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“MEDITERRANEO – BACINO D’ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE “ “La Regione Storico/Ambientale Arbër” (per la tutela delle radici di Ieri, le certezze di Oggi, per la sostenibilità dei Domani)

Posted on 03 agosto 2023 by admin

AtoNAPOLI /di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Alla luce delle attività in “Carmina Convivalia”, ad opera dalle istituzioni preposte, ad Est e ad Ovest del fiume Adriatico sino allo Jonio, con il fine di valorizzare e promuovere, le cose tangibili ed intangibili dei luoghi attraversati, bonificati, per essere vissuti in Arbër.

Si ritiene urgente proporre, a tal proposito onde peggiorare le cose, un supporto storico, scientifico, linguistico, consuetudinari, toponomastico, architettonico, agrario, sartoriale, architettonico, urbanistico, dei trascorsi più rappresentativi, con figure di eccellenza albanofona, illustrando cosa sia realtà e cosa leggenda, in ruolo fondamentale e determinante, di questo popolo.

Sono ormai troppe le epoche secondo le quali ha valore di eccellenza Arbër solo chi si è adoperato a scrive inseguendo gli innumerevoli ed inadatti alfabetari, come indicato da Norman Douglas, il quale con ironia si prendeva gioco degli scriba, che usavano l’inchiostro versato da altri.

Questi imprestatori d’inchiostro, allora come oggi, invece di valorizzare il genio primo, di: Editorialisti, Giuristi, Ingegneri, Politici, Bibliotecari, Ricercatori, Eroi di accoglienza sociale/culturale e ogni sorta, di figura che per la sua formazione culturale ha dato alla nazione ospitante luce, riverberatasi in tutto il vecchio continente, si ostinano allora come oggi a copiare greco.

È arrivato o meglio giunto il temine, di iniziare, per dare valore e merito, a quanti in ogni intervallo storico, hanno dato forza trainate al mondo Arbër e non solo, per questo, rimanere ancorati a vetusti stereotipi, vuoti di senso, oltretutto, immaginando, che parlare in lingua altra, fa la differenza con il mondo indigeno è una favola che non interessa ormai più a nessuno, specie alla nascente cultura Albanese.

Allo stato delle cose, per dare un contributo, fondamentale e aprire nuovi orizzonti dei trascorsi storici, degli oltre cento paesi della Regione Storico/Ambientale Arbër, sparsa in sette regioni, raggruppata in ventuno macro aree omogenee, onde evitare ideologiche, inopportune e infondate attività di tutela, apriamo nuovi stati di fatto, perché è tempo di mettere in luce i veri accadimenti della storia di questo popolo.

La minoranza, per questo non va considerata come giullaresco esperimento di figure che ballano cantano e suonano vestite strane e null’altro; giacche essa rappresenta uno scrigno dorato molto vasto e capiente, fatto di un codice identitario composto da promesse mantenute, intelligenza, garbo, valori sociali, valori religiosi e più di ogni altra cosa genio, quello indispensabile a produrre cose buone, con il poco offerto dalla natura.

Tutto questo non lo si può raccontare con il dare vita a un Katundë, con inopportuni, protocolli identitari, che iniziano e finiscono nell’atto di raffigurare episodi di vita indigena, sporcando intonaci, porte e gemellandole con le intime prospettive o rievocando guerre cruenti il giorno di una Pasqua irreale.

Come se la storia degli Arbër, non avesse eccellenze e regole identitarie di nobili principi e, se ignari preposti, non possiedono misura metodi di conoscenza, vanno redarguiti e informati, perché da troppo tempo avanzano “vale vale” equivocando sui trascorsi di accoglienza e integrazione e, se continuano ad avanzare imperterriti e ostinati a contare il numero delle migrazioni come se fossero la domenica dopo il sabato, non è certo un bel vedere.

Alla luce di tutto ciò, si rende disponibile produrre e rendere merito con documenti e protocolli identitari per quanto ancora ignorato dai dispensatori di piazza, in tutto, contribuire alla stesura di Tesi di Laurea, excursus storici dei Katundë e dl loro stanziamento, le disposizioni tipiche in pubblico confronto con quanti ambiscono e vogliono allargare l’unitiva conoscenza formativa, di tutela e resilienza, di tutto il sistema storico Arbanon compresa la Napoli Capitale,

Alla luce di ciò i temi di progetto, seguiranno il seguente Piano, rispettando cose, fatti, terre, presidi uomini e credenze;

  • Introduzione;
  • Premessa:
  • Regione Politica, Storica e Ambientale;
  • La via Egnazia;
  • Scanderbeg; la strategica diaspora;
  • I vocaboli che uniscono gli antichi Arbër;
  • Ambiti in Arbër;
  • I Capitoli e gli Onciari
  • Canto testo di memoria l’eredità identificativa dei generi;
  • Chiesa, Promontorio, Sheshi e l’antico;
  • I luoghi dell’unità e del confronto sociale;
  • Vallja: patto della buona integrazione;
  • Napoli il Calendario;
  • Confronti di credenze, i processi dell’integrazione;
  • Il fuoco la casa, il cortile e l’orto botanico;
  • Rifugi estrattivi, Tuguri additivi i Katoj
  • Kaliva e Balljva, la Misura della Casa e del palazzo;
  • Il Costume, il matrimonio e la regina del fuoco;
  • Il centro Antico della Napoli purpignera dei centri antichi Arbano;
  • Nei pressi di Santa Chiara la pena di Donica Arianiti Comneno;
  • L’Orientale di Napoli prima Università per gli Arbanon;
  • Napoli Tra Centro Antico e Centro Storico;
  • La fila delle eccellenze Arbanon: epoca e contributo;
  • Conclusioni e attività per il buon esito del progetto;

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LE PRIME “SCUOLE” CITTERIORI IN TERRA DI SOFIA (i pari bank scoliè u lljè te Dheratë i Sofisë)

LE PRIME “SCUOLE” CITTERIORI IN TERRA DI SOFIA (i pari bank scoliè u lljè te Dheratë i Sofisë)

Posted on 25 luglio 2023 by admin

arcNAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – La verità che va subito svelata è il concetto Università in origine appellata “Scuola”, che nel corso dei secoli e dalla sua origine ha assunto una organizzazione gerarchica secondo cui non si riferisce di “Scuola” ma “Scuole”.

Infatti un maestro abbastanza bravo che aveva un seguito di allievi, inclini ad avere particolari attitudini a, seguire, studiare e conoscere, le vie del sapere, erano accolti a casa del maestro; cosi ha inizio la radice, dell’università sino ai giorni nostri, per quanti le frequentano con lo spirito antico di conoscenza. 

Nel caso in questione, di terra di Sofia, si può ipotizzare che il gruppo di studio locale era diretta da un prelato o più prelati a casa propria, dove svolgevano questa attività, anche fuori i canali prettamente clericali.

Per datare inizio all’avvenuto continuo, senza soluzione di continuità alla formazione di quanti vivevano questo luogo, si può ipotizza che tutto avvenne, dopo la costruzione del Palazzo Arcivescovile, il palazzo delegato alla residenza estiva degli allievi monastici del vescovato di Bisignano; siamo alla fine del XVI secolo esattamente il 1595.

Qui i rampolli delle famiglie che riuscirono a formare un proprio figlio, facendolo rientrare nei gruppi o “capannelli universitari privati” le stesse che in questi anfratti, senza soluzione di continuità, elevano figure in ogni epoca.

Le stesse che oggi rimangono come pietre miliari di una scuola all’interno della comunità albanofona, ancora senza pari, in numero e di elevata cultura e conoscenza della storia.

Nel corso dei secoli a seguire le case dei Bugliari, Baffi/a, Feriolo, Miracco, Becci di sopra e dei Pizzi, divennero veri e propri poli universitari, dove i figli delle famiglie, pieni di volontà di apprendere, ebbero modo di formarsi e divenire esempio irripetibile per tutta la Regione storica diffusa degli Arbëreshë.

Non a caso, furono proprio questi, una volta inseritisi nella società di pensiero, a far brillare i “presidi universitari locali in terra di Sofia” alla luce dei fatti e, avendo modo di concertare l’allargamento il numero degli allievi del Collegio Corsini, trasferendolo in sant’Adriano, luogo ideale citeriore, per liberali prospettive sociali, caratterizzando la formazione in libero pensiero e difesa della propria radice identitaria, sociale, civile e religiosa.

Tuttavia dopo un medio periodo di lume, ha iniziato una china senza tempo e nonostante alcuni esempi siano sfuggiti alla deriva culturale verso il basso, il luogo di terra di Sofia, conserva tutti gli ingredienti e le cose per diventare cosa fu nel passato e, quanta spinta ha dato all’unita d’Italia e di tutte le sue cose più buone.

Purtroppo da ventotto febbraio del 1986, vige un comando una legge o meglio un gruppo di lavoro sotterraneo, ambiguo e senza scrupoli, che predilige far frequentare i “Presidi universitari locali in Terra di Sofia”, cercando a sottrarre braccia ai cunei agrari, scacciando dagli ambiti del centro antico quanti hanno cuore, mente e vedute larghe, per valorizzarla in senso assoluto.

