Posted on 27 novembre 2022 by admin
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Posted on 19 novembre 2022 by admin
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Posted on 13 novembre 2022 by admin
Commenti disabilitati su Protetto: PROSPETTIVE ARENATESI IL NOVEMBRE DE1799 E NON PIÙ MIGLIORATE
Posted on 02 novembre 2022 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – E’ stato detto che vi sono due versioni della storia:
Gli elementi sono molteplici, ma il teorema, privo dei più elementari fondamenti di cose riferibili agli arbër, vorrebbe la Gjitonia, simile, uguale o equipollente al Vicinato è la più approssimata, instabile e priva di senso che sovrasta tutte le altre.
A tal proposito, si ritiene sia giunto il tempo di rimuovere, la polvere nascosta sotto il tappeto, come fanno le massaie, quando ricevono preavviso di tempo insufficiente, per preparare casa e ricevere degnamente gli ospiti.
Com’è accaduto nel 1999, quando fatta la legge per le minoranze storiche d’Italia, gli Arbër dovettero allestire in tutta fretta l’incauto teorema, copiando nei temi Olivettiani, per accedere con poco impegno, tra gli eletti della 482.
Trovandosi, i su citati operatori culturali, impreparati e per apparire, dovevano inventare almeno una cosa, caratteristica e caratterizzante la minoranza, che per una stranezza legislativa, non difende glie Arbë la storica minoranza, ma forse, quanti approdarono a Bari nell’estate del 1999, questo chiaramente non è vero, ma leggendo gli articoli di legge, di Albanese tratta.
In oltre gli storici dell’epoca ignari di ogni cosa, invece di illuminare le eccellenze Arbër/n che la storia teneva in bacheca, pronte ad essere esposte e illuminate, pensarono di legare tutto al circoscritto idiomatico, ancor oggi incompreso, la bitta, il chiodo ( Koshëda in Arbër) a cui fissare ogni cosa con: Gjitonia e parlate mai in senso unitario, riversando tutto nell’Albanese moderno.
Certo che non era un buon biglietto da visita, vedere la legge a pieno regime e sentirsi ripetere il ritornello: “la Gjitonia come il Vicinato”, o i quartieri dei borghi Arbër.
Il dato forviante ha piegato i cultori di ieri e di oggi, a tal proposito, l’auspicio vuole che quelli di domani, abbiano nel loro scrigno culturale, elementi sufficienti a comprendere la storica differenza.
Ad iniziare da oggi a trattare le cose, come sancito anche dall’articolo nove della Costituzione Italiana, che riferisce della tutela e valorizzazione delle cose e dei beni materiali e immateriali di una ben identificato territorio o macroarea minoritaria, come utilizzava fare Olivetti con i suoi gruppi di lavoro multidisciplinari, ancora ignota a molti operatori e amministratori moderni.
Avere un numero ampio di esperti, che studiano, intrecciano dati storico, con il vissuto e i segni del territorio, in tutto, ricerche i campo Geologico, Ambientale, Sociale, della Psiche, Antropologico, Architettonico, quella che si intende come il rapporto di convivenza a lungo termine tra Uomo, Natura e le vicende di trasformazione che conducono al costruito del “tema ambientale ad opera dell’uomo”, fornirebbe le certezze sino ad oggi negate.
Per iniziare il discorso di tema è bene precisare che la gjitonia è anche insieme di gruppi familiari allargati, in evoluzione mnemonica di radice, il termine definisce gruppi molto radicati a un ben identificato territorio, che si usa definire parallelo, sempre simile, ma comunque che non gode di diritti, ne prerogative che hanno gli aventi ruolo e grado, ovvero, infatti gli unici diritti a loro affidati affidato sono la dirigenza di un ristretto ambito, per dare al luogo movimento, secondo i riti di credenza e consuetudini di confronto con il territorio.
