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LE CARENE DI PIANETTE

Posted on 01 marzo 2014 by admin

ARBERIA MADENAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Dovessi trarre le conclusioni e depositare un briciolo di certezze sugli arbëreshë secondo le teorie degli eminenti cultori, il risultato più ovvio cui  addivenire sarebbe che i minori non sono mai esistiti, anche se in consistenti macchie del territorio del sud Italia, una lingua alloctona pur si parla.

La spasmodica ricerca di un filone nobiliare, l’irrequietezza di dover cercare il documento archivistico e bibliografico dove sia testualmente trattato ogni tipo di argomentazione ha reso la storia dei minori, fragile, labile e ordinata secondo il vento che soffia.

Una comunità che si è affidata esclusivamente nella “sola” forma orale, quali verità può aver conservato nei meandri degli archivi o nei trattati della storia se non un personale punto di vista dello scrivano di turno, che non faceva certo gli interessi dei poveri e ignari esuli analfabeti.

Un popolo chiuso all’interno dei propri ambiti di famiglia allargata, non sapeva né leggere e né scrivere, cosa può aver lasciato nei grandi testi archivistici se non le capitolazioni unilaterali, che di conseguenza non sono state mai rispettate perché non comprese.

È chiaro che fare ricerca in maniera errata e per opera d’inesperti raccoglitori ha prodotto tante imprecisioni, che non si allineano neanche agli eventi più elementari della storia italiana.

Un esercito fatto di Agricoltori, Manovali, Farmacisti, Pensionati, Prelati, Calciatori, Barbieri, Ortolani, Pescatori, Carpentieri, Precari, rappresenta una scolaresca disomogenea che solamente la guida di un buon maestro poteva rendere proficua attraverso la formazione di gruppi di lavoro, ma la caratteristica egocentrica dei minori, non ha mai lasciato spazio a utopie simili.

Purtroppo il modo di operare nell’ombra immaginando di produrre chissà cosa ha reso ancor più buia la genuinità delle gesta minoritarie.

Il patrimonio culturale arbëreshë è depositato all’interno del perimetro dei piccoli paesi, è li che va ricercato, i katùndi contengono ogni piccolo frammento, per questo devono essere protetti e tenuti vivi in quanto archivi-librerie a cielo aperto, pagine di storia che si materializzano nelle strade, nelle piazze, nelle case, nelle chiese e in ogni piccolo frammento leggibile, purtroppo,  solo per esperti e titolati ricercatori.

Sono stati molti gli avventurieri che hanno provato a cimentarsi in questa difficilissima disciplina producendo gravi danni, perché hanno divulgato materiale scrittografico che è stato introdotto nei circuiti della diffusione libraria, senza avere scrupolo delle ferite che essi e gli amministratori avrebbero inflitto al patrimonio materiale e immateriale manomesso.

Questo è un danno biologico che tutta la comunità arbëreshë ha subito, se non si pone rimedio all’inadeguatezza storica, urbana, architettonica, religiosa, consuetudinaria e folcloristica degli ambiti albanofoni, avremo un decadimento che conduce inesorabilmente all’estinzione entro il decennio in corso.

Quanto detto, trova conferme nelle manifestazioni, negli appuntamenti storici della tradizione minoritaria e in maniera più clamorosa nella realizzazione della meglio identificabile Carene di Pianette .

Non è concepibile che con tanta facilità si possa vendere per minoritario albanofono la realizzazione di un intero paese di chiara matrice algerina (Vedere Touggourt Oase) o indagare negli ambiti del versante calabrese della mula, accompagnati da figure mitiche egiziane (lo scriba, il traduttore e il medico condotto), questo modo di produrre architettura arbëreshë, offende la cultura dell’etnia che fonda le sue radici nella sola  forma oral-consuetudinaria.

Ritengo che personaggi alloctoni non possano dare lezione di gjitonia, immaginando che ponendola come titolo di un progetto, possa addormentare le nostre menti; che fino a prova contraria, sono tra le più preposte a ricordare e produrre modelli che vivono in Italia dal XV secolo e che appartengono al patrimoni genetico delle genti di matrice balcanica.

La gjitonia, “dove vedo e dove sento”, intesa dagli alloctoni come il luogo dove vedo e dove sento, è stato interpretato, a torto, come un luogo fisico riconducibile a una piazza a una strada o  spazio toponomizzato, nulla di più errato poteva avere interpretazione, giacché, la gjitonia è il luogo dei cinque sensi e di solidissimi sentimenti; essi non sono riconducibili a un luogo fisico ma solamente ai valori personali e interpersonali: è spontaneo chiedersi che cosa volevano inventare i progettisti delle Carene di Pianette, depositando all’interno del manufatto urbano le Gjitonie?

Queste inesattezze, comunque, vanno anche ricercate tra le pieghe della legge 482 del 1999, che invece di favorire la ricerca dei veri elementi attribuibili ai minoritari, ha innescato il movimento delle grandi masse migratorie verso gli archivi e le biblioteche dove l’attività principale si è rivelata essere stata quella di setacciare i fiumi di documenti alla ricerca della pepita perfetta da brandire, dissociandoli così dal territorio.

È opportuno che si ponga rimedio a tutto ciò al fine di non ricadere nell’incauta esperienze dove si è cercato di mercanteggiare un prezioso cameo, con uno nuovo, fatto di materiali sintetici, che sottoposto all’esposizione degli eventi naturali, non darà il benessere atteso.

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NON È STATA APPOSTA PIETRA ANGOLARE PERCHE’ IGNORAVANO COSA FOSSE E A COSA SERVE (jatròj pa motë, ragù diellësitë llitirë)

NON È STATA APPOSTA PIETRA ANGOLARE PERCHE’ IGNORAVANO COSA FOSSE E A COSA SERVE (jatròj pa motë, ragù diellësitë llitirë)

Posted on 25 dicembre 2024 by admin

Pietra angolare

Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Katundë non sono un argomento o trattazione di pietre, mattoni, tegole, polveri e materiali lignei di spogliatura, in quanto è la rappresentazione sociale dell’uomo, ovvero, insieme di genio per unire generi in solidale fratellanza nel corso dei secoli.

Cercare di conoscere cosa accade o sta per accadere in un Katundë può aiutarci a capire come cambia il modo di intervenire e fare cose.

No si riferirà in questa diplomatica, solo il colorare o dare modo alle murature di esprimere pareri, perché questi in statico apparire, ma bisogna interpretare, a quanti ne hanno competenza, il districarsi del costruito ad opera e per il bisogno più duraturo dell’uomo.

Come vivranno domani gli arbëreşë che abitano nei centri antichi e come sia possibile per noi contribuire a migliorare risolutamente il lo futuro, esplorandone i caratteri contemporanei del centro abitato e, dei cunei produttivi, diventa un’esercizi affascinante, formativo, rigenerante e geniale quando da una rispettosa e coerente soluzione.

La qualità dell’essenza, ottenuta, restituisce una formula di vita, in continuo rigenerare, senza modificare, cambiare, o sfociare in enormi differenze tra le diverse generazioni, le stesse che mirano ad alimentare il senso del Katundë organizzando e innovando il senso dei plateiai e stenopoi.

