meno di brandire il suo bastone esclamando: è fatto dello stesso legno della porta e se qualche addetto, ha dubbi sulla solidità di questa essenza, si faccia avanti e in ogni momento sarò pronto a dimostrare la durezza di questa essenza, dandolo in testa, a quanti mettono in dubbi la solidità di quel varco lavorato.

Sono trascorsi quasi otto decenni da quel dì, la porta maggiore della chiesa di Sant’Atanasio, continua ad aprirsi e chiudersi segnando tempo ed epoche, nessuna delle mattonelle del suo raggio d’azione ha scalfitture alcune, dando ragione alla previsione del vecchi saggio Sofiota.

 

P.S. il racconto è gentilmente staro reso noto da Benito Guido, che come llalë Costa interviene ogni volta che si manomettono le cose del nostro paese, purtroppo non ha il bastone, allora accade che i comunemente prevalgono sulla saggezza e la durevolezza della storica essenza.

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DUE LINGUISTI E UN GIURISTA NON POTEVANO FARE UN PROGETTO DURATURO DI TUTELA

DUE LINGUISTI E UN GIURISTA NON POTEVANO FARE UN PROGETTO DURATURO DI TUTELA

Posted on 06 luglio 2021 by admin

PARLATE PARLANTI COMMEDIE EINAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando sentiamo parlare di tutela delle minoranze storiche e come fecero gli incaricati del governo all’alba degli anni settanta del secolo scorso, riferiamo dell’art.6 della Costituzione italiana, tralasciando il dato che una minoranza non è solamente un esperimento idiomatico, rispetto al maggiore o maggioritario.

Tutto ebbe inizio agli inizi degli anni Settanta, quando il Parlamento, per attuare la tutela delle minoranze, nominò un “comitato di tre saggi” cui delegò il riconoscimento delle comunità costituenti minoranze linguistiche motivandone l’inclusione.

I designati furono Tullio De Mauro, Giovan Battista Pellegrini e Alessandro Pizzorusso, i primi due accademici linguistici e giurilinguista il terzo; essi in una relazione depositata nell’archivio del Parlamento, individuarono tredici minoranze, corrispondenti alle dodici, riconosciute con l’aggiunta dei Sinti e Rom.

Il 20 novembre 1991 la Camera dei Deputati approvò, per la prima volta, la legge n. 612 ( in 18 articoli) per la tutela delle minoranze linguistiche.

La proposta di legge n. 612 non fu approvata perché fu sciolto il Parlamento prima della sua approvazione anche al Senato.

E nel dicembre 1999, il governo D’Alema (1998-2000), la legge ebbe le idonee approvazioni per inserisrsi nei canali di attuazione.

Ad oggi se analizziamo, senza allontanarci troppo dai primi articoli della costituzione e nello specifico gli art. 3 e il 9, si evince un senso di manchevolezza fondamentale al significato di minoranza, verso aspetti materiali che l’articolo sei della costituzione, non contempla per realizzare una larga visuale di accoglienza della continuità detta minore.

Infatti, se nell’art. 3 cita: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; l’ art. 9: la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Si evince l’ampiezza del tema indispensabile per tutelare compiutamente la minoranza, alla luce dello stato di fatto, relegare tutto nell’art.6, si omette di considerare aspetti materiali, in senso di luogo caratteristico e caratterizzante la minoranza.

Questo spiega anche i risultati, in essere, da quando la legge ha dato avvio alla tutela, privando il percorso di attuazione dagli aspetti del costruito storico e del paesaggio naturale dove i minoritari trovarono dimora.

Se le minoranze storiche contemplate nel provvedimento, non hanno brillato in valorizzazione, si deve proprio a questa mancanza, specie nel caso degli arbëreshë, erroneamente citati come Albanesi che sono altra cosa, storicamente privi di forma scritta, quindi sarebbe stato fondamentale affiancare al genio locale a danze parlate e suoni senza radice.

