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RITI E TERMINI RIVOLTI FUORI DAI MODELLI DI MEMORIA E CREDENZA POPOLARE (Na cèlljimë cocelljenë me thë şcruituratë e Bulljervetë)

RITI E TERMINI RIVOLTI FUORI DAI MODELLI DI MEMORIA E CREDENZA POPOLARE (Na cèlljimë cocelljenë me thë şcruituratë e Bulljervetë)

Posted on 02 aprile 2024 by admin

Senza titolo

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Tutti i popoli hanno un percorso evolutivo unico, sostenuto da uomini, fatti, cose e luoghi; nasce a seguito di questo principio, circa sessanta anni orsono, la mia passione per comprendere e capire la storia degli Arbëreşë.

Chiaramente non come quella interpretata da prelati, guerrieri, artigiani, contadini, naviganti, i quali, per le succulente storie locali poste in essere, non trovarono alcun giovamento, per il continuo atto di riversare cose e fare storia.

Alla luce di questi minimali principi posti in essere e, non avendo giusta consapevolezza della mancanza di contenuti nel definire la leg.482/99, che doveva risolvere ogni cosa, avendo come principio la Gjitonia come il Vicinato dove si prestano cose, lo stato in cui si trovano i paesi su citati non lascia liberi certamente orizzonti di tutela mirata.

Ha avuto inizio, per queste e altre cose che qui si preferisce non citare, il pellegrinaggio attraversò i cento e nove Katundë, più la capitale Napoli Greco Bizantina e di Iunctura Alessandrina, con il raccogliere, verificare, incrociare e confrontare in loco, documenti, materiali, consuetudini, genio e credenze Arbëreşë.

Una ricerca nuova che al solo pensiero che possa essere resa pubblica fa tremare quanti da secoli ripetono e diffondono comuni cose senza ragione e senza avvertire, quanto e come offendere chi si è prodigato riversando studi e principi di altre eccellenze.

 La memoria popolare per questo, pone in essere e ripropone eventi o appuntamenti annuali, seguendo lo scorrere del tempo, dando forza alle memorie locali con riti, processioni ed eventi, che dal giorno del termine a febbraio e, senza soluzione di continuità accompagnano e mantengono vive le consuetudini della propria identità locale.

Tuttavia queste fanno come l’acqua, non seguono il tempo che scorre imperterrito e non si ferma mai, ma cambia destinazione e va per vie diverse al mare, che accoglie sempre ogni cosa che li si reca.

I riti di cui qui si vogliono trattare o discutere per comprenderli e valorizzarli meglio sono quelli che interessano la Regione Etnica Diffusa Accolta e Sostenuta Kanuniana dagli Arbëreşë.

E’ ormai da ben oltre cinque decenni che i riti e le rievocazioni, religiose e di credenza popolare anno perso ogni radice storica e per questo presentate più come momento folcloristico per il turista distratto e poco interessato all’evento e, non accumunano e riportano le genti residenti locali a una rievocazione che dia senso e agio alla propria identità che di anno in anno degenera e diventa sempre più flebile.

Gli appuntamenti di memoria culturale sono molteplici ad iniziare dal Matrimonio, le feste di credenza, il giorno dei morti, le feste patronali, il giorno dell’insediamento, l’inizio della stagione lunga (l’Estate), la fine di questa e l’inizio della stagione corta (l’Inverno) e cosi a ripetere.

Momenti di condivisione che rispettavano, rigidi protocolli dentro il perimetro di credenza e nelle sue prossimità, per poi via via essere espressione laica, ma sempre rimanendo entro un protocollo permissivo che non deve essere mai degenere o miscredente.

Tuttavia e purtroppo, il senso degenere in specie quello pubblico, da diversi decenni va per tangenti e diventa sempre più allegoria o meglio spettacolo da stadio.

Seminando così fatuo e ilarità a dir poco indecenti, e si immaginano sempre di più, a cose che non hanno nulla da spartire o vedere con la storia locale di quel preciso evento, quando si va fuori dal perimetro religioso.

Le libere interpretazioni civili, negli ultimi decenni, sono alimentate sempre meno di protocolli locali e lasciati al libero arbitrio di gesti e cose inconsulte e senza attinenza, da un vero e proprio vortice di copia inconsulto, sempre più scellerato, per fini privati o per emergere protagonisti, con l’arroganza che sia giusto riportare all’interno di un percorso intimo locale, le cose che attraggono il viandante organizzato.

Gli avvenimenti e le cose riportate, anche se hanno luogo in diverse macroaree e per altri avvenimenti, si applicano nell’inconsapevolezza, che sono altra cosa o rappresentazione, senza avere accortezza che non centrano nulla di locale cosi come riportato, perché copiato in altro luogo.

Ormai le cose sono poste, tutte in essere, non avendo come lume l’originario senso di quella ben identificata ricorrenza, ma secondo un principio moderno locale segue “discorsi nuovi” finalizzato a stravolgere la tradizione.

Tutto questo secondo una diplomatica che accomuna viandanti distratti a esecutori incoscienti locali, i quali si spera partecipi senza cuore o ragione, fanno tutto per la goffaggine esponendosi ignori del componimento e, fanno lacrimare sangue al cuore di chi conosce quell’evento locale.

È chiaro che richiamarli o redarguirli dalla platea, è un atto vano, giacché, viene inteso come consenso, acclamazione o lagna di un protagonista mancato, assumendo per questo gli attori del palco, la funzione sin anche di cattedratici o istitutori di un nulla che per loro si basa sul teorema che nessuno sa e, quindi posso essere o fare senza vergogna sempre cose più degeneri.

Cosa riassume questo stato di cose oggi stese alla luce del solo fu il cantautore Francesco Guccini, un anno prima che io iniziassi, ovvero nel 1976 a prevedere tutto quello che sarebbe accaduto e qui riporto il testo a mia misura;

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni;

Credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni (Nuova Storia);

Va beh, lo ammetto e mi son sbagliato e accetto il “crucifige” e così sia

Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato;

Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante;

Mia madre non aveva poi sbagliato a dir: “Un laureato conta più d’un cantante”;

Giovane e ingenuo ho perso la testa, sian stati i libri o il mio provincialismo;

E un cazzo in culo e accuse d’arrivismo, dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta;

Voi critici, o voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa;

Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;

Io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi;

Vendere o no non passa fra i miei rischi, non avrete mai i miei “dischi” e sputatemi addosso;

Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a “cantare”;

Godo molto di più nell’ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare;

Se son d’ umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie;

Di solito ho da far cose più serie, costruir su macerie o mantenermi vivo;

Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, “io architetto” io fascista;

Io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista;

Io frocio, io perché canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino;

Io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare;

Secondo voi ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento?

Ovvio, il medico dice “sei depresso”, nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento;

Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no di un qualche metro;

Compagni il gioco si fa peso e tetro, comprate il mio didietro, io lo vendo per poco;

Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni;

Voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni;

Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete;

Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate;

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso;

Mi piace far “canzoni” e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso;

E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare;

Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto;

Questa santa previsione, ebbi modo di ascoltarla e comprenderla subito perché il Nipote di Celestino “detto Gelèu” e dicevano a quel tempo, che avessi pure la tessa voce, e qui aggiungo solamente: Grazie Guccini, di aver previsto tutto questo; io il tuo disco lo comprai, lo diffusi, grazie il primo stereo che portai in paese nel 1976, in quella Trapeso, dove si diceva andassero i poveri di ogni cosa, a raccogliere gli scarti della mensa Arcivescovile e, nonostante ciò a nulla è servita la tua “avvelenata e il mio impegno profuso”.

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ADRIATICA RIBOLLITA di BUGIE ESALTATE e RIVERSE tra ITALIA e ALBANIA “A.R.B.E.R.I.A.”

ADRIATICA RIBOLLITA di BUGIE ESALTATE e RIVERSE tra ITALIA e ALBANIA “A.R.B.E.R.I.A.”

Posted on 31 marzo 2024 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ad oggi bisogna accertarsi e con parsimonia delle cose che del palco su cui si è partecipi a diffondere cose senza senso storico e, per il solo fine di stupire turisti e comuni viandanti sempre affamati o pronti a digerire ogni cosa commestibile/fumosa, dirsi voglia.

Accertato che sia uso comune riportare teoremi riversati, secondo il tempo e le occasioni che corrono, qui in questo breve, si cerca di fare chiarezza a largo spettro per poi stringere la mira su luoghi, fatti, cose, uomini e in dettaglio illustrarle.

Tracciare un percorso storico e identificare cosa ha reso possibile, nella penisola mediterranea, le forme di accoglienza e integrazione, senza avere consapevolezza della “Regione Etnica Diffusa Kanuniana Accolta e Sostenuta per gli Arbëreşë “denota come siano stati condotti gli studi e i relativi approfondimenti utili ad interpretare contenuti di archivio, biblioteche o notarili atti, relativi ai trascorsi di questa chiacchierata minoranza.

Il tutto, non conduce certamente a risultati con il comunemente divulgato identificativo di radice, secondo cui una porzione della odierna Albania Balcanica, che geograficamente è allocata al centro nord estremo, denominata storicamente Arberia è la patria di quanti vantano radici di cultura Graca che si trova al sud della stessa nazione, e tutti; non hanno mai danzato per aver trionfato in  guerre o fatto stragi.

Nasce così la necessità, di una nuova indagine, secondo cui a migrare dopo la morte dell’eroe Giorgio, il 1468, non furono solo la gente del nord, o del sud, ma da tutta l’antica terra balcanica, ma diffusamente venne lasciata nelle mani di quanti si prestarono ad essere piegati secondo credenza d’oriente.

Poi se si odono le diffuse Vallije allestite in azioni mirate, emerge la necessità di analizzare le cose della nostra storia con più attenzione, racchiuso nel componimento a titolo di questo breve.

Sostantivo acerbo, amaro e forgiato, o addirittura, fumosa opera di comuni viandanti, che presentano pietanze garantite, da precedenti viandanti, per questo genuine, in quanto “benedette”, con rametti di origano intrise nell’ aceto, come fanno “le Jannare”.

Tuttavia, e con pena immensa, in questo breve, si vuole evidenziare, senza affondare nel citato pantano “benedetto”, e mi riferisco a quel trapeso, ormai non più, né Terra e tantomeno luogo o memoria condotta delle tre figlie; Fede, Speranza e Carità, che nel contempo hanno preferito, minareti a campanili.

Qui in questi ambiti stretti e lunghi, che fanno centri antichi, come la natura preferisce, hanno avuto i natali le figure di eccellenza più elevate tra gli Arbëreşë, grazie al presidio scolare monastico denominato “ Arcivescovile”, elevato alla fine del XVI secolo, giacché, luogo ameno soleggiato e difeso dalla natura,  per questo ha dato avvio alle formazione culturale di numerose figure locali su base greca e Latina e diventare eccellenza, quali prelati, rappresentati di cultura e legalità, i quali nel breve tempo di pochi decenni riecheggiarono ben oltre i confini del regno e dell’Italia unita, perché esempi di cultura prima irripetibile.

Una vera scuola che da questi luoghi di Terra che richiama le finezze Alessandrine, ed è qui si vuole accennare anche il nero che si alimentava dei reflui del butto vescovile, per poi diventare vergogna nel decennio francese.

Lo stesso che violando il senso di Terra, se si esclude l’elevato Romanico del XVIII secolo, elevato ancor prima dello scuro natalizio, a seguito del quale, il calvario di questo luogo, non ha avuto soluzioni di continuità, visti i risultati della profonda deriva che pur se nota, fa danno.