Il tutto affrontando i problemi, le crisi, evitandone i disastri e, orientando le soluzioni, per meglio gestire le opportunità, di un luogo dove vivere, sulla base delle antiche consuetudini, specie se tramandate in forma orale e in lingua Arbëreşë.

Ci sono Katundë che vincono e si tramandano, e Katundë che perdono valore identitario in ogni manifestazione, sotto la guida di gruppi che migliorano o peggiorano le loro condizioni, affondano letteralmente ogni cosa nell’oblio.

Nessun progresso, nessun arretramento sarà eterno­ nel corso della storia tuttavia, solo i Katundë meritano di essere sostenuti, seppure accompagnate a più riprese da crisi, anche devastanti, dove restano sempre pronte per essere attivati i noti governi delle donne: Gjitonia.

Ogni scelta allestita in ciascuna comunità è specifica, e dinamica, ma in nessun modo deve rivelarsi una fotocopia, di competizione, altrimenti diventa inevitabile e, per molti versi utile, anzi indispensabile studiare la storia sia del successo e sia quanto ha generato fallimento o perdita di senso storico. 

Tutte le vicende affrontate in queste pagine si sviluppano nelle esperienze e sulla pelle dei cittadini, tra chi può godere di una vita dignitosa, in contesti stimolanti, e chi patisce caos, violenze, discriminazione e povertà sociale, economica e culturale, in luoghi equipollenti.

Katundë è l’insieme composto da Natura, Uomo e Costruito, che assume il ruolo di culla di una specifica cultura, conserva e alleva generi, seguendo la rotta del diritto e la dignità della vita, in continuo rispetto della radice originaria.

La pri­ma condizione che qui si impone ai generi che vivono e proliferano sereni, è racchiusa nell’essere nato in un Katundë, seguendo regole e consuetudini di vita sotto la vigile attenzione del governo delle donne.

La fama e la reputazione di una Katundë, si fonda nei valori consuetudinari, che non offendono o valicano le attivata dei senatori sociali.

Sono decisive la visione e le capacita di go­verno locale che incidono e dipendono sulla partecipazione attiva dei suoi elettori e, anche un Katundë in declino può sempre rinascere per il ricambio consentito degli eletti debitamente allevati.

Anche un Katundë che culturalmente e socialmente perfetto, può eclissarsi quando dovesse imitare ­esempi, altrui che non hanno idonea guida o, capacità di stimolare e orientare a modo coerente, le eventuali innovazioni che se non corrette, si possono trasformare in pena diffusa dei suoi Katundarë.

Quante narrazioni accompagnano i modi di leggere e conoscere la storia di un Katundë e, questa esperien­za fornisce suggestioni, che hanno segnato in modo violento le persone coinvolte, le stesse che attendono da due decenni, riconoscimento e scuse.

Perché qui, ogni cosa è stata intesa non come storia da leggere, capire e interpretare, ma semplice spettacolo folcloristico che si trasforma e prende forma con nuove infrastrutture, che a ragion veduta non hanno nulla da sostenere se non se stesse e neanche o in grado di reggere i patti di promessa fatta sulla ribalta allestita, per illudere gli ignari sfortunati sfilanti in pena.

Dal Katundë che mobilita le attività sociali, storiche e produttive, si è passati a essere operatori che muovono le rotative delle industrie, senza che queste qui appaiono o abbiano mai avuto vita, se non la rievocazione di una vicinanza numerica depositata mel catasto, Citeriore.

In tutto si è passati da una capitale della coltura arbëreşë a un prodotto di residenze senza un futuro, lavoro e operosità dirsi voglia, il tutto poi divenuto evento da mostrare nella classifica storica dei grandi eventi dove l’uomo ha fallito e si è coperto di vergogna.

Una Olimpiadi o campionato sportivo, che avrebbe voluto puntare alla medaglia d’oro e, durante l’atto della competizione cade appena iniziato il gioco. 

Mentre l’originario Katundë intatto, che potrebbe acco­glie imprese, ricercatori, studenti, formatori capaci di dare ancora vita al Governo delle donne Arbëreşë, deve attendere in pena l’anno 2039, in tutto il termine di carcerazione dei ben pensati.

Sono gli stessi valori urbanistico che caratterizzano dal un punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio di rruhat, orientate in direzione nord-sud, a rendendo così possibile l’interazione tra abitanti di sociale paritario, qui sempre uniti e coesi.

Le fasce avevano e conservano ancora continuità di confronto e agio comune, attraverso questa rete viaria di misura e composta: da vie principali i plateiai, in direzione ovest/est componimento di, chiese e strade pubbliche all’interno di questo nucleo centrale; dall’altro le strade minori, gli stenopoi, gli ambiti viari per abitazioni di condizioni ristrette, come temperature, umidità o altre caratteristiche particolari di iunctura invalicabile, fatte di: Vichi, Case Archi, Strade chiuse e Orti Botanici..

Gli “stenopoi” divengono nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat preciso, cioè “specialisti” di un determinato ambiente più intimo, ristretto e fortemente coeso e mai in competizione dove trovava residenza, il noto governo delle donne.

Vero resta il principio secondo cui: “chi parte conserva e ricorda, chi rimane distrugge con la velleità di rinnovare” teorema che pone a confronto inscindibile, passato e presente, ovvero, la memoria di un luogo gelosamente conservata nel cuore e nella mente dagli incamminatisi e i restanti, colmi del desiderio, gestire senza ragione la propria terra d’origine, con intenti e iniziative di rinnovamento senza formazione che poi termina in cambiamenti anomali e inopportuni.

Vero è che in questo mondo che cambia diventano protagonisti midia e motori di ricerca, che mirano ad attirare flussi crescenti di liberi pensatori all’interno di numerosi Katundë dove si fatica a tenere in equilibrio nuove generazioni, a partire dai più giovani.

Secondo cui non esiste più un “Katundë ideale” ma solo, tessiture urbane che devono essere sporcate e stese al sole per essere innovative, attrattive e, colme di macchie anomale, quelli che dovrebbero essere recepiti come gli effetti benefici di garanzia.

Infatti, posto come eccellente il valore di quanti lasciano il loco del passato “coloro che partono” mantenendo vivo il ricordo e preservandolo, diversamente da “coloro che restano”, confermando nelle varie ere la diversità quotidiana, che consente o permette ad anomali strutturati locali di immettersi nel percorso evolutivo, decimando tutela e resilienza, a scapito del futuro che diviene sempre più libero arbitrio interpretativo del passato.

A contrapporsi a queta anomala deriva è il dato che esistono figure di eccellenza, le quali, pur se migrati dai paesi natii per acquisire o allargare il fronte culturale, mantengono i ritmi del cuore e della mente secondo il pensiero giovanile del proprio luogo natio e, pur se lontani per seguire la via della formazione, compilano e vivono le cose secondo i battiti primi di quei luoghi, che per il valore in essi custodito non saranno mai violati da alcun che.