Il risultato è steso, continuamente e senza ritegno, al sole “the kopshëti pà gardë” svelando il sudore in sangue, del genio, apponendo, elementi utili a distrarre,  le prospettive di ascolto e visone, verso altrui segni distintivi di luogo, ormai ripetuto affanno operare dei peggiori; tuttavia il luogo ameno, rimane e vanta d’essere nato e per lungo tempo, luogo di prima scuola universitaria Arbër in terra citeriore.

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L’ULTIMO COMPONIMENTO DI ARTE LOCALE RISALE AGLI ANNI SESSANTA IN OPERA DEL PJGÌONË (kur mjeshtrat shërbejin tek rrugat e vacabunërath me ciombata zhëin murath e Kishës)

L’ULTIMO COMPONIMENTO DI ARTE LOCALE RISALE AGLI ANNI SESSANTA IN OPERA DEL PJGÌONË (kur mjeshtrat shërbejin tek rrugat e vacabunërath me ciombata zhëin murath e Kishës)

Posted on 17 luglio 2023 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Le eccellenze nate in Terra di Sofia, storicamente, non hanno mai avuto il giusto riconoscimento in ogni dove, siano stati esempio per le generazioni a venire, specie in quella terra dove videro per la prima volta luce, per avere innestati i raffinati sentimenti vicino al cuore e alla mente.

E chiunque abbia guidato la comunità, in ogni aspetto civile e religioso, li ha sempre ignorati, preferendo quanti vivevano ai margini e del loro sapere perché niente e nessuno avrebbe potuto trarre, spunto per migliorarsi o rendere merito alla comunità di genio citeriore.

Questo è un dato di fatto che alcuna figura, con un minimo di senso ed educazione culturale, dovrebbe proferire parola o difforme parola, alla luce delle tappe storiche qui brevemente annotate.

Se oggi servisse definire i termini delle eccellenze, o l’evoluzione del costruito storico del violato centro antico in Terra di Sofia, non si commette errore nell’affermare che le maestranze, in campo edile, analizzando il costruito storico, non erano o non sono mai state locali, anche se le scelte specie dal XX secolo, erano una prerogativa, ben distintiva dei muratori che non erano altro che contadini in ferie.

Questa prerogativa ha da sempre caratterizzato le cose del costruito, con gusto e giusta causa storica, delle Terre di Sofia, a ben vedere e osservando con titoli i palazzi nobiliari costruiti dalla fine del decennio Francese.

Tutti seguono una impeccabile progettualità nei tratti e nei significati dell’architettura dell’epoca e, in questi anfratti tardarono di alcuni secoli prima di apparire, grazie all’economia in ascesa.

Vero è che il centro antico prende forma e sino a qualche decennio addietro, poteva essere facilmente letto e interpretato sin anche di comunemente, oggi per opera di un esperto locale e basta.

Tuttavia la necessità risorte degli anni sessanta del secolo scorso hanno penalizzato numerosi edifici del centro antico, per la quantità di risorge che arrivavano dal duro lavoro degli emigrati economici di quell’epoca e, mancando ingegneri architetti e manovalanze specializzate, seguirono numerose imprese allestite per rispondere al mercato, ma non certo a quello che faceva testo nella Carta di Venezia, che in queste latitudini resta ancora ignota.

Per dare una misura di cosa tratta, è la stessa che in questi giorni si ode nei telegiornali, degli ignari che segano le loro iniziali nel Colosseo o nei monumenti storici Italiani, scalfendo le minimali superfici.

Bisogna attende il sorgere del sole ad est, precisamente a Serra di Zhòtë, per vedere un imprenditore edile, il quale con forza d’animo, fatta di umiltà e buoni propositi inizia ad edificare con senso e meglio, le cose nuove di questo antico luogo.

Una mente di eccellenza imprenditoriale in periodo è l’insostituibile E. Azzinnari ,che per il suo spiccato spirito di onestà, organizzava nei minimi dettagli i suoi diffusi cantieri in Terra di Sofia, disponendo specifiche professionalità nei settori strutturali, edili, impiantistici e delle rifiniture, dovendosi a suo giudizio, porre in essere, senza lacuna di sorta.

L’Azzionnaro, per questo si dedicò a progetti di interesse sociale e privato seguendo i suoi elevati e raramente qualche esempio persone a lui vicine.

Le cose private, per questo, terminarono nelle disponibilità di numerosi addetti, che incisero pesantemente nella consistenza di Solai, Architravi, opere Fondali e Coperture, per il fine di superfetare e volumizzare.

In seguito definite le misure delle nove case private, ebbe inizio la stagione del veicolare ogni anfratto ameno, storico o memoria locale, smantellando, sedili, porte, piani inclinati e ogni sorta di caratteristica che rendeva la terra di Sofia un Katundë Arbër parallela, proprio per le sue eccellenze di luogo.

L’ennesima trasformazione venne cosi allestita e, il Katundë, abbagliò sin anche il monte Mula, con i colori pompeiani e di chissà quale altra radice indigena, immaginata gratuitamente, nel mentre all’interno del centro antico uhda. dera e rrugat, per opera dei rinnovati amministrati, privati, pubblici e clericali, vide stendersi il centro storico, fuori dalla misura e le memorie locali, da allora silenziose, umiliate e lasciate inlacrime.

Negli anni sessanta e settanta i solai, i muri, le coperture e le fondazioni; negli anni ottanta e novanta, porte finestre; e dal duemila senza soluzione di continuità sono mira dei veicolatori seriali e come se non bastasse si continua imperterriti a seguire la regola del non rispetto dell’insieme comune.

Le stese che pur apparendo al pubblico inattaccabili nella intimità costruttiva, si utilizza violarne le patine esterne, come fa l’acqua quanto deve sfondare o bucare i duri lapilli.

Notoriamente tutti conosciamo la prassi che inizia goccia a goccia e cadere sugli strati lapidei, il tempo nel frattempo fa da testimone, fino a vedere passare l’acqua, senza frontiera, dall’altra parte, in tutto, piccoli strati di muro violato, per entrare in casa d’altri e fare il padrone non invitato.

Ma questa è un’altra storia, il cui approfondimento, ha bisogno di verifiche, come dicevamo prima il tempo, per questo, aspettiamo, per scardinare goccia a goccia i Scoroni che ballano, suonano e cantano in pubblica piazza senza merito.

Per concludere sottolineare un dato storico senza precedenti, non è male, don Carlo chiese a chi affidare il realizzare la recinzione del suo palazzo; gli fu risposto, anche se dovesse costare il doppio Pjgionitë, ormai sta chiudendo, almeno rimane un pezzo del lavorare il ferro, in terra di Sofia e cosi fece.

P.S. In memoria di Han van Meegeren: il falsario del XX secolo

P:S: corse in piazza con il bastone in mano e disse: chi di voi tocca la porta o il quadro dell’altare, deve discutere con il muso del mio bastone… poi voltò le spalle e torno nella sua seggiola a immaginare la recinzione da farsi.

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I PIONIERI ARBËR DELLA LINGUA, DEL GENIO, LA LEGGE E DELL’EDITORIA

Posted on 02 giugno 2023 by admin

9_original_file_I0NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Esiste una via che unisce la saggezza linguistica, la scrittura, la diffusione, il genio e la saggezza di applicare leggi, secondo il genio Arbër, purtroppo ancora oggi ignota a quanti lo avrebbero dovuto sapere, largamente divulgare e sostenere.

Esistono quattro colonne, o meglio Figure, vere e proprie istituzioni della storia Arbër, che non sarà mai possibile superare, nonostante la pubblicità multimediale dei comunemente, semini piccole cose dei campanili senza ne corde e né campane.

Esiste un tempo per copiare, non fare i compiti, bighellonare, cantare in tutto marinare la scuola, poi viene giugno e il maestro saggio tira le somme e, nonostante le raccomandazioni dei potenti, promuove quattro, il resto è rimandato a settembre e i rimanenti tre sono bocciati e devono ripetere tutto.

Esiste la strada che unisce le quattro colonne e, quanti non studiano non conoscono neanche o hanno la ben che minima consapevolezza del valore di univoco che si dà alla storia; essa parte dalle colline della Sila, segue la via Erculea, intercetta la Traiana in “Aequum Tuticum” e per le trionfali arche della Traiana poi da Benevento segue l’Appia Antica, per finalmente vede il sole della cultura a Napoli.

La strada unisce senza soluzione di continuità, gli studi e il genio primo di Pasquale Baffi il Linguista; Luigi Giura il Genio di Scienza Esatta; Rosario Giura il Procuratore e, Vincenzo Torelli il genio della cultura di Massa.

Questi sono il genio della cultura del mondo Arbër, tutto il resto è contorno, associati di comodo, o “riverberatori seriali di comodo domestico”, che non avranno mai le carte in regola, per essere promossi a giugno.

Queste quattro colonne che sostengono i valori fondamentali della regione storica diffusa degli Arbër, saranno qui analizzati brevemente, tanto basta lo stesso per rendere merito al loro genio, mai da nessuno analizzato con dovizia di particolari o breve serenità di saggezza.