Essa inizia il 1799 a Napoli, con l’episodio dell’arresto, la conseguente esecuzione e il su drammatico epilogo di cattiva esecuzione di Pasquale Baffi, a cui segue con la costituzione del vergognoso monte del grano lungo la odierna Via Masci, un elevato costituito in elementi di esclusiva spogliatura tellurica.

Qu sono nate le figure che hanno immaginato aperto e poi chiuso quanto divenne esausto il presidio culturale della terra citeriore, fulcro culturale atto a indicare la via dell’unità, culturale, sociale, politica, religiosa e dei segni, in tutto, un cerchio perfetto descritto da un compasso buono, che senza mai apparire o averne avuto mai merito, ha posto in essere, solo bene per i vicini fraterni.

La deriva vera è propria ha inizio, con la strage, avuto luogo dal 12 al 18 agosto del XIX, lungo i lavinai di Terra a terminata davanti a un privato granaio, ma con pegno poi pagato, sedici anni dopo, alle spalle dei granai della capitale del regno, per ironica sorte; e da allora sempre con più veemenza si è lasciato spazio e tempo alla libera deriva.

Una vera e propria pandemia culturale che sparge gratuita cattiveria, perché di regia diavolesca, la stessa che vive e vegeta in questi luoghi e se non si corre e passare con urgenza, a rifoggiarla, di questo centro antico, non rimarrà più nulla.

Va sottolineata la parentesi avuta luogo e tempo nel XX secolo, una fiamma di ripresa durata sino alla metà degli anni cinquanta, epoca in cui venne allestita sin anche la Festa dell’estate o meglio l’inizio dell’integrazione, spenta sempre di più dai venti sessantottini, che hanno generato un vortice culturale secondo cui erano battaglie o stragi per il santo patrono: Vallje.

E negli anni ottanta si è dato inizio, con al calpestare la toponomastica, affidandola a ignari viandanti indigeni, iniziando così a produrre e allocare, progetti in elevati, allestendo percorsi pubblici per i quali sono stati cancellati o rimossi: sedili, fontane, varchi, vichi e ogni oggetto vernacolare di Iunctura storica.

Furono così trasformati i luoghi ameni, in parcheggi per autovetture d’occasione o foriere senza stagione e, in alcuni casi cancellare completamente gli antichi e valorosi percorsi da soma, in regola Kanuniana.

Non sono state rispettate scalinate, vichi, orti botanici, aie, sottoportici e tutti i lavinai, i quali senza riguardo, sono stati sotterrati con croci parallele in ferro, a memoria perpendicolare, in favole di inutili percorsi veicolari senza alcun bisogno condiviso, disperdendo il senso generale dell’impianto urbano di “Iunctura storica”, la stessa che fa di questi luoghi “NON BORGHI”.

Cosa dire poi della sovrapposizione o la deposizione per le memorie storiche locali, le quali sono menzionate e ricordate in episodi che ritenere inopportuni è dire poco offensivi se non ironici, in molti casi, ma tutto ciò non è nulla,     se accenniamo come la cultura, qui è stata violata, con episodi secondari o di infantile interpretazione, coinvolgendo sin anche le massime autorità, che distratte partecipano ed elevano i neri calpestando il bianco fatto di pene, sacrifici e principi violati.

E come se non bastasse, sono state sin anche violentate le prospettive storiche, dagli inizi degli anni novanta del secolo scorso, sostituendone il valore materico, che le rendeva uniche, elogiando madri comuni con quelle chiuse nel dolore, completando l’opera ritenendo che un centro antico sia il luogo dove depositare coloriture alloctone di altri paralleli terrestri, per seguire la moda che anche in questi luoghi ameni, solo la globalizzazione poteva ferire e uccide, con incosciente giubilo e senza rimorso della pena inflitta a Clementina.

Adesso inizia l’estate per gli Arbëreşë, con tempi e ritmi in gruppi di genere che innalzano Vallja; a questo punto è il caso di suggerire con il vestitevi in costume, ricordando che quelle vesti sono bandiera e, nel portamento sarebbe il caso di fare gesti garbati e mai inconsulti, specie per la memoria e l’onore di “vostro padre”, come tradizione vuole.

Ricordate che quando cantate, chi vi sta accanto, alterna vocalità di genere, per poi terminate nel canto che unisce voi e gli altri, riverberando in questi ambiti ameni, i valori di fratellanza in terra parallela quella solida ritrovata, naturalmente.

 

P.S. per quanti cercano di fare, dire o enunciare:

  • La Sposa in Pubblico, danza saltella, non fa sollevare le vesti, non fa coda o ruota,  né prima di esser sposa, aver al collo la fascia nera;
  • Bërlòcù, non è ne per bimbe o adolescenti; ma è solo per donne adulte che fanno famiglia, perché maritate;
  • Lavina Jònë; è dove il tempo, l’acqua, vanno per mano e riempiono buche, e fanno strade;
  • Chi non sa e conosce le Vallije, leggesse Serafino Basta dottore di Civita -1835;

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L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI E DISEGNA, PERIMETRI DI CASE, VIE, VICHI E PIAZZE (Chi Studia Tutela Valorizza e Tramanda)

Posted on 25 marzo 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’acqua scorre e segue il tempo, ma il tempo non si ferma, mentre l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, segna i luoghi e, le persone che osservano dalle rive desertiche, prendono spunto dai suoi suggerimenti, e costruiscono con il tempo che scorre senza sosta. 

A tale scopo si vuole dare storica memoria, ai luoghi dove le vie, i vicoli sono onomastica viva, come: Lavinë, Parerë, Trapesë, Stangò, Vallj, Cangellë, Sentinë, Morrë, Kopëshët, ecc., ecc., ecc.

Valga come esempio primo il Lavinaio, refluo torrentizio che scorreva da monte a valle, in quello che poi sarebbe divenuto il centro antico, grazie al fondamentale corso naturale dove attingere sabbia per la crescita dell’edificato originario.

Risorsa offerta dalla natura, dove fermata la sabbia con apposite barriere, in diverse grammature ed usi, grazie alle quali, venne sin anche edificata la chiesa padronale di estrazione latina del Katundë arbëreşë.

Qui grazie allo scorrere dell’acqua, operosa nel rifinire la sabbia, nel tragitto che faceva sino a valle, in quelle aree di iunctura urbana, dove a forza di rotolare si depositavano finemente in diversa grammatura, prima che l’acqua prendesse la via dei torrenti per giungere nel fiume. 

In tutto acque che scendono da monte, segnando i tracciati, poi divenuti progressivamente strade vichi e scalinate, in quel tempo, fondamentali per orientarsi, secondo un progetto naturale, del centro antico in crescita.

Il tutto, fu poi per opera dell’uomo, percorso che conduce nei rioni in crescita, divenute, Vie, Vichi o luogo di Piazze.

Come la storia, il tempo alimenta e talvolta tace, o tiene velate cose, tuttavia rimane vigile e in attesa che le sia ridata voce, dove essa scorreva o cadeva, segnando il luogo e la storia.

Infatti è stato sufficiente lasciarla libera di scorrere, affinché componesse secondo natura, quei percorsi ben seguiti dagli uomini, perché espressione di iunctura; o meglio tessitura fatta di trame di acqua e di tempo, ben accolta dall’uomo, che non le ha più abbandonate.

Ho sempre immaginato, che l’edizione di un testo, portato a buon fine, potesse sollecitare i migliori propositi revisionando e arricchi­re le cose della storia e la scienza in contenuti senza riserve, in tutto dare vivacità e “freschezza” come lungo i lavinai del passato, hanno consentito di attingere e poi in epoca moderna fa lo scorrere condiviso dell’acqua, che appartiene indistintamente a tutti.

A tal proposito si vuole sottolineare quel due di maggio del 1935, quando furono invitati tutti i fruitori in Terra di Sofia, in un luogo comune su base ottagonale, perché identificato luogo religioso sociale e religioso dei cinque sensi, per fare una festa e accogliere l’acqua nuova, senza distinzione di rioni o Gjitonie, ma rappresentanza di tutto il centro antico a quei tempi in spasmodico ardire per essere rilanciati, dopo il secondo inverno nero mondiale.

Lo stesso che dagli anni ottanta del secolo scorso, venne strappato dalla prospettiva dell’intellighenzia beneaugurante degli ignari di turno, posto molto di lato, senza una cognizione di causa, perché già prima era stato negato anche lo scorrere del fondamentale liquido naturale, che unisce e disseta le menti dei giusti.

Ed è così che il deserto storico, sociale e religioso ha iniziato a prendere il sopravvento; la pietra cementizia ottagonale, diventata desertica e, per diversi decenni, poi apparisce impropriamente alimentato con riciclo infantile, con la speranza che unisca persone a cui si vieta di usarla, in tutto impedire quegli atti sociali e di fede, che uniscono e dissetano le persone e le cose genuine.

Ed è così che il quadrangolare fontanazzo evidenzia solamente le pene dell’acqua, che non scorre come fa la Storia, ma gira su sé stessa, come un cane che cerca di mordersi la coda.

In questo breve sicuramente mancherà la citazione degli attori principali ma, il testo resta un esame di eccellenza, perché da quando il riciclo ha avuto inizio, la Storia del Katundë dove tutto è diventato piatto e non sfogliare pagine di storia buona, come fa l’acqua.

Per lavare igienizzare o sanificare cose, un tempo i Katundarj si recavano nel denominato (Ronzj i Ghëròghëtë), lungo il corso dell’instancabile torrente storico sempre presente; mentre per abbeverarsi erano le fonti, i due termini di approvvigionamento, germogliate a seguito di due depressioni, o smottamenti storici.

Gli stessi che dividevano il Katundë, e qui non edificabili, e sino alla fine degli anni sessanta, mai nessuno ebbe fiducia di elevarvi case, stalle o altro tipo di rifugio, se non orti e produrre eccellenza ortofrutticola, ricercata sin anche dalle genti che vivevano nei cunei agrari.

Note erano, Patate, Zucchine, Pomodori per insalata, Fiori di Zucca, Fagioli, Ceci, Piselli, Taccole, Cipolle e come non ricordare, l’inconfondibile basilico e l’ornamentale prezzemolo.

La novità storica per una nuova acqua, giunse nel 1935, quando venne inaugurato il “Civico Acquedotto” il quale doveva dare agio e comodità a tutto il Katundë, anche se in poco più di un decennio, questa bolla di acqua, andò sempre più ad esaurissi e, con essa si è anche accodata la storia del paese, quella che avrebbe dovuto studiare per dissetare la mente per capire, preservare, tramandare cose buone e, non povertà di memoria, questo almeno sino ad oggi.

 

Katundëtë; dove oggi il tempo e l’acqua, van per mano e riempiono buche, e ingannano il comune viandante ignaro.

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I PAESI ARBËREŞË DA VISITARE ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA DA VIANDANTE (Janë e na vighë ghindë zotë e i mami për lindrunërà)

Posted on 20 marzo 2024 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono comunità alloglotte insediatasi, con i relativi modelli abitativi nel meridione italiano, fatta di tradizioni, parlate, uomini, religione e, una solida Iunctura culturale, ancora inesplorata, in specie dai percorsi turistici che contano.

Queste macroaree sono episodi della storia mediterranea che non mutato, resilienti nel corso dei secoli, in tutto, modelli di integrazione e convivenza sociale, tra i più solidi e duraturi della penisola Italiana.

Genti che per convivere non hanno dovuto fare uso di scontri, prevaricazioni o sottomissioni di sorta con gli indigeni locali, ma convivenza di “civile Gjitonia”, quella portata dalle colline dell’oltre adriatico e, innestata nel meridione italiano.

Gli stessi ambiti segnati, prima dai Greci fannulloni, poi da Bizantini e Longobardi in lotta, seguiti dai monaci Cistercensi dei fortilizi di grancia, in quelle terre note, o facilmente individuate, in epoca moderna come Regno di Napoli, oggi Italia centro meridionale.