Tra queste eccellenti figure spicca il letterato primo del mondo Arbëreşë, Pasquale Baffi, che da Terre di Sofia attraverso, l’Ullanese boscaglia, prese la via di Salerno, appoggiandosi ad Avellino, poi richiesto a Portici e, preteso dalla regina Maria Carolina d’Austria a Napoli, lui il letterato, fu protagonista inarrivabile di tutta la cultura Arbëreşë, scritta, raccontata, cantata, comunque solidamente sostenuta e, chi volesse essere avvolto da notizie, deve solo attendere che cambiano i ritmi e i tempi di esternare cose blasfeme lungo le vie della credenza Arbëreşë.

Dopo il Baffi vennero altri, ma oggi è pregnante l’ascesa dell’“Immortale”, che seguendo le stesse orme, rimane e resta, l’unica figura in grado di formulare concetti e cose radicate e appartenenti a questa popolazione, in tutto come intuì P. Baffi a Napoli dal 1771 al 1799.

Diversamente da chi restata o che torna nei Katundë velato di lodi, senza prospettiva alcuna e non diventeranno o potranno essere equiparati al “Baffi, il primo e solo letterato Arbëreşë” o “l’Immortale architetto Arbëreşë”.

In altre parole, chi si distacca e conserva la memoria, diversamente da chi resta o torna subito, per essere imbrigliato dalle necessità del comune dire o fare, conosce come affrontare agni sfida, secondo il processo di resilienza che mira al “valore dell’identità e la storia locale”.

Questo concetto potrebbe applicarsi a società, ambiti culturali, vita sociale, consuetudini, perché tutte seguono allo stesso modo il progresso, privandosi in loco di ogni qualsivoglia formazione e culturale, adeguata alla radice originaria. E troppo spesso, porta a perdere la parti significative di ciò che sono stati luogo, natura, credenza e uomini, di un ben identificato ambito costruito, che termina per essere vissuto progredendo in dissociata continuità storica.

Chi volesse aprire lumi o intraprendere percorsi storici, culturali linguistici, consuetudinari e il vernacolare del bisogno di tutti i Katundë arbëreşë, deve avere prioritariamente, conoscenza e coscienza del parlato, l’ascolto e il pensiero primo in lingua antica, escludendo a priori o “Albanisti Viandanti Moderni”, evitando di imitare, copiare o affermare gesta o dicta del tipo: da noi si dice o facciamo così!

Un vecchio saggio diceva ho tante cose da dire, ma non trovo nessuno pronto ad ascoltarmi; ebbene, i giovani in specie quanti non conoscono ancora da dove iniziare, si devono sedevo accanto a lui e ascoltarlo e quando lui sarà stanco, chiedere di riposare ascoltandovi a, pronunziare bene i racconti di fantasia in Arbëreşë, perché e il caso che sappiate che se non parlate bene, qualche viandante scambiandomi per dispersi, vi porterà, Shën Miterë dentro una delle cesta che portano gli asini, immaginando che quello e il vostro paese natio.

A tal proposito va ribadito che cogliere gli aspetti territoriali, inerenti; il centro antico, il centro storico, e tutti gli insiemi di iunctura familiare, comprese Gjitonie e la famiglia urbana moderna, tutti questi, non possono essere un tema di linguisti, e antropologi non parlanti di quanti non sono pronti all’ascolto in Arbëreşë.

Ma non solo, infatti, l’analisi di ogni cosa deve essere comparata e ricercata da persone formate e giuste, le stesse che germogliano solamente nell’attimo in cui nascono, pensano e poi parlano in Arbëreşë

Altrimenti è inutile comporre editi con atti notarili, ripetere capitoli, citare poesia, privi dei minimali aggettivi che rendono leggibile la complessità sostenibile dei catasti onciari o, realizzare vocabolari estesi e riversi della” Lingua Parlata in Arbëreşë che è strettamente essenziale”.

Si sentono dialogare draghi, abbaiare cani, ululare lupi e topi che rosicano formaggio, Mercanti che vendono polvere di spogliatura o, nevicare quando spunta il sole, ma nessuno di questi addetti è mai riuscito a compilare cose relative ai trascorsi storici e, in specie, inquadrare le dinamiche sociali che hanno reso possibile il costruito di questo Katundë.

Lo stesso dove è stato realizzato o, posto in essere, il miracolo sociale più solido e duraturo tra popoli all’interno del mediterraneo.

Si mirano avventurieri mediterranei e liberi pensatori locali, tutti figli, spose e madri della dalla politica o della filiera di prostrazione sociale, adoperatasi a fare “teoreti” esternando, oltremodo, concetti che nel migliore dei casi sono copiati senza alcun valore storico e, oltremodo riportati come cose fatti e uomini, secondo il concetto Materano: “La Gjitonia come il vicinato” articolata pure o, estrazione di numerazione sequenziale catastale, la stessa ripetuta nel moderno centro abitato, di loco “meno pericoloso”, almeno così dicevano le istituzioni sul palco e oggi le stesse che sono tutte scomparse.

Elogiare, al giorno d’oggi, esclusivamente disciplinati che studia l’essere umano sotto aspetti di pena culturale, secondo i quali il vagare i cerchi delle “libere fratrie llitirë”, è incutere ancora pene e, solo quei pochi che hanno lucida consapevolezza della deriva posta in essere, sanno di persone, fatti e cose che innescano, il riverbero della più penosa vergogna urbanistica Arbëreşë.

Esporre concetti paralleli alla “Storia delocativa del Katundë Arbëreşë” e non paragonarla alle vicende legate a Martirano e Martirano Lombardo, denota la volontà di velare penosi esiti, che attendono il sorgere del sole e della luna come un tempo era e, solo dopo il 2039 sarà.

Va comunque ribadito che tutto scaturisce, nell’aver ignorato costantemente per un ventennio e anche di più, eventi geologici innescati dalla sciattezza degli uomini, gli stessi che poi hanno determinano l’allerta abitativa e il progetto innovativo senza relazione storica, di conseguenza senza radice.

Oggi, il non riconoscere in prima istanza, le dinamiche che hanno restituito lo smottamento, ha potuto dare largo agio di approdo alla nuova dislocazione, priva di una reduce radice, quella che avrebbe consolidato lo smottamento o meglio il terremoto sociale di scivolamento della Mula.

Qui fu immaginato, eseguito e consolidato un gravissimo errore sociale, nel non aver scisso attività di genio e cose sociali, separando attività di operosità locale, come Bottari, Fabbri, Falegnami, Calzolai, Cantinieri e ogni sorta di attività, all’interno dell’insieme abitativo, quello indispensabile a sostenere rapporti economici e sociali connessi agli indispensabili cunei agrari e della produzione locale.

Annullando così o azzerando, sin anche il governo delle donne, inteso come mero vicinato di una improbabile tribù della Calabria Citeriore, paragonata, viste le prospettive innalzate, a carovane in continuo pellegrinare nelle distese sahariane, che non usano coppi per ventilare coperture, ma carene rovesciate o tetti piani per raccogliere acqua.

