Categorized | Folklore, In Evidenza

LA MISURA DELLA LUCE ALL’INTERNO DELLA CHIESA QUANDO DIVENTA GRECO BIZANTINA

Posted on 28 ottobre 2020 by admin

il cercatore arberesheNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando l’opera compiuta dai caparbi dispensatori di fede, susseguitisi sino alla fine del secolo scorso, fu posta nelle disponibilità dei “Comunemente”, ogni cosa diviene teatro e terminò il senso del culto.

Un manufatto che sin dalla posa della sua prima pietra, alla fine del seicento, è stato illuminato secondo principi atti a indicare persino strutturalmente la via verso la fonte del Fiume Nilo, perché luogo della nascita di credenza storica.

Se da qualche decennio questa direttiva ha smarrito il senso, come fatto dal “Karloberg” e il suo seguito, di saltimbanchi miscredenti, urge, adoperarsi per eliminare gli impropri abbagli di devianza.

Rientrare sulla retta via oggi, e rendere viva la funzione del manufatto in senso di chiesa deve  promuovere attività manutentive, non prima di apporre l’ultima pietra: le schermature in alabastro e ricollocare, l’originario supporto luminoso tipo, in essenza di ulivo.

A tal fine, per rendere ogni aspetto, limpido e cristallino, è  il caso di spiegare, quale sia stata la volontà di una tradizione Ortodossa, che analizzata secondo metodiche di confronto, non sono proprio in linea con i fondamenti seguiti dalle popolazioni della Regione Storica, i di cui sacri perimetri religiosi, li preferisce illuminati senza eccessi e volumetrie circolari predominanti.

L’inopportuna innovazione, incuneatasi circa un decennio or sono ha fatto si che i corpi illuminanti e i relativi supporti in essenza di ulivo locale, ha ritenuto idoneo dimetterli .

Anche se vero, secondo il dire di incauti apprezzatori locali, che “peccassero” di solidità strutturale, sarebbe bastato “confessarli” sotto la guida di pazienti restauratori, per restituire il candore originario senza intaccare, estetica, luce e le prospettive che illuminavano con rispetto.

Gli apparati di luce bizantina erano opera dell’artigiano Gi. Di Benedetto, maestro di manualità antica,eccellenza in tutta la macro area, detta della Presila Arbëreshë.

La manualità del maestro fu anche modello di ispirazione per l’Archimandrita e il sapiente esecutore pittorico, della scuola cretese, che in paese seguiva i lavori per il trattamento delle superfici da affrescare e quanto della verticalità muraria da ricoprire con marmi perché troppo esposte a florescenze di risalita, perché a contatto del perimetro fondale.

La premessa fa da supporto a un dato storico inconfutabile, secondo cui l’illuminazione per una chiesa, specie se affrescata in tutto lo sviluppo delle superfici interne, deve rispettare parametri di luminosità solare e artificiale ben calibrati.

L’intensità solare deve essere filtrata con lastre in alabastro, mentre il sistema indotto con apparati illuminanti calibrati, i due sistemi, non devono violare la luce di credenza, unica fonte da cui alimentare la fiammella spirituale, guida fondamentale per il giusto orientamento.

Se questo è il principio sintetico secondo cui un sacro perimetro deve essere illuminato, non si comprende quali siano stati i presupposti religiosi per non seguirli, credendo che il luogo sia considerato al pari, di un teatro, una sala per riunioni laiche, o salotto di case nobiliari.

Questi ultimi sicuramente ambiti con esigenze diverse e per i quali l’eccedere in forme luminose trova una sua logica, diversamente da come deve essere nei luoghi di culto dove a porre in evidenza è la luce interiore che notoriamente brilla dentro di noi.

Alla “luce” di ciò va affermato che il messaggio pittorico ha bisogno solo di essere accompagnato, non servono distrazione pirotecniche, per raccogliere il senso della credenza, anche perché, così facendo si minimizza il senso del  luogo e si rende al pari di un salone in una comune abitazione con le opere di famiglia apposte alle pareti.

Luce eccessiva all’interno del sacro volume, sminuisce l’unicum divino, deteriorando i valori senza tempo, giunti sino a noi, grazie a piccole fiammelle in lume a olio.

Tuttavia, il prodotto finale del “volume Sacro”, deve mirare a creare prospettive atte ad agevolare l’apprendimento, la visione e il senso, delle icone di fede e credenza, senza esporre le opere pittoriche, con apparati generalmente malevoli alla vita stessa dell’opera, sin anche in senso materiale.

All’interno di una chiesa non deve essere compromesso, il messaggio rivolto ai devoti “la luce divina”  essa deve brillare per il suo significato di raffigurazione, le sacre immagini.

Il senso di “un’opera” da una “non opera” si distingue nel fatto che la prima contiene: soggetto, forme e contenuti, la seconda, si identifica solamente attraverso la formazione culturale di quanti ricevono mandato, per sostenerla, tutelarle e valorizzarla.

L’arte è, innanzi tutto, forma di comunicazione, secondo un punto di vista, essa diventa critica, quanti non sono in grado di leggerne i contenuti ritenendo più idoneo, cancellarli mira a sopprimere la memoria dell’artefice.

Il Croce parlava di “senso artistico” come “un’intuizione che si fa espressione”, in senso “non neutrale”, cioè che diventa posizione e il caparbio prete, assieme al suo fedele artista, avevano idee ben chiare.

La creazione, indubbiamente, una forma di linguaggio autonomo che interpreta il mondo, ponendosi lontano dall’idea di un’arte meramente decorativa, il genio esprime con la sua metrica un punto di vista, un insieme di significati che lui stesso rinviene nella realtà, comparandoli sapientemente ai canoni di credenza.

Anche quando l’arte è l’espressione religiosa di un determinato ambito, si parla di angolo privilegiato della ricerca estetica, questa, senza mediazioni logico-deduttive, si fa specchio del mondo o, comunque, di un universo, di un cosmo in cui l’artista è l’artefice di una visione originale che lo avvicina al lettore nel momento del osservazione senza penitenze.

Se così non fosse, non avrebbe luogo il fine dell’arte che è comunicare messaggi di credenze quel luogo e di tempo.

Accade purtroppo chi eredita l’opera per istituzione, il messaggio da diffondere, specie se comunemente tutelato, diventa una sorta di teatro dove si cerca di incunearsi, come falsi protagonisti, pur se privo di ogni genere di consapevolezza, in grado di rispetti la linea dell’artista primo, in altre parole: la via divina che appare discreta e senza abbagli.

L’atto del comune esperto o gruppi di appartenenza locali, risveglia, tensioni intellettuali, etiche e religiose, creando bagliori personali oltretutto pericolosi, perché allontanano il senso, dell’opera luogo, impedendo al seme del valore di fiorire.

Sostituire i corpi illuminanti di una chiesa senza consapevolezza storica alcuna finisce nell’abbagliare i luoghi di provenienza della nostra credenza religiosa.

È cosi diventa inutile e intitolare a Santi Alessandrini chiese, quando con luci accecanti e rotondità senza misura si impedisce di guardare verso i luoghi della sua provenienza, gli stessi dove ebbe inizio il predicato religioso.

Comments are closed.

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!