Ed è qui che le genti, in specie Arbëreşë, non hanno mai smesso di valorizzare e mantenere vive le antiche tradizioni o le cose portate nel cuore e nella mente dalle loro terre di origine dai Balcani.

Le stesse poi depositate in questi “Paralleli Meridionali” con rispetto, saggezza e genio di luogo, mostrandosi sempre operoso e mai distrarsi nell’assumere atti di protagonismo o prevaricazione verso gli altri.

Questi Agglomerati o Nuclei Abitativi Aperti, in stretta aderenza ai cunei agrari e della trasformazione, relativi, si identificano in Katundë.

Essi non hanno nulla a che vedere con gli impianti medioevali murati ai piedi di castelli o i sistemi in difesa o circoscritti dirsi voglia, identificati come “Borgo”.

In quanto gli Arbëreşë, facevano uso di modelli abitativi aperti e non murati, la unica difesa era l’impianto urbano di lenta percorrenza o di “iunctura familiare”, più idonei delle banali e violente mura o elevati, per dividere le classi sociali dall’agro operoso.

Qui tutto era familiare tutto era condiviso e nulla poteva essere violato o prevaricato da altri, chiunque essi fossero, e non poteva essere considerato mira per emergere.

Tutti i centri antichi e i relativi cunei agrari Arbëreşë, oggi sono itinerari molto suggestivi e colmi di significati antichi, anche se la poca attenzione che molte amministrazioni governative e locali, in diversa misura, usano rivolgere per identificarli, tutelarli senza mai valorizzarli e tutti, danno la misura con il definirli, identificarli o appellarli comunemente in “Borghi”.

Nonostante sia evidente che, se un Borgo risulta essere un sistema chiuso, un Katundë e un sistema aperto, se un Borgo ha diverse classi sociali, un Katundë vive di parità sociale, se un Borgo ha la nobiltà a guida sociale e politica, un Katundë vive del governo operoso degli “uomini” e delle “donne” che amministrano le cose in egual misura e cooperazione, senza mai superare i limiti di competenza civile tra generi.

Tutti i paesi, Villaggi, Contrade, Frazioni, Katundë minoritari, hanno caratteristiche distintive simili, sia nella disposizione dei rioni e, degli elementi urbanistici/architettonico, in tutto, un esempio di storia urbana di città aperta.

La stessa vissuta al fine di integrarsi, confrontarsi e dare agio ai loro abitanti senza distinzioni o elitarie di sorta e, nonostante la peculiarità che anticipava i tempi delle società che ancora oggi annaspano, solo a pronunziare quello che per gli Arbëreşë era regola, questi paesi vivono solitari e senza alcuna legge che tuteli questi aspetti, nel mentre si valorizzano, esclusivamente le forme idiomatiche appellandole di lingua altra.

Lasciano per questo, gli impianti urbani e le valenze Vernacolari alle ire del tempo, alle attività ideologiche della politica e al riversamento dei contenuti storici ad opera dei castellani, sempre più ostinati a credere che nel deserto si possa trovare una fonte di vino buono.

Le stesse ideologie locali che ad oggi giorno, la politica e delle metropoli moderne, sognano quale ideale irraggiungibile, ipotizzandoli solo come percorsi scolari e nulla più.

Nonostante, tutti questi piccoli centri antichi e, i loro cunei agrari fossero in origine abitati da indigeni, ma le vicende della natura, in forma di carestie, terremoti e pestilenze diedero modo di essere abbandonati e lasciati all’incuria di tempo affiancata dalla natura, solo grazie alla caparbietà degli Arbëreşë, questi oggi appaiono fieri sostenuti dai valori maturati, tra uomo e ambiente naturale preservato in maniera egregia.

Ed è la Calabria dove si contano circa sessanta tra paesi e frazioni o casali, su quattrocento sette, della regione intera, di Katundë Arbëreşë mentre tutto il meridione in sette regioni accomuna, ventuno macroaree in oltre cento dieci paesi con Napoli Capitale.

Questi tutti e senza alcun dubbio storico, sono caratterizzati da fenomeni sociali dove non vi era alcuna forma di borghesia o nobiltà altolocate se non, la nobile arte del prete di dire messa, per i quattro rioni tipici, secondo i quali si componeva la iunctura della; Chiesa Kishia, il fulcro, di unione tra i rione degli indigeni locali: Ka rinë rellët; Bregu per l’avvistamento e il controllo del centro in espansione; Kalive le tipiche residenze disposte in modelli articolati e lineari dagli Arbëreşë; che poi diventano componimenti urbani o perimetro del nuovo centro urbano denominato; Şëşi, (in Arbëreşë) e l’insieme formava un Katundë, che in Arbëreşë, ha il senso di luogo di confronto e di movimento operoso.

Indicavo un numero complessivo dei Piccoli centri antichi aperti, della Calabria e, solo di quelli ricollocati e innalzati dagli Arbëreşë, esclusivamente in zone collinari, oltre la quota, livello mare di quattrocento metri.

Questi, rispettivamente: molti hanno conservato il senso totale delle linee guida urbanistiche, architettoniche e i valori identitari; pochi anno parso le direttive religiose; e, pochissimi solo la memoria toponomastica.

In Calabria i paesi Arbëreşë sono allocati in quella che si identificano in tre itinerari delle Provincia di Cosenza, Crotone e Catanzaro; la prima con la Macroarea della Cinta Sanseverinese, suddivisa in sub m.c., del Pollino, delle Miniere, della Mula e, della Sila Greca; la seconda, con la Macroarea del Centro Jonico; la terza; con la Macroarea dei Due Mari, Tirreno e Jonio, quest’ultimo identificato come il confine storico del Gran Ducato di Calabria o del thema di Reggio Calabria della Costantinopoli imperiale.

Per quanti volessero addentrarsi all’interno di questi ambiti e rivivere sensazioni antiche, che neanche la globalizzazione ha ancora fermato; la prossima stagione lunga, ormai iniziata, (ovvero l’Estate) sia il motivo valido per recarvi, come residenti della breve sosta, assumendo le vesti di chi torna a casa propria, e si trova a vivere o avvertire i cinque sensi natii.

Per questo è il caso di risiedere nei presi e poi recarsi e fermarsi, simulando stanchezza per cogliere in ogni anfratto di questi luoghi, i fatti e attività sociali dal modello dei cinque sensi, ovvero al Gjitonia, dove si ode e si sentono, valori antiche che in nessun luogo è possibile rivivere.

L’antico governo delle donne, ovvero madri sorelle, zie e nonne instancabili che preparavano le nuove generazioni, ripetendo quelle attività che ancora oggi non smettono di esistere e dare vita a ogni nuovo fiore di genere, che qui ha la fortuna di nasce e crescere, pensando prima e parlando dopo in Arbëreşë.

Non chiedere mai cosa sia uno Shëşë, noti in storiografia come moduli di Iunctura urbana, in tutto, un componimento urbano articolato e disposto in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpij), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redhë).

O cosa sia Gjitonia, Costumi, Strade, Pietanze e bevande tipiche; non chiedere mai cosa e come erano innalzate Case, Chiese e Palazzi, o quali vestizioni tipiche usavano le donne e cosa rappresentassero in senso identitario della credenza e, dove siano avvenute, nascite, soprusi o malefatte.

Non addimandate di essere accompagnati, per essere raccontata la storia di quei luoghi, ma cercate di cogliere i valori che ogni persona è in grado sviluppare, nell’attimo in cui siete avvolti dal silenzio che innescano questi luoghi e sensibilizzano i vostri cinque sensi.

Solo così potrete avvertire attimi irripetibili e, vi troverete immersi in una dimensione nuova, fatta di odori, sapori, suoni, e prospettive, che se accarezzate con le mani lievemente, diverrete anche voi nuovi abitanti di questi luoghi colmi di storia e di leale passione, la stessa che rende e accoglie il passante che vuole vivere momenti non per distrarsi ma per essere migliore.

Mi raccomando, visitate i paesi Arbëreşë, non come turisti distratti, ma come figli che tornano nei luoghi materni.

Se poi la scintilla di tutto ciò non si innesca, chiedete dello scrivente e il fuoco della passione leale arderà dentro di voi e avvertirete le pene nobili degli infaticabili e leali Arbëreşë.

 

Napoli, dove il tempo scorre e cancella le cose della storia che conta.  

 

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Minareto o campanile1

VIAGGIO DI UN ARTISTA MODERNO NEI LUOGHI ARBËREŞË CITTERIORI (Ibrahim Shaban Likmetaj Kodra, il discepolo di Carrà, Carpi e Funi)

Posted on 12 marzo 2024 by admin

Minareto o campanile1

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – È facile cadere in inganno, quando si ode ripetere con insistenza il titolo di “Arberia” e subito riferire di luoghi dove la comunità Arbëreşë, ha disteso il proprio bagaglio identitari antico, al fine di non essere compromesso.

Lo stesso, presentato con il su citato sostantivo, a modo di Stato geopolitico nuovo, nonostante la minoranza si riconosca solo ed esclusivamente nell’enunciato di Regione Etnica Diffusa, Kanuniana, Accolta e Sostenuta in Arbëreshë.

Un esperimento storico disposto da Giorgio Castriota e, conclusosi in accoglienza e integrazione, priva di prevaricazioni o conquista di sorta, se non il solo principio di conservare la propria radice, nel confronto genuino con gli indigeni locali.

Rispolverare tutto ciò seguendo l’itinerario o pellegrinaggio dell’illustre Ibraim Kodra, si può estrapolare il compendio disegnato, secondo la metrica visiva dell’artista, un libero e spontaneo parere di credenza storica smarrita, lo stesso che denota l’accanimento profuso e conservato in quelle rive frastagliate oltre il fiume adriatico, mai mutate dai tempi e dei fatti del passato.

Kodra nasce 22 aprile 1918, a Ishëm, in Albania del nord, da una famiglia di pastori e sin da piccolo, allietava genitori, parenti e amici, disegnano sulla sabbia componimenti delle greggi con uno spiccato senso delle cose osservate,  inizia così la sua avventura sino a Milano dove diventa allievo di Carrà, Carpi e Funi per poi artista famoso in tutto il globo.  

I dipinti dei Katundë Arbëreşë, con grande finezza di monito, profusa dell’artista verso i suoi antichi fratelli, hanno come tema multi colore, continui abbracci fraterni, il cui unico rammarico è riversato nella forma dei campanili, con la croce in forma di luna, per ricordare cose che lui stesso non conosce e, a cui non sa dare valore di tempo e di luogo secondo l’antica e da lui mai vissuta, prospettiva di credenza.

Diventano attori il sole, la luna e le cose che indicano la strada maestra dal suo personale punto di vista moderno, avendo come suo unico riferimento il perpetuo abbraccio di generi, divulgato, come struttura di strumenti moderni in resta di ornamenti identitari, poi letti da altri, in maniera a dir poco inopportuna e riproposti come abusi edilizi degli anni sessanta del secolo scorso.

Nella presentazione delle opere, si rendere omaggio ad un artista, raffinato che attraverso la divulgazione delle sue prospettive di credenza, rendono e danno misura di un abbraccio, come fanno i familiari quando si dividono e poi si ritrovano, anche se l’artista, avrebbero dovuto conoscere la piega di credenza, che costrinse quelle genti a migrare a guardia dei confini e per non soccombere.

Il grande maestro, di formazione orientale, rimane un testimone/interprete di un lungo periodo di patimento culturale, del XX secolo, avendo il merito di coniugare i colori intensi del Mediterraneo, racchiusi nei ricordi della sua infanzia, con i grandi temi dell’identità inviolata, di quanti preferirono l’esilio per tutelare la memoria storica della terra natia.