La stessa protagonista che per ironia, per essere lasciata o abbondonata al suo fare, ha prodotto il danno, tradotto e imputato a un improbabile drago.

Dal 2011 al 2014 è stata chiesta l’operato dell’”Immortale” per la difesa di questa pena sociale, imposto alla comunità arbëreşë e non solo, ed è stato sempre lui e solo a, diffendere con ragioni storiche il cattivo operato degli addetti politi e non solo, in quanto fratrie e ogni sorta di gruppo che qui trovava interessi si è visto tremare, a loro sì, anche il terreno sotto le poltrone labilmente occupate.

Sin anche l’artefice politico primo dell’epoca, informato di quella conferenza di servizio del 2014 terminò di fare, dire e proporre nuovi centri abitati, come soluzione ideale a eventi sismici.

La morale di queste piccole ma sostanziali e veritiere note, vogliono ribadire, promuovere e sancire che se un paese va tutelato sia esso Katundë, Borgo; Civitas, Hora, Casale, Contrada, Frazione o comunque gruppo di case autonomo, che creano un continuo sociale secolare.

Non può essere sostituito estromettendo il tempo trascorso, con opere nuove senza alcuna attinenza o condannati a emigrare, perché i ricorsi storici non possono essere ricostruiti dalla tecnologia moderne e neanche con gli strumenti che può fornire la globalizzazione, perché per quanto attuale, non ha forza per sostenere il valore di un luogo specifico, specie se fatto dagli Arbëreşë.

Sembra ieri che una collega, voleva condurre l’Immortale nella piana inesistente, e spiegare il senso di Gjitonia, naturalmente l’immortale, fu solidamente deciso ad evitare quel viaggio di pena, dato che chiesto se conoscesse il parlare e l’ascoltare in Arbëreşë, la sua perplessità palesata appena la domanda, rispondeva con il principio che le genti sono tutte uguali: si è vero, ma davanti a Dio, non per la Storia, rispondeva l’Immortale.

La stessa che nelle numerose conferenze di servizio allestite per la Valutazione di Impatto Ambientale, le stesse istituzioni non la ritenevano in grado o idonea di sedere al tavolo, dove l’immortale sedevo e metteva in difficoltà tutte le istituzioni che di difendevano con dati, pervenuti dai satelliti ignari della storia.

In oltre va rilevato che il prodotto finito non risponde a radici storiche del modello vernacolare o architettura del bisogno sviluppato dal XV secolo, rispettivamente secondo Katundë, Moticèlleth, Sheshi, Brègù e Nxertath, quest’ultima mai osservata per il nome di allerta, a titolo di merito storico.

Tuttavia il nuovo Paese con le Gjitonie, che “non è Katundë”, segue le linee generali o esigenze del periodo post industriale, quando “l’architettura razionale”, costruiva complessi residenziali, al solo fine di offrire un dormitorio a quanti dovevano mantenere viva, solidale e funzionale l’industria in crescita e, la forza lavoro doveva risiedere nelle immediate vicinanze, per non rallentare, sostare o dismettere il ciclo produttivo.

Il progetto di rinnovamento della” Piana Scomparsa”, è stata cattivamente interpretata, non essendoci a priori prodotta alcun documento storico per guida del progetto in tutte le sue fasi di protocollo, un foglio, un rigo una sillaba, finalizzata alla ricerca storica, che menzionasse il senso della pietra angolare non esiste e non è stata mai immaginata.

Considerando il sito, a modo o ragione estetica, secondo le teorie del “Lombroso”, per questo si è terminato con il protocollo delocativo, ripetendo anche qui le vicende che nel meridione hanno fatto storia.

Tutta la processione del nuovo sito ha seguito “la diagnosi dei protagonisti istituzionali”, meno l’immortale, che conosceva ogni cosa per citare gli avvenimenti equipollenti di Martirano del 1905 quando la popolazione dopo numerose promesse e vicissitudini del sito nominato “Martirano Lombardo”, tornò a risiedere nel centro antico originario di Martirano antica.

Se la “piana scomparsa”, doveva essere nel breve termine seguita dalla montagna,” come i vertici della geologia di stato anticipavano”; perché costruire allora, se ciò era o fosse stato vero, un nuovo paese nel posto “meno pericoloso” come da relazione geologica di stato e, quindi sempre e comunque esposto alle ire della natura, disponendo la popolazione e il loro industriale genio, tutto lungo quel pericoloso lavinaio che termina e porta ogni cosa nel corso del fiume Crati?

E se il fine era di non destabilizzare il precario equilibrio geologico di faglia antica, perché aggiungere al profilo della “Dea dormiente della Mula”, pale eoliche, i cui effetti non sono ad oggi, ritenuti al pari di venticinque case in frana oltretutto innescata dalla condotta dedicata al Frate Marco Abbaiato, debitamente ripristinata!

Non era meglio ricostruire o restaurare venticinque case invece che “Fare un Paese con Le Gjitonie” e, una zona industriale, in pari loco pure esso disposto lungo il versante “meno pericoloso”?

Questa a parere “dell’immortale”, è una storia nata male allestita peggio e ancora oggi vede i suoi abitanti in cerca di agio, condannati a pena perenne, lungo una deriva che non dovrà mai più ripetersi, né per nessun gruppo o etnia dirsi voglia e né per altre circostanze di agio politico lì in attesa di vicinato indigeno.

Questa esperienza, più è resa nota, meno si comprendono le ragioni veritiere e, con lo scorrere del tempo, sono, risultano essere le più velate, poco chiare, per il dato che, parlano i meno titolati o quanti hanno partecipato al guadagnano evento.

E per evitare che questa brutta deriva sia scambiato per un abbraccio sociale benevolo o caritatevole, è opportuno rendere noti tutti gli avvenimenti, niente e escluso, affinché la vicenda avuto germoglio e luogo diventi utile per quanti in questa era di globalizzazione moderna, immagina di rispondere a ogni emergenza, con i ferri che fanno l’intreccio anomalo del “dualismo politico o le ideologie di est e di ovest”, che non hanno mai fatto gli interessi della “Europa Antica”, che resta ed è il centro solido del mondo intero.

Oggi alla Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, non servono sortite di nuova carriera di lode accademica, ma figure di eccellenza come: Pasquale Baffi, il prelato e i Vescovi Bugliari, i Fratelli Giura, i Fratelli Torelli.

Crispi e l’Immortale; tutto il resto è solo una scia di noia, ripetuta riversa e riverberata, la stessa che non darà mai chiaro o limpido nettare in continuo fermento. 

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NON È PIÙ TEMPO PER L’OMBRA DELLA PIETRA ANGOLARE ARBËRESHË

NON È PIÙ TEMPO PER L’OMBRA DELLA PIETRA ANGOLARE ARBËRESHË

Posted on 18 ottobre 2020 by admin

Pietra angolare

NAPOLI (Atanasio Pizzi Basile) – Lo studio della Regione storica Arbëreshë eseguita in chiave, materiale e immateriale nasce sulla base di un progetto che ha avuto spunto quando furono attuati i primi dibattiti, immaginati per valorizzare le minoranze ricadenti nelle pieghe della legge 482 del 99, diversamente rendendo ancor più povere di contenuti, specie quelle meridionali.