I Katundë arbër ( paese, contrada, frazione) possono essere riassunti come una tessitura urbana identificabile nel rione romano, dal punto di vista espansivo, mentre per quanto riguarda le architetture e gli aspetti sociali attingeva della radice greca,
La differente mentalità nel modo di insediarsi rispetto agli indigeni locali, non sempre, dagli storici è stata intercettata con successo, infatti, comunemente si confonde il modello sociale di mutuo soccorso generico, “il Vicinato” con quelli dei cinque sensi e di ricerca dell’antico ceppo familiare arbër, detto “la Gjitonia”; oltremodo ritenendoli identiche, equipollenti o addirittura simili, quanto questo dato non ha alcuna fondatezza, storica, sociale e di credenza.
I Vicinato e la Gjitonia, sono due modelli sociali ben distanti e pur se coabitando ambiti mediterranei sono diametralmente opposti:
Il Vicinato, genericamente interessa la fascia mediterranea che da Est a Ovest comprende l’Abruzzo sino alla punta più a sud della Sicilia; coinvolgendo tutte le popolazioni della Grecia più ad Est, sino alla punta più estrema della penisola Iberica; unendo in questo ambito individui di radice multi locale, in cooperazione sociale genericamente sotto il controllo del “commarato del semplice mutuo soccorso”.
La Gjitonia è composta da gruppi familiari allargati, che s’insediano nelle stesse aree, secondo precise e storiche disposizioni; macchina sociale precostituita, in cui ogni elemento o gruppi di elementi assumono uno specifico ruolo, secondo capacita e forza di corpo e d’animo, i cui diritti e doveri sono finalizzati per la sostenibilità dei gjitoni, in armonia e nel pieno rispetto del territorio.
La Gjitonia non ha confini fisici in quanto trova ragione in essere in quegli spazi ideali che come cerchi concentrici partono dal fuoco domestico della regina della casa e si espandono in ogni dove si riesce a generare l’armonico sentimento dei cinque sensi condivisi.
Diversamente dai valori spaziale dell’identità Arbër che si contrappongono ai nuclei urbani degli indigeni, questi pur se apparentemente simili, mostrano una sostanziale differenza, distinguendo quanti s’insediarono in fuga dalle terre d’oltremare e chi già in quelle terre dimorava.
Per questo i Katundë arbër, denotano le vicende di un periodo medio breve di confronto e scontro, con gli indigeni locali; solo dopo aver tracciato con senso, i valori, le cose materiali e immateriali oltre il genius loci, iniziarono a edificare le prime case in muratura con senso della terra di origine e di quanto delineato dai trascorsi storici del luogo.
All’inizio forme elementari e modeste, ben disegnate e definite in cui gli elementi fondanti erano: il recinto, la casa e l’orto botanico, un micro ambito circoscritto idoneo a soddisfare le esigenze dal gruppo familiare allargato e dei suoi animali domestici, da lavoro e trasporto.
Sono gli stessi ambiti abitati dagli arbër, pur se in apparenza possono apparire simili alle trame urbane degli indigeni, specie quelli costruiti dalla fine del XV secolo alla meta del XVI, per lo sviluppo delle aree agricole del meridione.
Tuttavia nella sostanza, i Katundë in elevati e tacciati Arbër, hanno finalità ben diverse, in quanto, dovevano rispondere a esigenze consuetudinarie “parallele importate dalla terra di origine”, a est del fiume Adriatico sin dove sfocia nello Jonio.
Di estrazione Arbanon, gli Arbër sono la dinastia che proviene degli Stradioti (i soldati contadini), ancora presenti nel meridione italiano, sostenute, secondo la sola forma orale, ritmata dalla consuetudine, la metrica del canto e la religione Greco Bizantina.
Per quanto attiene agli aspetti abitativi, la minoranza Arbër si può ritenere pioniera italiana del principio di “città diffuse” o “impianti urbani Aperti”.
Questi insediandosi in questa lingua di terra multietnica, nel corso del XV, per la diaspora in corso, ripopolarono quelli che erano i resti di antichi insediamenti ormai segnati da pochi elementi in elevato oltre la chiesa, a media distanza dei più solidi Borghi amministrativi e del potere politico locale.