In questa diplomatica rivelatrice della storia, non si parlerà di cavalieri, elmi, spade, gabelle o alfabetari, ma della storica consuetudine caratteristica del genio di uomini semplici, che con il loro sapere hanno unito genti e difeso la storia, da protagonisti silenziosi del mondo Arbër.

Per questo il tema si svolgerà con il rispetto dei tempi dei luoghi e delle cose divulgate secondo l’esigenza e svelare senza protagonismo come hanno avuto luogo le cose materiali ed immateriali della sostenibilità del buon nome degli Arbër.

Quattro sono le figure, a cui poi come si fa con il miele versato, si avventano formiche, zanzare e ogni sorta di invertebrato a caccia perché affamato o senza gloria.

In definitiva esso sono, rispettivamente per nascita: Pasquale Baffi Linguista; Luigi Giura Genio di Scienza; Rosario Giura Procuratore e, Vincenzo Torelli istituto della cultura di Massa, sono loro che dal fiume della Calabria Citeriore e dal Vulcano Vulture, resero servigi di radice culturale e sociale impareggiabili dal 1775 e per oltre un secolo.

E da questi quattro elementi forti, poi prendono spunto e si dirama, il pensiero e le gesta di altre figure, alcune buone come i maestri e purtroppo, anche tre note stonate degeneri o replicanti seriali, ma noi qui parleremo solo delle colonne.

-Prima Colonna: Pasquale Baffi

Chi dei ricercatori moderno, ha studiato le gesta del Baffi, con dovizia di particolari, comprende subito che il solco dritto e indeformabile, nonostante numerosi contadini moderni, cercano di storcerlo, sono la prima icona dello studio e la comparazione della lingua Arbër, anche sulla scorta dei suggerimenti, forse mai letti da nessuno, degli studi del professore M. Gigante, uno dei più importanti papirologi italiani del dopoguerra e, in senso lato, studioso delle antichità classiche e bizantine.

Conferma resta la prima comparazione delle parole più comuni utilizzate dagli Arbër scritta con lettere greche, risale al 1775-76-77 stampata all’estereo senza errori, diversamente da come decenni dopo per tutelarsi si trascrive a premessa, perché a Napoli a quei tempi nessuna Stamperia era fornita di quei caratteri, diversamente dalle stamperie del nord Europa più evolute.

Resta un dato inconfutabile, comunque, anche conservato, nella biblioteca nazionale nel fascicolo Baffi, dove sono trascritte a mano comparazioni Arbër, co le lingue indo europee, al fine di estrapolare la radice di numerose parole.

Da ciò è bene ricordare a quanti asseriscono che il Baffi non è da ritenere eccellenza, ma eroe, perché non ha scritto nulla, per la divulgazione della lingua scritta Arbër, ritenendo che i pionieri sono giovani leve che nel 1775-76-77, non erano ancora né seme e né stelline, sbaglia quindi chi costruisce campanili da cui sparge veli di polvere e fatuo.

Il primi e unico pensatore colto, che aveva titoli formazione, garbo educazione, in tutto forza culturale per non esporsi come comunemente avviene ad errori scritti, è stato il Baffi e, se nel 1831, qualche avventore immaginava che a Napoli nessuno avrebbe riconosciuto il copiato o il riportato di altri, ha fatto una penosa figura, quando quei racconti, sottoposti alla verifica di Michele Baffi, figlio di Pasquale, esperto in Diplomatiche, è stata solo la sua educazione nel tacere sugli gli scritti, in silenzioso dispiacere, riconoscendo il maltolto paterno.

Per terminare la parentesi della colonna linguistica non vi è alcun dubbio, sul dato che il primo, il solo e il più elevato comparatore della lingua Arbër scritta, resta senza ombra di dubbio, Pasquale Baffi e, se a qualche istituto, istituzione, associazione o scriba dell’ultima ora, non ha ancora chiaro il concetto; Venga in Biblioteca a Napoli, non come turista per allungare la coda, ma essere almeno attento “studiatore” che legge,  in italiano, le cose sagge del Baffi.

– Seconda Colonna: Luigi Giura

Se un comune pensatore avesse misura della grandiosità di questo Arbër, smetterebbe di pronunziare il nome di fuggitivi seriali, guerrafondai da quattro danari e ogni genere di polverosa figura senza definizione svelata.

Una considerazione anzi due, valgano per tutte;

  • La prima per sottolineare il dato che se oggi si elevano ponti su catenarie in tutto il mondo, compreso l’atteso ponte dello stretto di Messina, lo si deve all’intuito e l’innovazione tecnologica frutto delle ricerche dell’Ingegnere/Architetto Arbër di Maschito, Luigi Giura che il 10 Maggio del 1831, inaugurò con successo la stagione dei ponti sospesi su catenarie.
  • La seconda operazione assume storicamente un valore ineguagliabile in quanto dove per secoli I grandi ingegneri romani non riuscivano ad avere ragione della bonifica del lago carsico del Fucino; è qui che il suo ingegno superò ogni tipo di aspettativa, in quanto il suo progetto, posto in essere dopo la sua morte resiste al logorio del tempo e rende quella valle produttiva, senza più soluzione di continuità.

Se questo è poco e vale meno di chi prova a scrivere alfabetari da tempo, offre la misura o le mire storiche di istituti e istituzioni preposte a valorizzare le cose della Regione storica diffusa degli Arbër.

– Terza Colonna: Rosario Giura

Personaggio con una grande e instancabile rispetto delle leggi e il valore che attribuiva alla vita delle persone, fu lui che nel corso delle vicende che caratterizzarono la storia del regno nel 1848 a ribellarsi al volere del re, opponendosi con forza, quando a capo della procura Napoletana si oppose, alle preferenze del regnate, che desiderava, chiunque e senza misura di azione condannato a morte, se facente parte di quegli eventi contro la corona; condannato preferì l’esilio e dopo la sua morte a Marsiglia, la provincia di Potenza, traslò la sua salma, che riposa sepolto nel termine marmoreo vicino al fratello Luigi, nel cimitero monumentale di Napoli in Poggioreale.

– Quarta Colonna: Vincenzo Torelli-

Editore, critico musicale e tra i più innovativi dell’ottocento, sulla cui falsa riga si è allineata tutta l’editoria moderna, resta un’icona fondamentale delle eccellenze Arbër, qui riportate non perché secondo o a nessuno dei su citati, ma solo per ordine di nascita.

Fu il primo ad analizzare la differenza che corre tra le popolazioni come gli Arbër  che affidano la loro metrica di memoria al canto di genere, noto come Valje.

Tra i suoi editi era famoso un giornaletto, dove i personaggi che si sfidavano nelle articolate avventure, era il canto e la musica.

Famose restano le vivaci discussioni in un famoso locale partenopeo dove nascevano confronti a favore di uno o dell’altro personaggio e, lui conoscitore profondo della storia Albanofona faceva trionfare sempre il Canto e mai la Musica.

È lui l’editore di Omnibus e l’Albanese d’Italia, come di tante altre pubblicazioni che nel corso della sua vita passò alle stampe; è il Torelli l’ideatore degli inserti popolari, dei suoi giornali, convinto che a fine anno ogni famiglia avrebbe posseduto un libro, dove le giovani leve, pure se povere avrebbero avuto occasione di illuminare il sapere.

Torelli nella sua struttura diffusa in tutto il territorio della Napoli capitale, aveva la sua sede nei pressi della chiesa di San Giovanni Maggiore, dove campeggiava la scritta e per chi non la notava, era lui a dare il ben venuto a, ogni Arbër, che li si recava a confrontarsi o a editare, con il saluto; ”Jaku i shërishiur su harrua”.

Per terminare, va sottolineato il dato che numerose sono le eccellenze Arbër che vanno ricordate e, qui non è il caso di citare per non dilungarsi e diventare noiosi, diversamente, dai tre “moschettieri della vergogna” che resteranno sempre noti come: il rissoso guerrafondaio, il copiatore seriale e il traditore per danaro.

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I PORTICATI IN TERRA DI SOFIA (Deretë Thë Valljtë)

I PORTICATI IN TERRA DI SOFIA (Deretë Thë Valljtë)

Posted on 07 maggio 2023 by admin

CatturaNapoli AdrianoNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – L’abitato del casale Terra di Sofia, specie la parte antica e, antecedente al secolo XVIII, si articolava lungo vie, incrociate da vichi e spazi circoscritti, da cui si accedeva anche da porticati generalmente Arcuati a tutto sesto, con orizzontamento in legno nello sviluppo lineare.

Il sistema consentiva di accedere al tessuto urbano dove ruderi, fondaci, botteghe e case, disegnavano un labirinto, privo di edificati di rappresentanza, complessi monastici, se non la chiesa matrice.

Un insieme costruito di rudimentali elevati o componimento caotico di chiara ispirazione orientale/bizantina, influenza trasportata nel cuore e nella mente, di quanti giungevano dall’Oriente Mediterraneo, per unirsi, previo confrontarsi, con gli indigeni in sofferenza.

All’interno della maglia edilizia della Iunctura così organizzata, i vicoli ciechi, anticipavano, la ‘privatizzazione’ o ‘semi privatizzazione’ di un ben identificato contesto di famiglie, legate da vincoli di parentela allargata, e per questo in contiguità; i fondaci relativi di primo insediamento, per tanto, erano comparti abitativi con Giardino e Orto Botanico annesso.