Era la prima decade del mese di Luglio 2003 e quanto riferito, dai comunemente noti, lasciavano perplessi quanti ascoltavano, parche, fuori dalla sede in cui si disquisiva liberamente, tutti vivevano “il luogo dei cinque sensi” secondo metriche immutate e ignote ai relatori.

Questo ha rappresentato, l’atto, per il quale si è ritenuto essere giunto il tempo di chiudere all’interno del recinto i portatori sani di matite rosso/blu e proteggere il patrimonio materiale ed immateriale, diventato il pascolo dove brucare liberamente.

Difendere quanto restava per le future generazioni arbëreshë, era una missione da non lasciare più al libero arbitrio, oltre a difendere il buon nome di “Zia Clementina” e di quanti come lei avevano preferito diventare muti e sordi per il grande dolore subito.

Se a questo si aggiunge che in occasione dello svolgimento dell’ottava storica si è giunti:

ritenere che l’estate arbëreshë, doveva appellarsi, “Valja di Sant’Atanasio;

le tipiche vesti femminili delle spose arbëreshë, allestite senza alcuna garbo;

un solco di semina, che non fosse di avena fatua, ma dimora di semi identitari non era più prorogabile .

Questa ha rappresentato la chiusura della stagione di cultura libera, immaginando ill danno che avrebbero prodotto le monotematiche figure con le tasche colme di ombre che celavano dannose alchimie.

Dare avvio alla fase definitiva del progetto, iniziato un trentennio prima per la valorizzazione dei cinque sensi Arbëreshë, è diventata una missione, in memoria di “Zia Clementina” che diceva sempre che l’acqua della fontana di fronte al suo uscio, sarebbe stata sempre amara, coprendo dal quel dì,  gli altri quattro sensi.

Il progetto a sua memoria, e di quanti come lei che avevano vissuto intensamente i sensi tipici della regione storica, ha avuto così inizio, peregrinando attraverso stati di fatto ritenuti complementari, rispetto al tema linguistico di una nonna muta.

È importante premettere che la pianificazione degli abitati storici, rurale e le relative reciprocità sono il teatro a cielo aperto dei luoghi notoriamente schiavistici, ragion per cui le implicazioni che tale questione comporta, diventando argomento fondamentale per leggere in forma puntuale l’evoluzione  insediativa.

La nascita di questi ambi costruiti e naturali, hanno una radice antica, le cui peculiarità vanno ricercate nella presenza della katundë-servizio, nati a seguito di infrastrutture stradali, che poi erano dei veri e propri tracciati avventurosi ma comunque indispensabili perche complementari alle vie di costa e quella interna.

Questi rientravano negli interessi dei pochi membri dell’aristocrazia che ne sfruttava le produzioni agricole intensiva, connessa all’innalzamento di luoghi costruiti per la conservazione e il conseguente trasporto dei prodotti ad opera dei poveri residenti.

La localizzazione di questa tipologia insediativa, associata principalmente alle specifiche produttive nascevano principalmente dall’analisi territoriale, scegliendo la più idonea posizione topografica, alla luce della disomogenea morfologia, avendo come riferimento tempi e regola di consegna del prodotto finito. 

La specifica territoriale, le produzioni agricole connesse si riflettono nella struttura degli ambienti stessa; infatti, esse hanno funzione di abitazione e “modelli proto industriale” per la trasformazione delle derrate alimentari.

La fertilità del suolo in queste zone permetteva l’innestarsi delle strutture rurali per la coltivazione della vite, della vite e nelle stagioni di riposo dei cereali, favorendo così l’impianto di strutture dedite alla lavorazione e alla conservazione dei prodotti e di derivati.

Oggi servirebbe produrre la fase esecutiva per valorizzare le pietre angolari dell’architettura e delle urbanistica ritenuta, “dai mono tematici”, di estrazione indigena, quando sarebbe bastato munirsi di una lampada ad olio per illuminare le menti buie di chi non è stato in grado di guardare oltre il proprio naso.

L’analisi ambientale, l’evoluzione dei territori, l’urbanistica, l’architettura, quest’ultima prima in forma estratti e poi additiva, sono gli argomenti che grazie ai riferiti cartografici, i trattati archivistici, editoriali e le notizie locali, hanno disegnato la prospettiva ideale che non teme confronto.

Tutto ciò è stato realizzato avendo piena consapevolezza delle parlate locali e per questo ricucire, con arte, lo strappo ormai secolare tra elementi tangibili, presenti sul territorio e quelli intangibili, della memoria di quanti ancora sono veri arbëreshë.

Si precisa altresì che ogni elemento studiato, ha avuto applicato disciplinari di ricerca comprovata, diversamente da quanti ritenendo sufficiente restringere gli ambiti alla sola parlata, hanno tralasciato, cosa e quanto fosse ancora intrisa di consuetudine, manualità, tipiche degli arbëreshë.

Soprattutto in sede locale per la verità di elementi, si sono realizzate ricerche, verso aspetti interlacciati tra le terre poste a est e a ovest, prospicienti il mare adriatico e lo jonio.

Le metodiche utilizzate non prendevano spunto dai comportamenti di quanti, riversano stanca­ti tesi enucleabili, sin anche imbibiti di contributi degli eruditi dei secoli passati, brandendo in ogni genere di occasione il volume, la ballata, o l’abito perfetto senza essere in grado di verificarne, il senso e il contenuto di tempo, luogo e società.

Inoltre il più delle volte i risultati, sono utilizzati in mere esigenze di un irrazionale campanilismo e a quelle di un cieco provincialismo, generando ostacolo, più che utilità ad una serena ed equilibrata ricostruzione degli eventi.

Si potrebbe apparire genericamente, ingenerosi se non si attribuisse agli ingegnosi locali, notizie e informazioni anche di interesse e d’impianto locale, generalmente assenti nei contributi più accreditati.

Tuttavia pur se presenti, restano solo elementi grafici cui non si da valore alcuno e ne si possono confrontare con quanto emerge dai fogli branditi al vento e accreditati come  fonti di saggezza o capitolo di storia.

In questo stato di gregge perenne è parso opportuno tenerne in osservazione, quanto prodotto da quanti vivono all’addiaccio, o meglio fuori dai presidi della cultura, scavando senza meta nelle buie notti, senza consapevolezza se si compiono atti di violazione.

Paradossalmente in questi buchi neri, sono inciampati proprio i nomi più affidabili della storia, inficiando notevolmente il continuo cammino verso una regolare andatura di fatti ed eventi in rispettosa successione.

Si ritiene comunque doveroso rilevare che le manchevolezze sono molteplici, esse hanno una radice antica, colme di inesperienze e poca dedizione alla ricerca, perché in capaci incrociare dei dati.

