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I CENTRI MINORI, LA RADICE DA INNESTARE PER LE CITTÀ APERTE O METROPOLITANE

I CENTRI MINORI, LA RADICE DA INNESTARE PER LE CITTÀ APERTE O METROPOLITANE

Posted on 27 aprile 2020 by admin

Centri minoriNAPOLI (di Atanasio Arch. Pizzi) – Oggi si discute sui processi che hanno condotto la nostra società a frammentarsi, rendendo gli ambiti costruiti e il vissuto non più sostenibili; alla luce di ciò, si vuole proporre un adempimento per una soluzione urbana sia organizzativa e sia sociale, prescindendo dai risultati della ricerca in campo scientifico riguardo il Covid-19.

Questa breve trattazione vuole esporre il risultato di un progetto a lungo approfondito, per questo si ritiene possa rispondere, rinvigorendo i percorsi urbanistici, architettonici, sociali ed economici, indispensabili a ricollocare il sistema produttivo e residenziale nei centri minori collinari del meridione.

Un progetto possibile, nel medio termine, che impegna i temi del modello, che nei secoli hanno reso possibile all’uomo la continuità del genere umano, oggi tornati indispensabili, vista le emergenze, specie nei grandi centri urbani, città capoluogo e metropoli in specie.

Prima di addentrarci nel nocciolo di questo discorso, è opportuno precisare che tratteremo di Casali, piccoli centri urbani collinari, di una specifica e ben identificata fascia mediterranea, in maniera più dettagliata, i cento paesi del meridione della regione storica diffusa arbëreshë; denominati “Katundë” unitamente al relativo modello sociale/economico, noto come il “luogo indefinito dei cinque sensi”: Gjitonia.

Questi centri riedificati e ripopolati dal XV sec. offrono l’idonea sostenibilità sociale ed economica, che a suo tempo venne penalizzata dal modello “Borgo medioevale”, cosi come oggi, non hanno capacita di affrontare l’emergenza, i nuclei metropolitani, sovraccaricati da abitanti e le relative attività lavorative.

Il borgo notoriamente è catalogato tra i modelli urbanistici chiusi e riconosciuti anche come sistemi urbani monocentrici, identificati nel frenetismo delle frammentate attività, diversamente dai “Katundë diffusi” o policentrici, come gli impianti simili denominati Casale, Frazione,  Paese e Pieve, in quanto, sistemi aperti mediterranei.

Insediamenti che nascevano nelle aree agricole fuori dalle murazioni dei borghi, questi, così organizzati miravano, con l’isolamento murario a detenere il potere politico economico e giuridico dei territori circostanti oltre a essere sede mercatale; l’esatto contrario dei “casali rinascimentali”, innalzati secondo principi policentrici, più a misura dei gruppi familiari che vi trovavano dimora perché meglio articolati per le attività economiche.

Sono questi, nel corso della storia, che con semplici consuetudinari debellarono malaria, peste e ogni genere di emergenza/calamita, perche, in simbiosi con l’ambiente naturale.

Il borgo e le sue murazioni se da un lato erano in grado di difendere quanti entro di esse si asserragliavano dagli uomini, quando il nemico diventava invisibile come le emergenze sanitarie, si trasformavano in vere e proprie prigioni da cui era difficile fuggire; cosi come oggi le città e le metropoli, sono una garanzia di vita comoda, ma quando il nemico diventa invisibile si trasformano come trappole da cui è difficile poter provvedere e trovare soluzioni.

Il modello di epoca rinascimentale può essere un esempio da ripresentare con le dovute applicazioni tecnologiche, per le emergenze; emigrare e vivere a debita distanza dai Borghi (Città e Metropoli) e le loro pertinenze mercatali, arterie stradali principali, consentono di porre in essere misure adeguate per allontanare gli uomini dai pericoli invisibili.

Una diversa distribuzione di spazi privati e pubblici, sommati alle attività e direttive sociali consuetudinarie, potrebbe dare origine a quella lenta trasformazione che si discosta dal secolo buio del Medioevo con le “città chiuse”, dando luogo all’insieme policentrico dei “rioni aperti” del Rinascimento.

I Katundë arbëreshë (Casali Paesi e Pievi) oggi sono il modello economico e sociale da riproporre, in quanto dilata le griglie sociali con parsimonia e nello stesso tempo rende ogni addetto, nodo fondamentale e indispensabile, in tutto, una società in cui la capacità individuale diventa l’elemento di una catena trainante e infinita.

Gruppi familiari allargati in cui la verifica, continua, non lasciano spazio al caso, in quanto, nessuno degli elementi può sottrarre dal portare a termine il suo ruolo, penalizza tutto l’insieme allargato, il gruppo, la fabbrica e l’economia.

Il modello gjitonia rappresenta una società, una piccola azienda a conduzione familiare allargato, ogni componente vive e produce in base alle sue capacità porta il suo contributo per la produttività finale del  gruppo di cui fa parte e trae benefici.

Il sociale è organizzato all’interno di uno spazio indefinito, filiera dove nessuno è trasversale agli altri, lo spazio comune di vicinanza, confronto è il “luogo” (Ka) shëshi, (largo) nei sistemi aggregativi articolati e diventa strada/ilvico (Huda/rrruga) in quelli lineari.

Ogni famiglia urbana ha il suo spazio fisico ben definito, delimitato e senza barriere; nessuno oltrepassa o viola i limiti consuetudinari di questi ambiti, noti come: pertinenza dell’ingresso, il profferlo o la relativa scala, (për para deresë, baliaturì, thëghëruitura e shëpishë) .

Per questo diventano luogo di relazione con il resto degli abitanti; solo la strada appartiene a tutti, qui bisogna restare per conversare, salutare o rendere rispetto agli anziani, salvo l’invito formale di avvicinarsi o entrare.

I Rioni conservano indelebili le caratteristiche abitative dei razionali ed efficienti moduli abitativi, e ognuno di essi associato indelebile all’indispensabile “orto stagionale” o per meglio dire “orto botanico”, fondamentale elemento da cui ha origine il principio alimentare del km/0.

Un microsistema sostenibile e green, che non produce rifiuto, giacché, le diversità ortofrutticole si raccolgono con ceste in vimini senza alcun tipo di altro contenitore ne cartaceo ne plastico, ogni cosa viene consumata e i resti riciclata e diventano concime in apposite fosse del citato orto.