Si disposero in sette regioni del meridione secondo “Arche strategiche” con finalità ben programmata, realizzando così, quella che oggi è identificata come “La regione storica diffusa Arbër”, sedici macro aree, di cui fanno parte oltre cento agglomerati urbani tra paesi (Katundë in arbër) e frazioni (kushëth in arbër) tutte territorialmente distanti dalle aree paludose (Fushëth in arbër).
La caratteristica che contraddistingue gli agglomerati apparentemente disordinati, è racchiusa nella toponomastica e nell’aggregazione del modulo abitativo di base, che si articola lungo lingue di terra ben identificate secondo sistemi, prima articolati e poi in seguito lineari.
Quattro sono gli elementi toponomastici storici dei centri antichi Arbër: gli ambiti del credo, ovvero, la chiesa Greco Bizantina (Kishia); Il promontorio o luogo di osservazione (Bregu); l’ambito circoscritto di primo insediamento Piazzetta (Sheshi); gli spazi delle attività ed espansione (Katundë).
Sono sempre quattro i toponomi ricorrenti in tutti agli odierni “centri antichi”, l’identico sistema urbanistico aperto, adottato sin anche nelle terre di origine balcaniche.
A tal proposito, l’insieme d’identificazione detta anche dei cinque sensi, ovvero gjitonia, rappresentava anche la linea oltre la quale ci si poteva contrarre matrimoni, estendendo il perimetro diffuso, si sino a tutto il contesto territoriale dove vivevano gli arbër.
I due confini, confini, minimo e massimo sono stati in vigore sino agli inizi del secolo XVIII, quando la conseguente mutazione della “famiglia allargata”, in “urbana diffusa” e poi, in tempi più recenti parte integrata del sistema, “metropolitano/multimediale” hanno azzerato il primo confine e liberalizzato il secondo.
Questo conferma quanto citato prima, ovvero, i rapporti, meglio l’indagine dei rapporti di sangue ovvero parentela dimenticata, di quanti entrassero a far parte degli ambiti di gjitonia, che nei contratti di matrimonio escludevano le forme di unione endogene avendo come finalità solo quella esogena di appartenenza.
P:S: – «È curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore»
– Giacomo Leopardi-
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Posted on 18 settembre 2022 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Le cose e gli elementi caratteristici che uniscono luogo e i suoi abitanti, non vanno raffigurati sugli edificati storici e non, scambiati come mera pubblicità corrente o diffusa, addirittura, attraverso i media senza alcun fine di tutela di luogo o consuetudini di radice.
Le cose e il ricordo dell’identità culturale, se sono veramente parte di quanti vivono e promuovono, un ben identificato territorio, devono avere un posto in prima fila, nei cinque sensi di quanti sentono il dovere di rispettarli; promuove e divulgare le cose del passato senza l’ausilio di apparati e manifestazioni correlate, si termina nell’atto di infangare i preziosi costumi del luogo senza nulla ottenere.
I personaggi della nostra storia, ci appaiono nelle prospettive, della cultura vera, come indicatori in luce solo dove la storia ha avuto luogo e non come di solito avviene, in ambiti che non possono contenerla, facendola riverberare o riflettere come fastidioso abbaglio rivolto al viandante, che li accoglie come fastidiosa distrazione e nulla più.
Un grande condottiero raffigurato sul suo storico destriero con gli emblemi di Zeus e non quelli dell’ordine cui era legato e garantirono la prosecuzione della sua specie è un errore storico a cui non vi è misura di vergogna.
Certo che facendo apparire lo storico destriero, a modo di mulo, in procinto di trasportare sul basto, espedienti di luce naturale in forma di finestre e lucernari, tatuato con toponomastica di Santi moderni e avere briglie di cavi elettrici, non è certo un bel vedere, per promuovere storia e territorio di un’ipotetica fratellanza con il terminale di sostantivo in “ria”, noto nel linguaggio non scritto, come espressione dispregiativa di refluo, di cose e persone, non contribuisce positivamente a tramandare la storia non scritta.