Questo dato, per gli Arbëreshë in particolare, è stata una mancanza fondamentale, giacché,  ad essere tutelati sono stati aspetti immateriali non riferibili a nessuna forma materiale, preferendo addirittura adottasse esperimenti “indigeni” quando è stato il tempo di citarli.

Alla luce di questi e di altri innumerevoli stati di fatto, mai ritenuti indispensabili, nelle manifestazioni che avrebbero dovuto solidarizzare la minoranza, si è ostinatamente seguita la china idiomatica, al punto tale che i riferimenti storici in figure intellettive si ritengono siano solo quanti si sono cimentati a scrivere una forma linguistica nota per la diffusione orale.

La china così intrapresa restituire uno scenario senza precedenti, al punto tale che si ignorano eccellenze dell’editoria, della scienza esatta, della giurisprudenza e delle lettere classiche solo per citarne alcune.

Preferendo oltre agli scrittori impropri e improbabili, manifestazioni, in cui l’unico elemento in mostra sono le qualità musicali, le attività danzanti e l’espressione sintetica di un costume che si identifica come tipico e in mille sfaccettature dissimili.

Ogni manifestazione non ha mai posto in evidenza aspetti materiali come il costruito storico, nonostante una lingua con la sola metrica canora dovesse avere un luogo circoscritto o naturale, dove poterla riverberare senza inflessioni anomale.

Non è stata posta attenzione verso i modelli abitativi, prima estrattivi e poi additivi, ritenendoli simili a quelli indigeni, cosi come il modello di mutuo soccorso, confuso, con quello mediterraneo che ha tutt’altra radice.

Gli errori sono molteplici e perpetrati sempre dalle stesse figure, le stesse che immaginavano e ritengono ancora possibile che ogni atto commesso o prodotto negli ambiti del costruito potesse essere un prestito indigeno mal realizzato.

Certamente questa è una leggerezza storica senza precedenti e se oggi si ritiene che la legge  di tutela non sia stata efficace, lo si deve al fatto che abbia mirato solo alla salvaguardia da via monotematica.

Non ritenere che gli ambiti attraversati, bonificati e costruiti dal genio arbëreshë non fosse da considerare fondamentali, è un errore senza precedenti.

Una ben identificata minoranza si tutela identificando il territorio dove essa vive e se non è circoscritto come nel caso degli arbëreshë, si identifica come regione storica diffusa.

Essa va studiata identificata e caratterizzare con elementi finiti, gli stessi che nel meridione italiano identificano bel 109 centri antichi, ventuno macro aree, in  sette regioni del meridione italiano.

Davanti a un dato di fatto cosi esteso, seguendo le vicende storiche che rendono la regione storica la più solida in senso integrativo nel mediterraneo, pretende disciplinari di tema, capaci di rendere chiaro ogni aspetto, in senso tangibile ed in tangibile.

Oggi è terminato il tempo di pensare, pretendere e ordinare, che gli alberese sono un esperimento linguistico o esclusiva di una ventilata favella diversa.

Un paese arbëreshë nasce perché è il risultato di un pensiero antico, ideato dal genio arbanon locale, comprenderne il valore non è un esperimento di quanti non possiedono titoli; e ad essi che si raccomanda almeno di vivere con semplicità la conservazione di un paese arbëreshë, cercando di non trasformarlo continuamente in un cantiere a cielo aperto, dove ogni cosa è consentita, compreso cancellare strade della storia locale con adempimenti comuni, solo perché non si è in grado di progettare e capire dove si mettono le mani, quando si tratta dei solchi della storia.

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COME PROTEGGERE LA REGIONE STORICA ARBËRESHË DAI COMUNEMENTE

COME PROTEGGERE LA REGIONE STORICA ARBËRESHË DAI COMUNEMENTE

Posted on 11 giugno 2021 by admin

PieronNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Per produrre un itinerario coerente tra passato, presente e futuro. di una identificata regione storica, sottoposta a riqualificazione per esigenze, di rilancio del territorio, che vive le incontrollate manomissioni per cause indotte o naturali; occorre predisporre una capillare indagine locale per le fondamenta, in campo storico, antropologico, sociale, geologico e le arti poste in essere dagli indigeni locali.