Il modello se opportunamente tradotto, potrebbe essere fondamentale nei sistemi produttivi, attraverso la frammentazione dell’indotto industriale, tanti piccoli sezioni produttive contigue, che si mettono insieme in seguito nella grande industria globale.

Quest’ultima non più intesa come grande concentrazione metropolitana, ma come espressione produttiva diffusa tipica dei “Katundë arbëreshë”; che si è visto terminare la sua essenza di confronto tra uomo e natura.

Dare risalto alla cultura contadina, rivalutandola, in quanto fondamentale per il vivere quotidiano, come avvenne nei processi d’inurbamento, oggi non più sostenibili perche elevati sulla base  di controllo delle dinamiche  all’interno delle nuove mura; quelle del pensiero.

Oggi ritroviamo la stessa politica nei centri antichi sia delle città metropolitane e sia dei piccoli centri, ormai svuotati di significato e coesione sociale, scompaiono perche preferiti ai grandi contenitori commerciali, i dormitori senza futuro o centri direzionali.

Occorre ricongiungere famiglia,, luogo, vicinato, attività nei centri antichi non promuovendo alchimie turistiche, centri direzionali in luogo economico, quartieri per dormire, piazze e botteghe come centri commerciali, scuole in cittadelle de localizzate, un’insieme differenziato.

Servono modelli che contengono economia, cultura e confronto sociale, invece di concentrare frammenti dell’insieme città aperta distanziando gli elementi fondanti, bisogna attingere dal passato, dei centri antichi, ricollocando il modello sociale mediterraneo.

Parliamo del vicino di casa, quando non era anonimo, estraneo, turista sfuggente, ma figura fondamentale ed extra familiare, integrato, residente, e parte attiva per il futuro sostenibile del “Luogo” quello capace di avvertire i cinque sensi, per sentirsi nel contempo indispensabile fulcro, unità di misura.

Rivitalizzare “i centri antichi rinascimentali” valorizzarli, caratterizzarli nel senso identitario, è la via per avviare il processo mediterraneo, lo stesso che rese famose le terre a esso prospicienti; mete ambite nel corso della storia, non per essere conquistate e distrutte, ma preferite per essere vissute.

Il segreto è racchiuso nel concetto di Gjitonia, l’unica a garantire adeguate risposte a eventuali emergenze, ma più di ogni altra cosa, fornire opportunità di vita meno caotica, quella in misura ideale per gli uomini.

 

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DICONO CHE NON È RIMASTO PIÙ NULLA (thonë se nenghë kindroi fare gjhë)

DICONO CHE NON È RIMASTO PIÙ NULLA (thonë se nenghë kindroi fare gjhë)

Posted on 24 aprile 2020 by admin

Vincenzo_TorelliNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Gli ambiti storici della regione diffusa arbëreshë dai tempi in cui si consolidarono  e riconosciuti dalle autorità civili clericali locali, furono sottoposti a ogni sorta di angheria, che li uniformasse nel bene o nel male agli indigeni locali secondo i relativi latinismi di credenza.

Prima il confronto con i locali, poi le lotte con i preti latini, sommati all’inutile necessità di dare una forma scritta, nel corso dei secoli hanno perennemente minato l’esistenza della storica minoranza.

Le altalenanti vicende che vedono minare nell’ordine religione, consuetudine, metrica canora e idioma, non hanno mai terminato e imperterrite, per imposizione altrui e di sovente per l’inesperienza arbëreshë hanno reso vulnerabile le diplomatiche più intime, di questo gioiello sociale mediterraneo.

Gli eventi che vedono gli arbëreshë tra il XIII e il XVIII secolo sono riferibili a una chiusura sociale che se da un lato penalizza la credenza religiosa, dall’altro rafforza gli altri elementi impenetrabile e senza lati morbidi da poter affondare.

È nel corso del mille settecento che con l’istituzione del Collegio Corsini e il conseguente desiderio di annotare il rito bizantino con esperimenti letterari e liturgici di un idioma mai scritto, che allargano pericolose brecce dove poi avviene la costante infiltrazione sperimentale:la pericolosa deriva ancora in atto.

Il collegio di Sant’Adriano in Calabria citeriore e la Capitale partenopea diventano i poli, dove in diversa misura, si attuano gli espedienti, alcune volte a favore, ma di sovente contro la difesa dell’inestimabile patrimonio immateriale.

Esiste una massima che dice: “quanti restano dimentica chi parte ricorda”, questo in effetti è quanto è stato prodotto  relativamente alla tutela dell’intera Regione Storica Diffusa Arbëreshë.

Ad iniziare dalla metà del settecento e sin tutto l’ottocento si forma una classe dirigente a Napoli di radice arbëreshë e se il Baffi semina dal 1762 un seme, la pianta germoglia e nel corso di tutto l’ottocento nasce un fronte di tutela della minoranza storica solido coeso e intelligente: Lulëzuertitë Arbëreshë.

 Il fulcro diffuso, di questa nuova era, sono le stamperie, gli uffici e la residenza di Vincenzo Torelli, che vivendo da emigrato le necessità della regione storica, lega tutti gli arbëreshë che si recano a confrontarsi e proporre progetti, di sintesi editoriale, salutandoli con la storica frase da lui così compilata: jaku i sprischiur su harrua.

E chiaro il punto di vista fuori dagli ambiti della regione storica, anche se la capitale partenopea per il suo operato, mette a confronto eccellenze, in campo letterario, poetico, musicale, della scienza esatta, lo studio del territorio e le politiche di rinnovamento oltre a tanti “inventori” di una lingua scritta e per questo continuamente corretta nella capitale partenopea.

Avendo ben chiaro, luoghi e quali uomini di alto rilievo si siano confrontati, per consolidare gli elementi caratteristici della regione storica, consente di affermare con certezza che, mai più nella storia degli arbëreshë tante discipline hanno fornito un contributo di sostenibilità cosi’ solido.

Architetti, Giuristi, Magistrati, Ingegneri, Politici, Letterati, Analisti di Musica e Canto, quindi di altissima e indubbia eccellenza, hanno, tutti in egual misura, fornito la linfa ideale con cui imbibire la radice minoritaria, in tutto il XIX secolo.