I porticati rappresentano la misura o meglio il metro di afflusso e deflusso di un a ben identificata porzione dell’abitato gli sheshi, oggi noti come Rione di pertinenza, la cui radice si può identificare nella toponomastica consuetudinaria o ancora se presente e non violata, in quella di primo approdo della legge 1188/1927.

I porticati ancora presenti o meglio che resistono alle innovazioni di recupero, non secondo la scuola del restauro, restituiscono ancora oggi un piano strategico secondo il quale, chi veniva e volesse confrontarsi con i residenti, non aveva un accesso all’interno del centro antico, sormontando cavalli o animali da soma, ma procedere al seguito o o anticipando il transito del quadrupede.

Sono tre che delimitano il rione di “Ka Rìnë Relletë”; quattro, il Rione Spizj; due sono quelli che delimitano l’antico Trapeso; e tutti allestiti lungo il confine del centro antico di radice bizantina.

Tutti i supportici, uniscono i primi livelli di abitazioni in sicurezza dagli estranei in osservazione, essi sono realizzati tra abitazioni nobiliari o comunque famiglie e casati, legati da patti o vincoli di parentela, per gestire in sicurezza abitazioni e nel contempo, circoscrivere vanelle di pertinenza, corti, giardini, orti botanici comuni o privati, in tutto, spazi di scambio e confronto, denominate in Arbër “Vallj”.

Sicuramente l’abitato in Terra di Sofia, aveva altri supportici, ma le vicende storiche del costruito, sottoposto alle prove degli eventi tellurici, che non hanno mai smesso di mettere alla prova il genio degli elevati, lasciano presupporre, un antico costruito storico, con altri passaggi di inchino a completare la parte esposta a sud e sud-ovest.

Fare un resoconto del sistema urbanistico dell’epoca e una impresa non semplice ma con le dovute cautele, magari confrontando altri impiantì urbani limitrofi o di macro area, si potrebbero estrapolare misure parallele, se non simili e, definire teoremi, storicamente provati, da affidare come memoria delle generazioni a venire per componimenti più complessi.

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GIACULATORIA PER LA TUTELA DELLE COSE E LE MENTI DEI GENERI ARBËR

GIACULATORIA PER LA TUTELA DELLE COSE E LE MENTI DEI GENERI ARBËR

Posted on 02 aprile 2023 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Questa giaculatoria storica nasce per le figure meno utili per la ricostruzione degli eventi solidi della Regione storica diffusa degli Arbër.

Essa rappresenta una preghiera povera indirizzata al popolo dei comuni, per questo fatta di contenuti semplici, tale che, possa essere fondamenta, anche di quanti credono di avere titoli e mai distaccatosi dell’età prescolare, gli analfabeti o illetterati diffusi, in altre parole, da ogni abitante che vive e non sa di essere parte della minoranza storica, più longeva e solida del vecchio continente.

L’esigenza nasce a seguito degli appuntamenti culturali svoltisi in assenza, nel corso del tempo che hanno visto arrivare, vivere e terminare la pandemia 19.

Questa, invece di essere utilizzata come monito e riflettere sulle innumerevoli pene culturali degli ultimi due decenni, è stata una parentesi delle pagine più pietose e irriverenti che la storia ricordi, con finalità di tutela delle cose materiali ed immateriali della regione storica diffusa, tra le più devastanti.

Iniziando a riflettere immaginando che la minoranza fosse viva per l’esclusiva eredità parlata; qualche figura a dir poco, formata, ha furbescamente ritenuto, potersi inventare storia, alfabetari e cavalieri senza cavallo a sostegno di Don Chisciotte in perenne discussione, qui non con i mulini a vento, qui trasferitosi a per colloquiare con l’architettura, l’urbanistica e addirittura le solide case, che come tutti sanno non parlano perché sono episodi unici della storia.

Sopportare che figure deboli della storia, saltino la fila e si dispongano in mostra, più dei geni è storicamente comprovato, per questo lasciano sempre il tempo che trovano, tanto gli ultimi saranno sempre in ombra, mentre i primi brillano per luce propria anche se lo spazio per loro è in fondo alla piazza gremita che comunque ascolta e apprende nozioni.

Quello che oggi è diventata indecenza sono le attività di tutela indecenti, dei fatti culturali e le attività di valorizzazione degli elevati storici, continuamente violentati perché, muri inermi, senza braccia, gambe e piedi per scalciare o “sucuzzare”, verso quanti le impropriamente colora con irriverenza, le cose e gli elevati d vivere per portarli in auge.

Nonostante la storia di questi edificati che hanno dato i natali ad eccellenze del mondo della cultura, della scienza esatta, delle lettere, della politica e la conservazione e tutela delle cose che oggi ci indicano con luce la nostra radice, si preferisce deturpare, spruzzando per ribellione ogni sorta di componimento in colore senza la ben che minima vergogna.

Tutto questo nella più demenziale inconsapevolezza degli atti commessi contro i saggi, i quali, stanchi e abbandonati dalla plebe, che evita pure di rimborsare trenta tre danari e fare opera gratuita di rimedio del violato senza riguardo.

Affinché questa elevazione di giaculatoria smuova le coscienze di tutti è bene precisare di cosa parliamo:

Il salto di quota che caratterizza le colline della regione storica e ogni Katundë, dalla zona bassa a quella più alta individuato sia classificato o rientri in un unico tema così come segue; individuato un elevato di credenza, si articola nei suoi pressi un pennino, identificabile quale pettine di nascenti di elevati abitativi che disegnano vichi, rampe, supportici, case e spazi o slarghi, utilizzati per realizzare elevati; il pennino mira a definire quattro rioni che strategicamente legano tutti gli oltre cento paesi riedificati dal 1479 al 1563 secondo lo stesso impianto di cui è composta la capitale, in epoca ducale dalle stesse genti provenienti dal mediterraneo del sud est.

I pennini restituiscono «strette vie a gomito, gradinate, in parte coperte da portici o supportici con volta con copertura piana e sin anche voltata, per superare il dislivello, cis’ come avviene nella città ducale partenopea che darà qualche secolo dopo la metrica per fare Katundë.

È dunque caratterizza questo fitto tessuto di vichi, fondaci, vanelle, botteghe e case, un «labirinto di vicoli», senza edifici pubblici di rappresentanza né grandi complessi religiosi di rilievo, in altre parole un apparente carattere caotico di chiara ispirazione orientale, bizantina o islamica, dovuto alle influenze dirette di giungevano dall’Oriente.

All’interno della maglia edilizia della Iunctura (legame) ducale, i vicoli ciechi diventano occasione, ideale per ‘privatizzare’ o ‘semi privatizzazione’ in un contesto di famiglie legate da vincoli di parentela. residenti in contiguità; i fondaci,

invece, sono comparti abitativo-commerciali che derivano direttamente dalla tipologia di luogo di apparente confusione, ma dove elemento ha compiti e ruoli ben identificati, perché proprietà intrinseca di ogni facente parte di quel luogo.

Specie lungo i pennini sorgono case con orti, giardini e spiazzi terrazzati che riproducono una tipologia rurale e persino tuguri scavati nelle pareti tufacee o di estrazione più morbida secondo una tipologia rupestre molto diffusa, come sappiamo, in tutta l’area di espansione dei paesi collinari.

Questa qui esposta è una breve trattazione di quello che poi divengono i veri presidi per la valorizzazione di un antico consuetudinario tra i più solidi del bacino mediterraneo.

VincenzoTorelliUn sistema abitativo che oggi è la radice di numerosi centri antichi del meridione italiano, lo stesso posto nelle disposizioni di numerose amministrazioni e il più delle colte non ne comprendono o non sanno misurarne il valore.

Vero è un dato inconfutabile, il quale statisticamente non promette nulla di buono specie dalla emanazione della legge 482/99 che invece di attivarsi verso il costruito e le attività di Genio locale posto in essere mena a voler sottolineare il modo in cui si deve scrivere una lingua; e siccome questa è antica la si vuole santificare sgrammaticando con caratteri latini e greci, immaginando che solo questi nel globo terreno erano gli unici alfabetari.

Le consuetudini e le attività proto industriali e la definizione dei cunei agrari per il sostentamento e quelli della trasformazione, erano definiti pensati ed organizzati in questi luoghi di raccolta e accoglienza delle genti Arbanon.

Vere e proprie culle della tradizione, sono esse a riverberare le cose della storia, recarsi ancora oggi in questi luoghi, che vivono senza tempo, se educati ad ascoltare, accogliere e fare proprie quale fosse l’operosità in lamenti della fatica del passato, si potrebbe partire e parlare con la lingua giusta il racconto delle cose Arbër.