Valga di esempio la legge 482/99 che pur citasse, nella sua comune trattazione citasse testualmente, “le delimitazioni degli ambiti territoriali e sub comunali in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche”, nei fatti non è stata, posta alcuna rilevanza all’aspetto territoriale costruito e non, quale fondamento per ogni trattazione.

Si è preferito inquadrare la minoranza come “il luogo”, dove i fenomeni di resilienza dovevano ritenersi incamerati nell’atto idiomatico di un luogo ideale, come se l’orografia e l’ambiente non avesse ne forma e ne colori.

Lasciando in questo modo, al ruolo di mera quinta colma di nebbia, l’ambiente costruito e quello naturale, pur se in origine sono state queste a essere cercati e modellati per comprendere se rispondevano alle metriche degli uomini che vi hanno vissuto.

Un Katundë o Kastrjonì, rimane comunque espressione degli uomini e le donne che l’hanno costruito, vissuto e sostenuto, sin anche, quando l’incoscienza e l’interesse degli uomini, lo esasperano al punto di chiudere Case, Chiese e Luoghi condivisi.

La scelta delocativa in genere ha come prassi storica l’incolumità, comunemente illustrata con la promessa di saper predisporre, nel breve di una stagione, un paese arbëreshë nuovo (?).

Quando tutti siamo ben consapevoli che la storia degli uomini non si compie in sunti catastali, scambiati per temi di gjitonia, illuminando l’immateriale degli uomini come si fa con i quartiere, i rione, o luogo comunemente vissuti di ogni genere, come se i paesi minoritari fossero luoghi del banco dei pegni dove imprestare, uova, lievito e vino.

Solo chi è sciocco può credere a ciò, a questi hanno preso impegno di fare ciò, sappiano che “l’architettura storica” non è come un villaggio turistico, un centro commerciale, un parco di divertimento, solo perché scimmiotta geometrie, diffusamente piane inclinate o arcuate in forma di carene rovesciate.

La storia non deve ridursi in sintesi volumetrica, privando i mal capitati abitanti del fattore tempo, quest’ultimo il regista naturale che dirige, i flussi dell’energia naturale per modellare gli elementi costruiti, di luogo e di uomini, secondo caratteristiche intrinseche ed estrinseche irripetibili.

Non si possono abbagliare le persone umiliando gruppi familiari di gruppi minori, a inchinarsi e disconoscere se stessi oltre la propria radice identitaria.

Alla luce di questi brevi accenni è indiscutibile che un Katundë o un Kastrjonì rimane sempre arbëreshë, assieme agli ambiti orografici, pur se questi sono considerati pericolosi e pronti a scivolare a valle; specie se dopo poco tempo, nonostante si continui ad ostinarsi a vietarne l’accesso negli ambiti dell’antico centro antico, a monte si allestiscono parchi eolici, che non certo confermano le teorie delocative imposte, per eventi non naturali certamente prossimi!

Per usare un eufemismo è bene sapere che pur se titolati, quanti ambiscono a inerpicarsi nei trascorsi storici di minoranza, deve avere il quadro completo di cosa voglia vedere, assaporare, toccare ascoltare e sentire; non può immaginare che uomini paesaggio tempo e natura, nel corso dei secoli si possano sintetizzare in una favola in una canzone o nei tratti desertici dell’Algeria.

Valga di esempio il Katundë di Ginestra degli Schiavoni in provincia di Benevento, i cui trascorsi ricordano che dopo essere stati fortemente caratterizzati dalle consuetudini arbëreshë, di matrice Greco Bizantina, innalzando l’agglomerato per secoli, anche a scuola religiosa e formare clerici sino alla fine del concilio di Trento.

Il Katundë di G.d.S. dopo essere stata spogliata della sua istituzione religiosa, ha smarrito sin anche l’espressione idiomatica, ciò nonostante dopo circa un secolo, il prete latino, cui era chiesto, da uno storico locale, se il paese avesse conservato elementi caratterizzanti la minoranza, faceva notare che non vi fosse rimasto nulla.

Tuttavia aggiungeva, che nonostante la popolazione usasse la lingua di macro area locale Beneventana e seguisse le ritualità latine, trovava strano, l’onorare i morti e altre ritualità, secondo consuetudini non contemplate dal calendario Latino.

Ginestra d.S. è stato luogo di studio nel 2017, per questo, attraverso le sue pietre angolari, rioni tipici, collocati come era consuetudine arbëreshë.

Infatti sono stati intercettati media collina dove è allocato il paese, la chiesa e il suo rione clericale, cui era accostato il rione detto promontorio, il labirinto e gli spazi di espansione facilmente identificabili come sheshi o luogo di confronto o movimento.

Ciò non lasci alcun dubbio sul dato che, pur se da oltre due secoli non si conservano valori identitari riferibili all’idioma, la radice urbana e il valore territoriale, secondo le fondamenta arbëreshë, continuano riverberarsi senza mai perdere la via maestra.

Gli esempi in tale orientamento sono molteplici e comunque servono a rilevare che un centro antico di radice arbëreshë, rimane sempre tale anche quanto l’identità idiomatica si smarrisce, per eventi sociali o religiosi imposti a seguito delle conclusioni di Trento.

Vero è che nonostante una moltitudine di Katundë, sia stata impoverita della matrice religiosa, lo parla ancore in un numero di Agglomerati pari al settantacinque per cento di un totale di circa 110 Katundë, il rimanente venti cinque percento segue le direttive religiose importate anche se trasformate in bizantine di lingua arbëreshë.

Tuttavia tutti i paesi, altri si potrebbero individuare con studi mirati, conservano l’impianto urbano e architettonico identicamente intatto, riconoscibile all’impianto e dall’orografia tipica a soddisfare le consuetudini di questa straordinaria minoranza.

Oggi è giunto il tempo di confrontarsi sulla legge 482 del 99, correggere gli errori, integrando nuove esigenze pervenute, ma più di ogni altra cosa, rilevare che la minoranza italiana, non è “Albanese” ma Arbëreshë.

Occorre produrre protocolli identitari senza protagonismi e ben comprendere che: ogni manifestazione, deve essere allestita coerentemente con quanto di storico ancora possediamo, compreso l’unico elemento artistico ereditato dalle generazioni passate; il costume arbëreshë, e terminare lo stillicidio di vestizione, che sarà a breve argomento di una pubblicazione, giacché solo nel vedere come è allestito, esposto o indossato, dire che lascia perplessi è un eufemismo.

Per questo occorre migliorare le disposizioni delle leggi regionali che non sono solide al punto di caratterizzare i centri arbëreshë, al fine che al viaggiatore errante possano apparire, credibili, unici e senza porte ventose medioevali che spazzano e rendo irriconoscibili gli ambiti della storia.

Disporre che l’appellativo dei centri minori qui trattati sono i “Kastrjonì o Katundë” non Borghi! quest’ultimo, in specie appartiene ad altri popoli, disposti più a nord e comunque non nei tempi e nei luoghi, secondo le esigenze culturali delle genti di radice, Arbanon, Arbëri e Arbëreshë.