Non si possono più tollerare figure curricolari, che dicono di sapere cose e finiscono per parlare di altro, ne titolati che dopo il traguardo di non sacrifici, si inventano a casa i titoli immaturi, ingannando sin anche i propri parenti, di essere quello che non si è, e no lo sarà mai, per la ristrettezza o la totale mancanza dei cinque sensi.
Ormai dilagano suonatori seriali in tamburiate che non sanno dell’esistenza di Vincenzo Torelli, storico critico musicare di origine Arbër e della differenza che passa tra canto musica e ballo, ignorando addirittura gli appellativi storici scambiati per insalata di cose senza condimenti.
E come non si può essere d’accorso con Pasquale Baffi quando nel 1787 scriveva e dopo in uno dei “Prestiti del 1807” ripetevano:
“L’esame dei costumi fa conoscere l’uomo; la somiglianza dei barbari, la differenza dei popoli colti, i lenti progressi del sapere umano,l’influenza della indole sulla morale e sulla politica, la facilitazione o l’ostacolo dei costumi alla cultura e al benessere di un paese, questi sono gli oggetti più grandi che possa avere in mira il sensato filosofo.
Un Paese una Nazione quanto famosa altrettanto poco conosciuta, che per secoli e secoli non ha alterato, né la sua indole, né i suoi costumi e sempre in mezzo ai popoli colti ha ritenute e tuttavia ritiene le usanze barbariche, merita certamente l’attenzione dell’uomo di lettere”.
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Posted on 31 agosto 2022 by admin
NAPOLI – (di Atanasio Pizzi Basile) – Santa Sofia d’Epiro è un centro abitato della provincia di Cosenza, quest’ultima un tempo identificata come Calabria citeriore.
Il Katundë di origini Arbër, nasce tra le colline della Sila Greca, che guardano lo Jonio, coronato dalla storica piana della Sibaritide.
La fondazione del piccolo agglomerato urbano è largamente anteriore alla venuta degli Albanesi o a quella ancor prima, della schiera di soldati greci di fede bizantina insediatisi nell’869.
A tal proposito va rilevato la vara origine del sito, risalente alla fine del VI secolo a.C., in rapida successione alla nascita di Sibari e del relativo sistema difensivo/produttivo, infatti la piana prospiciente il mare, dove Sibari venne edificata, era coronata verso l’entroterra, da una strategica cerchia di castelli a guardia dei valichi fluviali, che sfociavano prima alle spalle del sito della Magna Grecia e poi a mare.
Tuttavia e nonostante ciò si far risalire il centro abitato, quale opera di un gruppi di soldati disposti a difesa della linea del fiume Crati, insediatisi lungo le colline dalla linea Rossano, Bisignano e Cosenza, per contrapposti ai Longobardi.
I soldati bizantini, trovavano sicurezza allocando i loro stati maggiore più verso monte, per non essere facilmente esposti agli avversari sul fronte più a valle e subire gli effetti dalle Anofele, che nella media e lunga permanenza diventavano letali.
Il Centro abitato in origine composto dalla chiesa e rudimentali abitazioni, nominato Santa Sofia, a memoria della chiesa madre di Costantinopoli da cui partivano gli impulsi di credenza.
Dopo un iniziale sviluppo e accrescimento demografico, la piccola comunità subì le pestilenze e i travagli dell’epoca, di cui le cronache della Calabria citeriore del XIV sc. riferiscono numerosi dettagli ancora leggibili in loco.
I territori rimasero sottoposti a un rilevante calo demografico e conseguentemente economico, innescarono processi negativi per le casse dei nobili locali, che dovevano rispondere al governo centrale.
L’alternativa per porre rimedio a questo stato di povertà territoriale diffusa, la fornirono le migrazioni dai Balcani e le vicende della nascente diaspora arbanon, che dal 1468, questa popolazione per seguire la vedova di Giorgio Castriota, a frotte, sbarcarono nelle coste del regno di Napoli e di più nella Sibaritide.