Ciò va svolto in ordine di procedure rispettose dei disciplinari del progetto architettonico, avendo chiari i trascorsi storici, sociali antropologici geologici oltre le discipline indispensabili per una buona indagine.

Tutto questo al fine di fornire senso dell’eventuale rinnovamento, specie si dovesse incorrere nelle estreme emergenze della ricollocazione, cui è indispensabile tracciare la direttrice unidirezionale locale, che unisce passato, presente e futuro.

La ricerca in questi casi specifici, non vuol dire che per altri casi, vale il libero arbitrio, tralasciando gli strumenti idonei a garantire il giusto equilibrio ambientale e storico locale, noto come, il genius loci; il patto secondo il quale lega inscindibilmente, uomo e territorio.

Allo scopo diventa fondamentale la cooperazione tra figure professionali “Memorie di quel Territorio” quali: Antropologo, Architetti, Agronomi, Economisti, Geografi, Geologi, Giuristi, Psichiatra, Paesaggisti,  Sociologi,  Urbanisti,  Amministratori, Associazioni e Memorie locali.

A oggi si è intrapresa una deriva trasversale all’antico senso dei piccoli centri urbani o dei centri storici delle città, una trasformazione nel rapporto tra natura e spazio antropico, il che ha prodotto una frammentazione delle funzioni all’interno dei centri antichi suddividendo il ruolo, che apparteneva i luoghi privati, le attività minori, gli spazi pubblici e i luoghi per l’incontro tra generazioni.

Si è smarrito il senso di “Medina” con  tutte le funzioni sociali, economiche, di mutuo soccorso, attraverso i cui si attivava l’armonia dei cinque sensi.

Si è terminato nello sconvolgere il significato dei luoghi, dove le barriere non sono state mai fisiche ma sistema fisico dell’insieme al suo interno e per questo identità che ti conosce perché parte che completa ila vita del costruito.

Oggi si preferisce, o meglio viene imposta in nome di un’economia globale, che distingue nettamente il fruitore e la “Mediana” smarrendo il confine antico, isola le persone dalle altre attività sociali e fa che l’interesse siano metriche che non vanno oltre il momento che viviamo fuori dalla nostra identità, luoghi fugaci che propongono la socializzazione di momenti figurati a favore dei pochi che non hanno alcuna consapevolezza di luogo, storia e uomini.

Esiste una fascia mediterranea che va dalla Grecia/Albania, l’Italia meridionale, la Francia e la Spagna in cui s’identifica un modello sub familiare denominato Vicinato, che per le genti di estrazione balcanica, ancora più radicata, è l’antico laboratorio di ricerca dell’antico gruppo, familiare allargato, denominato Lijia o Gjitonia per quanti si trasferirono come profughi nel meridione italiano.

Fenomeno identitario a tutela della propria radice identitaria, gruppo locale in armonia con il territorio, caratteristica del genius loci che si misura con un ben identificato ambito del centro antico.

A oggi nulla si fa per divulgare o adoperarsi per il riconoscimento ed eventualmente proporre, un modello antico di fare economia e caratterizzare il territorio in cui si attivavano i cinque sensi, non per distinguersi ma solo per proporre un modo antico di vivere e cooperare con le persone che ti stanno a fianco.

