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URBANISTICA E ARCHITETTURA DEI PAESI ARBËRESHË

Posted on 07 gennaio 2020 by admin

SCACCIAMO LA VOLPE ARBËRESHË3

 

 NAPOLI (Atanasio Pizzi ARCHITETTO) – Il XV secolo è uno dei momenti della storia, di quella che si identificava un tempo Epiro Nuova ed Epiro vecchia, tra i più articolati e difficili di questo territorio, sia dal punto di vista della difesa territoriale e sia di quella identitaria, questo è il motivo, per il quale, si sarebbe dovuto indagare analizzando fuori dai temi unitari, al fine di fornire una visione completa adeguata e priva di atti inesistenti.

Un intervallo che per la sua durata, contiene la sofferta scissione storica tra territorio e identità di quanti la vissero sino ad allora, tuttavia per non perdere senso e restringere il campo di azione analitica, approfondiremo l’intervallo, dal 1389 sino al 1562, non prima di aver  delineato un progetto ad ampio contributo disciplinare, specie se ad essere indagatati sono le gesta di un popolo privo di qualsivoglia  patrimonio scritto grafico, in quanto, tramanda storicamente la propria identità nella sola forma orale e dai consuetudinari atteggiamenti.

Se a questo si aggiungono gli esigui sforzi per costruire barriere difensive di mutuo soccorso, da quanti la abitarono per impedire l’imperante marcia ottomana per la conquista territoriale e sin anche per la sottomissione identitaria, è opportuno comprendere come abbia potuto lo stratega, ovvero, il lungimirante stratega Giorgio Castriota “comunemente denominato Scanderbeg” trovare soluzione con le arche arbëreshë tracciate nell’Italia meridionale.

Appare evidente che avere consapevolezza delle metriche materiali e immateriali ottomane a cui si opponevano insufficienti forze dei principi Arbanon, capaci di iniziative  di breve durata; una misura alternativa, per la difesa non del territorio, ma almeno dell’identità Arbanon doveva essere immaginata e posta in essere.

Fu proprio la stagione delle migrazioni verso le “arche territoriali parallele” tracciate e predisposte sotto la veste di controllo territoriale e in favore dei regnati partenopei, durante le sue visite nel meridione, dal 1461 e sino alla dipartita del principe Giorgio Castriota.

Arche tracciate in difesa e  controllo, ancora oggi identificabili sul territorio meridionale, con la semplice sovrapposizione della gestione politica, clericale ed economica di quell’intervallo storico, ciò tuttavia non sono idoneamente interpretate dagli unitari, anzi, ritenute a torto, casuali, ininfluenti  o improvvisazioni prive di scopo.

Se oggi analizziamo le sette regioni tra insulare e peninsulari del fu regno di Napoli, attraverso le caratteristiche ambientali idonee alla vita del modello Arbëreshë, si comprende per quali motivi venne immaginata, proposta e lasciata attuare.

Una vera e propria regione storica diffusa, capace di restituire valori identitari paralleli alla terra dio origine sia dal punto di vista materiale e sia immateriale

Circa cento Katundë che trà paesi, frazioni e casali abbandonati rappresentano una tessitura raffinata di urbanistica e architettura, la cui linfa traeva la sua forza dal rione romano dal punto di vista territoriale, inteso dal punto sociale al pari delle haretë dai greci

La differente mentalità nel modo di insediarsi rispetto agli indigeni locali, che usavano all’interno delle murazioni dei borghi, gli arbëreshë preferivano casali e comunque agglomerati senza mura, legati idealmente a presidi religiosi.

Ponendo a confronto i valori spaziali dei nuclei urbani mono centrici degli indigeni e quelli policentrici Arbëreshë si comprende quale sostanziale differenza distingueva quanti s’insediarono in fuga dalle terre oltremare.

Una volta che gli arbëreshë si disposero lungo le arche predisposte da Giorgio Castriota presero a modello gli ordinamenti delle classi sociali Kanuniane, prive di forme aristocratiche piramidali economiche.

Sulla corrispondenza delle norme sociali e distributive adottate, tutti gli agglomerati sin dai primi tempi di insediamento le identiche caratteristiche, sia si tratti della Sicilia, della Calabria e sino all’estremo Molise, questa ultima, il confine del meridione, assieme al Lazio papale.

Il discorso, nasce in base a rilevazioni locali, esse vedono protagonisti i centri antichi dei “paesi”, che da ora in avanti chiameremo con il nome in arbëreshe: Katundë.

Essi sono altimetricamente distanti dalle pianeggianti rive marine mare e i ristagnanti dei corsi fluviali, perché considerati in sostanza, salata e amara vicinanza.

Essendo gli arbëreshë i figli di quei soldati contadino, per questo esperti conoscitori del territorio, s’insediarono secondo le predisposizioni di Giorgio Castriota, incentrando e calibrando nel breve tempo quali fossero le zone sicure sotto il punto di vista geologico per edificare i propri moduli abitativi, in oltre la toponomastica storica ci consente di definire quali fossero i margini, lasciati liberi per il migliore insediamento scartando le zone più incerte e edificare senza imbattersi in eventi di smottamenti naturali nel corso dei secoli.