Il Mons. Giovanni Frangipani, vescovo di Bisignano, favorì per questo l’insediamento di profughi provenienti dall’Epiro, noti per essere fedeli lavoranti e luminari nell’arte di predisporre il noto e famoso trittico, alimentare mediterraneo.
La storia del Katundë Sofiota, è costernata da atti, attività, cose e figure la cui meta principale mirava alla tutela e la valorizzazione della lingua, le consuetudini, i costumi e il rito Greco/Bizantino, per i quali e con i quali, Santa Sofia d’Epiro si è meritato l’appellativo di “Scuola”.
I primi adempimenti dei suoi residenti, in poco tempo integratisi con le genti indigene, hanno definito gli spazi dei quattro rioni tipici, il riconoscimento dei gruppi familiari allargati e la definizione del loco dei cinque sensi: la Gjitonia, elevando così il costruito dell’originario “centro antico” come quello della terra di origine.
Per giungere a ciò, non sono mancate le avvertita sia naturali e sia innescate dall’uomo, tuttavia, la caparbia e la tenacia che distingue questo popolo, ha fatto si che dal XVII al XVIII secolo, poterono intraprendere la via della cultura e della formazione, grazie al prelato Giuseppe Bugliaro, che per le sue attività religiose all’interno della Real Macedone nella Napoli Onciaria, accolse le menti più eccelse, suoi conterranei, per avviare il percorso culturale, che la storia definisce senza eguali.
Sono sempre figure Sofiote a innalzare il valore culturale dello storico collegio Corsini, deponendolo contro numerosi avversari, nella sede più strategica a san Demetrio corone nel Collegio di Sant’Adriano.
È sempre Giuseppe Bugliari, ma questa volta un Vescovo di altra epoca, dopo oltre un secolo, ovvero alla fine del XIX, ad evitare, grazia alla sua sapienza, che tutte le attività e le conquiste ottenute dagli arbër andassero smarrite, senza poter avere una via di proseguimento.
Il centro storico del paese arbër, oggi segna lo scorrere del tempo lungo e del tempo corto, tramandando numerose tradizioni, civili e religiose; come ad esempio la grande festa dedicata a Sant’Atanasio il Grande, patrono del Katundë Arbër, i cui festeggiamenti, iniziano il 23 aprile e raggiungono il culmine, il due di Maggio, terminano la seconda domenica di maggio, con uno degli eventi più emblematici della coesione tra civiltà dell’era moderna, ovvero: la primavera Italo Albanese.
Momento di unione degli Arbër con gli indigeni locali, tutto legato a messaggi di buon auspicio e fraterna condivisione, cui Sofioti vicini e lontani credono, ricordano e partecipano con devote convinzione di cuore e mente.
Tutti uniti in processione, l’accorata filiera identitaria, la stessa dagli anni sessanta del secolo scorso, ad oggi non trova confini, segnando avvenimenti con i coloratissimo palloni aerostatici, gli stessi che ogni sofista, nel periodo di festa, sia esso vicino o lontano aiutato dalla memoria storica rivive gli epici momenti di unione cristiana e sociale, cantando coralmente: Dita Jote.
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Posted on 19 agosto 2022 by admin
(Tratto da: Immigrazioni Albanesi in Calabria nel XV secolo, Innocenzo Mazziotti) – All’improvviso crepitare di fucili il terrore aveva invaso l’animo degli abitanti, specie dei benestanti e dei filo-francesi; si fuggiva verso la campagna, verso i boschi, nei più impensati nascondigli. Nella gran confusione il Vescovo, che in quel momento si trovava nella casa dei parenti Masci e si avviava a ritornare nella sua dimora, fu fatto entrare da una popolana, Elisabetta Miracco, nella propria vicina casetta e nascosto in un magazzino interrato.
Mentre re Coremme con i suoi compiva le sue vendette mettendo a sacco e fuoco le case dei giacobini, prima di tutte quella del Ferriolo, Gianmarcello Lopes con i suoi sette sgherri era solo occupato a cercare il Vescovo; e su indicazione di una sua ex conterranea e donna di corrotti costumi, chiamata Bertina, riuscì a scoprire il nascondiglio del Vescovo e penetrare nel magazzino: «senza dar tempo a scrupoli religiosi, gridando “morte ai giacobini!”, GianMarcello, solo, egli solo, furibondo lo trafìgge con replicati colpi di pugnale e lo lascia esamine».