A tal fine è opportuno adoperarsi per finalizzare quanto segue:

  1. alimentare, favorire, suscitare politiche ed azioni sociali per fermare l’inquinamento dovute ad un utilizzo  incontrollato  e  massivo  di  risorse  ambientali  non  rinnovabili  e scaturenti  dalla  applicazione  di  domini  economici  e  industriali  di  modelli economici pervasivi;
  2. sostenere attivamente  la  sicurezza  strutturale  urbana  e  territoriale,  con  esperti opportunamente  formati;
  3. sviluppare  azioni  collettive  di informazione, di organizzazione e sostegno alla Protezione  Civile e per la prevenzione dei rischi naturali, collaborando altresì alla creazione di strutture di prevenzione territoriale in collaborazione con istituzioni e programmi di sviluppo formativo,  scientifico  e  di  gestione  dell’emergenza  a  scala  nazionale  ed internazionale;
  4. originare processi culturali determinati e di immaginario collettivo, sul rapporto uomo–natura e sulla adozione di economie urbane non invasive sulla determinazione delle trasformazioni dell’ambiente  naturale  e  antropico  e  dell’urbanistica  come metodo per sostenere il riequilibrio ambientale;
  5. sollecitare la società per ridefinire ed inquadrare la decisione pubblica istituzionale della trasformazione  antropica e di rinaturalizzazione del territorio, con procedimenti di  pronunciamento  collettivo;  progetti  partecipati,  di coerenza con la produzione e assoggettare l’iniziativa privata alle generali scelte pubbliche in materia di ambiente e territorio;
  6. promuovere iniziative di class action e porsi come parte civile in processi giudiziari sia penali   che   di   giustizia   amministrativa,   che   vedono   l’insorgere   e l’identificazione di reati contro l’ambiente, la sua fruizione e il godimento di esso da parte dei Cittadini, che si vedono deturpato l’ambiente naturale o gli scenari della memoria;
  7. suscitare il più vivo interesse e promuovere azioni per la tutela, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali, dell’ambiente naturale e antropico, del paesaggio urbano, rurale, dell’ambiente montano, con particolare dell’ambiente naturale in generale, del patrimonio  monumentale,  dei  centri  antichi,  dell’architettura storica e storici moderni o contemporanea, dell’urbanistica risolutrice dell’abitare, del vivere e del produrre in equilibrio con l’ambiente e per la qualità della vita;
  8. promuovere la diffusione e l’informazione sulla tecnologia migliorativa dell’uso dello spazio urbano e territoriale, caldeggiando tipologie definibili “smart” ed evitando nel contempo gregarismi comportamentali di dipendenza da soggetti e/o organismi economici privati attualmente dominanti;
  9. promuovere la ricerca e l’utilità sociale, favorendo l’elaborazione, la diffusione della cultura del disegno eco-industriale, per la creazione di prodotti utili e di facilitazione relazionale;
  10. stimolare la promulgazione e l’applicazione di Leggi per la tutela del territorio e promuovere l’intervento per l’accrescimento dei poteri pubblici, allo scopo di evitare manomissioni al patrimonio storico, artistico ed ambientale, nonché assicurarne il loro corretto uso e l’adeguata fruizione;
  11. stimolare l’adeguamento della legislazione  vigente  al  principio  fondamentale dell’art.9 della Costituzione, alle convenzioni internazionali in materia di tutela dei patrimoni naturali e storico-artistici ed in particolare  alle  direttive della Unione Europea;
  12. contrastare ogni forma di abusivismo edilizio e di proposte legislative relative a condoni e politiche di riassetto panificatori che prevedono iniziative e piani di conclamata nuova cementificazione e impermeabilizzazione del suolo;
  13. sollecitare se opportuno,  anche  mediante  agevolazioni  fiscali  e  creditizie,  la manutenzione dei beni culturali ed ambientali e il loro pubblico godimento;