Noi siamo la generazione allevata dalle nostre madri, le nonne e le vicine di casa che per abituarti ad ascoltare ti dicevano; figlio benedetto siediti qui e ascolta (Nga e ulu këtu, paçurat); atto che nella stagione lunga (l’estate) aveva luogo di fianco la porta e seduti nel sedile di controllo e in inverno (la stagione breve) davanti al camino, raccontando gesta e avvenimenti dolci e sin anche cruenti per in passaggio generazionale del parlato Arbër.

fratelliLa trattazione dei sostantivi che trattano del corpo umano e gli elementi naturali primi, per il sostentamento della specie, in tutto, lo storico protocollo divulgato ai quattro venti, ancora oggi ignorato dai preposti, nonostante i fratelli Grimm lo abbiano diffuso e urlato ai quattro venti.

Per concludere questo breve, si vuole aggiungere un dato fondamentale, monito per quanti fanno e cercano di scrivere una delle storiche forme di vita basate su base di confronto orale.

Codice di appartenenza compreso solo dal più grande, l’unica, eccellenza in campo di analisi e comparazione linguistica scritta che l’Europa e il globo intere riconosce agli Arbër: Pasquale Baffi il dolce e fantastico lettore e scrittore di Greco e Latino, l’eccellenza più alta, che compreso il valore dell’idioma Arbër, la sua radice comparata con quanti per la via Egnazia transitassero per raggiungere la gloria dell’anima; lui il Baffi non ha segnato mai un punto, una virgola o una parentesi, pur avendo titoli ed argomenti elevati per farlo, in Arbër.

Vita Mons Giuseppe BugliariSe egli non ha preso penna e scagliato calamai a chi ragliava, ha compreso il valore per non esporre il patrimonio identitario al libero e indemoniato ballo tondo che si sarebbe spezzato, come è stato, irreparabilmente.

Vero è che promuovere vicende di comunemente per eccellenza, senza avere consapevolezza di chi siano stati e cosa abbiano fatto: il prelato Bugliaro Giuseppe, Pasquale Baffi, Mons. Francesco Bugliari, Mons. Domenico Bellusci, Vincenzo Torelli, Luigi Giura, Pasquale Scura, Mons. Giuseppe Bugliari, Terenzio Tocci, Giorgio Ferriolo, Giuseppe Albanese e tanti altri, che nei casi più banali hanno dato lustro agli Arbër nel mondo per i loro lumi, oltre a mettere in gioco il loro fisico per ideali comuni; è una grave mancanza di rispetto delle cose che fanno grande la Regione storica diffusa degli Arbër.

photo_2023-04-02_13-36-02Se nei giorni scorsi un Artista Albanese, ha riunito alla Piazza Mercato di Napoli più persone di quante si è abituate a vedere nelle manifestazioni di lettura o scrittura degli ultimi decenni, un numero di partecipanti che mancava dal 10 maggio del 1831, sempre realizzato da un Arbër lungo il corso del Volturno, è il segno evidente che gli Albanesi come gli Arber uniscono più genti con eventi di radice, da quanti si ostinano a imporre alfabetari.

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MIGRANTI CON LE BRACCIA STESE AL CIELO A FAVELLAR UNA LINGUA IGNOTA  (kushë nënghe ka më deun sàthe punognë vete për deitë)

MIGRANTI CON LE BRACCIA STESE AL CIELO A FAVELLAR UNA LINGUA IGNOTA (kushë nënghe ka më deun sàthe punognë vete për deitë)

Posted on 06 marzo 2023 by admin

Baia sommersa, qundo ad essere sommersi sono snche gli approdiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal 1469 sino al 1502 le spiagge a sud del meridione Italiano, accolsero un numero elevato di profughi provenienti dai governariati allocati a nord e a sud della via Egnazia, via che da Durazzo mira ad Est.

Le genti, provenienti da queste regioni, migravano per non essere piegati a volontà e credenze altre, vedersi rapiti i figli, allevati secondo regole pagane, per questo famiglie intere, lasciavano ogni cosa materiale e prendevano la via del mare, con il cuore e la mente pieni di sentimenti di radice .

Non si contano le partenze in pena, del su citato intervallo storico, tuttavia, si narrano gli approdi con bambini, bambine, donne, uomini genitori e prelati, tutti in sofferenza e mal vestiti, per non dire ignudi.

Di queste frotte di genti dell’epoca, si annotava, il favellar una lingua ignota, senza cogliere la misura della pena, malinconica di dolore per le cose abbandonate nelle terre, ad est, oltre il fiume Adriatico sino dove diventa Jonio, che senza veli palesavano dolore.

Certo che cogliere solo braccia stese verso il cielo, forse in cerca di calore ideale, doveva attrarre di più l’attenzione degli osservatori viste le copiose lacrime che sgorgavano amare, per i domani incerti di sale, misura certa della tragedia in corso.

Si deduce che le cronache del tempo annotarono solo frammenti di cosa avveniva, senza che nessuno rilevasse, se li vi fossero barche o resti di generi, nessuno ricorda quanti corsero ad aiutarli, quale fu il tempo in balia delle onde o quanti non ebbe ristoro al sole, perché in mare ignoti per sempre.

Da quel tempo, per i discendenti di quella dinastia non fu mai domenica, l’uomo e le società di quegli abbracci naturali, forse hanno mutato il modo di vivere, fare accoglienza e dare notizia, tuttavia, quelle spiagge continuano ad essere teatro di identiche vicende, senza che nulla sia stato rinnovato, prima, durante e dopo lo sbarco e per i meno fortunati, rimasti per sempre in mare.

Vero è che l’esperienza segnò, con violenza la memoria di queste genti, le quali, tutte e senza eccezione alcuna, si diressero, senza prender fiato, lontano dal mare, con cui per secoli non ebbero più nulla da spartire, se non il sale, preferendo quello di cava che fa le colline.

Cento passi e anche di più, oggi valgono uno per ogni paese che gli scampati allestirono lontano dal mare, qui sicuri e lontani dalle onde, si adoperarono per il ricordo mediterraneo parallelo, in forme dolci e simili a quelle di terra di origine.

È il mare che segna, per sempre, una delle minoranze più caparbie del meridione oggi viva e vegeta, i quali, senza più guardare indietro, preferirono allocarsi distanti da quello che sembrava semplice via, per cercar buona fratellanza terrena.

Tutti partivano per sfuggire a un modo di vivere imposto, pronti a sopportare ogni peso che non calpestasse la propria credenza, disposto a confrontarsi prima con il mare, poi la china diversamente articolata, gli eventi naturali, che prima o poi termina e fa splendere il sole.

Disposti alle fatiche più avverse, come avveniva nel XIV secolo, disponendosi in vecchi casali abbandonati da innalzare, oltremodo colmi di pene da sanare, grotte da scavare, terre da bonificare e nel contempo rimanere fedeli alla promessa data ” BESA“, ovvero garantire continuità alla propria radice, nonostante fossero definirti, con sostantivi a dir poco inopportuni quali: portatori di malattie, violenti, senza leggi, orfani senza misura, attentatori e sin anche colpevoli dei ratti storici attribuiti loro dagli indigeni che sottraevano le elemosine di Francesco, quello di Paola.

saleAnomalia ancora in voga al giorno d’oggi, nonostante la cenere con cultura abbondi, non si è stati in grado di eliminare questi “immeritato marchi per classificare generi sconosciuti”.

Gli esempi in tale senso sono innumerevoli, ma quello che oggi identifica il meridione quale culla della dieta mediterranea, non è un errore, attribuirlo o aggiudicarlo a queste genti di minoranza approdati dal mare e venuti dalla Via Egnazia.

A tal fine va sottolineato che i migranti, sono stati identificati quale valore minore al sociale di queste terre e non indispensabili, in prima accoglienza, prevalendo il protocollo, secondo cui non era riconosciuto alcun diritto, in discendenza delle aree poste a coltura, costringendoli il più delle volte a migrare per terra alta, quando il referente passava a miglior vita.

Nonostante nell’antichità, le grotte furono trasformate in abituri, realizzati elevati aditivi, le terre selvagge piantumate e rese produttive; la diffidenza verso quanti erano giunti per mare della via Egnazia, restava identica, anzi, con lo scorrere dei decenni, diventava pena sociale, a cui indirizzare ogni genere di colpa, senza dubbi o processi a discolpa.

Condanne decise a priori, al punto tale da imporre, agli scampati del “mare nostrum”, il non cavalcare durante il giorno, o al ritorno a casa dopo il lavoro nei campi, come se fosse conferma di un mal tolto o latrocinio compiuto.

Se a questo associamo l’imposizione che nel corso della notte, prima dell’imbrunire e dopo all’alba, di dover restare entro recinti solidi da costruire in altre parole una sorta di arresti domiciliari, nei propri sheshi, ad esclusione dei “Prati di confine pastorale”, non erano certo questi atti di fiducia, verso quanti sostenevano l’economia dell’epoca con sudore e patimenti irripetibili.

A tal fine è bene precisare che i “contraenti senza appello”, avevano come pena certa, l’amputazione di un arto per ogni evasione o ritardo del rientro, tutto ciò sottolinea ancora una volta quanta fiducia era rivolata ai migranti, dalle istituzioni tutte.

A ben vedere, senza soluzione di epoca, visto e considerato le notizie di cronaca diffuse dai media, nel nostro tempo che corre a due velocità, oggi più della sottrazione fisica degli arti, amputano la morale.