I cromatismi pittorici, diventano così, un viaggio, che percorre i sentieri della propria radice di appartenenza, incastonata negli antichi sentieri di San Benedetto Ulano, Acquaformosa, Lungro, Frascineto, Civita, Plataci, della vestizione di Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone, Macchia, Vaccarizzo Albanese, San Cosmo Albanese e a San Giorgio Albanese, una tavolozza identitaria fatta dei colori della terra, del sole, il mare e gli abbracci di approdo mai terminati.

L’artista avverte l’alito, il soffio, la brezza colma di odori e sapori, interpretando il senso delle comunità Arbëreşë, secondo una visione Guernica Arbëreşë, storica ricchezza durevole, identica e senza soluzione di continuità, viva da cinquecento anni, tra questi luoghi ameni.

Questo è il tempo passato, lo stesso immerso tra gli ambiti paralleli del cuore e della mente degli Arbëreşë, fatto con il fuoco e campanili dei sentimenti che riportano, al tempo delle preghiere, non espresse in urla diffuse dai minareti, che modellarono, la tempra in terra madre, dal giorno dell’abbraccio di separazione.

L’itinerario artistico, di Kodra diventa, atto d’amore e di rammarico, verso queste comunità antica del mediterraneo, costruito di genio condiviso, ed è proprio qui che il maestro si ritrova a case sua, immaginando che sia giusto intravedere minareti inesistenti al posto di campanili.

Il sangue non mente e, per questo avverte le antiche sensazioni che attiva armonicamente i cinque senso, qui tutti lo conoscono e tutti lo vogliono, in altre parole lui vive la sensazione di ritornare a casa propria, vive gli attimi irripetibili di una Gjitonia.

Il viaggio spirituale tra i paesi inizia nel Pollino inferiore a quel tempo senza più il “Ponte”, abbattuto dall’incuria umana, precisamente pollino che guarda verso lo jonio e, poi prosegue verso il tirreno, dove l’antica “Acqua Bella” scorre rigogliosa, pura e limpida, finemente incastonata tra i le montuosità che osservano l’andare del Crati, ricordo parallelo dei monti dell’Albania, le colline e le pianure, dove il maestro nasce e trascorre l’infanzia.

Il secondo incontro è con le genti prospicienti il Crati, qui vede e prende atto delle pieghe del “dolce e dormiente” la quale aspetta il bacio del principe per risvegliare il senso delle cose antiche tradotte male.

Ed è proprio qui che l’abbraccio fraterno delle due dinastie.

Liturgia bizantina e icone caratterizzano il Katundë della “carmina convivala”, che diventa più la prospettiva di un monte con la croce che un luogo di credenza, mentre la Salina appare in tutta la sua bellezza naturale, riconoscendone il valore della convivenza civile dei parallelismi ritrovati, una strada che divide gli elevati non rilevando alcun atto per la credenza in luce.

L’artista fa tappa a nella frazione di Bregu, da dove osserva la piana di Sibari, dal Crati sino al Trionto, terra che dette i natali alla minoranza Arbëreşë il faro, o pietre su cui si ergeva maestosamente, l’intimità ormai senza più vesti.

Arriva, poi, in montagna da dove l’estrema altura di un Katundë diventa l’altare raggiante dal Mare Jonio e la Piana di Sibari si trasforma in perla dentro una conchiglia, qui la piccola comunità, sta raccolta in un manto di stelle nel cielo di alberi e colori naturali.

Ecco finalmente prende atto del viaggio Bizantino, accogliente e gentile, è il paese dei dottori, famosa per il suo santuario, come quello del trionfatore del drago; qui il tuffarsi tra gli ulivi e i vigneti, lussureggianti di verde e d’azzurro.

Ed è qui che appare luminosa la Terra di Sofia dove dal IX si prega con lo sguardo rivolto a Costantinopoli, sdraiata su una lunga collina con la sua suggestiva prospettiva agraria di unica e rara bellezza, da qui il viaggio lo porta alla stazione di posta storica, la più esposta e durevole comunità Arbëreşë d’Italia, esposta a continui confronti, cosa dire poi della vallja di credenze, con le due chiese che vanno per mano e non smettono di camminare.

Infine, quella che dovrebbe essere la Corone dell’ovest, dove si articola la sua storia in concerto al famoso collegio, ed è proprio qui, che l’ironico, saggio artista invia finemente un messaggio di memoria smarrita secondo lui da memoria di minareto.

Con queste piccole sintesi artistiche, di monito, il maestro intese “lasciare un segno indelebile di una sua esperienza illuminante, iniziata non meno di vent’anni fa e oggi analizzata con educazione e dovizia di particolari, sempre molto ermetici, onde evitare lo scuotere della intellighenzia dei numerosi liberi pensatori locali, “i grandi e distratti saggi”.

Un itinerario o atto d’amore che si esprime nelle sue cartelle con un “sole più grande che sorge un mare azzurro e colline sempre verdi e floride”.

Un segno d’unione con il passato intriso di radici, innestate in fonti inesauribili, ispirazione di un’attività di ricerca che si trasforma in espressione artistica nuova ed originale, ma che nelle sue opere diventa monito locale per le numerose cose smarrite.  

P.S. Vallja; Dal lat. carmina convivali, sono canti con cui i Romani antichi – secondo un’usanza diffusa presso i Greci celebravano durante i banchetti le gesta in memoria di una nuova fratellanza.

P.S Il Katundë non ha le cose del Borgo, perché modello di città aperta….

P.S. La Gjitonia è più ricca del Vicinato; almeno cinque e oltre, come il numero dei sensi……

P.S. Lo Shëshë non è una pizzetta circolare dove si dispongono finestre e porte gemellate…….

P.S. Il Rione è Shëşë, noto in storiografia come modulo di Iunctura urbana, componimento urbano articolato in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpj), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redë).

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OTTO MARZO; SI RICORDA LA GIORNATA DEL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË

OTTO MARZO; SI RICORDA LA GIORNATA DEL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË

Posted on 09 marzo 2024 by admin

Governo delle donneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – All’interno di ogni Katundë di radice Arbëreşë, l’otto marzo rappresenta la giornata per onorare tutte le donne che hanno dato vigore e preparato nel corso dei secoli, dal primo vagito, alle prime pronunzie e attività, all’interno della Gjitonia, a generazioni poi divenute illustri.

Le stesse figure che poi sono state gioia e orgoglio di queste nonne, madri, sorelle, zie o, vicine di casa, in tutto il governo della formazione culturale prima, di ogni uomo di coltura Arbëreşë, rendendo così, questa terra, di approdo e buona accoglienza. ancor più solidale.

Al tempo che oggi corre, sono in molti a chiede, perché la storia della Regione Etnica Diffusa, Kanuniana, Accolta e Sostenuta in Arbëreshë, non abbia avuto eccellenze femminili in prima fila o, note nel corso della storia di questo popolo.

La risposta è molto semplice ed è racchiusa nell’assunzione dei ruoli, che articolava in modo semplice e chiaro questo popolo, nei meriti di ogni genere umano, che nel silenzio rumoroso del luogo dei cinque sensi, ogni figura ha assunto e indossato la sua veste, con orgoglio e, senza mai perdere il senso o la rotta del proprio ruolo.

Se gli uomini avevano il loro governo o meglio la loro piattaforma per operare e brillare, lo trovavano fuori dalla dimensione dei cinque sensi, ovvero la Gjitonia.

È il questo luogo senza confini, denominato:” Scuola o Governo delle donne Arbëreşë” composto da Nonne, Madri, Zie, Sorelle e Vicine di casa, che ogni genere nascituro, veniva allevato senza soluzione di continuità, da questa filiera femminile, che non lasciava mai solo niente e nessuno, sostenendo e rimanendo sempre vigile al fianco per sostenere o a guardare le spalle, quanti qui crescevano formati di valori irripetibili, sino a quando in grado di camminare per completare il proprio genio.

Un Arbëreşë nasce da una madre e da un padre, ma dal primo vagito, viene adottato e preparato a parlare, ragionare, comportarsi e agire con pensiero, secondo un codice linguistico, non fatto di confusione e mille parole, ma semplici e basiche pronunzie grammaticali in Arbëreşë.

Le stesse che non vanno oltre il corpo umano e le cose per sostenersi, sempre seguito dal governo delle donne, all’interno della Gjitonia e, grazie a questa scuola di vita, che ebbero modo di formarsi e abituati a pensare in lingua madre senza mai un momento di esitazione.

Chi di noi non ricorda, queste figure sempre pronte a sostenerti e non lasciati mai solo, quante volte, persa la madre, la sorella, la nonna, non si è sentiti affiancare, dieci, cento o mille nuove nonne, madri, sorelle, li pronte a dare solidarietà per sostituire la figura smarrita per, essere seguiti nei momenti più bui della vita in adolescenza.

Questo era un governo, una scuola, solidale che non costava nulla, tutti erano formati per essere buone figure, poi le vicende successive fuori da questo luogo senza confini e barriere di sorta, ti consentivano di brillare ed affermati nei campi, dove pensare, immaginare le cose Arbëreşë e, tutto diventava  terreno fertile per germogliare fiori e frutti buoni.

Gli esempi che qui potremmo rievocare sono molteplici e fondamentali, resta un dato inconfutabile: ovvero, tutte le figure Arbëreşë più eccellenti, a iniziare dall’alba dell’illuminismo, hanno visto emergere uomini illustri Arbanon, grazie a questo stato o regno locale, composto di sole donne.

E se gli Arbëreşë hanno avuto innumerevoli figure della cultura, dell’editoria, della scienza esatta, della magistratura e le eccellenze clericali, tutte queste provenivano o meglio sono il risultato di un governo condotto e diretto da una sola regina, con la sua corte fatta esclusivamente di donne Arbëreşë.

Quanti di noi non ricordano di aver appellato sorella, zia, nonna e altri sostantivi parentali, figure della Gjitonia, che poi non erano parenti, infatti quella era una forma di riconoscenza del supporto offerto dalla:” Scuola o Governo delle donne Arbëreşë”, composto in quei momenti di formazione sociale, grazie ai quali le cose della vita sono state più semplici da affrontare e superare brillantemente.

Bata citare la storia di Donica Arianiti Comneno, accolta a Napoli dopo la Dipartita del consorte Giorgio Castriota, ed è qui che per la fiducia che la regina Giovanna III aveva in lei, perché donna Arbëreşë, le affidò i suoi figli, giacché troppo impegnata ai doveri di corte, ed è così che altri pari a Napoli le diedero fiducia in tale attività di regia Gjitonia.

A tal fine si potrebbero citare numerose figure in eccellenza Arbëreşë e, ogni volta senza commettere errore rievocativo, tra le quinte della propria Gjitonia apparire, un riferimento Nonna, Madre Zia o Sorella da ringraziare.

Per cui concludendo, il giorno dell’Otto marzo per gli Arbëreşë non è solo una giornata di giubilo e di festa ma è l’inizio di una estate colma di sole e luce.

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I PONTI FANNOANDARE OLTRE MARE E UNIRE POPOLI NON SI ELEVANO PER DISCRIMINARE (I parj bùrë cë Bënej huda satë chiasënej deratë, işë arbëreşë)

I PONTI FANNOANDARE OLTRE MARE E UNIRE POPOLI NON SI ELEVANO PER DISCRIMINARE (I parj bùrë cë Bënej huda satë chiasënej deratë, işë arbëreşë)

Posted on 13 febbraio 2024 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La Calabria oggi come succedeva secoli orsono è salita sugli altari che spettano a chi unisce popoli e fa accoglienza, ma con una sostanziale differenza, ovvero, in terra ferma non è confermata la stessa disponibilità ad unire approdi, colline e monti.