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GJITHË GJINDIA T’ GJEGJEN (Thë katundet arbëreshë: një shëpi një €, e tre shëpi  dy€)211054

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Posted on 25 maggio 2019 by admin

SCACCIAMO LA VOLPE ARBËRESHË3

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Non sono pochi i paesi del meridione che seguono la meta dello svendere il proprio patrimonio edilizio storico, piuttosto che adoperasi per trovare metodiche di valorizzazione di quanto resiste e conserva indelebilmente l’identità di luogo e di tempo.

Tesori unici che pur non luccicando, restano solidamente stesi alla luce del sole, in attesa delle persone giuste che le sappiano rispolverare senza usare violenza.

Oggi è tempo di costruire una sola regione storica, “unica e indivisibile”, non tante incomprensibili “barbarie” che attendono il vento che le tira, generato dai dipartimenti di semina monotematica, ignari delle direttrici cardinali.

Una visione appropriata del territorio rende più chiari gli ambiti urbani, quelli sociali sub urbani, il costume e tutte le caratteristiche identitarie sotto la stessa luce a iniziare dai paesi più estremi dalla Sicilia e sino all’Abruzzo, oltre le macro aree di Marche, Emilia Romagna e Veneto.

I Katundë di minoranza arbëreshë contengono nei loro edificati storici le essenze del codice identitario trasportato nel cuore e nella mente da ogni profugo dalla terra di origine nel XV secolo.

Ritenere di fare colpo svendendo i contenitori della nostra identità attraverso gli apparati multimediali o buttarsi nella mischia politica “dell’etnocentrismo” che ha fini di appiattimento, non è certo la ricetta ideale per rilanciale gli oltre cento paesi arbëreshë.

Nelle vicende degli ultimi due decenni i Katundë hanno sopportato di tutto, si potrebbero citare i concorsi emergenziali che hanno restituito carene al posto dei tetti a falda, ardesie al posto dei coppi, gjitonie lette come porte medievali, abusi edilizi scambiati per case antropomorfe, e adesso si vogliono recuperare le emergenze architettoniche e urbanistiche senza avere alcuna consapevolezza storica di territorio, luoghi, scenari e ambiente.

Oggi assistiamo impotenti a manifestazioni in cui si preferisce demolire l’architettura storica immaginando che sia la via più breve per sanare i mali della società, purtroppo non è cosi in quanto, l’architettura nasce per rispondere alle esigenze dell’uomo, se poi quest’ultimo ne fa un uso improprio non è certo colpa del manufatto che rimane li a prendersi le colpe del malaffare degli uomini, si potrebbe concludere che è facile dare la colpa alle strutture che hanno un corpo, un anima e non la bocca per difendersi.

È impensabile che giovani diplomati senza alcuna esperienza, magari affidandosi solo a qualche corso formativo, a ore, siano in grado di leggere le trame urbane e gli elevati storici dei paesi di origine arbëreshë che “non sono Borghi”.

La diplomatica del recupero tutela e valorizzazione dei centri urbani di origine arbëreshë, detti anche minori, è un tema che deve essere sviluppato solo da quanti hanno consapevolezza della visione storica, degli eventi sociali per i quali sono stati edificati gli agglomerati aperti grazie al genius loci.

I katundë arbëreshë che come i dotti di architettura enunciano, derivano dalle esigenze umane, attraverso la comprensione delle forme costruite, divenendo per questo, espressioni della civiltà che  manifesta gli esperimenti con le forme dei tempi.

Le specifiche strutturali sono il segno dei fenomeni esistenti; opera dove, soprattutto in passato, di misura con la qua­lità dell’ambiente e si configurava in concomitanza della qua­lità del vivere.

La conoscenza progettuale prendere consapevolezza, ogni qualvolta si elabora secondo precise «scelte», disegnando luoghi in grado di configurare caratteri.

La conoscenza della storia è indispensabile per ogni qualvolta si cerca d’intervenire all’interno del centro antico e nel caso dei paesi arbëreshë, oserei dire dei centri della storia, giacché consente di riconoscere quali sono stati i valori culturali di genere «etnocentrici», gli ideali e le affinità che hanno guidato le diverse configurazioni di Katundë e dei suoi monumenti nel corso dei secoli.

Per questo è importante eseguire studi morfologici per comprendere il significato profondo delle forme nello spazio; il valore formale del manufatto – nell’insieme di caratteri urbani ed edilizi – quindi si giudica attraverso una coscienza storica, che appartiene al presente, in base alla considerazione di fatti architettonici esistenti e ancora significativi.

L’edilizia e le architetture che strutturano un luogo urbano ne costituiscono lo spazio fisico, ne rendono l’identità; il riconoscimento dell’unità significativa, rappresenta ­l’insieme dei fatti che si sono costruiti nel tempo, attraverso l’espressione di vari linguaggi figurativi.

La storia dell’arte, consente di conoscere le concezioni estetiche e riconoscere gli aspetti delle opere relative, distinguendone i vari periodi formativi.

Nel caso di opere di architettura e impianti urbani soltanto la capacità disciplinare propria degli architetti e urbanisti educati a progettare, può indurre all’identificazione del principio tipologico su cui si è fondato un edificio e al riconoscimento dei relativi processi di costruzione della struttura morfologica.

L’organizzazione tipologica, infatti, esprime chiaramente la concezione spaziale che ha caratterizzato in un certo modo le diverse fasi dell’abitare dagli ambienti monocellula­ri e polivalenti con prevalenza della verticalità, distribuite funzionalmente nell’orizzontalità.

Considera lo stato delle cose nel rapporto con il loro passato, deve aprire a valori universali, meno legati

È quindi necessario acquisire una conoscenza dell’ambiente, anteponendo ricerche “opportune” per comprendere il risultato odierno, al fine di contestualizzare le forme tutelando le originarie motivazioni urbane, affiancandola a una nuova possibile realtà.

La ricerca progettuale intende affermare il principio secondo il quale il manufatto architettonico deve indicare una rotta rispettosa dell’esistente e lo sviluppo possibile, avvicinando senza strappi il rapporti tra la morfologia che si conserva e le necessarie di utilizzo secondo le nuove necessità.

Tutto questo per lanciare un antico grido di avvertimento GJITHË GJINDIA T’ GJEGJEN, che non deve essere inteso come la mera offerta commerciale giornaliera, ma il consiglio di un esperto che nel tempo di una legislatura prevede che tutto finisca in: një shëpi një €, o  tre shëpi dy €, se non si corre ai ripari.

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HAI MAI VISTO O SENTITO COSE DI QUESTO TIPO

HAI MAI VISTO O SENTITO COSE DI QUESTO TIPO

Posted on 12 agosto 2018 by admin

la-storia-secondo-la-disposizione-delle-pietre-arbereshe

NAPOLI (di Atanasio Pizzi) –  Dopo la fioritura primaverile dei tulipani, le danze del ventre e dei busti nella longobardica calabrese, la sposa a cavallo di mulo, le borse griffate associate alle stolje in terra madre, lo ignorare il significato tra Giorgio il Grande e alessandro il grande, i messali in rumeno, le sonate gjamaj-cane e la ricerca delle tipiche disposizioni circolari del vicinato arbëreshë, è stato deciso di verificare, lo stato del cono mentale e visivo nelle macroaree più vivaci.