Dopo il delitto re Coremme con la sua banda, compresi Gian Marcello Lopes e i suoi sgherri, trascinandosi dietro il vecchio fratello del vescovo, Domenico Antonio Bugliari, raggiunsero Acri, dove il povero vegliardo fu ucciso e bruciato, come risulta dai registri parrocchiali della chiesa di Santa Maria di Acri (R. Capalbo, o. c. doc. XII).
Approfittando della vicinanza della massa dei briganti, i realisti di San Demetrio, evidentemente sobillati dai Lopes, saccheggiarono per la seconda volta il Collegio greco di Sant’Adriano, per loro “covo di giacobini
La tragica fine del vescovo F. Bugliari ebbe risonanza per tutto il regno di Napoli; fu menzionata, scrive il suo biografo, dal “Corriere di Napoli” (30 agosto 1806), dal “Monitore di Napoli” (2 settembre 1806) e lo storico cosentino Luigi Maria Greco nel primo volume dei suoi “Annali di Calabria Citeriore” riporta l’avvenimento e esplicitamente ne indicava i responsabili: «…Non la massa forestiera ma Albanesi di S. Demetrio mandatari di taluni dei Lopes, realisti dello stesso paese, Stefano G. Battista Chinigò con quattro altri concittadini, scoprendolo, uccidono crudamente il santo pastore […]. Grave perdita perché d’uomo religioso senza impostura e di alta mente; di uomo cui i profughi d’Epiro della Calabria dovevano lunghi anni di amore provvido e caldo.. .» (Greco, In annali I, pag. 27).
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Posted on 12 maggio 2022 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel leggere il volume su citato, colmo di spunti e fornire ragione a quanto prodotto inutilmente, per delineare un itinerario storico logico delle regioni minoritarie.
Le mille difficoltà che s’incontrano quotidianamente, ritenute un’avversità verso persone specifiche, non cambia il peso della delusione, tuttavia, nel leggere questo breve episodio fa comprendere che lo stato delle cose, conserva tutta l’identica radice locale, immaginabile da quanti sentono e vivono le cose a distanza riguardevole, ragion per la quale, qui di seguito viene riportato il” testo integrale” di questa antica esperienza riportata nell’edizione del 1973:
Immigrazione calabrese
La metà del cinquecento vede una Calabria polo di attrazione della cultura rinascimentale. L’essere la Calabria nel Vicereame equiparata ad una provincia di Spagna con tutti i diritti e conseguentemente con tutti i doveri determina un flusso immigratorio delle più qualificate correnti culturali del tempo.
Da Firenze arriva a Cosenza Tideo Acciarino. È un letterato di chiara fama e porta in questo estremo lembo della penisola l’eleganza letteraria toscana che si incontra con la concezione virile della vita di una gente che innesta a questo filone la raffinatezza di una Magna Grecia perennemente viva nelle azioni della pratica quotidiana. Si affina così uno spirito rinascimentale che ricerca il bello e che considera la bellezza il canone di una vita protesa verso le più raffinate posizioni spirituali Tideo Acciarino, amico del Poliziano, fonda a Cosenza una scuola che polarizza subito l’attenzione dei ceti culturalmente più sensibili. La scuola di Acciarino conta discepoli illustri quali, tanto per fare un esempio, il Parrasio che nel 1511 fonda, quale diramazione della Pontaniana di Napoli, la Accademia Cosentina, il sodalizio che vedrà le glorie di Bernardino Telesio, il primo degli uomini nuovi.
Il caso di Bisignano
Acciarino viene in Calabria su invito del Principe di Bisignano. Ma Bisignano non è la Calabria. Bisignano — la Bisignano del tempo con il Principe — è la mortificazione ed è la vergogna della Calabria.