Emerge così il confronto storico da le tre macro aree calabresi, Ovvero la Citeriore, la Ultra e l’Ulteriore, una scia indelebile di stupore diffuso, sin anche quando la si presenta come punta da cui partire per raggiungere isole oltre mare.

Oggi la ribalta politica e dei media, concentra l’attenzioni per i risvolti sociali ed economici d’Europa, grazie al ponte sospeso sullo stretto, un tempo “oltre il faro”, il traguardo da raggiungere co treni veloci, ma qui inesistenti, dove far viaggiare, tutte le sorti future del sud Italia che è già isola.

La Calabria, punta di uno stivale, ha un difetto grande, ovvero, dimentica di essere parte della gamba del corpo europeo, ed è proprio da qui che si sono tessute, le trame disgiunte tra le sue tre figlie Citra, Ultra, Ulteriore e, qui in questo breve, si vogliono evidenziarle per ripristinare lo stato di fatto non più accettabile, nello specifico l’operato politico/culturale che non collega, i suoi piccoli e grandi centri, che giorno dopo giorno perdono vitalità e porzioni ancora non fondamentali, dell’imperterrito scorrere delle stagioni.

Rievocare lo stato e le cose che hanno reso la Calabria protagonista nei secoli, non sta in questa diplomatica, perché largamente diffuse, ma riferire di quanto e cosa la caratterizza dal secolo scorso, è il caso di soffermarsi e sottolineare avvenimenti di radice culturale non di poca importanza.

Nel 1970 venne istituita la regione Calabria con capoluogo politico e sociale Catanzaro, ma gli attriti che anticiparono questa scelta, nate qualche anno prima, fecero riecheggiare le volontà antiche di Valle di Crati, Terra Giordana e del Gran Ducato calabrese, rispolverate e sventolate nelle piazze con colori ed emblemi politici.

Tutte e tre le province portavano sul tavolo, la trattativa in misura e del valore del proprio vento, ma poi ad avere ragione fu la strategica posizione della prima, su tutte le altre due, che vennero giudicate periferia.

Una volta ristabiliti, dalla politica, ruoli, funzioni sociali e formazione, ebbe iniziò la stagione delle autonomie regionali e, nonostante le province siano passate da tre a cinque, con Catanzaro capoluogo di regione e Cosenza, Reggio di Calabria province, assieme alle giovani Crotone e Vibo Valentia, il trittico storico della essenze culturale, continua a formare i calabresi, con venti e trame di tessitura secondo gli antichi risvolti di: Terra di Valle Crati, Terra Giordana e Terra del Gran Ducato.

In Calabria dopo aver elevato i confini politici e amministrativi con capitale Catanzaro, si disposero, temi culturali diversificati nei tre capoluoghi storici, e le discipline culturali poste in essere, continuano a seguire rotte distinte per un capitano che manca come regia super parte, quella in grado di far convergere ed essere eccellenza, come fa la terra con madre natura.

La regione grazie al principio di accoglienza della Sibaritide e del Reggino antico, con le coste colme di abbracci sicuri di approdo, hanno saputo portare a termine, e con successo sconfiggere, le difficoltà prodotte da terremoti, carestie, siccità e ogni sorta di evento naturale malevolo dirsi voglia.

Le genti di Calabria con le sole risorse vernacolari di genio locale, in fraterno confronto con i nuovi ospiti, li approdato prima e poi accolti nei centri collinari, hanno saputo superare ogni avversità, lavorando senza giudicare cose, fatti e uomini, seguendo solo l’aratro trainata dai buoi, per fare solchi assolati di semina buona in questa Biosfera del meridione.

Chine ripide senza misura, superate grazie alla forza dei solidi cunei agrari e, come atleti Crotonesi instancabili, trovare forza per confrontarsi in quell’ambiente naturale, innalzando i valori inestimabili del trittico mediterraneo per vivere bene e in salute.

Una radice sostanziosa che germogliò per dare frutto nei campi dell’agro, silvio e pastorale, poi trasformato dalla “proto industria locale”, in alimento unico, indivisibile e inimitabile.

Si conoscono tutte le epoche della storia di questa regione, grazie alla quale minoranze storiche, qui trovarono porti sicuri e, oggi, invece di essere valorizzate per i loro contenuti storici, sociali antropologici e dell’architettura vernacolare, come esempio di città aperta o metropolitana, sono tutti comunemente classificati come “Borghi”, termine a dir poco inopportuno, per il valore di apertura sociale che denotano quei luoghi di iunctura sociale.

Sono queste stesse minoranze che assemblavano agglomerati urbani, denominati Hora o, Katundë, rispettivamente a impronta Grecanica e Arbëreşë, senza mai produrre sovrapposizioni sociali, di tempo ed etnia, insediandosi in macro aree disabitate o dismesse dagli indigeni locali, i quali essendo in pena, li desertificavano assieme all’agro, gli stessi ambiti, poi secondo le epoche riconosciuti come: Grecanici, Arbëreşë e Occitani, tutti nel breve tempo del confronto con gli indigeni locali, resero vitali e produttivi le terre di pertinenza di quei centri antichi.

Oggi questi centri, di valori, forme e significati vernacolari inestimabili, pur rappresentano circa il 20% dei comini di tutta la regione, sono tutelati solo per la lingua altra che qui si ode echeggiare, ma non certo per l’interezza del modello sociale che qui venne innestato in espressione materiale e immateriale, per diventare il volano primo dell’intera Calabria in arte attività e cultura.

E nonostante ciò si perde tempo senza mai produrre, per opera di tutte le discipline culturali di formazione, un progetto condiviso di indagine e studio, formando gruppo multi disciplinari come faceva l’imprenditore/ingegnere Adriano Olivetti, negli anni sessanta del secolo scorso, ogni volta ricevuto un incarico istituzionale, per valorizzare o intervenire in ambiti di particolare interesse culturale, sociale ed economico, per nuove opportunità di rilancio.

Oggi si va ramenghi, per vicoletti, piazze, case e shëşë dei centri minori, cercando di innalzare ponti con i costume tradizionale Arbëreşë, il ponte che collega, la casa e la chiese, ovvero il componimento la regola o manuale, trattato senza misura con editi, multimediali, televisivi o cartacei, che siano, immaginando che i primi viandanti lì di passaggio, possano avere il ponte di formazione ideale per esprimere il calore in essi contenuto; la storia di ieri, aderente a quella di oggi, per i domani di continua coerenza.

Allo stato delle cose una domanda nasce spontanea: chi deve rispondere alla mancanza di chiarimenti culturali, di questa tessitura orfana di vie, strade e ponti per dare agio, al sistema Antropico, Sociale, Architettonico, Urbanistico e degli esempi vernacolari, per i quali questi centri antichi, fatti con materia di pura resilienza, continuano a rispondere alle ire dei quinquenni?

La consuetudine calabrese rimane intatta, si studia e si progetta realizzando ponti di confronto con altre terre, senza badare a valli, colline e coste, dove scorrono torrenti, fiumi e impatto i mari, si lascia allargare varco affinare coste e, il vicino di provincia li pronto ad aiutare è sempre meglio del viandante, ignoto e sconosciuto che arriva da lontano.

Si dice che in Calabria serve un ponte, di lunghe campate e molto largo, per fare cultura, economia e nuove opportunità sociali; allora non sarebbe il caso di indagare chi, come, con cosa e perché, costruì in forma vernacolare, “il primo ponte sospeso al mondo, con catenarie a pilastri singoli”, il fondamentale ponte, che divenne simbolo di unione sicura e vanto di Regni, Vescovati e Principati, in tutto, consentire la continuità ideale alla strada che dalle Alpi unì l’Italia sino al di qua del faro.

Tutto questo, mentre si costruivano modelli di scienza, fatti di uomini esatti e, non viandanti pronti a salire sul palco per essere illuminati dai riflettori, e questi ultimi non sono certo la forza della Terra nostra calabrese.

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TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

Posted on 10 febbraio 2024 by admin

cicòope dragoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Certe volte si ha la sensazione nel dialogarc costruttivamente con gli altri, fatto alquanto insolito nella società odierà, ricca di “fumosità di farine” e mondanità, attenta ad enfatizzare le cose con linguaggio forbito, invece che mirare alla sua “funzionalità di crusca” volta esclusivamente all’originale senso dei messaggi.

Poi se passiamo ai fatti con “editi convegni e consuetudini di memoria”, di un circoscritto momento della storia di uomini a settecento inoltrato, si inizia a correggere la storia con  diplomatiche, un’urgenza diffusa, che oggi si ripropone identicamente nel mondo culturale da divulgare e, conversando  con numerosi esperti partenopei, amici del settore,  in editi e manifestazioni presentate come “mastodontiche degli Arbëreşë” mai composte  con senso “pratico chiaro”  e,  soprattutto, in grado di veicolare due  cose del “ieri e dell’oggi in stretta fratellanza”, giacche la comune tendenza rilevata a dismisura lungo le strette e tortuose vie di uno Shëşò  “certe ed incerte”, senza alcuna piano di “presunzione storica “, come insegnano  i maestri della bottega Olivetara  senza mai “oltrepassare” i1  campo idiomatico e dilagare, fuori misura nei campi, del sapere.

Il fine di questo progetto le trattazioni qui esposte, a titolo, vogliono essere di maggiore e più “diffuso interesse” per essere fondamentale percorso di antichi itinerari con coerenza e rispetto delle cose svoltesi con senso storico condiviso.

In effetti, seguendo una “piramide ideale” nella citazione di fatti storico – culturali, si è ritenuto utile trattare di etimologia di un nome, piuttosto che elencare tutti i reperti linguistici di uno scudo improprio.

A che serve, ad esempio, evidenziare tutto il “trattato” di un edito, senza prima aver chiarito il significato del sapere e la formazione di una ben identificata figura che dice di essere il compilatore e l’epoca dei fatti e delle cose che lo elevarono a torto?

Vero è che occorre intuitivamente captare chi ha lo stesso “habitat” mentale, perché, dialogando con esso, possa scaturire qualche idea creativa, secondo l’esempio socratico.

Utili per lo scopo diventano le indagini in loco che riferiscano a quei corpi in elevato, del saper-fare, cose, dove sono avvenuti fatti e cose, in tutto le pratiche rappresentative, oggi conservate e mantenute dalle comunità locali, senza alcuna consapevolezza, delle interazioni complesse che scaturirono nel confronto tra l’ambiente naturale e gli uomini che vivevano in continuo il luogo.

Questi sistemi, cognitivi e di genio locale, devono essere la parte fondamentale per una buona sostenibilità della convivenza storica, tra il sociale dell’uomo e le incognite climatiche, ovvero la riserva della natura.

Ragione per la quale, conoscere, le pratiche delle rappresentazioni di tessitura, reciprocamente intrecciate includendo lingua, rapporto con il luogo e l’agro circostante, credenze, in tutto le attività per una visione globale di futuri migliori.

In diversi domini o macroaree si individuano queste conoscenze con termini specifici, di parlata indigena o dei migranti li approdati, come ad esempio: traditional ecological knowledge (TEK), ethnobiology, ethnobotany, ethnozoology, ethnoscience, vernacular architecture, material knowledge, i katund, bregù, kishia, shëşa del centro antico o i Pratj, Cangelli o Votetë, dell’agro, ovvero, l’antropologia dei saperi naturalistici, l’antropologia e quella toponomastica, museale che attendono di  essere diffusa con sapienza in musei dedicati.

Le tradizioni tecniche dei diversi luoghi, le parlate locali, le peculiarità culturali, l’organizzazione sociale ed i rituali religiosi delle popolazioni, evidenziano lo stretto legame che nei secoli c’è stato tra comunità umane, tecnologie e

ambiente naturale.