Ma gli imperturbabili, operosi e onesti uomini della Egnazia, per ovviare al non poter cavalcare con la sella, inventarono “il Basto”, un oggetto da carico e di trasporto per cose non per la struttura dell’uomo.

Poi venne il “termine” dell’accanimento degli uomini e iniziarono le avversità della natura con terremoti, carestie, pandemie e ogni sorta di avversità.

Storicamente tutte queste attività che trovarono identica applicazione contro l’uomo, si scontrarono, con l’infinita caparbietà di queste famiglie Kanuniane, le quali, non hanno mutato nulla della propria radice di fare fratellanza onesta, distinguendosi così per la limpida esistenza, confortata ad iniziare dal 1734, con le attività sociali e clericali poste in  essere dalla ascesa di re Carlo III.

Nascono così le figure del sapere della dinastia dei minoritari, eccellenze in campo delle cose di politica, cultura, scienza esatta e ogni genere di studio per valorizzare queste terre di approdo, condividendo con tutti i profughi di simile radice lontano dal mare.

Tuttavia le questioni economiche e produttive non persero il senso di prendere l’infinita china senza “termine”, perché illuminata la via della cultura, il trionfo di tutti, rimaneva sempre valida la buia questione economica dei pochi.

Sono gli stessi che nascono e si moltiplicano nel corso del terremoto del 1783, scacciati dai promontori sicuri e solidità di quelle terre, definite ” meno pericolosi” dagli esperti dell’epoca come quelli dei recenti teoremi secondo cui i paralleli mediterranei sono uguali, ripetendo ancora l’infinita anche nel corso del primo decennio del secolo appena iniziato e dover ancora migrar per terra.

Tornando alle epoche del passato, riprendiamo con gli avvenimenti del 1796 quando i soliti noti, cercarono di agevolare i più poveri, con la misura riportata testualmente dalla regola venerabile del Monte del Grano, secolo XVIII°, la di cui stesura lascia oltremodo basiti e senza parole, delineando un nuovo di un calvario interminabile di sudore senza guadagno; secondo cui :Il grano dato in prestito per la semina, va utilizzato esclusivamente nel bacino di prestito e qualora i contadini, nonostante gli interessi di restituzione, fossero diventati ricchi, per questo autonomi e non più interessati al prestito, le rendite di questi, sarebbero rimaste a disposizione del monte o di enti successori, che ne avrebbero disposto in piena autonomia.

Quanto qui citato è la “filiera insediativa” affrontata dalla minoranza oggi definita Arbër, i pionieri che non mirano ad invadere, sottomettere o distruggere le terre dei mille abbracci naturali, ma per vivere in pace con gli indigeni.

Se a questo aggiungiamo il dato che migravano secondo piani prestabiliti, tra quanti credevano alle direttive fondamentali dell’Ordine del Drago, le cose non ebbero come abbiamo accennato, svolgimento o attuazione secondo il protocollo ordinistico in forma perfettamente cavalleresca o almeno dignitosa.

Tuttavia la minoranza, assieme alla maggioranza rimasta nella terra di origine, ebbero il  coraggio di assumersi l’onere di tutelare l’intero patrimonio per la discendenza, nel seguente modo:

  • i minori furono disposti e lasciati insediare lungo arche ben definite a ovest del fiume Adriatico sino al mar Jonio, dalle istituzioni laiche e cristiane dell’epoca pronte ad accoglierle, trascinando per tale fine il patrimonio immateriale;
  • di contro in terra madre chi restava avrebbe continuato a marchiare i confini di origine con l’antico appellativo segnandone volta per volta la parte sottratta.

Tuttavia nel breve e medio termine a prevalere, è stato il volano della diffidenza verso un nuovo modello identitario, che si affiancava a quello indigeno nel meridione Italiano, in grave sofferenza economica e sociale, ragion per la quale non sempre è stato lasciato libera espressione alle cose dei profughi Arbanon.

La novità fu che poi nei fatti chi rimase in terra madre a difendere confini segui le previsioni dell’epoca, diversamente dai migranti che si dovettero rimboccare le maniche e superare oltre la diffidenza non poche avversità.

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La discriminazione è dovunque, non abbandona mai le generazioni dei profughi di mare, poi migranti di terra, avendo l’indice sempre puntato e pronto a descrive “inopportune e inadatte classificazioni di prevaricazione”.

Questo è l’infinito che non cambia, per quanti usano vagare alla ricerca di luoghi paralleli, comunemente appellata casa, tuttavia essere convinti di possedere cinque sensi e sentimenti leali di cose buone, è il valore aggiunto che hanno gli Arbër, definiti per questo, dalle “Istituzioni Italiane Alte”; modello di accoglienza e integrazione, tra i più vivi e longevi del mediterraneo e quello che più vale “non somma di assoluti”.

 

P. S.   La cultura è poca, spetta ai saggi farne tesoro e non sprecarla per Strade e “Prati” dove pasce gli eletti dell’ignoranza in astinenza.

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CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

Posted on 28 febbraio 2023 by admin

braccia stese al cielo 2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal 1469 sino al 1502 le spiagge più estreme del meridione “abbracciarono” un numero molto elevato o meglio imprecisato, di profughi provenienti dai governariati, disposti a nord e a sud, della via Egnazia da Durazzo verso l’est; questi, cercavano tutti, di sfuggire per non essere piegati dalle credenze mussulmane, che chiedevano anche pedaggio.

Di essi non si contano le volte che posero in essere i protocolli di partenza in pena, ma si narra solo di approdi che vide numerosi, donne, bambini e uomini, e genitori, mal vestiti o con poco nulla in dosso, favellavano una lingua ignota, colma di dolore, lacrime e braccia stese verso il cielo per cercar calore.

A quei tempi le cronache annotarono solo questi elementi e null’altro, nessune rilevò, se li vi fossero barche o resti, nessuno annotò quanti corsero ad aiutarli e neanche per quanto tempo furono lasciati in balia delle onde di quell’epoca, o quanti non trovarono mai ristoro al sole, non asciugandosi mai.

Da quel tempo remoto gli uomini hanno cambiato molto o quasi tutto nel modo di fare per vivere secondo procedure sociali in linea con le cose evolute prodotte e messe in campo, ma quelle spiagge continuano ad essere a tutt’oggi, il teatro delle identiche cose, senza che nulla venga rinnovato in meglio, prima e dopo essere sbarcati o li nei pressi delle spiagge trattenuti per sempre in mare.

Il mare che segna per sempre una delle minoranze più numerose del meridione, è ancora distante da quello che si vorrebbe buono per quanti  vanno per trovare fratellanza, ma, non finisce qui, in quanto la china per l’integrazione, successiva,  non è poi così semplice come immaginato dai provetti naviganti, in quanto, si potrebbe definire, per essere buoni, diversamente articolata.

Come avveniva un tempo dove si affidavano prima vecchi casali abbandonati e colmi di pene da coprire, grotte da scavare, terre da bonificare, gabelle da corrispondere, nonostante si ritenevano definirli, sporchi, colmi di malattie, assassini senza scrupolo e ladri attentatori sin anche delle offerte di Francesco di Paola.

La loro presenza ha avuto sempre poco valore, permanendo labile per i primi cinque decenni, giacché, il loro operare su un determinato territorio non vedeva riconosciuto alcun diritto, per la discendenza che a morte avvenuta del capo famiglia responsabile, costringeva gli altri a emigrare per terra.

Nonostante le grotte fossero  trasformate in abituri aditivi, le terre piantumate e produttive; la diffidenza verso le genti un tempo della via Egnazia, restavano identiche, anzi, con lo scorrere del tempo, diventare addirittura discarica sociale a cui imputare ogni genere di colpa, al punto tale da imporre, agli scampati del “mare nostrum”, il non cavalcare asini o cavalli, durante il giorno, per rallentare eventuali fughe di malaffare, come se compire l’atto di riposare dopo la giornata di lavoro, fosse una conferma di un mal tolto.

Se a questo associamo l’imposizione che nel corso della notte, prima dell’imbrunire e dopo l’alba, di restare agli arresti domiciliari, nelle proprie case, esclusi i “Prati di pascolo”, pena l’amputazione di un arto per ogni evasione compiuta, la fiducia rivolata a questi migranti non deve essere molto cambiato nel corso degli ultimi cinque secoli, dalle istituzioni tutte.

Ma gli imperturbabili e onesti uomini della Egnazia, per ovviare al non poter cavalcare asini o cavalli inventarsi “il Basto” , essa infatti non era una sella, ma presentato in primo impiego come oggetto da carico o da trasporto da soma.

O come gli fu imposto dal 1563 di costruire recinti di mura, entro cui vivere i domiciliari, dal tempo del tramonto a quello del sorgere del sole, altrimenti finire di essere senza arto per ogni trasgressione di un ipotetico reato.

Poi venne il  termine dell’accanimento degli uomini, iniziando cos’ le attività della natura, con terremoti carestie e ogni sorta di avversità in malattie, ciò nonostante la tempra di queste famiglie senza tempo, ha saputo adeguarsi e con caparbietà sollevare mura di solidità per l’esistenza, difendendosi e iniziare a trovare conforto dal 1734 con le nuove regole sociali ispaniche di re Carlo III.