La ragione? In una Calabria equiparata alla provincia spagnola con tanto di diritto e tanto di dovere, in una Calabria dove la dignità spirituale è sinonimo di sana concezione della vita, in una Calabria rimasta indipendente persino allo strapotere della Spagna in virtù della saggia opera di una classe nobiliare in linea con le esigenze e con i bisogni del popolo, in questa Calabria caratterizzata ancora dalla intelligente fattività di una classe dirigente tutta protesa alla soluzione dei problemi più urgenti, il Principato di Bisignano non fa riscontro.
È un governo autoritario e meschino cui la mancanza di una classe di nobili imprime un carattere feudatario e comunque negatore delle individuali e generali libertà.
Ci si indugia a parlare di Bisignano non per l’importanza che riveste nella storia calabrese — importanza che del resto non ha — ma per la eccezionalità, ovviamente negativa, di un governo che fonda la sua effìmera potenza su un popolo inetto e vagabondo soddisfatto da una manciata di pasta e fagioli.
La mancanza di nobiltà — qui si parla della classe sociale — offre al Principe di Bisignano la possibilità di uno strapotere che arriva alle cime più assurde. È una mortificazione ed è di più la vergogna della Calabria.
Tideo Acciarino nella bella villa fiorentina confortato dalla amicizia del Poliziano pensa che Bisignano è la Calabria. Orribile illusione! Si mette in viaggio ed arriva in quella bruttura di aggregato inurbano in una notte di tempesta. È questo Bisignano? Chiede alla sua delusione l’Acciarino.
Rispondono positivamente le galere zeppe di galeotti, le cantine fumose piene di signorotti che trascorrono il tempo ad insidiare le serve, i contadini macilenti, le botteghe scure e vuote.
Risponde positivamente lo strapotere di un Principe che esercita con mano di ferro la dittatura e la tirannia su una gente che non ha esigenza e bisogno di indipendenza. È uno squallore; uno spettacolo penoso,
Tideo Acciarino non si lascia scoraggiare.
Monta su un cavallo e varcata la valle del Crati raggiunge il giorno seguente Cosenza.
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Posted on 12 maggio 2022 by admin
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Posted on 01 maggio 2022 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il tema che ha in argomento le minoranze storiche italiane non si può aprire e terminare esclusivamente in forma linguistica, racchiudendo un insieme raffinato e articolato, al mero rivolgersi in lingua altra.
Oggi nonostante numerose attività di studio, siano volte verso questa disciplina di studio, della storia Italiana, si preferisce illustrarle, senza dubbio alcuno, come esercizio monotematico.
Lo scrivente come ricercatore e discendente della minoranza approdata nel meridione italiano nel XV secolo, “gli arbanon” a cui per spirito di appartenenza, dopo decenni di studio, supportato da titoli e titolati, in specifici ambiti di studio, suddivide le minoranze storiche, quelle resilienti, in Arbanon; della Magna Grecia e l‘Occitana, le quali storicamente ligie a non sovrapporsi territorialmente nel corso dei secoli.
Non si fa errore alcuno nel concentrare lo studio alla sola Calabria e rendere l’analisi riferibile a tutte le province storiche del meridione, dove si possono intercettare con facilità gli identici modelli urbani architettonici e territoriali della terra di provenienza.
A tal proposito per affrontare un discorso univoco e senza alcuna discriminazione, è opportuno precisare che le minoranze storiche calabresi, sono rispettivamente: i Grecofoni, gli Arbër e gli Occitani, esse rappresentano il contributo del progredire comune con gli indigeni; per la Calabria in particolare si suddivisero senza mai sovrapporsi secondo le seguenti aree geografiche: ultra ulteriore o “Gran ducato di Calabria” per i Grecofoni e citeriore, ulteriore per Arbër e Occitani.