Il Centro denominato “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), una volta definito i domini di ricerca e conoscenza, dei sistemi architettonici e costruttivi dei paesi diffusi Arbëreşë, gli ecosistemi culturali, assieme ai prodotti in forma materiale, della regione storica, mira a promuove un confronto multi disciplinare sistemico e generale, per conoscere le attività locali, diversificandole con quanto di indigeno esisteva nei domini più antichi.

In specie come sistemarsi nel diversificato ecosistema di radice naturale e antropico, elevando, organizzando l’architettura in cultura materiale di luogo, il tutto intese quale innovazione di tempo o elemento strategico per i percorsi di conquista o progresso sostenibile locale.

Inghisando i processi di formazione riproponendo le esperienze migliorandole per individuare tutti i modelli vitali dei primi attori Arbëreşë, offrendo gli strumenti per una maggiore lettura interpretativa dei processi di interazione fra uomo e ambiente, in prospettiva energetica e di consumo mirato dell’ereditato, con l’ambiente per il futuro.

Sul piano dei metodi di ricerca il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), si distingue per una nuova diplomatica di sperimentazione sistemici, con particolare orientato all’integrazione dei metodi e degli strumenti di ricerca qualitativi, quantitativi e scientifici, rimanendo sempre vigile ai protocolli e strumenti di ricerca per la gestione della conoscenza.

Il fine primario quindi diventano i sistemi innovativi per la conservazione, valorizzazione e gestione dei sistemi di storici locali, espressione prima della diversità culturale in relazione alla coesione fra società e natura e i metodi sostenibili per gestire le risorse naturali.

In linea generale le attività di studio per la ricerca saranno indirizzate o meglio hanno come meta lo sviluppare di attività mirate di:

– localizzazione, identificazione, rappresentazione, modellazione e codificazione delle conoscenze locali tacite;

– classificazione, organizzazione e trattazione condivisa con esperti di settore o materia;

– progettare sistemi di apprendimento e comunicazione innovativi che non siano mera cattedra loci,

– progettare e sperimentare innovati sostenibili della memoria locale e confrontarle con la macro area e le altre;

– non rimanere attratti dalla lode, ma sentire le cose che dicono il maestro cuore e la lucida sarta per la mente;

– dare senso e sostenere con socratica forza culturale tutte le cose materiali e immateriali di ogni macroarea locale;

– analizzare con dovizia di particolari gli edificati e le manomissioni delle epoche per giustificare lo scorrere del tempo

Solo in questo modo la riflessione sulla conoscenza come risorsa per lo sviluppo non può prescindere dalle risposte ad una domanda: quale conoscenza?

È opinione condivisa che ci troviamo di fronte a due grandi sistemi di conoscenza: la conoscenza scientifica, accademica e generalizzabile da un lato e la conoscenza non accademica, pratica e contestualizzata, i cosiddetti saperi locali, dall’altro.

Questi saperi, assai vari e diversificati, possono essere associati dal possedere alcune caratteristiche comuni da dove iniziare a tessere:

– sono radicati in un luogo e sono frutto di una storia e di un insieme di esperienze tramandate oralmente;

– sono trasmesse attraverso meccanismi di osservazione ed imitazione a largo o larghissimo spettro territoriale;

– sono il risultato delle attività quotidiane, rafforzate e corrette dalla ripetizione, dagli errori, dei primi;

– sono fondati su un approccio più pratico che teorico, una sorta di vagabondo culturale che pensa di essere genio;

– sono in continua evoluzione e danneggiano sempre di più la storia per fini economici, i più dannosi;

– sono condivisi all’interno di un gruppo, secondo le pratiche e le norme della conoscenza frammentaria;

– sono generalmente stonati, astratti e, in essi si scorge un’attitudine dei saperi teorici belli da vedere ma senza struttura.

È evidente dunque che parlare di saperi locali significa racchiudere in un unico termine una varietà di strutture e sistemi incredibilmente vasta, tanto da ricordare la biodiversità degli esseri viventi; non è infrequente infatti che nei documenti del Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), saranno usati termini quali la “biodiversità culturale” per la quale si intende proteggere modelli che non siano dissimili da quanto addotto in ambito dell’ecosistema e l’economia.

Le politiche per valorizzare la cultura locale non devono configurarsi come misure contrarie allo sviluppo, ma devono assicurare lo sviluppo umano e saper cogliere ogni briciolo di beneficio per quella ben identificata popolazione.

La stessa che nei nostri casi di studio si vedono apparire finora escluse dalle grandi decisioni politiche ed assicurano inoltre buoni rendimenti economici maggiormente diffusi grazie ad una maggiore stabilità, alla ampiezza del consenso, poiché le condizioni per l’attecchimento degli investimenti, per l’impegno a tutti i livelli di lavoro, per una crescita veloce sono già sul posto e non devono essere importate. «Il rispetto per la diversità ha quindi una valenza culturale e politica, ma al contempo ha anche una finalità economica e sociale».

Le politiche di valorizzazione della cultura locale non si codificata come le altre specie, riferendo con monocratica conoscenza, anche quando si tratta di trasmette attraverso il linguaggio codificato sostenuto dal canto.

D’altra parte la conoscenza tacita ha una valenza personale, che la rende difficile da formalizzare e renderla fruibile con il semplice approccio formale.

Giacché in questo modo introduciamo un problema nuovo al progetto di rappresentare e rendendo codificata e trasmissibile la conoscenza di una identificata macroarea.

Nel tentativo di operare una distinzione tra conoscenza tacita ed esplicita e di comprendere i meccanismi attraverso i quali ci può essere una conversione da uno stato all’altro il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.),  individua nella conoscenza un contenuto profondamente radicato «nelle azioni e nei pensieri di un individuo in uno specifico contesto»; essa darà per tanto linfa nuova alle competenze tecniche e convinzioni delle prospettive sedimentate che vengono date per scontate e non possono essere facilmente interpretate dai monocratici ricercatori.

Esistono luoghi colmi di storia fatta dagli uomini preparati, buoni ed onesti, ma citati quale racconto per elevare il valore di analfabeti malevoli abbarbicati scenograficamente con azioni mandatorie al dio danaro.

Sono questi i malevoli ad essere esaltati, perché materia di una spianata senza spessore, su cui poter scrive e dire ogni cosa perché essenza non genuina legata alla storia, diversamente dalle figure prime che non può riversare aceto, come fan tutti, perché, nati colmi di Genio, Sapienza e Lume Arbëreşë.

La conoscenza esplicita si connota invece per poter essere facilmente espressa, catturata, immagazzinata e riutilizzata, al fine di poter essere trasmessa come un dato in database, libri, manuali e messaggi reperibili dal Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.).

Commenti disabilitati su TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

LA CARTA IL CODICE LE REGOLE CHE ILLUMINANO LA VIA DELLA TUTELA ARBËREŞË (Gnë cartë, gnë besë gnë pëlëmbë me dritë satë mëbami mentë)

LA CARTA IL CODICE LE REGOLE CHE ILLUMINANO LA VIA DELLA TUTELA ARBËREŞË (Gnë cartë, gnë besë gnë pëlëmbë me dritë satë mëbami mentë)

Posted on 06 febbraio 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si accosta alla storia, lo si fa in primo luogo perché si desidera capire, con onesta intellettuale la di cui alta formazione è la forza trainante, per questo potranno essere ispezionate come siano effettivamente le case di uno specifico manufatto o luogo storico.

In questo senso la ricerca porta alla definizione della storia e, non si esaurisce nella paziente ricostruzione del passato; perché diventano protagonisti lo sforzo erudito e, la raccolta del materiale documentario, i quali forniscono semplicemente lo strumento che ci permette di cogliere i nessi tra i vari frammenti di realtà, per formulare giudizi o progetti di valore per un manufatto da tutelare.

A ben vedere diviene fondamentale per la tutela del bene, memoria storica comune, il postulato che pone la ricerca e la diagnosi, innanzi al progetto finale da porre in essere.

La compilazione di tesi, editi o relazioni specifiche, sulla storia locale, la lingua, le consuetudini, la toponomastica, i cunei agrari e le Masserie, della trasformazione con mulini e trappeti, l’urbanistica, l’architettura, la religione, tutto questo a partire dalle originarie attività estrattive di genio, dei luoghi di studio, poi additive vernacolari, di espansione post eventi pandemici, sismici e siccità, sono le componenti da tessere, per poi tracciare un percorso solido degli elementi che modellano e oggi la storia restituisce come Katundë Arbëreşë.

Se nel corso di circa un secolo questi ultimi non sono mai stati indagati come suggeriscono la Carta di Atene (1931); Carta Italiana del Restauro (1932); Carta di Venezia (1964); Carta Italiana del Restauro (1972); Carta di Amsterdam (1975); Carta di Washington (1987); Carta di Cracovia (20009).

Di queste, la Carta di Venezia, in questo 2024 in corso, compie gli anni e, per ciascuno di noi tutori del garbo Arbëreşë, dovrebbe almeno indurre a fermarci, riflettere e meditare, quanto sia sfuggito del nostro patrimonio di genio locale, in quanto, sarebbe bastato leggere quanto qui riportato dall’art 1 al 16 e sicuramente avremmo avuto in dono un numero indefinito di eccellenze immutate, ancora presenti nelle prospettive storiche dei Katundë:

Articolo 1:

La nozione di monumento storico comprende tanto la creazione architettonica isolata quanto l’ambiente urbano o paesistico che costituisca la testimonianza di una civiltà particolare, di un’evoluzione significativa o di un avvenimento storico.

Questa nozione si applica non solo alle grandi opere ma anche alle opere modeste che, con il tempo, abbiano acquistato un significato culturale.

Articolo 2:

La conservazione e il restauro dei monumenti costituiscono una disciplina che si vale di tutte le scienze e di tutte le tecniche che possano contribuire allo studio e alla salvaguardia del patrimonio monumentale.

Scopo

Articolo 3:

La conservazione e il restauro dei monumenti mirano a salvaguardare tanto l’opera d’arte che la testimonianza storica.

Conservazione

Articolo 4:

La conservazione dei monumenti impone innanzitutto una manutenzione sistematica.

Articolo 5:

La conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili alla società: una tale destinazione è augurabile ma non deve alterare la distribuzione e l’aspetto dell’edificio.

Gli adattamenti pretesi dall’evoluzione degli usi e dei costumi devono dunque essere contenuti entro questi limiti.

Articolo 6:

La conservazione di un monumento implica quella delle sue condizioni ambientali.

Quando sussista un ambiente tradizionale, questo sarà conservato; verrà inoltre messa al bando qualsiasi nuova costruzione, distruzione e utilizzazione che possa alterare i rapporti di volumi e colori.

Articolo 7:

Il monumento non può essere separato dalla storia della quale è testimone, né dall’ambiente dove esso si trova.

Lo spostamento di una parte e di tutto il monumento non può quindi essere tollerato che quando la salvaguardia di un

monumento lo esiga o quando ciò sia giustificato da cause di notevole interesse nazionale o internazionale.

Articolo 8:

Gli elementi di scultura, di pittura o di decorazione che sono parte integrante del monumento non possono essere separati da esso che quando questo sia l’unico modo atto ad assicurare la loro conservazione.

Restauro

Articolo 9:

Il restauro è un processo che deve mantenere carattere eccezionale. Il suo scopo è di conservare e di rilevare i valori formali e storici del monumento e si fonda sul rispetto della sostanza antica e delle documentazioni autentiche.

Il restauro deve fermarsi dove ha inizio l’ipotesi: qualsiasi lavoro di completamento, riconosciuto indispensabile per ragioni estetiche e teoriche, deve distinguersi dalla progettazione architettonica e dovrà recare il segno della nostra epoca. Il restauro sarà sempre preceduto e accompagnato da uno studio archeologico e storico del monumento.