A seguito di questo florido intervallo, raffigurabile in una distesa i di grano a perdita di vista d’occhio  pronto per la mietitura; non ha avuto seguito più nulla e la tutela della minoranza storica si è ristretta a orto di primavera, riservato a insoliti parlatori, musicanti e colerici di radice alloctona, sostenuti da consuetudini dell’est; le stesse che oggi non sono in grado di superare le soglie delle case arbëreshë e tanto meno alimentare i focolai, centro nevralgico della gjitonia.

È opportuno che questi figuranti della nuova era, inebriati dai vapori estivi prodotti dall’aceto letirë, scambiato per “vino Arbëreshë”, oltremodo convinti che; nenghë kindroi fare gjhë; siano lasciati al loro destino di non credenti.

Meglio dedicarsi a condividere le eccellenze storiche con quanti di buon ingegno e capacità di lettura sanno che la regione storca arbëreshë diffusa, è un modello irripetibile, la stessa che rigenera identicamente e con sempre più vigore, alla luce del enunciato: il sangue sparso non muore mai e ogni estate rinasce fiorente.

 

Gjaku i shëprishur nëng vdes e nga ver lulëzon”

 

Sara una semplice impressione ma più il tempo passa e più emergono elementi materiali e immateriali secondo cui; solo chi nasce e coltivala il suo valore aggiunto fa cose buone e segna la storia, gli altri, si perdono nei noti affluenti “torrentizi” alla sinistra del fiume Crati, poi la corrente vorticosa come dai tempi dei romani li porta lungo la piana di Sibari a macerare, prima di diventare anonimi  frammenti  al mare.

 

 

Nella Foto, Vincenzo Torelli da Maschito (PZ)

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MAIUS II N SHEN THANASII PATRI

MAIUS II N SHEN THANASII PATRI

Posted on 23 aprile 2020 by admin

NATALIZIO 2 MaggioNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Anche quest’anno si è in fermento per la festa che rappresenta l’apice di coesione e di credenza di tutta la comunità Sofiota.

Il ricordo va a tutti i nostri cari che nel corso dei secoli hanno reso possibile tutto ciò e, allora come oggi nell’approssimarsi del due di maggio, si prodigavano per rendere questo momento di credenza condivisa unico e irripetibile.

La Festa sempre intensa e colma di valori, ogni anno con una caratteristica che  precisa torna alla mente e il ricordo va ad ognuno di loro che sono tanti.

Si sfornavano ceste di taralli, per ben accogliere le visite di rito e di amicizia, o scendere di casa, nel corso della processione e offrirli, numerosi, come sostegno ai fedeli in penitente  devozione.

Si ordinavano le strade, si adornavano finestre, balconi e loggiati, con essenze floreali e si stendevano raffinatissime coperte.

Ogni anno l’evento era caratterizzato o per meglio dire caratterizzato  con  novità pianificate dalla brillante, radicata e preparata Commissione , la quale atteso cil consenso univoco della popolazione, si adoperava per porla  in essere diventando l’elemento pregnante di quell’anno, quello che va in oltre sottolineato: in  esclusiva forma devozionale.

L’operosità e l’inventiva produsse gli indimenticabili moduli illuminotecnici, fatti con chiodi, ferro filato, una tavola di legno e portalampada a vista, furono questi apparati che   volto nuovo alle quinte del paese,  durante la notte grazie i piccoli contributi energetici attinte da ogni famiglia per devozione.

Come l’anno che volle dare al paese una pigmentazione mediterranea, dipingendo a calce, le quinte delle case dove sarebbe transitata la processione, comprese quelle della piazza: producendo così una nuova prospettiva cromatica.

Altri anni si preferì attivare le risorse addobbando la chiesa, con arazzi e tendaggi per dare senso al sacro volume in tono caldo e sontuoso, (la chiesa a quei tempi era priva dai preziosi dipinti della scuola cretese).

I multicolori Palloni, intelligenti opere realizzate con pochi e rudimentali apparati; carta velina, colla di farina, ferro filato, resti di candele e pezzi di sacchi in canapa.

Gli stessi che nel corso dei decenni, sono divenuti un vanto in tutta la provincia, grazie alla caparbietà di quanti hanno continuato a realizzarli con il compito di lasciare la memoria ell’operosita alle nuove generazioni.

Ricordo la funzione religiosa (mèsha llalbit), che l’instanzcabile “Zoti Kappa” la mattina del 23 aprile, primo giorno delle novene, ufficiava nella Kona.

Immancabilmente la mattina del ventitre mia madre, Adolina Kongorelit, di buon ora, iniziava la vestizione delle Stolje senza nulla lasciato al caso, come tradizione arbëreshë pretende e scendeva quando si sentiva chiamare da Marja Vukastòrtit,  e avviarsi a piedi verso la Kona, in compagnia di altre afferrate e garbate devote, è d’obbligo ricordare: Melina Ngutjt Serafina Kurthëvet, Annetta Abelith, Anmaria Pasionatit, Koncetta Miluzith, Rusaria Pixhònit, Martoresa Timbunit, Vittorina e Lilina Zingaronit, capeggiate da suor Melania e le sue consorelle.

Esse si dirigevano verso la Kona ove li attendeva l’indimenticabile Padre Capparelli assieme al fedelissimo Benito Fabbricatore (i bëri Mindìut) e al canto di Djta Jote iniziavano le lodi al santo e la funzione religiosa.

Non so se oggi questa tradizione si ripete o è stata accantonata come tante altre, ma l’entusiasmo e la convinzione che queste donne avevano sono rimaste radicate nei valori e nella credenza che i Sofioti hanno nei confronti di Sant’Atanasio.

Mi auspico che quest’anno rimangano fuori dalla chiesa gli inni e le lodi da stadio che il saggio Archimandrita Giovanni Capparelli ha sempre rifiutato e richiamato la popolazione intera a non esternare all’interno del sacro perimetro, dove esortava tutti a cantare gli inni religiosi e BASTA!

Mi rivolgo alla Commissione, affinché questa FESTA conservi gli opportuni caratteri religiosi, con l’auspicio che gli insegnamenti del saggio Padre Capparelli , oltre a quello delle devote sofiote che hanno sicuramente lasciato il senso della festa e non vadano calpestati da quanti non hanno la misura di cosa unisce il Santo alla Comunità o magari lo ignora del tutto.

Per le disposizioni clericali laiche quest’anno non daranno spazio ai consuetudinari riti fuori e dentro il perimetro dal cuore del paese, nella Kona, o durante la storica rievocazione dell’estate arbëreshë dal Ottava rispettosi delle limitazioni imposte.