  14. sollecitare anche attraverso agevolazioni fiscali le donazioni allo Stato di raccolte o beni di valore storico, artistico e naturale al fine di una migliore valorizzazione;
  15. promuovere l’acquisizione da parte dell’Associazione  di  edifici  o  proprietà  in genere, di valore storico-artistico, eventualmente anche la gestione secondo le esigenze del pubblico interesse;
  16. promuovere la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e naturale del Paese mediante iniziative di educazione specifica nelle Scuole e nelle strutture culturali locali, con formazione permanente ed aggiornamento professionale degli operatori, nelle attività di formazione ed educazione in istituzioni locali e sociali;
  17. promuovere idonee forme di partecipazione e aggregazione dei Cittadini e dei giovani per la tutela e valorizzazione dei beni culturali, del paesaggio, del territorio, svolgere e promuovere iniziative editoriali relative alle attività e agli scopi dell’Associazione, con permanente comunicazione  sociale diretta ed indiretta, finalizzata e lasciare memoria storca a quanti partecipano alla vita del luogo;
  18. promuovere la formazione culturale dei Soci anche mediante viaggi, visite, corsi e campi di studio per la memoria locale e quella comparata di macroaree simili;
  19. promuovere la costituzione o partecipare a federazioni di associazioni con fini anche soltanto analoghi, nonché costituire consorzi e comitati con associazioni o affiliazioni o gemellaggi, conservando la propria autonomia ed in generale, svolgere qualsiasi altra azione che possa rendersi utile, secondo i principi sopra espressi;
  20. organizzare e promuovere interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia e al miglioramento  delle  condizioni  di  equilibrio  dell’ambiente,  dell’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, compreso la promozione di azioni di pianificazione   scientifica,   progettuale,    di   gestione   delle   attività   per l’efficientamento energetico, dell’innalzamento tecnologico generale dei servizi e della raccolta e riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi, nonché la strutturazione  a  tal  fine,  di  politiche  per  incrementare  i  requisiti  tecnici  e urbanistici al fine del miglioramento del patrimonio edilizio;
  21. dare impulso e promuovere interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e successive modificazioni e integrazioni. Contribuire e operare per la diffusione in seno  alla  Società  dei  temi  del  riequilibrio  ambientale,  della formazione   di   esperti   in   tali   discipline,   dei   temi   divulgati   e   propri dell’Associazione  e  della  formazione  generale  di  Cittadini  sui  temi  sopra elencati;
  22. candidarsi alla gestione dei beni e patrimoni civici pubblici, alla progettazione tecnica, ambientale,   urbanistica   delle   trasformazioni   per   il   riequilibrio ambientale, geologico, agrario, paesaggistico ed ecologico del  territorio, alla creazione di luoghi per la divulgazione, conoscenza e per  l’acquisizione di nuove esperienze per la riscoperta dell’ambiente e del territorio;
  23. candidarsi a programmi di ricerca scientifica e operativa sia a scala nazionale che internazionale, nonché a  programmi  di  cooperazione  internazionale,  di cooperazione decentrata, in collaborazione con il Ministero degli Esteri e altri Ministeri   preposti   allo   Sviluppo   Economico.  Ovvero per sviluppare la collaborazione urbanistica e di  pianificazione ambientale, gestionale economica ed ecologica in programmi generali o locali, anche in collaborazione e programmazione congiunta tra paesi. Nonché sviluppare e partecipare a programmi ordinari e complessi dell’Unione Europea, di Paesi al di fuori dell’Unione Europea, di Federazioni o sistemi di federazione tra Paesi e partecipare altre sì a programmi e progetti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, e delle sue Organizzazioni di Settore e pure ad  iniziative  di soggetti privati in linea con  gli obiettivi dell’Associazione.