Nonostante tutte le cose della politica e della cultura fornirono figure di rilievo per la valorizzazione culturale di queste terre di approdo, le questioni economiche e produttive non persero il senso di calpestare, quanti rimanevano legati alle terre per la sostenibilità economica e produttiva.

Tuttavia, nonostante regole e le esigue possibilità di affermarsi va diffondendosi un dato e rimangono inconfutabili che le generazioni dei migranti approdati nelle spiagge, con storia di braccia stese verso il cielo a favellar in lingua ignota, è un dono naturale riservato solo a quanti vi nacquero e non a quanti cercano di inventarsi.

Per non riferire le pene inflitte nel corso del terremoto del 1783, quando numerosi furono scacciati di casa per terre migliori dicendo loro gli esperti ” li è meno pericoloso” teoremi ancora in voga sin anche nel 2009.

Anche quando le istituzioni dell’epoca cercarono di agevolare i più poveri, la misura di ciò viene riportato testualmente dalla regola venerabile del Monte del Grano del 1796 che lascia oltremodo basiti e senza parole, delineando la misura di un calvario interminabile.

Il grano dato in prestito per la semina, va utilizzato esclusivamente nel bacino di prestito e qualora i contadini, nonostante gli interessi di restituzione, fossero diventati ricchi, per questo autonomi e non più interessati al prestito, le rendite di questi, sarebbero rimaste a disposizione del monte o di enti successori, che ne avrebbero disposto in piena autonomia.

Come si può ben vedere la discriminazione ti persegue dovunque, e non ti abbandona mai, anche quando ti allontani fuori dai bacini germani, depositando fiducia negli altri  per promuovere germogli del tuo essere caparbio Arbër che vive libero da stereotipi il 2023.

Purtroppo ancora non è noto l’enunciato della moltiplicazione o non somma degli assoluti, anche dei trascorsi Arbër, in controtendenza del principio che due o più bicchieri di acqua a settantacinque gradi, riversati in un contenitore unico, sommano la quantità del liquido, diversamente dalla temperatura, che non varia.

Quando si discute delle cose materiali, immateriali in storiografia di temi assoluti, come, Lingua, Consuetudini, Metrica del Canto e Religione, non si produce nessuna sommatoria per un risultato numerico perché essi sono assoluti solitari non di somma, perché i numeri di simile calura o mira formativa non si sommano.

L’esempio dei bicchieri di acqua a settanta cinque gradi, rende chiaro lo stato delle cose, in vicende relative all’indagine per definire glie ambiti identitari della Regione Storica diffusa degli Arbër.

Per questo, ostinarsi dopo sei secoli, nel riferire cose e fatti di simile calura, non aumenta lo stato di benessere della culla di crescita, scambiati per catini in misura termica; allora prima di un’altra volta, sappiate che pur se nota come città del sole, le cose copiate restano assolute e non cambiano il senso  dei “discorsi copiati” che non saranno mai somma di calore, perché valore assoluto ben noto.

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UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

Posted on 24 febbraio 2023 by admin

527-765x1024NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile- Storico) – In Terra di Sofia, ormai non si è più in grado di distinguere, a iniziare dalla fine del secolo appena trascorso, la storia vera dalle favole inventate; prova lo sono i pomeriggi di calura estiva, quando imprudentemente si elevano “Termini” d’inopportuna memoria.

Nient’altro che rovesci degli storici sacrifici di sangue, che segnano indelebilmente il corso del lavinaio del nobile casato ormai sotterrato completamente, oggi diventato l’ameno del cruento Giuda.

Questo accade, quando si affidano agli asini, i compiti in casa per organizzare parate e si imitano le impronte del cavallo del re, disponendo sin anche la fida gendarmeria, che suona inni di nobili propositi, invece di fare il mestiere primo; ovvero, imprigionare Scriba, Asini e Falsi Re, pronti a ricevere applauso dagli astanti ignari.

Purtroppo questo è il tempo che scorre quando non si possiede la volontà di perseguire la meta del santuario, ma, in continua mutazione si preferiscono Diavoli, bardati a Mezza Festa, senza alcuna consapevolezza delle urla che quel luogo diffonde, perché  un “Dante”, lì in Terra di Sofia, è nato cresciuto e seminato germogli di sapere nobile.

Questa metafora vuole evidenziare la mancanza di un mulino, in grado di macinare e separare finemente, la farina dalla crusca, quest’ultima, la sfoglia che avrebbe dovuto difendere la locale cultura.

Tuttavia, quello che più duole, è il ripetersi con volontà perversa, delle cose più infamanti dopo due secoli dallo essersi svolte e penosamente avvenute; prima a “Giugno” in forma di tradimento, poi ad “Agosto”, con vestizioni di tradimento, concludendo alla vigilia di novembre con la pena di condanna a morte.

Non è comprensibile, come tanta perversione passi in quel “ Lavinaio”, al cospetto della Madre venuta da Costantinopoli e come se non bastasse, germoglia e fiorisce incultura, vilmente copiata e sottratta al genio locale.

Per le genti che vivono a impronta di Costantinopoli e Alessandria, il “Lavinaio”, avrebbe dovuto scorrere secondo i dettami dell’inverno e dell’estate, con protagonisti il giorno, la notte, il sole, il vento e le forme naturali irrigue, le stesse che in comune accordo, rendono merito al progredire della vita degli uomini.

Tuttavia da oltre otto stagioni, questa ritmica, ha terminato lo svolgersi in linea con la natura, in quanto vede il terzo genere, ovvero quello irrispettoso del ruolo di nascita, preferendo fare la sposa di notte che non può aver marito.

Lo stato delle cose è divenuto così inopportuno, avvilente, demenziale e deleterio, al punto da piegare le nuove generazioni, queste ultime, ancora acerbe, vivono senza cognizione alcuna, di fatti e cose del passato, non solo dal punto di vista immateriale o puramente conoscitivo, ma addirittura svengono privati della direttrice di approdo; infatti l’ipogeo, per ben due volte, nel tempo di poco men di un secolo è violentato, piantumando e sradicando ulivi nei campi, dove quanti passato a miglior vita, e quindi  inermi finiscono per essere addirittura frullati per impasto di cemento.

La Terra di Sofia fa parte di una delle arche delineate a Capua da Scanderbeg nel1464, quella che nel corso della storia ha preso l’impegno con saggia devozione, secondo le disposizioni dell’Ordine del Drago, la stessa che nel XVIII secolo preferì Carlo III per guidare spiritualmente la sua personale armata.

Questo luogo dopo qualche anno ebbe modo di dare i natali a una schiera di luminari, cui purtroppo, fece parte anche chi è considerato il giuda storico di questi esuli: il modello di accoglienza e integrazione mediterranea ancora vitale, grazie a pochi.

Ad oggi purtroppo chi studia la storia di questo luogo, pericolosamente invertita in favore della sacra famiglia perversa, impegnata non a privilegiare tempo, luogo e genio, ma tenere ben distante o fuori i circuiti della cultura che conta, adoperandosi a far diventare questa nobile disciplina un tema di commercio di insaccati privi delle essenze dell’orto botanico di Sofia.

Quando tutto questo abbia avuto inizio, per i comunemente non tema di rilievo, ma per dare ragione a  fatti e cose, si può sicuramente affermare che tutto ebbe inizio il pomeriggio dell’undici Novembre del 1799 quando il carro scortato dai Bianchi da Carcere di Castel Capuano, prese la via del Lavinaio e recarsi in Piazza Mercato, il circo di quel tempo, che per finta inforcare male poi, sgozzava come capretti i giovani e liberi pensatori.

Chissà come si si sentita sola Teresa, nel fare quel percorso al fianco del suo amato Pasquale, che andava incontro alla morte, in altre parole un funerale in solitudine con il promesso defunto, che con la sola forza degli sguardi divideva quell’ultimo amplesso di amore.

Dove stavano e cosa facevano, i falsi estimatori paesani, i parenti menzogneri, chissà come hanno impegnato i trenta denari, magari sommandoli a quelli di Giacinto e Paolo in Terra di madre Sofia, per imprestare grano, proprio dove si trova il Termine, di fianco al “Lavinaio” dove ogni 18 di agosto, scorre sangue e trascina grano.

Le cose della storia a terra di Sofia, sono come individui bendati che vorrebbero raccontare cosa è avvenuto in quel luogo ma non possono, il dovere di ogni buon ricercatore è di saper togliere quelle bende sulla bocca e poi in rigoroso silenzio ascoltare e fare tesoro del parlato di quest’ultimo racconto in pena di lingua Arbër Terminale.

Sofia e i suoi figli sono un esempio da non imitare, sia dal puto di vista sociale e sia per le tradizioni consuetudine valorizzate, giacche sempre pronti a disporre le cose “ritenute buone per gli altri, e mai per sé stessi.

Noti consiglieri e sostenitori di stato gratuito di avvenimenti e vicende, che se affrontato dagli altri unisce tutti mel mutuo muro di gomma, poi quando la stessa vicenda entra nelle proprie case, si affidano al pianto terminale con i capelli sciolti, di chi ha vissuto in solitudine la stessa vicenda.