Tuttavia si spera che gli adempimenti all’interno e all’esterno del perimetro religioso siano attuati, dalle persone figlie e figli del garbo e con senso della devozione, e non preferiti quanti hanno sempre vissuto ai margini, perché bravi a fare come il diavolo, tutto subito e male, a scapito della  credenza che vuole i tempi della metrica e la consuetudine.

Sant’Atanasio unisce storicamente tutti i Sofioti il due Maggio: quest’anno la processione sarà unica e irripetibile in quanto raccoglie allo stesso modo tutti noi fedeli credenti.

Tutti i Sofioti del mondo nel 2020 avranno modo di condividere quest’appuntamento in forma irripetibile, con “il cuore o con la mente”, senza distinzione ne di luogo e ne di genere, per una volta nella storia saranno tutti uguali, sin anche chi a Napoli per imposizione veshëkavile deve badare alle proprie cose.

W W W Shen Thanasi çhëshë i Madë!!!!!

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GLI ARBËRESHË, LA STORIA DIFESA CON LA PELURIA

GLI ARBËRESHË, LA STORIA DIFESA CON LA PELURIA

Posted on 22 aprile 2020 by admin

Diavolo_Gesu-290x300NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La minoranza storica arbëreshë nel corso della storia del mediterraneo, ha espresso il valore innato, nel predisporre modelli sociali economici, che poi sono oggi l’espressione delle città moderne o dette, metropolitane.

Le stesse che poi in seguito ampiamente dimostrate, a quanti abituati a vivere di espedienti senza radice, gli oppositori  di queste idee innovative, nonostante anche essi avranno, prima o poi,  modo di beneficiarne in senso di applicazioni sociali, politiche, economiche e della scienza esatta.

Gli arbëreshë notoriamente sono ricordati, semplicemente, per le vicende di confronto e scontro, sia in terra natia e sia negli ambiti paralleli della regione storica del meridione italiano, dal XIII secolo.

Qui in questo breve si vogliono distinguere le categorie sane dalle “litirë” le stesse che non saranno ricordati come prescelti se non per essere stati capaci di produrre danno, danno e solo danno.

Questi ultimi nelle narrazioni diffuse, appaiono descritti senza cultura, similmente agli animali che per difendersi dal freddo non usano l’intelligenza ma attendono che la natura li munisca di peluria o altro apparato naturale di equilibrio corporeo, come ad esempio, artigli e la mala lingua, per soddisfare il bisogno di alimentarsi.

La natura degli uomini, si può riassumere in una serie infinita di linee parallele, ciò tuttavia, allocare gli arbëreshë in tipologie cosi estreme, non è esatto, anche se per certi versi quando si subiscono le angherie di quanti, vestendo giacca cravatta e guanti, nascondono la peluria e gli artigli, forse un’icona parallela dove intercettarli sarebbe il caso di evidenziarla per riconoscerli.

Come per esempio l’affascinate idea di illuminismo moderno della “Regione storica diffusa arbëreshë” e il progettato polo di valorizzazione, in cui far convergere necessariamente, teoremi e direttive da sottoporre al vaglio di un gruppo multidisciplinare.

Il progetto per la tutela della minoranza arbëreshë, assieme ad altri pronti per essere innalzati, sono stati preparati, senza che nell’arco di venti anni, nessuno di essi sia andato a buon fine; “OPPOSIZIONI” di varia natura, ne hanno impedito la diffusione.

Alla luce dels clima politico, che nel corso degli anni pur se profondamente mutato, è rimasto solidamente ancorato al suffisso cultural-economico, imponendo la costruzione di un istituzione di falsi cultori, gli stessi che affrontano l’inverno con la peluria cresciuta naturalmente, per difendere se stessi e il loro ambiente naturale cavernicolo.

Se non si corre ai ripari, è normale che poi a difendere la credibilità arbëreshë, non rimane altro che rivolgersi a imperterriti cavalieri dell’architettura e dell’urbanistica, figli di quella rara consuetudine che cura e conosce gli ambiti attraversati bonificati e innalzati dagli arbëreshë.

Diversamente dai tuttologi per gli atteggiamenti acquisiti, non riescono sin anche di attraversare il Surdo e il Settimo, ormai in secca, per partecipare alla disputa, che ha luogo nella Chiana, sotto le pendici della mula, dove i litiri dall’alto dei loro tacchi a spillo, dicono di saper fare i paesi arbëreshë con le gjitonie dentro.

Sono fieri sui loro cavalli, quanti usano le proprie capacitò intellettive, predisponendo gli idonei apparati, costruiti e innalzati, nel rispetto dell’ambiente, del tempo e degli uomini, secondo disciplinari realizzati dalla intelligenza, quella storica conservata nel cuore e nella mente, senza sprecare energie per tenere in vita l’apparato digerente. 

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IL COVID-19 NON FERMA L’ENTUSIASMO DEI GIOVANI. UN TEAM REALIZZA MASCHERINE PER TUTTA LA POPOLAZIONE.

IL COVID-19 NON FERMA L’ENTUSIASMO DEI GIOVANI. UN TEAM REALIZZA MASCHERINE PER TUTTA LA POPOLAZIONE.

Posted on 22 aprile 2020 by admin

Barile le tante mascherine preparateBARILE (PZ) ( di Lorenzo Zolfo) – Nel centro arbereshe del Vulture, la solidarietà sta di casa.Da un’amicizia lunga nel tempo, alcuni giovani  del posto si trasformano in un Team Vultur 3D operativo, che realizzano delle mascherine, in questo periodo di Covis-19.A darne maggiori ragguagli uno di questi giovani, Daniele Montanarella: “Ci siamo rincontrati nella sede della Pro Loco gentilmente concessa per l’emergenza , dove per più di 10 ore al giorno procediamo nella realizzazione delle mascherine, le quali sono state donate gratuitamente al Comune di Barile, per i Volontari in servizio per la comunità in questo tempo di emergenza. Tutto il materiale utilizzato come il PLA,il più usato nella realizzazione di prodotti mediante l’utilizzo di macchine di prototipazione rapida che utilizzano tecniche produttive quali la FDM (FusedDepositionModeling), meglio note come stampanti 3D con l’utilizzo di Filtri specifici come quelli usati 2 filtri TNT e 1 filtro al carbone attivo il Tempo di produzione: 2 ore a mascherina. Operiamo già da più di un mese nella produzione stampa 3D con appositi strumenti. Il nostro team si chiama Vultur 3D ed oltre a me, collaborano Nicola Rosa e Michele Caccavo. Nessuno deve rimanere indietro specialmente nelle piccole comunità, dove si conoscono tutti ed in occasione di questa pandemia, tutti fanno squadra. Ringrazio l’amico Gianmarco Tirico per il supporto dato per la locazione”.Il team segnala il numero di telefono per contattarli 345 165 3655 per qualsiasi informazione massimo impegno per delle soluzioni concrete all’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19.

