In uno dei pochi Shèshi di Santa Sofia viveva un laborioso contadino arbërëshë la cui aspirazione era quella di veder divenire, il suo figliuolo, un bravo maestro d’arte.
Quando quest’ultimo raggiunse l’età idonea per entrare in bottega, lo inviò a Firenze presso il laboratorio di un bravo maestro.
Consegnò al figlio una borsa di danari, frutto di tanti anni di duro lavoro nei campi, sicuro di poter vedere realizzato il suo sogno di vedere il proprio figlio avere una vita più agiata della sua.
Il figlio dopo pochi mesi tornò a casa con un carro colmo di attrezzi, fiero dell’affare che aveva portato a termine, esclamò: “Caro padre invece di perdere tempo e ricevere umiliazioni nella bottega del maestro, ho pensato bene di comprare tutti i suoi attrezzi, ora non ci resta che acquistare il marmo!”
Ho voluto raccontare questa storia appresa dal mio primo maestro d’ascia qui a Napoli, mi colpì così tanto che l’ho sempre tenuta a mente ogni qualvolta ho dovuto affrontare scelte progettuali o interpretare idoneamente momenti della mia esistenza.
La missione dell’architetto presuppone competenze multidisciplinari, qualora queste fossero acquisite, non sempre di facile applicazione, poiché la nobile arte si acquisisce col duro lavoro e l’esperienza.
Parafrasando il racconto precedente, il mestiere dell’architetto lo si apprende nelle botteghe, non di certo comprando gli attrezzi del maestro, digitali o meno che siano.
Non è concepibile vestire di mattina gli abiti da direttore dei lavori manomettendo gli elementi caratterizzanti di un manufatto, per poi la sera ramenghi, per le vie del paese, accorgersi delle sciagurate mutazioni, attribuendo le colpe a irresponsabili personaggi.
La risposta la si potrebbe avere semplicemente guardandosi allo specchio rendendosi conto che come spesso è capitato all’uomo la soluzione ai problemi la si ha sotto al naso.
Vero è che se si va errando nel mondo d’arberia tenendo fisso lo sguardo all’interno di un obiettivo, la prospettiva si restringe e si deforma diventando funzione dall’ottica che si adopera.
Questo però è uno strano modo di operare poiché così facendo si perde il contatto con la realtà, io personalmente ritengo più idonea la visione diretta, lasciando a fotografi di professione la responsabilità di inquadrare ed immortalare i mutati contesti.
Il mestiere di Architetto non è finalizzato a produrre avveniristici manufatti irrispettosi della storia e di estranee metodologie.
L’architetto prima di tutto studia il sito e come il medico, prima di operare si accerta della diagnosi giusta, quindi acquisito le adeguate e utili informazioni è in grado di pianificare il più giusto progetto.
Il mondo dell’arberia non ha mai ricercato modus operandi, realizzando idonei progetti a lungo termine, ma si è sempre limitato a produrre mirati episodi che non hanno fatto altro che produrre attimi di ribalta, poiché non avendo un filo logico comune ha reso sempre più labili gli elementi caratterizzanti le nostre radici.
Questo ha prodotto la naturale disgregazione che ci pone ai margini del mondo politico sociale ed economico della Calabria Citeriore.
Una comunità cosi numerosa che non è in grado di realizzare intenti comuni atti ad avere nei palazzi istituzionali i propri referenti politici, regolarmente eletti nei numerosi centri albanofoni.
Questo è l’indicatore principale che costringe la nostra etnia a non avere l’adeguata valenza nel sistema produttivo e dirigenziale della regione.
Continuare ad affidarsi alla inventiva dei singoli che pur di giungere alla agoniata poltrona si circondano di variegati personaggi senza adeguato spessore organizzativo, i quali possano imprimere lo scuotimento necessario alla delicata comunità albanofona, fatta di ricordi e di tradizioni orali che ogni giorno si rammendano continuamente.
La Comunità arbëreshe venne accolta nelle valli della Calabria Citra, dai Principi di Bisignano, di questi il Luca Sanseverino (1420-1475), mossi da necessità di ripopolamento, di bonifica e difesa delle stesse; a lui successero gli eredi Girolamo (1448-1487), Bernardino (1470-1517) e Pietro Antonio (1790-1865).
La storia secolare della presenza arbëreshe nell’Italia meridionale ha avuto un significativo riferimento dal 1733 nel Collegio di San Benedetto Ullano, realizzato su proposta dei Rodotà disposto del papa Clemente XII del casato dei Corsini, successivamente trasferito nel 1794 a San Demetrio Corone.
L’istituzione aveva il fine di formare il clero locale secondo il rito Greco Bizantino aprendosi anche agli studenti laici.
Le due sedi del Collegio, fucina di formazione e cultura della comunità Arbëreshe a partire dalla seconda metà dell’800, affermarono illustri personaggi che hanno consentito che l’etnia giungesse sino a noi.
I tempi del collegio sono terminati, oggi non abbiamo più un riferimento adeguato se non gli attrezzi del vecchio e dimenticato istituto, manca la manualità per progetti che ci consentono di rilanciare la nostra antica e orgogliosa etnia.
Un nuovo modo di porsi all’interno di un sistema produttivo europeo che non sia fatto di singolari e curiose alternative, copiate o ispirate da movimenti che hanno sconvolto e disturbato intere generazioni pochi decenni addietro.
La comunità albanofona ha alle spalle la negativa scelta dei fratelli della terra di origine, per noi non adeguarci a quelle politiche è già un ottimo punto di partenza.
Bisogna operare come nel mondo della progettazione ove si utilizza la storia e i percorsi rispettosi della scienza e delle leggi al fine di realizzare l’opera che possa portare beneficio al committente.
È in questo modo che deve operare il mondo d’arberia per ottenere l’adeguata valenza in campo politico, sociale ed economico nei contesti ove essa è presente e può far sentire la propria voce.