Articolo 10:

Quando le tecniche tradizionali si rivelino inadeguate, il consolidamento di un monumento può essere assicurato mediante l’ausilio di tutti i più moderni mezzi di struttura e di conservazione, la cui efficienza sia stata dimostrata da dati scientifici e sia garantita dall’esperienza.

Articolo 11:

Nel restauro di un monumento devono essere rispettati i contributi validi nella costruzione di un monumento, a qualunque epoca appartengano, in quanto l’unità stilistica non è lo scopo di un restauro.

Quando in un edificio si presentano parecchie strutture sovrapposte, la liberazione di una struttura inferiore non si giustifica che eccezionalmente, e a condizione che gli elementi rimossi siano di scarso interesse, che la composizione architettonica rimessa in luce costituisca una testimonianza di grande valore storico, archeologico o estetico, e che il suo stato di conservazione sia ritenuto sufficiente. Il giudizio sul valore degli elementi in questione

e la decisione sulle eliminazioni da eseguirsi non può dipendere dal solo autore del progetto.

Articolo 12:

Gli elementi destinati a sostituire le parti mancanti devono integrarsi armoniosamente all’insieme, distinguendosi tuttavia dalle parti originali, affinché il restauro non falsifichi il monumento, sia nel suo aspetto artistico, sia nel suo assetto storico.

Articolo 13:

Le aggiunte non possono essere tollerate se non rispettano tutte le parti interessanti dell’edificio, il suo ambiente tradizionale, l’equilibrio del suo complesso di rapporti con l’ambiente circostante.

Ambienti monumentali

Articolo 14:

Gli ambienti monumentali devono essere oggetto di speciali cure, al fine di salvaguardare la loro integrità e assicurare il loro risanamento, la loro utilizzazione e valorizzazione.

I lavori di conservazione e di restauro che vi sono eseguiti devono ispirarsi ai princìpi enunciati negli articoli precedenti.

Scavi

Articolo 15:

I lavori di scavo devono essere eseguiti conformemente a norme scientifiche e alla “Raccomandazione che definisce i princìpi internazionali da applicare in materia di scavi archeologici”, adottata dall’UNESCO nel 1956.

Saranno assicurate l’utilizzazione delle rovine e le misure necessarie alla conservazione e alla stabile protezione delle opere architettoniche e degli oggetti rinvenuti.

Verranno inoltre prese tutte le iniziative che possano facilitare la comprensione del monumento messo in luce, senza mai snaturarne i significati.

È da escludersi “a priori” qualsiasi lavoro di ricostruzione, mentre è da considerarsi solo l’anastilosi, cioè la ricomposizione di parti esistenti ma smembrate.

Gli elementi di ricomposizione dovranno sempre essere riconoscibili e rappresenteranno il minimo necessario per assicurare le condizioni di conservazione del monumento e ristabilire la continuità delle sue forme.

Documentazione e pubblicazione

Articolo 16:

I lavori di conservazione, di restauro e di scavo saranno sempre accompagnati da una documentazione precisa con relazioni analitiche e critiche, illustrate da disegni e da fotografie.

Tutte le fasi dei lavori di liberazione, di consolidamento, di ricomposizione e di integrazione, come gli elementi tecnici e formali identificati nel corso dei lavori, vi saranno inclusi.

Questa documentazione sarà depositata negli archivi.

 

Conclusioni per la tutela dei Katundë Arbëreşë

Naturalmente non tutto il patrimonio è perso, importante non rimanere incanalati nella identica deriva e lasciare che le cose si difendano da sole, in quanto ancora un numero rilevante di esempi resistono allo scorrere dell’incuria e del tempo.

A tal proposito servono progetti mirati per riportare all’interno del centro antico almeno una delle prospettive storiche così come furono immaginate e sostenute dai nostri avi, testimoni saranno le nuove generazioni che ne faranno tesoro.

Materiali, componimenti, prospettive ammalorate sono ancora presenti, serve datarli e investirli del giusto valore di pigmentazione storica, poi il tempo modellerà tutele cose a misura della consuetudine e del genio Arbëreşë.

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LA FINE DEGLI ARBËREŞË È ALLE PORTE: IN POCHI CONOSCONO LE CAUSA DEL TRAMONTO (Vanë më përpoştë sì janë e vènë)

LA FINE DEGLI ARBËREŞË È ALLE PORTE: IN POCHI CONOSCONO LE CAUSA DEL TRAMONTO (Vanë më përpoştë sì janë e vènë)

Posted on 06 febbraio 2024 by admin

GranadillaNAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si accosta alla storia, lo si fa in primo luogo perché si desidera capire, con tutta l’onesta intellettuale di cui si e capaci, definendo come siano andate effettivamente le case.

In questo senso la ricerca storica non si esaurisce nella paziente e minuziosa ricostruzione del passato; lo sforzo erudito, la raccolta del materiale documentario forniscono semplicemente lo strumento che ci permette di cogliere i nessi tra i vari frammenti di realtà, consentendoci di formulare giudizi di valore e tentare un’opera di sintesi.

Per questo intendere l’origine e la mecca­nica di quegli eventi della storia che ci porta alla condizione nella quale si versa attual­mente.

La premessa conferma il principio che la storia in senso generale sono episodi di una formula, che no trova loco in archivio compilata in ogni sua parte degli scribi del passato e, in attesa di essere trovata, letta per essere interpretata dal primo avventuriero.

Qui, per questo, si vogliono tessere, linee fondamentali, in tutto, una diplomatica onesta, semplice, veritiera, oltre che comprensibile anche al più comune addetto, anche se notoriamente svogliato Arbëreşë.

Non è concepibile che ad oggi tutto l’echeggiare sia riservata solo alla pubblica assemblea, co le effigi del diffuso sancito; “da noi diciamo così”, senza avere memoria di promuovere l’antico progetto mussulmano, in tutto, una forma di negazione delle proprie radici e “tacere sarebbe un modo semplice per apprendere la consuetudine Arbëreşë”.

Esiste una strada che delinea la storia senza irregolarità alcuna e, l’essere caparbi a non smettere di cercarla per seguirla, ti distingue dai comuni locali che, generalmente si fanno incantare solo dai nodi di tessitura irregolari.

Per questo tessere, e riconoscere tempo, persone e morale dei fatti avvenuti nel componimento, consente alle figure, di apparire trionfanti genuine e, certamente non neri di sventura.

E quanti si cimentano a fare ciò, devono saper tessere e setacciare nel contempo le anomalie dei fili compilati, senza predisporre affiliazioni malevole, per diventare fratello vicino ad altri che mirano a fare società buona.

Evitando di sedere nelle fila, dei fannulloni più abietti, che danno vita ad attività poste in essere dalle istituzioni tutte, le stesse che non hanno soluzioni di rimedio a questa vasta deriva, che non vede termine definitivo.

Conferma di questo stato di fatti, cose e attività, sono le numerose figure di eccellenza lasciate in compagnia dei loro esclusivi editi, perché ricercatori di levatura alta” i quale invece di essere ben accolti li preferiscono a quanti si sollazzano con gli inutili editi di riverso culturale basso.

Queste figure illustri, in oltre vengono screditate e lasciate in amara solitudine e, sin anche relegati al confino culturale, dalle istituzioni preposte alla valorizzazione di cose uomini ed eventi.

Nello specifico sono proprio questi a preferite ambigue e spinose figure attratte dall’orbita culturale, espongono oltremodo, fatti mai avvenuti, per la natura e il genio dell’uomo Arbëreşë.

Per questo le cose, le figure e i fatti qui trattati, vogliono essere una rivalsa epocale dei ricercatori “solo di levatura alta”, a impronta dell’aquila ciclopica, che nel volare alto, coglie le cose mai intercettate da quanti si cimentano al chiuso degli archivi, ancora non allestiti, in loro favore. 

Tutte queste cose o eventi rovesci, devono ricevere una energica risposta, dal mondo della Cultura “scacciandoli a pedate nel fondo schiena” dalla capitale della cultura Arbëreşë, scambiata, per spiaggia per attivisti dell’ozio di mente e cuore, ignari del dato che qui dimora l’aquila della cultura e il fido ciclope.

Nel mentre in tutta la Regione storica, si continua a valorizzare l’ironia mussulmana, la stessa che depone il capretto sulla cupola di credenza imperiale.

Un componimento blasfemo irreverente per noi Cristiano Bizantini, che per onorare e ricordare i nostri defunti, non usiamo banchettare con carne, in tutto un emblema, preparato e posto in essere con cattiveria e senza rispetto dall’avversario imperiale.

Vero è che quel componimento è riposto, in capo dell’eroe Arbëreşë, in tutto, un messaggio ironico e blasfemo che vuole sminuire, il valore della tela forte e duratura di opposizione, tessuta dallo stratega Giorgio, trappola di credenza che è diventata ormai vanto incosciente.

È stata una vera e propria imprudenza impedire, rifiutare e, per due volte, interrompere il dialogo che la cultura alta voleva intraprendere con voi preposti politicizzati bassi, a casa mia pure ospitati.

Tuttavia inconsapevoli di vivere e aver respirato o essere stati ventilati da troppa farina nei mulini del fiume Sordo e del torrente Settimo, dove si usa disperdere la poca crusca in favole ad opera degli ignari, presentati come vanto di macina buona, che comunemente negli appuntamenti istituzionali svelano fatiscenti, incoerenti, comunque penosi a voglia per dirsi, argomenti di farina al vento.

Come se tutto ciò non bastasse, nel contempo e caparbiamente si impedisce il dialogo con le eccellenze alte, preferendo belare editi di confusione o commettere soprusi in campi ancora incolti, gli stessi preparati dall’infaticabile contadino colto, che segue semina, crescita e raccolto finale per esporlo come eccellenza.

Chi si occupa di “Regione storica diffusa degli Arbëreşë”, e mi riferisco a quella che il presidente Mattarella, nel 2019 definì la minoranza storica; “modello di integrazione sostenibile del mediterraneo in età moderna”, non sono certo gli stessi che vanno spargendo incoerenze storiche e territoriali della monocentrica “Arberia”.

E i pochi illustri che sanno, conoscono e, più che conta, hanno consapevolezza della infinita storia degli Arbëreşë, quella vera e realmente accaduta, la parte genuina, meritando per questo più di una medaglia, più di una carta pergamena a titolo ignoto e, molto più di una “laurea ad honorem”, come hanno fatto per il comune o perverso “Antiquario Clerico” a fine carriera.

A ragion veduta o sostenuta da queste irresponsabili fatti, “I CULTORI ALTI”, bisognerebbe riservare almeno una menzione condivisa della Presidenza della Repubblica Italiana e di tutti gli stati che si ritengono figli di questa lingua nata ad est del fiume Adriatico e tutelata identicamente negli ambiti della “Regione storica diffusa degli Arbëreşë”.

Questa proposta potrebbe lenire le pene profuse, per evitare piaghe culturali in atto, diffusesi nelle cattedre in festa o vento di farina pandemica dirsi voglia.

Studiare e comprendere i sistemi articolati dei centri antichi di radice Arbëreşë, non è semplice, ne può risolversi pubblicando senza ragione, come e perché furono compilati, capitoli, onciari in atti di sottomissione.

Spetta a chi conosce queste cose, spargere semi di sensi; e la conseguente logica per i quali furono allestiti.

Palesemente questo non è semplice, ma cosa più fondamentale, non può essere ritenuta materia di lettura alla portata di un singolo comunemente scriba.

In quanto questi ultimi non hanno visuale ampia per interpretare, come fanno quanti muniti di caparbietà non smettono di indagare per trovare riscontri della storia medioevale, antica e moderna.