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RASHËT  THË MOTITË ARBËRESHË.  (regione storica diffusa arbëreshë)

RASHËT THË MOTITË ARBËRESHË. (regione storica diffusa arbëreshë)

Posted on 19 aprile 2020 by admin

Asino e CapraNAPOLI ( di Atanasio Pizzi Basile) – La lettura di numerosi prodotti editoriali o enunciati che a vario titolo corrono nei canali multimediali, apre scenari a dir poco paradossali per quanti hanno consapevolezza della emergenza culturale senza eguali, a cui urge porre rimedio predisponendo l’idoneo progetto di tutela.

Episodi, esperimenti, allegorie, alchimie, favole di varia natura sono diventate la regola di quanti seguono l’esempio di accendere la pipa con i dollari, perché esposti al contagio dei famigerati: “482-AFM2  ”.

Essi sono generati  dalla diffusa consuetudine, poi diventata legge, per innalzare l’insieme diffuso dell’idioma, l’applicazione delle consuetudini, le metrica canora scambiandola per balli, oltre ai valori di credenza bizantina, amalgamati con le ritualità dell’esoterismo.

Queste malevole attività hanno creato un vuoto culturale, uno scenario collinare senza regola, in cui non si ritrova più impronta per potersi orientare all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”:

Rashët  Thë Motitë Arbëreshë.

È palese come la trascuratezza culturale abbia sconvolto la solidissima e secolare Regione Storica, per non aver voluto elevare le idonee strutture che dovevano essere condotte da studiosi e non scambiate per perimetri religiosi, che con i loro messali speravano di tenere distante il diavolo personificato in  “482-AFM ”, lo stesso che dagli inizi degli anni settanta aveva iniziato a diffondersi.

Che le soluzioni di tutela dovessero nascere dalle favole della nonna, la stessa che preparava “sfascini” e “affascini” per poi svuotare la bacinella nel crocevia della gjitonia, nessuno poteva prevederlo visto il ricco patrimoni materiale depositato in quegli anfratti collinari.

Nonostante il meridione sia identificato, studiato, e valorizzato secondo protocolli di ricerca in campo, Abitativo, Ambientale, Economico, Fluviale, Linguistico, Paesaggistico, Sociale, ed Estrattivo, poi sottoposti al vaglio di  commissioni multidisciplinari, è spontaneo chiedere perche i presidi preposti al rispetto di ciò non hanno fatto nulla quando si è trattato della la regione storica e i suoi cento agglomerati urbani?

Cosa non ha funzionato per la Regione Storica Diffusa Arbëreshë, comunemente denominata Arberia, nonostante essa contenesse tutti i temi su citati, per i quali il disciplinare era già stato adottato in diversi casi del passato e nella piena emergenza del dopo guerra?

Parliamo comunque di un’insieme diffuso all’interno del bacino del mediterraneo, unico e irripetibili, alla cui ricerca solo l’impegno e il sacrificio di privati, fortemente boicottati e denigrati (cui va aggiunto il sacrificio di lacrime di  sangue e sudore) ha saputo rispondere.

Solo questi valorosi e unici ricercatori hanno seguito il protocollo di ricerca, come qui elencato:

  • Storia degli stradioti e l’impero con capitale Costantinopoli;
  • Storia dell’Epiro vecchia e dell’Epiro nuova, i Kalaber, poi Arbanon e oggi Arbëreshë;
  • L’ambiente geografico di residenza storica e di nuovo insediamento;
  • L’ambiente Naturale parallelo ritrovato;
  • Il sud, la storia, le inquietudini economiche e sociali;
  • Vita della comunità- inchiesta e approfondimenti etnologica;
  • Saggio sulla demografia e l’igiene;
  • Saggio psicologico e attitudini;
  • Saggio sull’economia i processi e l’evoluzione;
  • Saggio sulla struttura urbana, medioevo, rinascimento e illuminismo;
  • Saggio sull’assistenza sociale e religiosa;
  • Tavole cartografiche e bibliografia generale;

Alla  luce di questi indispensabili adempimenti com’è possibile che ancora oggi si preferisca inseguire meteore spente che hanno terminato la luminescenza, come l’attenta madre natura dispone.

Ciò nonostante si diffondono eventi con indicatore, la Gliugà, lu Tagliuru, la Dromsa, il Piretto, Le Vaglie, le Mendule, o addirittura si ricostruiscono paesi senza sapere di cosa si parli, riversando eventi materiali ed immateriali come se fossero qualità di vino denominati Rione della Mula, Vicinato del Catanzarese, Quartiere rosso o Borgo bianco del Pollino, in tutto, amalgama inebriante, vera e propria formula alchemica, senza radice.

Un sistema materiale ed immateriale, confezionato dalla nonna e consegnato il sacchetto, all’ignaro e stolto cliente, spiegava le istruzioni per la migliore efficacia del rito, come si fa oggi con i mobili di IKEA per montarli correttamente.

Figli Arbër non sono certo quanti cantano e ballano ritmi estranei o non conoscono il senso delle cose finendo per cantare “stella bella” innanzi a Santo Protettore (?????).

È appena terminato il giubileo senza che nessuno abbia raggiunto in ginocchio il paese dove, per l’identità storica civile e clericale, il Vescovo Bugliari venne ripetutamente accoltellare, perdonando i suoi carnefici, se terminato il mandato davano fine alla devastazione del paese.

Nessuno è stato mai illuminato dall’idea di una beatificazione; questa però non deve interessare per imposizione, noi che “viviamo a Napoli e badiamo alle nostre cose”.

Quando esposto, vuole essere un ritratto della “vostra Arberia” quella del consumismo e delle meteore, diversamente da come la intendono gli altri e per altri mi riferisco a quanti vivono nei radicati cinque sensi, tipici della famiglia allargata, quelli che sanno, parlano e preferiscono: “Rashët  Thë Motitë Arbëreshë”.