Come accennato prima, le genti insediatesi il sette settembre 1471, nel corso dei secoli, hanno partecipato con forza alle vicende storiche al pari degli indigeni locali.

Ciò nonostante non usano ricordare i traguardi per opera e genio di molti compaesani, preferendo a questi i giuda seme di morte per danaro.

I lavinai storici in Terra di Sofia sono tre: il primo a est del costruito, il secondo nella parte centrale e il terzo a est, degradanti da sud verso nord lungo il corso prima del Vallone del Duca che va da Ovest ad Esta.

Di questi è proprio quello centrale ad essere il baricentro delle eccellenze storiche in Terra di Sofia, diventato poi nel corso di quel tragico diciotto di agosto, piena di lacrime e grano insanguinato.

Assistere all’esibizione di qualche giullaresco farfallone dopo due secoli, rievocando l’orrenda giornata, per sentirsi protagonista irresponsabile senza velo anzi con fascia e dare la misura locale della vergogna, è stato come se il “ventisette di gennaio” giorno della Shoà, diventasse la giornata del grasso di colatura e lo cibarsi di carne alla griglia.

Un buon pellegrino non smette mai la via del santuario prescelto, anche se lungo il cammino incontra l’orto botanico di Sofia ridotto a discarica o luogo per bambini, che rubano polvere, per spargerla in testa, per sembrare adulti saggi, quando non sono altro che capricciosi di fasce sporche perché mai dismesse.

Allo stato delle cose e per terminare non rimane altro che piangere sui resti delle case che non parleranno mai ai bambini, che resteranno delusi, quando in età adulta scopriranno che quelle sono solo abusi.

In oltre chiedersi se Franco adesso che è passato a miglior vita, ha capito che umiliare Atanasio per il pianto della madre Adelina, davanti la bara di Demetrio non fu mera esibizione.

Caro Franco ovunque tu sia in cielo, devi comprendere che la madre di Attanasio, in quel frangente di dolore per la doppia perdita fisica e quella morale in atto, aveva capito, quando dolore si arreca quando viene riverberato in solitudine e non vuoi finire sola come Adelina, perché le ragioni materna non sono mai condivise quando non sono di casa proprie del figliol prodigo.

Queste note sono il pellegrinaggio culturale nascono quando cresci sotto la guida, prima del parlare secondo la metrica in terra di Sofia, sotto la guida di Madri e Gjitonie che sanno di tradizione e costumi gli stessi di cui si cibano e vestono cibano, poi  da adulto studiare dopo essere stato battezzato in promessa di tornare e spiegare, quando tutto è pronto per la partenza potresti anche trovare nel tuo orto botanico, medici e infermieri che fanno gli invalidi da curare, li capisci che la penitenza da assolvere è iniziata.

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LA CRUSCA ANCHE PER LA LINGUA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR (Krùndja Thë ghjughës Arbërèshëvet The Shëprishiura)

LA CRUSCA ANCHE PER LA LINGUA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR (Krùndja Thë ghjughës Arbërèshëvet The Shëprishiura)

Posted on 18 febbraio 2023 by admin

I fratelli Grimm a lavoro

NAPOLI (Lo Storico Atanasio Pizzi Basile) – L’Accademia persegue il fine di tutelare, conservare e divulgare la lingua degli Arber, delineando Termini solidi e indistruttibili, con monoliti atti a circoscrivere le interferenze moderne, le stesse che insistono nel generare fatuo, cercando di vanificare la promessa data, in terra natia nel 1469, quella che ancora oggi i “Cruscofoni” promuovono dentro e fuori i confini della Regione storica diffusa degli Arbër.

Oggi da Napoli con il contributo di parlanti natii delle 21 macro aree, che compongono la regione storica diffusa, si vuole separare la farina, cioè la lingua, identificata con l’Albanese, dalla “crusca” ovvero la corazza che gli esuli utilizzano da quando approdarono nelle terre parallele, dal 1469 al 1502.

Il nobile intento a impronta dell’impresa del Cavaliere Giorgio Castriota figlio di Giovanni, non è stato finalizzato a forme di battaglie per sovrapporsi agli indigeni, ma per tutelare la propria identità rispettando anche le altre Crusche ancora vive.

Un progetto di non facile attuazione, ma la caparbietà che contraddistingue questo popolo, fa la differenza, con  quanti rimasero in terra natia a segnare confini di terra in fermento.

Tuttavia tutti consapevoli allora, che dovevano come noi oggi, affrontare non poche difficoltà, prima di uscire in pubblico confronto, per realizzare un solido progetto, che accolga con misura tutti i Residui nei luoghi di macinazione dei cereali, separando con dovizia di radice, dal grano duro.

Un semplice ma antico atto di rifinitura, noto nel saper distinguere con saggezza la farina di oltre Adriatico, dalla crusca Arbër, ovvero, l’elmo del drago e non del capretto come suolesi rappresentare; come facevano le nostre genitrici quando infornavano buk me Krùnde , per sfamare ogni genere vivente di quelle terre, le stesse genitrici che hanno saputo allevare quanti sanno distinguere, il cattivo dal buono.

L’accademia che germoglia a Napoli, non è altro che un seme antico piantato nella purpignera (in Arber, vurvini i llem llitirit) protetto poi in età parlante, nel recinto del “giardino di l’Ina Casa” da uno dei contadini della lingua Arbër, definito il più eccelso, in Terra di Sofia, dal 1913 al 1964, anno, quest’ultimo, che passo il testimone al giovane parlante adottato a Napoli.

L’unico esponente Arbër vissuto con lo scopo principale di vigilare sul buon uso delle cose materiali e immateriali, portate nel cuore e nella mente delle genti provenienti dalla terra madre.

Il nome, promuove i crusconi senza alcun dubbio come eccellenza (per burlesca modestia, «gente degna di crusca e non di farina»), gli unici in grado di separare, nella lingua, la farina, cioè la lingua più pura, dalla crusca, cioè l’elemento meno valido, ovvero l’elemento della difesa di suolo.

La formazione culturale nella capitale con eccellenze in campo linguistico, sociale, storico, sia materiale ed immateriale, nel campo della musica, del restauro, della museologia oltre a saper leggere e disegnare le cose del passato, consentono quel titolo accademico, un tempo esclusiva delle Botteghe del Sapere o figli in discendenza.

A tal proposito è bene fare una piccola premessa, ovvero, fratelli Grimm, si nasce e non lo si diventa, solo perché si è in grado di favoleggiare, senza adeguata consapevolezza di garbo, educazione e sentimento, come hanno cercato di fare provetti fochisti, saliti sulla Cattedra che non è la stessa cosa di un Camino che unisce la famiglia.

Generando riverberi incontrollati prima lungo le Gjitonie, raccontate dagli indigeni e poi allontanandosi sempre di più, in piazze e palchi, scambiando, deserti culturale con oasi.

I fratelli Grimm sono diventati celebri per aver raccolto ed elaborato moltissime fiabe della tradizione tedesca e più in generale europea.

Le fiabe, per loro natura tramandate oralmente, sono di difficile datazione e attribuzione come la trasposizione letteraria in lingua napoletana Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, che precedette sin anche i Grimm, per più di due secoli.

Tuttavia le loro storie non erano concepite per i bambini, oggi ricordate soprattutto in una forma depurata dei particolari più cruenti, e non mancano di contrarietà a edulcorare le storie.

Resta comunque sempre valido in concetto di Camino, la Crusca che contiene e avvolge la parte genuina di un ben identificato popolo, attraverso l’attenzione che i minori applicavano nell’ascoltare e comprendere le cose materiali e immateriali delle favole.

In dato non è stato compreso dai giullari o saltimbanchi, che invece di comprendere il senso dell’atto che si andava a esternare, disporre, attuare e attuare attorno al camino, ovvero la fucina del parlare una lingua antica, ci si è fermati alla mera falciatura delle favole poi lasciate alle intemperie a macerare.

Le favole non sono altro che il “vocabolario primo”, il più antico, autentico e solidale condiviso dall’uomo, senza carta penna e calamaio, sin dalla notte dei tempi realizzato.

Essendo le favole racconto di generi e parole che si usano descrivono il corpo umano e l’ambiente e le cose naturali che lo circondano per farlo crescere e vivere, in definitiva il messaggio, la consuetudine che i fratelli Grimm, seminavano e diffondevano per unire uomini della stessa terra, in tutto, quello resta e sarà sempre il corpo umano, lo stesso che suda, semina, opera e raccoglie le cose per fare vita.

È naturale chiedersi perché anche noi Arbër, per iniziare a delineare il vocabolario primo, quello che unisce la Regione storica diffusa ad Ovest del fiume Adriatico, con le popolazioni ad Est di detto fiume, non faremo altro che diffondere semplici parole che descrivono il corpo umano e il suo ambiente naturale?

In altre parole, mano, braccia, orecchie, capelli, ecc., ecc.; avrete, come per incanto, adesioni da parte di tutti i parlanti moderni e antichi di questa lingua, perché tutti senza alcuna distinzione comprenderanno il sostantivo, il verbo o aggettivo che sia, senza riserve.

P.S. visto che non ho fratelli, io faccio Grimm e voi sarete la fratria, così la storia si ripete anche per gli Arbër

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