Gli stessi con cui bisognerebbe confrontarsi ricevere risposte coerenti o venire in soccorso e, rendere chiari gli argomenti trattati con solidità di senso storico.

Non è concepibile che per rendere sostenibile la storia e i trascorsi degli edificati dai tempi vernacolari, si possa ancora oggi affidare le cose a istituti universitari, i quali si presentano in loco ben consapevoli del misero sapere, ma speranzosi che gli allievi, possano indagare la storia locale, per i voti di lode messi in palio, come si fa nelle fiere e nelle feste padronali.

O allievi che non avendo consapevolezza dell’idioma, Tosco e Ghego usano il traduttore automatico di Google, per fare componimenti in lingua altra e se ciò può andare bene per le parlate indo europee, non lo può essere per l’Arbëreşë che essendo un parlato senza in supporto di scribi alcuni, non sarà mai contemplata in quel sistema di intelligenza artificiale ancora acerbo.

Si ode un lamento diffuso d’aquila bicipite dalle due bocche dello stesso corpo, ma nessuno le ode o non ha consapevolezza del fatto che è componimento del dolore che viene dal cuore,

Benché tutti la vedono stampata, raffigurata o riposta su vessilli multicolore, ma niuno ha mai notato che essa è vestita di “Stollja nera”, espressione di madre devota che vede giorno dopo giorno perire le sue cose materiali ed immateriali e in lutto perenne, fa ricognizione alta nello scorgere sempre meno cose.

E questa è la conferma che tutto volge al termine, nel fare cose che hanno temi o citazioni copiate per riportare a proprio nome senza vergogna, una gloria che non è più possibile.

Purtroppo oggi sono numerosi gli scribi, che fanno queste azioni senza titoli e conoscenza dei temi specifici, apparandosi dietro atti di cose che li possano lavare dall’onta di vergogna inedita spargendo cenere su: Tarantelle con credenza di Taranta; Gjitonia riassunta come libero Vicinato; il Katundë tipico impianto di città aperta, accennata come un Borgo.

Se volessimo aprire su tutto lo scenario storico culturale, come non menzionare il giorno dedicato all’estate Arbëreşë, nello specifico pur se trattata diffusamente nel “discorso” di Pasquale Baffi, viene liberamente esposta come allegoria, per una strage terminata in vittoria di “Giorgio il condottiero onesto”.

Ormai non è più tempo di accogliere con sorrisi di sufficienza sin anche dalle istituzioni, tutte queste inappropriate dicerie senza senso, perché colme di vergogna culturale e sin anche svuotate delle storiche consuetudini.

E visto lo stato delle cose e di fatti avvenuti sino a ieri, urge esporre alla berlina pubblica come si faceva un tempo, lungo la Via Furcillense della Capitale Arbëreşë e, senza alcun favoritismo o distinzione di sorta, la terza volta che verranno a “Ştutare cose base”, saranno accolti come fan carnevale i giullari di corte.

È tempo che le figure quiete, senza alcun titolo culturale, guadagnato da soli sul campo, hanno compiuto, il loro ennesimo danno e, nella definizione della nuova legge 482/99 è arrivata l’ora di invitare le menti alte a riscrivere quell’equilibrio che manca per tutela le cose tangibili e intangibile, associate all’ambiente naturale, scambiato per semplice valle per mugnai matti, questi ultimi, e sono molti, per far elevare una storia mai posta in essere da nessun Arbëreşë, vantano di titoli di bottega altra, che nessuno conosce.

A tal fine, serve nell’immediato, correggere la dicitura “Lingua Albanese” che è altra cosa di “Lingua Arbëreşë” nella definizione della legge 482/99; il tema fondamentale che potrebbe rendere protagonista la minoranza dell’Italia meridionale e non i moderni assemblati idiomatici, prodotti dal mulino oltre adriatico, ben distante dall’originaria crusca Arbëreşë mai prodotta in questi paralleli.

Se ancora nessuno lo avesse notato, esiste anche l’articolo nove della Costituzione Italiana oltre al Decreto del Presidente della Repubblica, del 2 maggio 2001 n 341, Art 1, Comma 3, che sarebbe il caso di annotare, terminando una volta per tutte la malevola, inquietante deriva colturale che si protrae senza rimedio.

Certamente la legge482/99 non darà mai i frutti sperati se non si ha consapevolezza nel distinguere tra conservazione e uso del bene, contravvenendo sin anche alla Carta del Restauro di Venezia del1964, consigli condiviso da tutte le nazioni del vecchio continente e proprio quest’anno compie i sei decenni dalla sua indispensabile attuazione condivisa.

Questa ricorrenza del 2024 potrebbe essere anche occasione di convegni, incontri o dibattiti per dare spazio nei Katundë Arbëreşë alle direttive applicandole in toto, le stesse che tutelano tutti i luoghi che hanno fatto la storia dell’umo, e da ciò nasce spontanea la domanda: perché non applicarla anche per gli Arbëreşë.

Poi con figure eccelse di esperienza confermata sul campo, non per gli scritti vocabolari e temi di simili radici o pubblicazioni ignote, si potrebbe informare gli abitanti di oltre adriatico, quanta eccellenza in Regione storica diffusa degli Arbëreşë è stata posta compromessa del suo genio antico e, non carta penna e calamaio, per fare vocabolari ignoti.

Quante volte gruppi prediletti si riuniscono per inviare messaggi fumosi e, sempre i soliti quattro noti, nati infanti e senza titoli dal 1975, nel promontorio piatto descritto del Sordo.

Tuttavia molto è andato disperso, ma noi cultori liberi e non militarizzati a mo’ di piramide, come usano fare, chi non vive di ricerca, diagnosi e progetti.

Da ciò restiamo l’unica ancora di salvezza sul campo, pronta a dare sicurezza e, portare quella luce che manca al mondo degli Arbëreşë dai tempi di Baffi, i Vescovi Francesco, Demetrio e Giuseppe e poi dopo di loro Torelli, Giura e Scura.

Il primo a immaginare e i tre seguenti fratelli, aprire il collegio in Sant’Adriano, la stessa fratellanza in grado di svilupparlo e dare consistenza di cultura alla struttura:

Tutto questo sino a quando la mira culturale fu portata a buon fine, e sempre un buon fratello depositò le tre parti in lughi di fratellanza, la stessa che accompagna gli eventi di questo storico presidio di cultura fraterna da 1792 senza soluzione di continuità.

Se ancora al fiorire del 2024 si ripetono, riversamenti di aceto, come citava il prelato Eleuterio Fortino negli anni sessanta del secolo scorso, cosa c’è da aspettarsi dada quanti riferiscono promuove e palesano l’idioma delle Alpi oltre adriatico, attestandone però, la radice nel sud di clima mite ai confini con la Grecia.

Questo stato di confusione diffusa, ha generato incoerenze inarrivabili, anche se sarebbe bastato studiare, con più attenzione le vicende o l’operato di Pasquale Baffi.

 Il Sofiota di provincia Citeriore Calabrese, legato alla Principessa Carolina per Fraterno indirizzo di pensiero, cosi come alla pari regnante delle Russia, con le quali divideva le idee dei liberi pensatori per il rinnovamento Europeo.

Fu questo infatti nel 1774-5-6, non essendoci a Napoli stamperie con caratteri alfabetari greci, ad inviare i suoi editi nel nord Europa, dove furono dati alle stampe in forma come da lui voluto, rappresentando “la prima analisi comparata della lingua Arbëreşë” e, comunemente si menzionano solo gli editi e i “discorsi successori” sugli Albanesi, che non sono gli Arbëreşë, oltremodo e in più versioni parentali, dati alle stampe con la, clausola che riteneva errata quella prima edizione con errori tipografici, volutamente distrutta?

E ancora, se è attribuita la trattazione della legge agraria, ai gradi intermedi e proprietari dell’ideale repubblicano, come può uno scendere tra i manifestanti e dire di essere con loro e spartire le cose sue e dei fratelli, usurai?

Non viene da chiedersi come mai una cellula legate all’illuminismo del libero pensiero, era al comando di un forte e consolidato patrimonio e, mel contempo insegna della ribellione, in tutto, un ramo del confuso associazionismo risorgimentale.

A questo punto come non parlare della genuinità di Vincenzo Torelli da Barile di provincia lucana, il germoglio indiscusso della critica teatrale e della editoria, in specie l’Albanese d’Italia.

È stato lui a consentire per la prima volta la diffusione delle cose e ogni elemento caratteristico che distingueva noi Arbëreşë, fu lui che invento un giornalino dove i protagonisti dei racconti erano la musica e la voce del canto, un messaggio antico, che ancora nessuno studioso titolato, conosce è ha mai preso in considerazione.

Furono tatti i dibattiti, ogni volta che usciva un numero, nei locali della cultura vicino al porto di Napoli, dove si riunivano musicisti, compositori e storici della cultura, per comprendere perché il Torelli facesse trionfare in ogni episodio il canto e, nessuno allora come oggi comunemente avviene, coglieva il senso del suo messaggio, quale compilazione eccellente raffigurata dell’arte Arbëreşë.

Cosa dire della luce che in campo architettonico, dell’ingegneria della geologia e della scienza esatta, profuse o meglio inviò da Napoli l’Arbëreşë Luigi Giura di Maschito nato nel vulture Lucano e, vedere nel 2011, da chi dice essere eccellenza, restare basito e interrogarmi su chi fosse questo uomo.

Certo che l’argomento e da approfondire, ma comunque palesa lo stato culturale dove si è arrenata l’eccellenza, ma più di ogni altra cosa dà la misura, della informe culturale, costruita secondo credenze con numerose labilità.

Non sapere o avere consapevolezza di chi fosse Luigi Giura di Maschito, il luminare del fare, che non ha eguali e, ancora oggi nessuno riesce a superare, l’ingegnere e architetto esempio dell’era moderna, capace di superare i romani con le stesse tecnologie e senza nulla aggiungere o bisogno delle conquiste in campo tecnologico del tempo in cui visse.

Gli albanesi che inneggiano liberamente a paradossi culturali senza senso o emblemi mussulmani attribuiti come radice, dovrebbero affidarsi più alle eccellenze allevate e vissute negli Şëşi, per poi recarsi sui campi di tutto il territorio della Ragione storica diffusa degli Arbëreşë, a seminare meriti.

Come questo esempio della nostra stirpe ha saputo elevarsi lo deva alla genialità che avvolge gli Arbëreşë, diversamente dai quanti supini e incatenati alle dicerie del promontorio risparmiato dalle ire del Surdo e del Settimo, attendono di essere battezzati.

Le figure come il Giura sono i pochi che hanno reso possibile il modello di integrazione più solido e genuini dell’Europa meridionale, quella che poggia il piede il tacco e la caviglia nel mare mediterraneo per germogliare colori senza eguali.

Tornando alle cose fatte e rese alle disponibilità sociali dell’allora Regno di Napoli, dopo aver citato lo storico traguardo migliore del genio romano, non si può non citare il principio di collegare le terre con ponti sospesi.

L’opera di genio alto serve ad unire popoli, pensiero e cultura e quanti ancora non lo hanno compreso, dovrebbe alzarsi in piedi, quando citiamo, il ponte sospeso su catenarie a pilastri singolo realizzato dal Giura nel fiume Garigliano, primi esempio al mondo di questo genere e che ha dato avvio alla scuola per unire popoli.

Per questo l’operato degli scribi, non può approdare e confondere pietre che ricordano, con bastono che  reprimono genti, altrimenti bisogna ancora attendere il tempo; punto e a capo

Commenti disabilitati su LA FINE DEGLI ARBËREŞË È ALLE PORTE: IN POCHI CONOSCONO LE CAUSA DEL TRAMONTO (Vanë më përpoştë sì janë e vènë)

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