Sono innumerevoli i cartelloni che riassumono attività di promozione della Regione storico/ambientale Arbëreshë, attraverso progetti Gjitonia” quali: manifestazioni, divulgazioni librarie mirate, iniziative di accoglienza,  canti e balli fuori da ogni regola, nomine bizzarre oltre a ogni espediente suggerito dall’ambulante di turno al mercato e nell’ora di punta.

Verificare la metrica con cui tali disposizioni sono immaginate, innalzate e prodotte, quali istinto li genera e quanti segni lasciano indelebili per un adeguato ritorno economico sul territorio, non è dato a sapersi e ne con il tempo portano migliorie economiche, di tutela, per non entrare in argomento istituzionale dei Katundi verso la prevenzione  sismica o del dissesto idrogeologico.

Visto e siccome ciò non viene considerata una priorità, con questo scritto si vuole indagare per comprendere lo stato in cui versano gli agglomerati disposti dall’alto jonio cosentino seguendo la via del Pollino, l’Appennino calabrese, sino alle montuosità che degradano verso il Tirreno, per poi ritornare sulle pendici della Sila Greca lungo la linea dell’infinito calabrese; una ricognizione, alla ricerca di elementi tangibili e intangibili dei luoghi attraversati addomesticati e costruiti sia dai laici e sia dai clericali arbëreshë.

Sicuramente produrre un evento che vuole rilanciare prodotti tipici o la cucina della Regione storico/ambientale Arbëreshë, senza prima, creare un momento di confronto e di rappresentazione, si ritiene che sia inutile o addirittura dannoso al consuetudinario di minoranza, specie se, mentre si consumano pietanze anonime si viene ammagliati dalle danze del ventre e del busto, volto all’indietro, che non fa parte del rigido disciplinare  storico.

Non certo aiuta a comprendere il senso delle nostre origini, lo strimpellare sonorità musicali che notoriamente non sono mai appartenute alla storia degli arbëreshë, a nota di ciò, corre in aiuto il noto critico musicale di Barile, che nell’ottocento a Napoli, nei locali che si disponevano lungo la cortina che oggi è la piazza municipio, faceva un grande sfoggio di questo principio canoro, confrontandosi con Gaetano Donizetti, Gioacchino Rossini e Giuseppe Verdi, che lì si recavano a confrontarsi e ascoltarlo.

Altro dato che sino ad oggi è passato inosservato, camminando lungo le Rhugë (Vicoli) e le Hudë (Strade) gli Sheshi (Piazzette) dei piccoli Katundj (che non sono Borghi) è la facilità con cui sono state violentate pendenze e gli anfratti a favore di un “veicolare dannoso”, quest’ultima scienza inesatta,, ha avuto il sopravvento anche sui famosi “sedili” che storicamente segnavano il territorio e razionalizzavano il senso di appartenenza.

Nelle ristrutturazioni generali e diffuse dei centri storici, hanno il sopravvento aperture di ogni tipo e grado, finestre, balconi, porte e ingressi veicolari, che presuppongono interruzione di un continuo murario di murature in genere realizzate con materiali di spogliatura.

Essi rappresentano i continui murari più pericolosi che l’uomo ha prodotto per una necessità, anzi oserei dire una povertà, economica e mentale, che attenaglia ancora gli stessi ambiti.

Questo dato volge verso il basso il grado di vulnerabilità sismica, ma non solo, se questo lo associamo alla sostituzione di solai in cemento armato e lamie di copertura a cui sono associate le diffusissime travi lamellari, disposte in maniera da offrire il più scenografico aggetto.

Questi elementi che interrompono il continuo murario, “bucature” (finestre, balconi, con relativi aggetti, porte e ingressi di garage), associate alle piastre rigide (solai in cemento armato o travi in ferro e laterizi), a cui coronamento sono allineati in numero rilevante le strutture delle lamie di copertura (travi lamellari) rendono le strutture murarie dell’involucro abitativo fortemente compromesso sotto l’aspetto della flessibilità o rigidità sismica, se non si corre subito ai ripari e senza entrare sin anche nei meriti degli aumenti incontrollati di volumi/quadrature, in caso di evento, naturale o indotto, gli elevati e gli orizzontamenti non saranno in grado di rispondere neanche al valore più basso consentito dalla legge in vigore in merito agli adeguamenti sismici.

In genere in maniera poco intelligente si racconta che: non sia rimasto niente e che a nessuno interessa niente della antiche consuetudini arbëreshë; per certi versi è una premonizione, ma non perche non si seguono le regole di scolarizzazione linguistica, o si insegnano alle giovani leve come e cosa indossare del costume tipico o addirittura che il ballo non è una caratteristica.

La vera ragione sta nel dato, che se si continua a violentare le Kalive, i Katochi e i Palazzi Nobiliari ed ecclesiali, con gli artefici che ho elencato prima, in caso di evento di smottamento naturale o indotto dall’uomo, come in maniera fraudolenta è già avvenuto, nella regione storica, non resterà più nulla e siccome le istituzioni tutte, non hanno alcuna consapevolezza del costruito storico, perché non vincolato, ci ritroveremmo a vivere ambiti algerini, sotto carene rovesciate, tetti piani e inclinati, rifiniti da laminate di ardesia ligure, perché i soggetti attuatori, hanno altro a cui pensare o non conoscono il territorio e la sua storia.

Tutto ciò per parlare degli elevati laici, se dovessimo aprire un discorso per quanto concerne quelli clericali, la questione diventa un labirinto da cui è difficile trovare l’uscita e sfugge da ogni regola o ragionevole controllo.

È inconfutabile che se gli arbëreshë hanno avuto un antagonista imperterrito e instancabile, in terra ritrovata, esso è identificabile nella infinita crociata romana che non ha mai smesso di logorare la corteccia del codice identitario della minoranza.

A tal proposito e bene rievocare che sbarcammo sei secoli or sono pregando in ortodosso, poi ci imposero di guardare verso Roma, ma siccome queste non erano possibile dal meridione, ad alcuni fu chiesto di guardar verso Costantinopoli pregando in latino e non in greco.

A questo punto si è cercato di dare un senso che si guardava si ad est ma pregando in arbëreshë, ora il ciclo era completato, una lingua fedele ai latini in competizione con il grecismi ortodossi; ì intanto vennero a mancare gli istruttori, allora si è deciso di chiedere ai rumeni, che non parlano arbëreshë, ma questo poco importa, tanto l’importante è scimmiottare con il D.N.A. della regione  Jonica  per ammagliare l’ortodossia più estrema.

La crociata deve continuare, tanto gli arbëreshë sono serviti per il comodo del re, per spaventare e per quello del papa, per ammagliare.

Nel frattempo il re è morto, adesso c’è il presidente che è del PD; rimane sempre il papa che continua l’inarrestabile crociata, anche se nel frattempo lo scudiero ha mutato, veste strano, si muove sui tacchi e  parla  pure strano.

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