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DA STATO A MANZANA; RINASCE IL FUOCO DEGLI ARBËRESHË

DA STATO A MANZANA; RINASCE IL FUOCO DEGLI ARBËRESHË

Posted on 17 aprile 2020 by admin

DA STATO A MANXANAaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La Kaliva dal XIII al XVII secolo, divenne la culla in cui la famiglia allargata arbëreshë, depositò le proprie radici e diede avvio al processo di frammentazione familiare per affrontare le nuove disposizioni economico e sociale, più consone nel modello di  famiglia urbana.

Il modulo abitativo di base, rappresenta, per questo, lo scrigno in cui vennero, riversate tradizione, idioma e metrica canora, i le radici attraverso le quale e per delle quali riconoscersi, senza mai perdere la memoria del  nell’originario gruppo allargato.

L’insieme aggregativo di questi elementi monocellulari in aderenza, con annesso spazio delimitato da siepe, determina la formazione dei centri storici diffusi Arbëreshë.

L’insieme o meglio l’isola edilizia, è la naturale fonte, nella quale attingere, perennemente, cosa abbia reso possibile lo sviluppa del  “rione rurale” o gruppo di moduli abitativi accostati secondo l’orografia da rispettare e nel contempo far nascere “ il focus” identitario.

Lo spazio circoscritto e occupato, risulta essere, vero e proprio stato in miniatura, all’interno del quale il gruppo familiare allargato, detiene il pieno controllo, sono proprio questi spazi delimitati ad assumere la traccia  indelebile ancora oggi individuabili, in quanto, sono stati rispettati, dalle generazioni che seguirono nel corso dei secoli, gli originari confini ereditati.

Sono questi complessi edilizi, senza soluzione di continuità muraria, a tracciare le fondamenta su cui gli esuli trovarono ispirazione per dare volume al tracciato di siepe, aggiungendo poi, gli apparati per il disimpegno altimetrico nel corso dei secoli.

I centri antichi, con questi elementi caratteristici, definiti agglomerati urbani diffusi, furono realizzati e prevalentemente abitati da esuli Arbanon; essi  rappresentano il racconto della storia, secondo un consuetudinario che non usa alcun tipo di forma scritta e per questo, restano e sono, documenti stesi al sole, dai tempi in cui il focus, venne delimitato dalla siepe, quel segno indelebile tracciato dalla famiglia allargata arbëreshë.

Dal XIII secolo, ha inizio un percorso articolato e colmo di esperimenti edificatori, spesso finiti in tragedie, per eventi naturali e indotti, comunque ogni volta caparbiamente ricostruiti, con nuova esperienza di meccanismi più sicuri.

È dalla fine  del seicento, che diventano forme edilizie sicure e non più labi, identificati come” Manzana” in arbëreshë, comunemente denominati “isolati” dagli indigeni.

Nel caso dei paesi della fascia mediterranea studio di oggetto, non nascono come veri e propri isolati edilizi ma un insieme di spazio costruito e spazio naturale aperto, quest’ultimo inteso come pertinenza indispensabile, giacché, considerata come la farmacia di casa, l’orto botanico.

Un insieme di elevati edilizio composta da più cellule raccolte secondo un sistema articolato aperto, distribuito su di un’area, le cui caratteristiche si possono definire parallele, giacché, hanno sempre le medesime radici geologiche, direttamente legate all’esposizione solare ed eolica.

La cellula tipo è radicata al processo di colonizzazione  della  campagna  dopo  l’anno  mille  e  alle  autonomie comunali.  

L’influsso della cultura architettonica urbana sul modulo originario si manifesta nel  campo delle  tecniche costruttive generalmente attinte delle  soluzioni tipologiche formali, delle celle monastiche come per certi versi avviene nei nuclei che caratterizzano le aree di insediamento.

Generalmente quelle degli esuli non sono mai regolari, in quanto, non usufruiscono di grosse aree , né si producono opere per ottenerli, questo spiega pure in nome che è attribuito all’isola: manzana

Essa non è altro che il tipico contenitore dell’acqua potabile e come quest’ultima assume le forme dell’oggetto, lo spazio che la contiene, anche l’insieme dei moduli abitativi in funzione delle superfici su cui vengono allocati si modella in diversificate forme pur avendo lo stesso modulo di base.

Ma manzana ha origine nel focus, dove si insedia la famiglia allargata; si articola attorno ad essa con gli spazi aperti definita dal recinto o stato, questo destinato alla lavorazione dei prodotti locali o di spagliatura dei prodotti agricoli, quali la canapa, le noci, le mele e così via, al deposito degli attrezzi agricoli, e spazio diffuso degli animali domestici, quali galline e l’immancabile capra della Mursia.

Il modulo si sviluppa prima a piano terra al cui interno è ubicato il focolaio, una serie di giacigli lungo le pareti, mentre al centro, padroneggia il tavolo che ha funzione di tavolo da lavoro, mensa e il luogo, “proto industriale” dei prodotti per la conservazione.

Uno spazio interno caratteristico delle costruzioni rurali, forza economica e sociale indispensabile, attraverso il quale prolifera e crescere la famiglie allargate arbëreshë, in tutto, il detto “luogo”.

Questo è lo spazio condominiale dove le famiglie si riunisce e divide senza discussioni, è il capo famiglia che decide assieme alla consorte senza pregiudizi o favoritismo, per i beni di comodo che per i ruoli assegnati non producevano alcun attrito trasversale.

Davanti all’uscio di casa un sedile rappresentava il luogo di aggregazione all’aperto il trono pubblico del capo famiglia, esso era per lo più fatto di pietre rifinito con impasto idraulico, con tetto spiovente sono i moduli abitativi ,non avevano pavimentazione in quanto i calcari sciolti una volta livellati avevano la giusta durezza e durevolezza, in un secondo momento negli spazi di risulta in fondo alla stanza, per la pendenza del tetto, indispensabile del deflusso delle acque meteoriche,  si ricavava una sorta di soppalco che serviva o da dispensa o si realizzavano giacigli per i più giovani del gruppo.

Ma il luogo aperto era anche la Gjitonia, c il luogo di ricerca del originario ceppo, che viene sottoposto alla prova dei cinque sensi, la stessa che consente di condividere lavoro, patimenti, preghiere e operato.