Come citava Pasquale Baffi nel suo discorso del 1775: Gli Albanesi, che ora esistono nel Regno, e vennero in diverse riprese nella fine del XV secolo, non bisogna confonderli coi Greci, eli da tempo antichissimo trovansi situati nelle nostre provincie della Calabria Ulteriore, e ne abbondano; siccome non mi ho proposto «di parlare che delle Colonie Albanesi, così fo ammetto di entrare in discorso de’Greci che per la loro remota antichità possono benissimo chiamarsi indigeni di questo suolo meridionale.
Questo breve accenno storico a ben vedere, è la base si partenza delle analisi territoriali d’insediamento; esso segna un confine invalicabile, rispetto dei luoghi dove fornirono contributo di sostenibilità economica in forma produttiva e lavorativa.
In conformità a questa premessa, va rilevato che: la Grecofona approda e resiste in quella parte della Calabria storicamente noto come il gran ducato o il thema di Reggio Calabria; la minoranza Arbanon, si insedia nelle terre cella Calabria Citeriore e ulteriore, prevalentemente segnate dalle emergenze del credo bizantino, che guarda verso lo Jonio; gli Occitani si insediano entro la linea che fu dominio di longobardi e Normanni, verso il Tirreno.
Tutte queste per le vicende storiche in atto, nel breve periodo si diressero tutti sulla media collina, oltre i 350 m. sul livello del mare, perché erano le aree, dove le anofele perdevano la mortale efficacia.
Lo studio tuttavia, oltre ad aver appurato i sistemi paralleli abitativi della terra di origine si è preoccupato di avere come indicatore non solo quanto sancito dalla legge 482/99, ma si è seguito l’indicatore definito dall’articolo nove della Costituzione Italiana, ovvero, i beni materiali, quelli immateriali, l’ambiente naturale e il costruito dei minori.
In definitiva, l’intero sistema di vita della minoranza, dalle metriche della consuetudine, importate dalla terra di origine, queste ultime, dopo il breve periodo di scontro e di confronto con gli indigeni, germogliarono in terra parallela, grazie alle attività di genius loci, secondo il modello delle città della Grecia e le tipologia Arbanon secondo i dettami della famiglia allargata Kanuniana.
Per questo il tema prodotto non ha avuto come indicatore solo, l’idioma, caratteristica non testimoniata dalla forma scritta.
La lettura è stata eseguita sulle architetture il veicolo principale della memoria; le consuetudini agricole, silvicole e pastorali per il sostentamento, secondo il vigile rispetto dal credo religioso bizantino, rigidamente dettato dal calendario che segnare la stagione del tempo lungo, “l’estate” e del tempo corto, “l’inverno”.
Partendo da questi presupposti di base sono stati indagati gli elevati abitativi, confrontandoli con le documentazione degli atti di sottomissione depositati negli archivi.
La lettura dei documenti posti a confronto con la rispondenza in loco, di elevati e memorie storiche locali, ha definito quale sia stato il periodo dell’architettura estrattiva o del nomadismo rispetto la più sicura additiva dello stazionamento definitivo.
Con questi hanno consentito di risalire alle epoche in cui furono definiti i rudimentali ”moduli abitativi primari mono cellula” l’epoca in cui furono articolati in forma lineare e in elevato.
In Calabria numera circa cinquanta centri antichi realizzati o riadattati dalle genti di minoranza Grecanica, Arbër e Occitana, tutti riconducibili a precisi rioni, la cui toponomastica originaria utilizza il valore linguistico di appartenenza in senso di agglomerato urbano: Hòrë, Katundë e Castrum.
Momenti della storia condivisa con gli indigeni di quello che è stato l’antico regno di Napoli o delle due Sicilie, dal XV secolo, oggi nazione Italiana.
Questi primi dati hanno delineato il percorso di Indagine verso cui proseguire e segnare la storia in comune convivenza con le genti indigene.
A queste ultime senza nulla togliere è stato aggiunto una schiera di figure in eccellenza verso attività sociali, economiche, politiche, delle scienze e della cultura in senso generale.
Una vera e propria storia irripetibile d’integrazione, che definire a buon termine potrebbe apparire riduttivo in quanto, è un modello che si ripropone ciclicamente da sei secoli in ogni centro antico minoritario e solo a pochi non sfugge.
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