Nel primo usarono insediarsi con l’ausilio dell’architettura estrattiva, poi in seguito, come vedremo più avanti, adoperandosi a realizzare architettura additiva.

Le arche predisposte dal Castriota s’intercettano secondo linee strategiche denominate: del Limitone tarantino, della Daunia pugliese, della Sanseverinense citeriore, quella di due mari o il confine della Calabria citeriore con l’ulteriore, del Bove siciliano, della Ginestra palermitana e in fine l’eccezione abruzzese di Villa Badessa, che conferma la validità di quel progetto antico.

Tutte queste sono linee strategiche d’insediamento, che trovano riscontri negli eventi della storia dal XV secolo e restituiscono ragione e forza a un progetto di ricerca condotto dallo scrivente.

Le “Arche” disegnate dal Castriota offrono agli arbëreshë un’alternativa territoriale ideale dove approdare,  e difendere la propria identità sociale, culturale e religiosa, terre parallele predisposte per riverberare nei secoli il modello Arbanon, oltremodo avendo cura di innescare i presupposti di strategie politiche di difesa dei territori a favore di quanti consentirono i processi di accoglienza e inculturazione.

Se oggi ancora una lingua poco comprensibile ai non parlanti, riecheggia in questi anfratti meridionali, come dai giorno del loro arrivo si deve appunto da quanto immaginato e predisposto dal condottiero di Kroja concertando  quanti accoglievano e da quanti venivano accolti su territori ritrovati.

Gli agglomerati urbani degli arbëreshë (Katundë) nascono secondo interessi economici per la difesa e la valorizzazione dei territori più esposti alle dinamiche del mediterraneo, limitando l’aspirazione dei nuovi arrivati verso i minimi requisiti di sostentamento, giacché la parte più consistente, di quanto derivante dalle attività, seguiva la filiera economica delle aristocrazie locali.

Queste ultime defi­nivano persino la caratteristica di articolazione degli agglomerati urbani, alla luce di una vecchia direttiva ispanica, la quale mirava a realizzare modelli urbani di tipo aperto e in linea con lo sviluppo flessibile del “Rione” auspicando future espansioni in numero di addetti, cosi come avvenne per diverso tempo con le note sovrapposizioni derivanti da nuove migrazioni.

Le arche segnate dal condottiero Giorgio Castriota, stabiliscono anche il nu­mero complessivo dei residenti, determinando, in questo modo, anche il valore di quelle terre per questo rese produttive, all punto di rendere meriti a quelle terre, denominate anche “ il granaio del regno”.

A questa prima fase segui una seconda, detta dell’architettura additiva, in cui si assegnarono le terre con l’opportunità della discendenza e per questo, la volontà di realizzare abita­zioni di maggiore qualità, con materiali non deperibili, da ora in avanti si elevano le prime Kalive in pietra calce ed arena, modeste abitazioni mono cellulari che daranno fine all’epoca del nomadismo o della’architettura estrattiva.

Va in oltre sottolineato che secondo una direttiva greca di insediamento si devono delimitare adeguatamente in rapporto alle condizioni geografiche e a quelle politiche della zona circostante; il territorio ha un’estensione sufficiente quando è in grado di alimentare un certo numero di cittadini entro i limiti di un medio tenore di vita, il numero dei cittadini d’altra parte deve essere tale in rapporto alle capacità produttive.

Da ciò potremo determinare il numero di addetti, soltanto dopo aver presa conoscenza del­la regione e dei suoi abitanti e di cosa da essa si vuole ricavare.

Trattandosi di una nuova colonia, insediatasi in aree geografiche disabitate in precedenza, bisogna prima di tutto sistemarne la parte, per cosi dire, architettonica, in generale, dire ciò è come saranno fabbricati e disposti i presidi religiosi, disporre le abitazioni private sulle alture per ragioni igieniche e di sicurezza espositiva e geologica.

Vicino alle chiese gli ecclesiasti e relativa famiglia allargata; s’inizia a costruire le case  private, al fine di consentire al sistema ambiente naturale e ambiente costruito di assumere la dimensione di  fortezza strategica, gli accessi delle case, secondo la consuetudine greca, sono disposte sulle strade secondarie utilizzando l’identico modello abitativo e in grado di garantire i parametri di sostenibilità intesa come micro clima al gruppo allargato; non è piacevole a vedersi un Katundë che appare di casa simili, e disposte apparentemente senza regola, tuttavia esso è un sistema eccellente per il controllo del territorio e dello stato locale all’interno del perimetro Sheshi, su base di facilità con cui si presta la disposizione dei Rioni e i relativi spazi liberi e costruiti.

Kisha, Bregù, Sheshi e Katundi sono rispettivamente: il rione, religioso,  controllo, e sociale, costruito e non, inteso e generare  le attività produttive e di crescita comune.

La descrizione del Katundë, accoglie le convenzioni caratteristiche e tipiche delle città agricole tipiche delle primordiali greche, in cui la disposizione articolata, delle case sono anche fortezze di inculturazione o cuore pulsante di un integrazione che non è finalizzata al mero atto della discriminazione, ma verso una  cultura economica che da spazio a alle diversità per crescere senza protagonismi.

Fine della I° Parte

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