Tale tipo di urbanistica e architettura rurale la troviamo sparsa in modo diffuso e precisamente identico nel territori di tutta la regione storica o aree rurali dove vissero i profughi arbëreshë.

Il fenomeno di raggruppamenti diffusi agresti, di origine tardo medievale, dipendeva anche dal fatto che consentiva di sfuggire al rischio di esposizione, alla malaria, cui erano penalizzati quanti vivevano dentro le mirazioni  dei borghi.

Il vivere fuori dalle murazioni, a debita distanza dai luoghi mercatali, vicini ad una chiesa, un monastero, un castello o arteria stradale principale, consentiva di proteggersi dai pericolosi nemici invisibili e anche visibili.

Una diversa distribuzione degli insediamenti dava origine a quella lenta trasformazione che si discosta dal secolare buio del Medioevo.

Definito lo spazio abitativo, la Kaliva, riconosciuti i valori mercatali, per accedere definire gli scambi, secondo la Bagliva o Baliva, gli arbëreshë iniziarono il duro percorso di integrazione, alcune volte seguendo le regole altre volte meno, comunque con i primi due adempimenti acquisiti avevano preso consapevolezza che la terra ritrovata aveva regole precise e andavano rispettate e seguite.

Il nuovo indicatore della cultura architettonica e urbana si manifesta nel campo delle  tecniche  costruttive  generalmente attinte delle  soluzioni tipologiche formali, anche del borgo, che comunque rappresenta un modello di ispirazione.

Nascono per questo con l’andare del tempo le scale esterne, il portico, la loggia, cioè tutta quella volumetria architettonica che si aggiunge al nucleo originario e si sviluppa in altezza quando lo stato recinto non ha più spazio da offrire, fe prende corpo il complesso architettonico delle case con profferlo.

È anche da questi modelli antichi sommati a disposizioni post terremoto del 1783 che prende spunto l’edificare palazzotti padronali, dal decennio francese, ma questo è un periodo particolare e ha bisogni di anticipazioni e premesse più articolate e di altra natura e radice.

P.S. nell’immagine la mensa ponderale del Regno di Napoli, manca l’asta dei pollici, murata dalla curia napoletana, in un sito poco distante.

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Αἰωνία ἡ μνήμη, Gianni.

Αἰωνία ἡ μνήμη, Gianni.

Posted on 15 aprile 2020 by admin

Gianni BelusciRegione Storica Arbëreshë (di Alessandro Rennis) 

 

Αἰωνία ἡ μνήμη, Gianni. 

Professore di alto profilo culturale, ricercatore e studioso di “Fonetica sperimentale applicata” presso l’Università della Calabria , arbëreshë originario di San Basile, in questa Pasqua di Resurrezione lascia la vita terrena e vola verso l’Eterno l’amico Gianni Belluscio,  nel compianto di quanti ne hanno apprezzato la  operosa attività e hanno potuto godere della sua amicizia. A sua perenne memoria,  quale persona gentile e sempre affettuosa, noi arbëresh lo accompagniamo  con un accorato addio, ben riassunto dai versi….

Ho vissuto un Dio, ho visto degli uomini

e i miei occhi non si cercano nemmeno più.

Ieri sono andato sulla montagna che abitò la luna

e sono tornato con il cuore colmo di tristezza

Non mi restano più che un ricordo e una chitarra infranta

Un salice piangente si spoglia e mi veste di lacrime

Cosa c’è di più triste al mondo che partire senza cantare? ( J. P. Duprey)

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POSHËTË, DRELIARTË, KA, THË, JASHËT, MBRËNDÀ, PRAPA, PËR PARA. (Santa Sofia: i luoghi, la storia)

POSHËTË, DRELIARTË, KA, THË, JASHËT, MBRËNDÀ, PRAPA, PËR PARA. (Santa Sofia: i luoghi, la storia)

Posted on 14 aprile 2020 by admin

Aglomerati primariNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il panorama urbano dei paesi della Regione storica Arbëreshë, fa riferimento a canoni delle città aperte, rinnovando i vetusti modelli medievali e per questo sono da ritenere come i pionieri per la convivenza, in età moderna, tra uomo e natura.

È con le  migrazioni dai Balcani dal XIII secolo, che nasce un nuovo strumento culturale, sociale ed economico capace di esprimere oltre che a soddisfare localmente, esigenze del vivere a stretto contatto con la natura.

Tutto è architettato, predisponendo e coordinando il luogo, nel pieno rispetto delle opportunità storiche, ambientali, sociali ed economiche.

L’azione degli arbëreshë, nello specifico, fece emergere le potenzialità del ”focus”, il luogo, esaltando le garanzie predisposte dai nuovi signori, in quelle posizioni già note agli esuli, a proposito dell’ambiente.

Un flusso di uomini e competenze di convivenza con il territorio naturale, trovò nel focus, organizzando gli ambiti, secondo arti, mestieri, omogeneità, che solo quanti erano legati alle consuetudini oralmente tramandate, sapevano le terre per trarre il maggior vantaggio, dall’ambiente in cui s’insediavano.

Territori paralleli della terra d’origine ricercate bonificate e vissute, al fine di innalzare idonei presupposti nel pieno rispetto del focus riconosciuto.

Se al tempo degli indigeni locali le stesse terre aveva avuto un mediocre rilievo, conseguito in funzione di limitati impegni racchiusi tutti e unicamente nell’interesse per lo sfruttamento agricolo e per l’uso come residenza personale, distanziando le due esigenze; con l’avvento degli arbëreshë l’impulso è diverso sia dal punto di vista organizzativo e sia per la ritrovata forma territoriale dove depositare le radici culturali, politiche ed economiche.

Allo scopo si vogliono evidenziare attraverso l’odonomastica del popolo, ancora memoria viva (inconscia), e attraverso di essa individuare come l’iniziale e semplice focus  sia stato trasformato nella contea di vaglio ancor oggi presente.

Seppure e riconoscere con amarezza che, mutatis mutandis, vale sostanzialmente anche per Santa Sofia la constatazione che : “Non  esiste città borgo e luogo costruito, che non abbia  adottato,  come  accompagnamento  alle  “escrescenze  caotiche”,  la  distruzione sistematica dei suoi caratteri di facile comprensione.

È per questo che adoperarsi a predisporre l’indagine odonomastica si segnare il modo in cui è nato e si è modellato “l’agglomerato diffuso di Santa Sofia”, ben consapevoli che univocamente e parimente non saranno scontate e le risposte, ma l’impegno e soprattutto sacrificio di ricerca renderà merito alla giustificazione dei toponimi.