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DA ATTORI PROTAGONISTI A TURISTI DI PASSAGGIO

DA ATTORI PROTAGONISTI A TURISTI DI PASSAGGIO

Posted on 06 giugno 2021 by admin

GJITONIA

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Per realtà degenerata, mediocre o senza storia, s’intende l’atto di imporre percezioni sensoriali, attraverso informazioni che degenerano la prospettiva del vivere natio, specie nel baricentro dal costruito storico,  quando a valorizzare  l’uomo e la natura, sono immagini senza storia.

Le cose della radice umana, manipolate di sovente dai comunemente, propongono atti pittorici, lì, dove l’uomo non è più attore delle sue cose e del suo vivere quotidiano, ma un semplice spettatore passivo o in veste di turista che passa e va.

Unica risorsa ancora viva, disponibile al genio locale, rimane la ribellione dei cinque sensi, che imperterriti non si adattano a queste espressioni del vissuto figurato, oltretutto pensato da altrui menti, sicuramente successo in stupore e divertimento per i viandanti; ma colpo al cuore per quanti sentono, vedono, odorano, assaporano, parlano senza riverberi tipici del focolare materno.

Un tempo era l’uomo che faceva il ciabattino, il fabbro, il maniscalco e ogni sorta di mestiere con i passanti locali spettatori.

Quando da piccolo si aveva “ghë nge” letteralmente tradotto “una voglia” ancor più nota dall’arbëreshë volgare come “gnë n’guli” erano le nostre madri  a soddisfarle con prodigiosi manicaretti la nostra esigenza di irrequietudine e non certo ci affidavano alle trovate, delle altrui genti o  ignoti passanti.

Un tempo erano i bambini che riempivano piazze e anfratti con la libertà dei loro giochi.

Un tempo erano le nostre madri e le nostre sorelle a riunirsi negli anfratti storici, contro vento e riempire quei luoghi ameni, annotando e intrecciando la storia locale durante i pomeriggi assolati.

Un tempo era la comunità a fare festa per identificarsi in valori della propria religione.

Una volta eravamo noi i protagonisti della nostra vita, dentro le scene del quotidiano vivere in comune.

Un tempo erano le nostre madri, che risparmiavano in tutto, compresa l’acqua sporca, riversata “Kasanë” ambiti naturali dove, le correnti ascensionali, assorbivano i maleodoranti miasmi e la terra rigenerava i reflui per produrre eccellenza.

Un tempo le nostre madri si riunivano per tessere e consolidare rapporti parentali, predisponendo strategie di mutuo soccorso.

Un tempo erano le nostre madri a vivere serene, perché i luoghi dei gioco dell’adolescenza erano sicuri e sotto l’occhio vigile degli adulti che divertiti assistevano.

Un tempo le nostre madri si vestivano a festa per fare atti coerenti, garbatamente vestite e senza eccedere negli atteggiamenti di confronto.

Una volta le nostre madri ci abituavano ad affrontare la vita, rispettando gli altrui generi, mai ritenuti in alcun modo mira di scherno o usati per dominarli o sottometterli, in quanto, ritenuti nostri pari con abilità uniche (a tal proposito si possono fornire prove e avvenimenti).

Un tempo le mostre madri, quando stanche restavano davanti all’uscio di casa, il luogo di spogliatura dei prodotti del trittico mediterraneo, attendevano il premio della loro abnegazione in forma di  ritorno dei propri cari dalla campagna, non per finta ma per vita vissuta.

Un tempo la vita del paese era fatto di noi tutti, sia si trattasse del centro storico, sia delle frazioni o di ogni Kota/Rashë di terreno lavorato.

Quelli erano i tempo in cui le uniche onde  del mare nostro, erano  prodotte dallo scorrere lento del Galatrella; carezze simili alle materne, e  ti crescevano c senza pericoli, perché fatte di lievi abbracci di docili  acque.

Oggi la realtà degenerata, mediocre o senza storia, mira a rubare il futuro, impone scenari per le nostre cose e dalle vie quotidiane, trasformandoci in spettatori senza forza e cosa più grave siamo scippati sin anche dall’attivare i nostri cinque sensi.

Il genere umano è strano, anzi potrebbe dirsi degenere o perverso, in quanto, invece di rendere la vita partecipata nei centri minori, si preferisce illustrarla secondo le metriche di giullari senza futuro, che producono abusi edilizi perché modificando sin anche il senso certificato delle cortine edilizie.

Tuttavia, per quanti non hanno  letto un libro, non hanno partecipato al vivere civile delle piccole comunità, è bene far sapere che lo scorrere del tempo non è dettato dalle onde del mare in burrasca o da voci altre; gli ambiti dei piccoli centri antichi, le prospettive le disegnano, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, quanti vivono e attivano i cinque sensi, coerentemente da oltre sei secoli di vita condivisa tra generi e ambiente naturale in crescita. 

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