Seguire e ricostruire le linee secondo cui  gli originari casali hanno sviluppo il modello, il fuoco diffuso, da cui è in seguito sono sbocciate le tipologie della propria radice storica.

Escono quale risultato indelebile e preciso da tale operazione:  i criteri in base ai quali il centro antico fu edificata, sia sfruttando le caratteristiche naturali del terreno sulla traccia dei camminamenti storici, nelle prossimità dei quali elevare e circoscrivere gli spazi indispensabili.

La regione circoscritta del recinto inteso come Mbrëndà e Jashët è andato configurandosi da spazio libero e non coperto, fino agli innalzati edilizi, disegnando così la pianta urbana che conosciamo.

Nel disegno di origine, rilevanza particolare è affidata all’arteria  Starada Grande (huda made); in quanto essa richiamare alla memoria l’azione  promozionale capace di innescare le varie attività artigianali  e  svolgere  la  funzione  di competenza da cui dipartire vicoli, elevati e piazze, il nettare primordiale  dell’assetto, urbanistico  diffuso, l’anima pulsante in cui conversono gli ingredienti dall’integrazione di esuli con gli indigeni.

Alla storia contribuiscono a dare forma non solo le vicende umane, ma anche gli spazi in cui quelle avvengono, per questo, nelle vie, strade, violi e sheshi, la storia lascia indelebilmente tracce della sua memoria e delle azioni.

Molti toponimi sono scomparsi, di essi si è persa anche la documentazione d’archivio, spezzando così la memoria di una cultura locale colma di significati preziosi, con molta probabilità gli unici in grado di dare  senso  alla  definizione  dell’immagine storica specie se vuole essere espressa in chiave etnica.

Tuttavia avendo ben chiari i riferimenti linguistici e la conformazione geologica e orografica degli ambiti addomesticati per essere vissuti, apre versanti di ricerca molto ampi pieni di momenti suggestivi.

Sicuramente le testimonianze di vita, come si è detto, della fisionomia  urbanistica del passato  possono  essere andati persi, ma rileggendo le tracce degli elevati murari e la loro consistenza materica si possono  recuperare,  rileggendo,  con  ispirazione motivata dalla ricerca; compulsando e rileggendo secondo l’antico idioma antichi riferiti sia in forma clericale o esperimenti di metrica canora abbarbicati ancora al tempo di edificazione.

Oggi nella memoria territoriale rimangono tracce dei materiali e toponimi dell’epoca  Huda Stangoitë, Ka rin reljeth, Kisha Vieter, Kambanari, essi segnano indelebilmente azzioni naturali o indotte che hanno caratterizzato lo scorrere del tempo.

Altre invece, recano le nuove denominazioni cambiate sotto la spinta di noti eventi storici, come personaggi di partito politico che non hanno nulla a che vedere con la storia di quegli ambiti, che in alcuni casi non lasciano neanche sulle lapidi la memoria di un tempo, sostenendo esclusivamente  l’informazione   usurpatrice , come a voler  nascondendola colori intensi con pastelli sbiaditi di di rotacismo analfabetici.

Essi non sono altro che un retaggio di antichi aspetti sociali della convivenza nello spazio cittadino è nascosto nella memoria, di pochissimi anziani e sta a noi attenti interpreti indirizzare il giusto valore alla nota o frammento di essa.                                                                                                                                                

Sia all’epoca di insediamento e poi subito dopo durante il confronto s’individuavano i luoghi con riferimento a episodio architettonici o di frammentazione di residenze dismesse o noto quali: la chiesa, il luogo di arrivo o il luogo promontorio;  oltre  a  particolari  pittorici,  della  devozione popolare icone oluoghi di culto in generale; elementi naturali come il pennino/pendino o/e indotte come frane, Kambanari.

Dopo i primi riconoscimenti caratteristici, segue lo sviluppo urbano e la diffusa possibilità di elevare moduli abitativi in muratura si definirono Sheshi, Rugha, Huda, assoggettando luoghi identificativi della famiglia insediata o particolari confini, come Prati o Kanlhë.

In origine era la strada stretta e articolata (Rugatë),  sulle di cui quinte si  aprivano gli usci delle case e le tipiche finestre di controllo, cosi come alcuni moduli non abitativi con attività artigianali indispensabili alle consuetudini dei componenti il rione, identificato con il suffisso “Ka”. 

La denominazione aveva origine dalle attività che si praticavano, dall’identificativo del luogo o dalla particolare categoria di persone in essa residenti (nomadi, indigeni o comunque provenienti da altri agglomerati urbani).

Nei meriti identificativi di quest’ultima categoria una nota più dettagliata va fatta, anche se comunemente si dice che la storia, “si fa solo con i documenti o in base alle testimonianze corroborate”, va fatta per tutte quelle residenze allocate a nord e a sud del “vico stella” e quindi non documentate ma notoriamente stese al sole.

Queste  abitazioni erano tutte appellate con i nomi dei paesi di provenienza dei residenti; persino la strada che delimitava l’urbe dalla campagna era denominata come: “limite dei latini”.

A completamento di questo spunto, mi pare opportuno sottolineare, l’origine del  termine  “Trapesë”  che secondo alcuni vuole indicare, il piano, tavola malsana o terreno  paludoso, tralasciando il dato storico locale che il “trappeso” è anche un’unità di misura di piccole quantità.

Non di metalli nobili quali l’oro o l’argento, li mai estratti, ma in conformità a luogo in cui le genti povere, attendevano il riversare delle poche resta della mensa arcivescovile che li rimetteva i resti della mensa.

Questa e altri toponimi, quali: Uda Ka Sanesh, Kar karegleth, Kamorchiaveshët, Ka mbanari, Shighëata, shesi Ku arvomi e altri, se opportunamente indagati e confrontati, con la storia locale sono in grado di fornire l’itinerario di sviluppo del centro antico, a cui tutto si può  accreditare ma non comunemente annoverare come Borgo Medioevale.

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VALJIE, GJITONIA, SKANDER, QUARTIERE, BORGO, TANTO PER CITARE L’APPARIRE!

Protetto: VALJIE, GJITONIA, SKANDER, QUARTIERE, BORGO, TANTO PER CITARE L’APPARIRE!

Posted on 12 aprile 2020 by admin

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